Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da un lato la civiltà odierna tende ad allontanare l’idea della morte – non a caso i riti di commiato tendono a farsi sempre meno visibili –, dall’altro si intensifica il dibattito intorno all’eutanasia e alla definizione di morte che si sviluppa soprattutto negli anni Sessanta. Una forte valenza etico-religiosa continua, ad avere anche il problema dell’aborto come interruzione volontaria della maternità. Le nuove tecniche della fecondazione assistita, per non parlare della prospettiva della clonazione umana, comportano intanto problemi nuovi sul piano morale, sociale e legislativo.
Philippe Ariès, nel suo libro sulla morte in Occidente, Essais sur l’histoire de la mort en Occident: du Moyen Âge à nos jours, presenta un quadro dell’evoluzione storica degli atteggiamenti dell’uomo nei confronti della morte. Egli ritiene che si sia passati da un antico atteggiamento in cui la morte è al contempo familiare, vicina e attenuata da riti di passaggio, a uno in cui il solo pensiero fa talmente paura che non si osa più pronunciarne il nome; anche dal punto di vista linguistico non si muore più, si decede o scompare. Le confessioni religiose continuano a proporre un altro modo di ignorare la morte, quello di trascenderla. Per le religioni più diffuse in Europa la vita di quaggiù non è che un passaggio, una transizione verso la vera vita, spirituale, divina, immortale: la morte è un trapasso, un salto verso la fine desiderata e sperata.
Accanto a queste due maniere di ignorarla – tendenza all’occultamento o stravolgimento del significato – nasce ai nostri giorni un notevole interesse per tutto ciò che riguarda la morte considerata dal punto di vista medico come un fenomeno che si lascia osservare e studiare. E si distingue fra morte clinica (cessazione dell’attività cardiaca e respiratoria), morte cellulare (degenerazione delle cellule dell’organismo), morte biologica (quando cioè non si è in grado di restituire la vita all’intero organismo), morte apparente. In alcuni casi il corpo può essere riportato alla vita, in altri è possibile l’espianto e il trapianto di organi (che hanno una vitalità variabile), quando essi siano irrorati di sangue fino al momento del prelievo. Dal 1967, anno del primo trapianto di cuore umano, il ricorso a questa tecnologia rende possibile la sopravvivenza di parti di sé e contribuisce a mutare le rappresentazioni del corpo, dei suoi limiti e delle sue possibilità. In senso stretto, la morte organica non è una vera cessazione dell’esistenza, ma un avvenimento che fa parte di una continuità, di una trasformazione fisiologica: i sistemi vitali cessano di funzionare, ma la materia organica vive ancora e può perfino essere riutilizzata. Altre morti sono invece assolute e definitive, come la cessazione degli aspetti affettivi, mentali, intellettuali, sociali e culturali. Sono proprio queste distinzioni che aprono dilemmi morali fondamentali.
Il dibattito intorno alla definizione di morte si sviluppa negli anni Sessanta. In questo periodo i legislatori di molti Stati fanno sforzi per unificare i testi legislativi intorno al concetto di morte clinica. Il dilemma intorno al quale si confrontano gli studiosi verte essenzialmente sul tipo di vita che cessa e sul luogo che si ritiene essere la sede della vita. Il riconoscimento dell’encefalo come luogo della vita personale stabilisce il criterio di necessarietà e di sufficienza per la diagnosi di morte.
D’altra parte più la vita media si allunga, più l’idea della morte si allontana, anche perché il livello di pacificazione interna, raggiunto dalle società contemporanee, riduce di molto la possibilità di morte violenta. Contribuisce a questo rasserenamento anche lo sviluppo delle tecniche di terapia del dolore. E si rafforza così l’aspettativa rassicurante di un processo naturale, indolore e a lungo termine.
Ciò che però ispira sempre più paura è la via che conduce alla morte. L’infermità, la decadenza fisica separano l’individuo dai viventi più di quanto avvenisse nel passato e il problema sociale della morte, dell’aiuto ai morenti, è particolarmente difficile da risolvere poiché i primi si identificano a fatica con i secondi: essi costituiscono un segnale di allarme, uno sgradito ricordo per quanto riguarda ogni singola morte. Si assiste dunque ad una vera e propria rimozione sia a livello individuale che sociale.
Ma il progresso tecnico amplia pure quel tempo intermedio tra la vita e la morte che pone l’individuo cosciente in conflitto con la capacità di sopportazione del suo stato di degrado e lo induce a chiedere di essere aiutato a morire. La parola greca eutanasia, con significato proprio di “buona morte”, significato non messo in questione fino a tutto il XX secolo, acquisisce così nel Novecento il senso di “morte anticipata” rispetto alle residue risorse dell’organismo. Bisogna distinguere però fra eutanasia legalizzata e suicidio medicalmente assistito, a seconda che sia presa in considerazione la volontà del morente o quella di chi lo circonda. In Europa il dibattito è molto vivace sia sull’una che sull’altro, così come sui possibili abusi cui essi possono dare luogo. Si discute di problemi fondamentali, per esempio se lo Stato abbia il diritto di decidere del modo di vivere e di morire degli individui (quale sia dunque, alla resa dei conti, lo spettro della libertà individuale), o se una interpretazione religiosa – qualunque essa sia – possa avere l’avallo dello Stato ed essere generalmente imposta. Si discute anche del diritto dei singoli operatori sanitari di mettere in pratica le proprie convinzioni religiose se in contrasto con quelle del morente, dell’obiezione di coscienza e dei suoi limiti. Gli esiti sono diversi a seconda dei Paesi. In Olanda e in Belgio l’eutanasia è legale dal 2002, la Gran Bretagna è sulla via dell’approvazione del suicidio medicalmente assistito, in altri Paesi, come in Italia, sembrano prevalere per ora, su questo punto, le forze contrarie a entrambi.
La morte, lontana, moltiplicata, discussa e magari fonte di nuova vita, finisce con l’essere comunque sempre più la morte degli altri. Non a caso i riti di commiato – commiato pubblico con forme di saluto al corpo; commiato privato con forme di elaborazione del lutto per dare nuova sistemazione ai rapporti spezzati – tendono a farsi meno evidenti. Inoltre in una società che si avvia a diventare multiculturale i riti funebri, pur costituendo una espressione identitaria importante, vedono diminuire la loro capacità di rappresentare momenti di riflessione comune e di forte coesione sociale e si privatizzano, limitano il loro raggio di influenza a gruppi di parenti e amici. Contribuisce a questa riduzione della visibilità della morte anche il lento diffondersi della cremazione – procedura semplice, rapida, igienica e poco ingombrante – persino in aree dove questa pratica è generalmente aborrita e permane, come in alcune aree meridionali, l’uso dell’esumazione per fare posto ai nuovi morti, ma anche per assicurarsi che il deceduto non possa tornare nel mondo dei vivi.
La procreazione, d’altro canto, diventa sempre più un atto volontario, cosciente e sottratto alle leggi naturali. Non solo perché le nascite sono sempre più largamente ospedalizzate. Se fin dall’epoca dei greci e degli egiziani erano note tecniche anticoncezionali, nel Novecento si aprono le prime cliniche a ciò destinate sulla scia di quanto avviene negli Stati Uniti a partire dal 1916. Nel 1921 è la volta della Gran Bretagna. In alcuni Paesi europei, come la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, l’URSS, si diffonde anche l’insegnamento ufficiale dei mezzi per il controllo delle nascite. La società è percorsa da una nuova ventata di individualismo e si ritiene che la maternità debba esere consapevole per garantire una buona accoglienza al nascituro.
La ricerca di contraccettivi efficaci domina gli anni Sessanta del Novecento, quando sono messi a punto, oltre a dispositivi intrauterini che restano a tutt’oggi tra i sistemi più diffusi, anche anticoncezionali ormonali – la cosiddetta pillola –; mentre gli studi sulla contraccezione maschile non sembrano uscire ancora oggi dallo stadio sperimentale. Sono gli anni in cui cambiano i rapporti fra i sessi, soprattutto in quelle aree europee che avevano mantenuto aspetti più tradizionali. I nuovi metodi anticoncezionali liberano le donne da molte delle remore che le trattenevano da rapporti prematrimoniali, inaugurano un diverso regime del fidanzamento e spesso nuovi rapporti matrimoniali, a volte meno esclusivi e comunque più paritari.
Negli stessi anni viene messo in particolare evidenza un vecchio problema, quello dell’aborto, come interruzione volontaria e clandestina della maternità, che si cerca di risolvere attraverso una regolamentazione e un’ufficializzazione che riduca il tasso di mortalità femminile e infantile. Ne scaturisce una dura contrapposizione del cattolicesimo alle istanze del femminismo e alla concezione dei diritti individuali propria del laicismo, che ha dato luogo a una legislazione diversa nei Paesi europei che va dall’assoluto divieto, come in Irlanda, fino a un’accettazione più o meno limitata. Il parlamento europeo ha comunque approvato nel 2002 una risoluzione che raccomanda di considerare l’aborto come un diritto e di proteggerlo legalmente.
Negli ultimi decenni la diminuzione demografica in Europa, ma anche la diffusione del lavoro femminile, più che la mancanza di disponibilità al sacrificio delle donne, a volte sbandierata, insieme con la preoccupazione per le ondate immigratorie di extracomunitari, ha prodotto da più parti incitamenti ad aumentare la natalità. D’altra parte l’innalzamento dell’età del matrimonio ha in qualche modo ridotto i tassi di fecondità, per cui si è avuto un ricorso relativamente frequente alla procreazione assistita che intanto ha molto progredito e offre oggi una grande varietà di metodi di intervento, accomunati dalla sostituzione di una parte del processo riproduttivo naturale con operazioni tecniche intese a facilitare la fecondazione in vivo o in vitro. Le banche dello sperma, che rendono possibile la fecondazione di donne anche anni dopo la morte del marito, gli uteri in affitto, le fecondazioni intra o extra corporee con materiale biologico estraneo alla coppia, sono i risultati più clamorosi di studi che promettono di procedere molto rapidamente e suscitano grandi polemiche in questi ultimi anni. Ancor più discussi sono il criocongelamento di gameti o di embrioni, o addirittura la prospettiva di una possibile clonazione umana.
Evidentemente queste tecniche rivoluzionano i concetti di genitorialità, aprono questa via a coppie omosessuali, agli anziani, a genitori singoli e fanno paventare la stessa inesistenza dei genitori o la loro moltiplicazione. Neppure questa complessa materia è disciplinata in Europa da una legislazione univoca. Il dibattito sulla riproduzione assistita trova ampio spazio nel pensiero femminista con la creazione di fronti opposti tra chi vede in esse un mezzo di oppressione e chi invece di liberazione delle donne. Ma anche il cosiddetto “uomo della strada” (e non solo lui), pur consapevole dei progressi che gli studi orientati in questa direzione, al di là del rumore provocato, permettono di compiere nella cura di gravi malattie, è disorientato e spesso finisce col ripiegare sulle posizioni più tradizionali. Recentemente 77 premi Nobel hanno avvertito l’esigenza di firmare un appello, presentato presso la sede delle Nazioni Unite di New York, perché non venga bloccata la ricerca sulle cellule staminali embrionali.