Morte cerebrale e coma
Gli stati di sonno, coma e morte sono accomunati dal fatto che in tutti e tre è assente la coscienza. In una prospettiva strettamente clinica, può essere sufficiente fornire una definizione operativa di coscienza che ne distingue due diverse componenti: (a) la vigilanza (arousal), che si riferisce all'aspetto comportamentale della coscienza, per cui è vigile il soggetto che ha gli occhi aperti, ha un certo tono muscolare e appare pronto a interagire con l'ambiente; (b) la consapevolezza (awareness), che riguarda invece i contenuti della coscienza, per conoscere i quali la via maestra per ognuno di noi è l'introspezione o, in alternativa, il racconto altrui. I substrati anatomici che sottendono le due componenti sono diversi. Sappiamo da circa cinquant'anni che la stimolazione elettrica di una specifica struttura nervosa ‒ la formazione reticolare che si trova nella parte più alta del tronco encefalico (e in particolare del mesencefalo) ‒ evoca nell'animale da esperimento una reazione di arousal, ovvero un aumento della vigilanza. Al contrario, una lesione bilaterale della stessa struttura determina uno stato prolungato di immobilità e di apparente incoscienza, che appare simile al sonno ma da cui l'animale non può essere risvegliato; tale stato si può considerare analogo al coma dell'uomo.
Da questi primi esperimenti condotti su animali nacque l'ipotesi, poi confermata anche nell'uomo, che la vigilanza fosse sostenuta dall'attività di un sistema cui è stato dato il nome di 'sistema reticolare attivante', che è situato nel mesencefalo ma che raggiunge i nuclei reticolari e intralaminari del talamo da cui si dipartono proiezioni diffuse a tutta la corteccia cerebrale; esso trasmette alla corteccia impulsi nervosi per così dire 'risveglianti'. Una delle conferme decisive venne dallo studio autoptico di individui che avevano subito lesioni destruenti della calotta mesencefalica, per esempio di tipo emorragico, e che erano deceduti in stato di coma. Il fatto sorprendente, rispetto alle conoscenze del tempo, era che tali lesioni potessero essere anche molto piccole, dell'ordine di pochi centimetri cubici, mentre lesioni molto più estese ma relative ad altre sedi, per esempio agli emisferi cerebrali, non determinavano disturbi di coscienza. In effetti, oggi sappiamo che il ruolo degli emisferi non consiste tanto nel mantenimento della vigilanza, rispetto al quale essi sono anzi relativamente passivi, quanto nell'elaborazione dei contenuti della coscienza. Si pensa cioè che la consapevolezza sia sostenuta essenzialmente dalla corteccia cerebrale, non senza l'intervento del talamo e dei nuclei della base che entrano in rapporto con le aree corticali. Questa descrizione delle basi anatomiche della vigilanza e della consapevolezza pecca certamente di eccessivo schematismo, ma nella sostanza è ancora valida e riesce a spiegare molti dei fatti clinici che descriveremo.
Occorre tuttavia ricordare che la medicina contemporanea ha introdotto, sul finire degli anni Sessanta del Novecento, il nuovo concetto di 'morte cerebrale'. Ciò si è reso necessario in particolare in seguito allo sviluppo delle tecniche di rianimazione, le quali hanno permesso, in situazioni di emergenza, di supplire ad alcune funzioni elementari come la respirazione e la circolazione. Secondo questa concezione, un essere umano, pur conservando le funzioni vegetative grazie al sostegno di apparecchiature di rianimazione, è da considerare morto quando ha perduto definitivamente le funzioni del cervello. Ciò implica naturalmente anche l'assenza di coscienza. Se si tiene conto di questo, l'accostamento di sonno, coma e morte risulta appropriato.
Il coma è il disturbo di coscienza più comune e importante. Nei termini che abbiamo introdotto parlando in generale della coscienza, una definizione semplice è quella di uno stato in cui sono abolite sia la vigilanza sia la consapevolezza; uno stato che solo superficialmente assomiglia al sonno, dal quale si differenzia perché il soggetto non può essere risvegliato dagli stimoli (uditivi o tattili) che abitualmente lo interrompono. Il coma vero e proprio corrisponde in realtà al grado maggiore di disturbo della vigilanza, e può essere preceduto da uno stato di ottundimento, in cui il paziente è risvegliabile ma tende ad assopirsi non appena cessano gli stimoli risveglianti, e dallo stupore, in cui il paziente non si risveglia ma tende ad allontanare da sé gli stimoli dolorifici.
Tra le cause del coma vi sono in primo luogo le intossicazioni (per es., da droghe o da farmaci), e le alterazioni del metabolismo ‒ dovute per esempio a un'insufficienza degli organi principali (respiratoria, epatica, renale) ‒ che si ripercuotono diffusamente sulle funzioni encefaliche. Non meno frequenti sono le lesioni dirette dell'encefalo (per es., da trauma, emorragia, tumore), che si dividono in quelle che colpiscono direttamente il sistema reticolare attivante (come le emorragie del tronco) e quelle degli emisferi, che colpiscono solo indirettamente il tronco encefalico, per esempio comprimendolo.
Un fatto poco noto, ma importante, è che il coma ‒ così come è stato definito ‒ ha una durata limitata, di solito non superiore alle tre-quattro settimane. Trascorso questo tempo, a meno che la gravità della malattia che ha provocato il coma non sia tale da condurre alla morte, il paziente inizia ad aprire gli occhi, cioè a risvegliarsi. Se il danno cerebrale non è grave, il risveglio è accompagnato da segni di consapevolezza e di ripresa di contatto con l'ambiente, ma può accadere invece che l'apertura spontanea degli occhi non vada di pari passo con la ripresa della consapevolezza. Si dice in questi casi che al coma è subentrato uno stato vegetativo, il quale è caratterizzato appunto dalla ripresa della vigilanza in assenza di ripresa della consapevolezza. La distinzione tra coma e stato vegetativo è relativamente recente, o meglio, malgrado risalga a circa trent'anni fa, spesso non è ben compresa dagli stessi medici non specialisti, e ancor meno dal pubblico.
L'individuo in stato vegetativo (SV) appare vigile, ma è privo di qualsiasi consapevolezza di sé e del mondo esterno. Apre gli occhi spontaneamente per una parte del tempo e riprende un ciclo sonno-veglia, anche se non necessariamente regolare né sincronizzato con il ritmo scandito dall'alternarsi di giorno e notte; tuttavia non risponde in modo appropriato ad alcuno stimolo e non ha alcuna attività gestuale. Malgrado ciò, le funzioni del tronco encefalico continuano a svolgersi, almeno parzialmente. Gli occhi non seguono gli stimoli visivi, ma si possono evocare i riflessi oculo-cefalici (se si sottopone il capo a una brusca rotazione, gli occhi tendono a mantenere la loro posizione primitiva: è il cosiddetto 'fenomeno degli occhi di bambola') e le pupille reagiscono agli stimoli luminosi. Può essere conservato qualche automatismo di masticazione; vengono prodotti movimenti del viso simili a smorfie, e vocalizzazioni rudimentali simili per esempio a grugniti. La respirazione, la circolazione e il controllo della temperatura corporea sono più o meno normali e non hanno bisogno di supporto artificiale. Il malato continua però a essere completamente dipendente dal personale di cura, e in particolare necessita di alimentazione e di idratazione artificiale.
Le cause dello SV sono in parte le stesse del coma, che del resto lo precede quasi sempre. La più tipica è rappresentata da un insulto acuto e diffuso dell'encefalo, di tipo traumatico oppure ipossico-ischemico, ed è in questi casi che lo SV è stato inizialmente descritto; tuttavia, anche danni acuti di altra natura (dovuti, per es., a emorragie, encefaliti o intossicazioni) possono condurre allo stesso esito. L'episodio acuto è generalmente seguito da un periodo più o meno prolungato di coma vero e proprio, dopo il quale l'individuo comincia ad aprire gli occhi e a mostrare segni di vigilanza, ma senza recuperare la consapevolezza. Alcune malattie ad andamento cronico, e talune malformazioni, possono produrre lo stesso quadro, senza però che esso sia preceduto da uno stato di coma. Fra le malattie cronico-progressive, la più comune è quella di Alzheimer; tra le malformazioni, l'anencefalia e alcune forme di idrocefalo congenito.
Si è detto che il coma ha di regola una durata limitata a tre-quattro settimane. Quanto allo SV, esso è generalmente seguito, dopo un periodo più o meno lungo, dal vero e proprio risveglio. Per convenzione, si parla di 'SV persistente' se dura più di trenta giorni; questa definizione non esclude che il paziente possa riprendere coscienza, anche se ciò diviene sempre meno probabile mano a mano che si prolunga la durata dello SV. Si parla infine di 'SV permanente' quando ‒ trascorso un periodo di tempo che è diverso secondo le circostanze, e in particolare secondo la causa dello SV stesso ‒ è possibile formulare una prognosi di irreversibilità.
Nei casi più tipici, la lesione distruttiva connessa con lo SV riguarda l'intera corteccia cerebrale (sono questi, per es., i casi secondari alla gravissima anossia che segue un arresto cardiaco non prontamente rianimato): l'impulso nervoso non raggiunge la sua sede finale, indispensabile perché nasca ciò che chiamiamo 'sensazione'. Il fatto che gli impulsi raggiungano comunque le aree sottocorticali spiega la conservazione di una certa reattività agli stimoli esterni, ma questa ha il carattere di attività riflessa (automatica) e non è modificabile dall'apprendimento. Sapere che si tratta di reazioni automatiche non impedisce che sia emotivamente difficile, davanti a un paziente in SV che mostra certe risposte a rumori o a stimoli dolorifici, non pensare a una qualche forma di consapevolezza. Accade anzi comunemente che i familiari del malato, osservando con particolare attenzione le sue reazioni, tendano a interpretarle come risposte volontarie, coscienti, e le considerino segni di un inizio di ripresa. Non è raro, in effetti, che quando una ripresa si manifesta realmente con deboli segni il primo a scoprirli sia proprio un familiare, ma purtroppo una buona parte delle segnalazioni di questo genere ha per fondamento soltanto un'errata interpretazione dei fatti.
Accanto al coma e allo SV, negli anni Novanta del XX sec. è emersa con sempre maggiore evidenza un'altra condizione clinica, lo stato di minima coscienza (MCS). Si tratta della situazione in cui versano alcuni pazienti che in un primo tempo si trovano in SV ma che poi, trascorso un periodo più o meno lungo dall'episodio acuto di malattia, manifestano indizi di ripresa del contatto con l'ambiente, anche se tenui e incostanti. Talora questi rappresentano effettivamente una fase di transizione verso una piena ripresa di coscienza (in questo caso si parla di 'MCS transitorio'), talaltra invece persistono senza migliorare ('MCS permanente'). La diagnosi non è facile e, recentemente, un gruppo di lavoro multidisciplinare, del quale facevano parte anche rappresentanti degli interessi dei malati, ha concluso che per la diagnosi e la prognosi di MCS non esistono precise linee guida universalmente condivise; lo stesso gruppo ha proposto di definire tale stato come una condizione di alterazione severa della coscienza nella quale esiste una minima ma certa prova comportamentale della consapevolezza di sé o dell'ambiente.
È importante ricordare a questo punto un'ulteriore situazione clinica, che non deve essere confusa con altri disturbi di coscienza e in particolare con lo SV: la 'sindrome del chiuso dentro' (locked-in syndrome). Si tratta di uno stato in cui la consapevolezza è conservata, ma non sono possibili né i movimenti né il linguaggio a causa della paralisi dei muscoli corrispondenti. Ciò è dovuto all'interruzione completa delle vie efferenti, ovvero delle vie motorie che dagli emisferi cerebrali scendono ai motoneuroni bulbari e spinali, i quali innervano direttamente i muscoli periferici (si parla in questi casi di 'de-efferentazione'). I soggetti così colpiti, pur essendo vigili e coscienti, e per lo più in grado di respirare autonomamente, non possono muovere gli arti, né parlare, né masticare o deglutire; conservano di solito un parziale controllo dei muscoli palpebrali e di quelli oculari. A un'osservatore superficiale, essi sembrano trovarsi in SV perché, pur potendo aprire gli occhi, non mostrano alcuna risposta agli stimoli ambientali. In realtà l'osservatore attento riconosce che il paziente è in grado di muovere gli occhi volontariamente e, concordando un codice basato sull'apertura-chiusura degli occhi o sul movimento degli occhi verso l'alto o verso il basso, può stabilire con lui una comunicazione e rendersi conto della sua integrità intellettiva. La causa più comune di questa sindrome è una lesione ischemica del tronco encefalico (situata solitamente nel ponte di Varolio); più raramente essa rappresenta invece la fase evolutiva terminale di malattie del sistema nervoso periferico, come la sclerosi laterale amiotrofica. La sindrome locked-in è una delle situazioni più drammatiche in cui un uomo possa trovarsi. Pochi anni fa è stata descritta magistralmente da un giornalista francese che è riuscito a dettare ‒ lettera per lettera ‒ un piccolo libro che costituisce una testimonianza preziosa di questo stato così come è vissuto 'dal di dentro'.
Un'altra condizione clinica che non va confusa con le precedenti è il mutismo acinetico. Si tratta di una situazione piuttosto rara, in cui la consapevolezza è almeno in parte conservata mentre i movimenti e il linguaggio sono estremamente rallentati o del tutto assenti. Il paziente appare vigile, tiene gli occhi aperti e con essi ‒ a differenza di quanto accade nello SV ‒ segue gli oggetti e le persone che si muovono intorno a lui, ma non presenta che rarissime iniziative motorie o verbali. In questi casi vengono cioè a mancare l'iniziativa motoria e la capacità di attenzione selettiva: i malati sono per così dire attratti invincibilmente e passivamente da qualunque stimolo gli si presenti, senza riuscire a mettere in atto alcuna intenzione. Il danno anatomico sottostante interessa la parte mesiale dei lobi frontali (cioè la faccia che rivolgono verso la linea mediana) e la parte anteriore della circonvoluzione del cingolo, che sappiamo importante per i meccanismi dell'attenzione selettiva.
Secondo un'opinione molto diffusa, in passato la morte, definita in base all'arresto del circolo e del respiro, era qualcosa di ben chiaro e non controverso, fino a quando lo sviluppo della medicina contemporanea ha portato a introdurre il concetto di 'morte cerebrale'. L'accertamento della morte sarebbe dunque divenuto problematico soltanto negli ultimi decenni, in seguito allo sviluppo delle tecniche di rianimazione. In realtà, una breve rassegna storica dimostra che i dubbi sul momento della morte non sono nati nel Novecento, ma sono molto più antichi. Se ripercorriamo i secoli che hanno visto lo sviluppo della medicina moderna vediamo che, per un periodo abbastanza lungo e sia in ambito medico sia in seno all'opinione pubblica, sono persistiti gravi dubbi riguardo alla possibilità di riconoscere tempestivamente la morte senza dover attendere i fenomeni putrefattivi. In particolare, verso la metà del Settecento si era diffusa in Europa una vera e propria ondata di timor panico della morte apparente e del seppellimento prematuro, in seguito alla quale furono decise dalle autorità politiche misure quali l'osservazione prolungata dei cadaveri in luoghi a ciò dedicati e l'obbligatorietà del certificato medico di morte. I racconti terrificanti di Edgar Allan Poe, scritti alcuni decenni dopo, testimoniano bene questi sentimenti.
Il timore della morte apparente si attenuò poi gradualmente nel corso dell'Ottocento, man mano che le conoscenze progredivano e cresceva la fiducia del pubblico nei medici e nella medicina, senza peraltro scomparire del tutto. Riprese quindi vigore sotto altra forma quando, sul finire del secolo e poi nel primo Novecento, vennero messe a punto le prime, rudimentali tecniche di respirazione artificiale. Esse resero infatti evidente a tutti che l'arresto del respiro, uno dei capisaldi della diagnosi tradizionale di morte, non era un fatto irreversibile. Non a caso risale a tale periodo, per esempio, la fondazione di associazioni per la prevenzione del seppellimento prematuro. Si giunse così alla fine degli anni Cinquanta, quando nei primi reparti di rianimazione si osservò per la prima volta che i soggetti colpiti da lesioni gravissime dell'encefalo e sottoposti a terapia intensiva sopravvivevano per qualche giorno alla cessazione definitiva e totale delle funzioni encefaliche. In essi non vi era più alcun segno di attività cerebrale, mentre persistevano la respirazione (assistita dal ventilatore meccanico) e la circolazione. Si trattava di un quadro clinico mai osservato prima, in quanto in precedenza erano mancate le condizioni stesse perché si manifestasse, vale a dire la possibilità di sostituire artificialmente, almeno per qualche tempo, il controllo che l'encefalo normalmente esercita sulle funzioni vegetative (e in particolare sulla respirazione).
Alcuni anni dopo la prima descrizione di questo stato peculiare, chiamato nell'articolo originale coma dépassé, ovvero 'stato al di là del coma', l'autorevole Comitato della Harvard University propose di denominarlo 'coma irreversibile' o 'sindrome della morte cerebrale' e di considerarlo un nuovo criterio di morte. Tale proposta incontrò negli anni seguenti un crescente favore negli ambienti medici, e fu poi recepita nella legislazione dei maggiori Paesi dell'Occidente, mentre trovò e trova tuttora resistenze in altre culture, come quelle dell'Estremo Oriente. Su questo criterio oggi si basa, nella maggioranza dei casi, la pratica terapeutica del trapianto d'organo. Il nostro Paese è stato fra quelli che hanno accolto più favorevolmente la proposta di Harvard, spingendosi fino a formulare, in una legge ad hoc approvata nel dicembre 1993 (legge n. 578/93), una nuova definizione di morte. L'art. 1 suona infatti così: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Ciò ha costituito un'assoluta novità nella legislazione italiana per almeno due aspetti: in primo luogo perché è stata introdotta una definizione di morte laddove non ce n'era alcuna (è vero che il regolamento di polizia mortuaria del 1990, di poco precedente alla l. n. 578, conteneva un riferimento all'arresto cardiaco documentato dalla registrazione elettrocardiografica continua per 20 minuti come criterio di morte, ma in esso non veniva data alcuna definizione formale di morte). In secondo luogo perché questa posizione è dichiaratamente revisionista, vale a dire sposa in modo esplicito il concetto di morte cerebrale, considerandolo anzi l'unica vera definizione di morte.
La legge chiarisce bene, nel successivo art. 2, che a tale esito si può giungere attraverso due vie: la prima è quella 'tradizionale' dell'arresto del circolo e del respiro, che provoca secondariamente (attraverso il meccanismo dell'anossia) l'arresto delle funzioni dell'encefalo, mentre la seconda è quella più 'moderna', che si verifica soltanto nei soggetti il cui encefalo è colpito da lesioni di gravità tale da provocarne la cessazione funzionale, e le cui funzioni vitali (respiro e circolo) vengono artificialmente sostituite. La seconda via è quella della morte cerebrale come viene abitualmente intesa. L'unicità del concetto non esclude perciò che i criteri di riconoscimento della morte siano diversi nella prima e nella seconda eventualità, e la legge li indica infatti nei due commi dell'art. 2 (accertamento di morte): "La morte per arresto cardiaco si intende avvenuta quando la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo e può essere accertata con le modalità definite con decreto emanato dal Ministero della Sanità. La morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie si intende avvenuta quando si verifica la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo ed è accertata con le modalità clinico-strumentali definite con decreto emanato dal Ministero della Sanità".
Tra i primi a riflettere sull'intreccio di dati scientifici e problemi morali presentato dalle nuove situazioni create dallo sviluppo della medicina fu, ancor prima del documento del Comitato di Harvard, papa Pio XII, che pose l'interrogativo se si dovesse, o se si potesse, proseguire il tentativo di rianimazione, benché l'anima avesse forse già abbandonato il corpo. È questo un problema fondamentale, che possiamo così riformulare: se sia lecito intervenire attivamente nel processo del morire quando il nostro intervento, invece di contrastare la morte e restituire l'organismo alla vita, riesce soltanto a prolungarlo. Nella maggior parte dei Paesi occidentali l'introduzione della nozione di morte cerebrale nella pratica clinica è avvenuta senza rilevanti opposizioni, ma le controversie teoriche in proposito non sono mancate, e tuttora non sono sopite.
Sul piano filosofico, la reazione più significativa al documento di Harvard fu probabilmente l'attacco portato al concetto di morte cerebrale da Hans Jonas. Parlando a un convegno il mese successivo alla pubblicazione del rapporto, egli ‒ che pure si diceva pronto ad accettare senza difficoltà la proposta di sospendere i trattamenti di sostegno vitale ai pazienti con perdita di coscienza irreversibile e consentire loro di morire (citando a questo proposito, con approvazione, il parere di Pio XII) ‒ si oppose fermamente alla proposta di anticipare il momento della dichiarazione di morte, in quanto la riteneva chiaramente strumentale rispetto al prelievo degli organi. In uno scritto successivo Jonas perfezionò la sua argomentazione, sostenendo che l'idea secondo cui la morte cerebrale equivarrebbe alla morte dell'organismo come un tutto era sbagliata, in quanto le funzioni della circolazione e della respirazione non servono a singole parti dell'organismo ma all'organismo intero. Osservò inoltre che il confine tra la vita e la morte non era affatto chiaro, e che non era neppure certo che lo si sarebbe potuto individuare con precisione in futuro, grazie per esempio a nuovi sviluppi scientifici. Citando Aristotele, fece notare che vi sono nella realtà oggetti dai contorni vaghi, che non si prestano a una definizione precisa, e che in tali casi non è una definizione stipulativa a poter accrescere la nostra conoscenza di essi. Affermò infine che, una volta anticipata la dichiarazione di morte, si sarebbe aperta la strada a una serie di usi pratici del 'cadavere', potenziale banca di organi, fabbrica di ormoni o altre sostanze e oggetto di sperimentazione di nuove terapie. La profezia di Jonas non si è avverata per intero, ma ha certamente colto nel segno per quanto riguarda il ricorso al cadavere come fonte di organi. Egli, dal canto suo, non era contrario al prelievo di organi per trapianto, ma condizionava tale prelievo all'evento della morte 'tradizionale'.
Al di fuori della cerchia degli studiosi, la proposta della morte cerebrale incontrò forti opposizioni in alcuni ambienti religiosi, come quelli dell'ebraismo ortodosso americano, la cui strenua battaglia è riuscita infine a ottenere, negli anni Novanta del Novecento, l'approvazione (limitatamente allo Stato del New Jersey) di una legge che riconosce, a coloro che non accettano la nuova definizione, il diritto all'obiezione di coscienza. Analoghe resistenze si manifestarono in altri Paesi: il caso più importante è quello del Giappone, dove solo nel 1997 è stata varata una legge sul trapianto degli organi, che però non comprende una definizione formale di morte cerebrale.
Per controbattere le principali obiezioni fu istituito negli Stati Uniti un importante organismo pubblico, la Commissione presidenziale per lo studio dei problemi etici in medicina, che nel 1981 pubblicò un corposo documento dal titolo Defining death in cui si propose di completare il lavoro del Comitato di Harvard, confermando con piccoli aggiustamenti l'adeguatezza dei criteri clinici e affrontando in modo sistematico i problemi concettuali relativi alla definizione di morte. La Commissione analizzò diverse opzioni: (a) la formulazione secondo la quale la morte è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni degli emisferi e del tronco cerebrale (la cosiddetta 'morte dell'intero cervello', o whole brain death); (b) la formulazione cosiddetta del 'cervello superiore' (higher brain version, o cortical death), secondo cui la morte si identifica con la perdita irreversibile della coscienza a seguito di un danno massivo di entrambi gli emisferi; (c) le formulazioni 'non basate sul cervello', come quella tradizionale, fondata sull'arresto della circolazione dei fluidi corporei. La scelta cadde sulla prima versione in base a due argomenti complementari: quello della 'perdita dell'organo primario o critico' (essendo il cervello il sistema critico, cioè il centro integratore dell'organismo, la completa cessazione delle sue funzioni significa che l'organismo non funziona più come un tutto, in altre parole che esso è morto) e quello della 'perdita del funzionamento integrato del corpo' (la vita è il funzionamento integrato dell'organismo come un tutto; cruciale per questo funzionamento è l'interazione fra cervello, polmoni e cuore; perciò la cessazione delle funzioni del cervello, nella condizione particolare di un paziente ventilato in un'unità di cure intensive, è un segno che la morte è avvenuta, allo stesso modo in cui l'arresto cardiaco è segno di morte in condizioni ordinarie). Il documento aveva tenuto conto delle obiezioni che potevano essere mosse contro entrambi gli argomenti, obiezioni che riguardavano principalmente il ruolo critico attribuito al cervello (in effetti altri organi sono di importanza altrettanto cruciale per la sopravvivenza) e la sua supposta insostituibilità (la rianimazione consente di mantenere la circolazione e il metabolismo di questi individui per qualche tempo e, come oggi sappiamo, anche per molti mesi: ciò dimostra che è possibile sostituire almeno alcune funzioni integratrici del cervello o, più precisamente, del tronco encefalico). La sua conclusione, tuttavia, fu che, mentre è importante testare le decisioni di public policy rispetto alle definizioni di morte, un approfondimento filosofico al di là di un certo punto può non essere necessario.
Oggi non si può non riconoscere che quando fu formulata la proposta di equiparare la morte cerebrale alla morte tout court, la riflessione sul nuovo scenario creato dai progressi della medicina si intrecciò strettamente con istanze di ordine morale (l'opportunità di non sprecare risorse preziose in un'assistenza medica divenuta vana e il bisogno dei malati in attesa di trapianto di ricevere organi vitali ormai inutili al loro 'proprietario' e altrimenti destinati alla distruzione). Sia per questo sia per una serie di altri motivi ‒ come il dato empirico, emerso negli ultimi anni, della possibile lunga o lunghissima 'sopravvivenza biologica' di individui in morte cerebrale, anche in assenza di assistenza intensiva fatta salva la ventilazione meccanica ‒ alcuni studiosi hanno avanzato una proposta differente: quella di considerare i malati in morte cerebrale non come già morti, ma come irrimediabilmente entrati nel processo del morire, e pertanto suscettibili di divenire donatori di organi a scopo terapeutico anche prima della dichiarazione di morte; ciò a condizione che in precedenza abbiano dato un assenso a questa pratica o quanto meno non abbiano manifestato la loro contrarietà. Si tratta però, almeno al momento, di una posizione del tutto minoritaria.
Recentemente il filosofo tedesco Ralf Stoecker, riflettendo sull'acceso dibattito in merito alla morte cerebrale svoltosi nel suo Paese e alla domanda 'se gli individui in morte cerebrale siano veramente morti', è giunto a dare una risposta negativa. Egli ha individuato come nodo centrale quello che ha denominato 'l'assunto etico fondamentale circa la morte', vale a dire la diffusa, anche se per lo più inespressa, convinzione che l'evento della morte alteri in modo istantaneo lo status morale di un individuo, ovvero riduca drasticamente i doveri morali che la società ha nei suoi riguardi. Fa parte dell'assunto l'idea che i doveri verso gli altri riguardino essenzialmente i viventi, e certamente uno degli obblighi morali da tutti sentito come estremamente forte è quello di non uccidere. La morte rappresenta un confine che non deve essere mai attivamente valicato (da cui il divieto di uccidere); una volta comunque che l'individuo sia al di là di esso, la maggior parte dei doveri verso di lui vengono meno. Questo assunto è indiscutibile nell'ambito del diritto positivo, sia civile che penale, in cui la morte segna la perdita della personalità giuridica, ma diventa problematico se trasportato nel contesto ben diverso della medicina e della biologia, dove, fra l'altro, si ha a che fare per lo più non con eventi istantanei, ma con processi di una certa durata. Secondo Stoecker, il Comitato di Harvard, trovandosi di fronte ai due quesiti che gli erano stati posti (in quale momento divenga moralmente lecito sospendere le misure di sostegno vitale, e quando e se sia consentito l'utilizzo di parti del corpo del paziente a beneficio di altri, e a quali condizioni), pensò che la risposta potesse essere trovata soltanto attraverso una nuova definizione del confine al di là del quale, in base all'assunto etico fondamentale circa la morte, fossero venuti meno gli obblighi morali verso il paziente. Per Stoecker la soluzione andrebbe invece cercata altrove, abbandonando l'assunto stesso e ripensando il processo del morire come una serie di perdite successive, a fronte delle quali si modificano i doveri morali degli altri senza però che mai venga meno lo status morale dell'individuo. Si tratterebbe, dunque, di ripensare interamente la moralità dei nostri comportamenti nei riguardi dei morenti, dei morti e della rete di scambio fra queste due sfere e quella dei viventi che si verifica nell'ambito del trapianto di organi.
La discussione sulla morte cerebrale, qui accennata solo per sommi capi, può essere considerata da molti punti di vista e per diverse ragioni un caso paradigmatico della riflessione bioetica. In primo luogo, vi fu uno stretto rapporto cronologico tra la pubblicazione della relazione di Harvard in cui veniva proposto il concetto di morte cerebrale (1968), l'avvio del dibattito internazionale sul tema e i primi passi della bioetica come disciplina autonoma (i due principali centri di bioetica, lo Hastings Center di New York e il Kennedy Institute presso l'Università di Georgetown, furono fondati negli anni 1970-1971). In secondo luogo, molti comitati etici nazionali, come la President's Commission negli Stati Uniti, il Comitato danese e il Comitato nazionale per la bioetica del nostro Paese, iniziarono la loro attività proprio pronunciandosi sulla morte cerebrale. Ancora il Comitato di Harvard, con la sua composizione multidisciplinare (ancorché incompleta), può inoltre essere considerato come un prototipo dei comitati etici che sarebbero stati istituiti in seguito; senza dubbio la multidisciplinarità, e soprattutto la partecipazione di filosofi e di teologi associata a quella di medici e biologi, è un aspetto centrale dell'impresa bioetica. Si aggiunga che sia il documento di Harvard sia la letteratura successiva hanno coinvolto molti e diversi livelli di discorso: questioni mediche relative all'accertamento di morte, problemi puramente concettuali (cos'è la morte? cosa significa essere morti?) e, soprattutto, difficili problemi morali (qual è l'approccio più corretto ai pazienti gravemente colpiti e dipendenti dalla ventilazione meccanica e/o permanentemente privi di coscienza?). L'interazione fra i diversi livelli concettuali, ancora abbastanza grossolana nel rapporto di Harvard, appare esaurientemente espressa in molti contributi successivi. La domanda più difficile sembra essere se il tentativo di una nuova definizione di morte debba consistere in una pura ricerca ontologica, in un'indagine morale o in entrambe. Va infine sottolineato l'enorme impatto della nuova proposta, che negli anni Settanta e Ottanta è stata accolta dalle legislazioni della maggior parte dei Paesi occidentali e che ha posto le premesse della moderna medicina dei trapianti. Il successo pratico e le conseguenze sociali e politiche della definizione di Harvard rappresentano, da più di un punto di vista, il modello delle successive prese di posizione dei comitati etici in altri campi della medicina e delle loro ripercussioni. Ciononostante, critiche severe continuano a esserle mosse sulla base di ragioni empiriche o filosofiche e una franca ostilità è tuttora presente in alcuni ambienti religiosi e in taluni settori della società. Si è anzi assistito ‒ cosa abbastanza inusuale nel dibattito filosofico ‒ a cambiamenti anche radicali di opinione da parte di autorevoli studiosi, dapprima favorevoli e poi contrari al concetto di morte cerebrale. Così, anche se a prima vista sembra che la definizione di morte cerebrale abbia riportato un successo definitivo, in realtà finora non è stato raggiunto su di essa consenso stabile, e questa è un'altra caratteristica tipica di molti temi della bioetica.
Un'ultima importante notazione riguarda il fatto che i mass media confondono frequentemente la morte cerebrale con lo stato vegetativo permanente, ma è chiaro che nel caso della morte cerebrale abbiamo a che fare con qualcosa che è molto di più di un disturbo della coscienza. È vero che la perdita della vigilanza e della consapevolezza è totale e irreversibile, ma vi è la definitiva cessazione del funzionamento del cervello e non solo della corteccia cerebrale. Di conseguenza, sono assenti anche i riflessi elementari del tronco cerebrale e, soprattutto, la capacità di respirare spontaneamente. Per questa ragione la morte cerebrale non può verificarsi né durare in assenza di ventilazione artificiale e delle altre terapie proprie della rianimazione. Anche se così assistiti, generalmente gli individui in morte cerebrale non sfuggono all'arresto cardiaco che per pochi giorni. Al contrario, chi si trova in stato vegetativo permanente può sopravvivere mesi o anni anche in assenza di ventilazione meccanica e di altre terapie di sostegno vitale.
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