Morte o trasfigurazione delle ideologie?
Liberalismo e democrazia
Con la parola ideologia si intende una ‘visione del mondo’ quanto più possibile organica e logica (che in Karl Marx pretende persino di essere ‘scientifica’), la quale mira a spiegare il mondo stesso e nel medesimo tempo a cambiarlo in conformità ai suoi schemi precostituiti. Sotto questo profilo il 20° sec. può essere considerato come la vera e propria ‘epoca delle ideologie’, le quali hanno avuto la propria incarnazione nel fascismo, nel nazionalsocialismo e nel comunismo (Bracher 1982; trad. it. 2001, pp. 394-95). Sconfitti nazionalsocialismo e fascismo nella Seconda guerra mondiale, crollato nel 1991 il comunismo sovietico con il suo sistema imperiale, ed entrati in crisi irreversibile e in gran parte scomparsi i partiti marxisti occidentali, è parso a molti che si fosse ormai aperta un’epoca ‘postideologica’.
In questa epoca postideologica hanno avuto il sopravvento, e hanno trovato una diffusione sempre più larga, gli orientamenti ideali liberali, democratici, e ‘transnazionali’ o ‘cosmopolitici’ (si pensi, in Europa, all’europeismo). A veder bene, anche questi orientamenti ideali sono ideologie, in quanto sono visioni del mondo e della società, che presuppongono determinati valori; ma essi non hanno un carattere ‘totale’ e ‘chiuso’ (a differenza delle grandi ideologie che hanno dominato nel Novecento), e anzi sono ‘aperti’, e pronti a misurarsi con la realtà sociale nel suo divenire storico.
Il liberalismo ha conosciuto un formidabile revival in tutto il mondo occidentale, sia nella sua versione di liberalismo politico (che teorizza uno Stato ‘limitato’, tale da garantire pienamente i diritti dei cittadini, incardinato sul pluralismo culturale, sulla rappresentanza liberamente eletta, sulla divisione dei poteri ecc.) sia nella sua versione di liberalismo economico (che teorizza la piena autonomia della società civile dallo Stato, la più ampia libertà di iniziativa imprenditoriale e commerciale, disciplinata soltanto dalle leggi a tutela dei diritti individuali, e l’insostituibile funzione del mercato, per la sua capacità di suscitare iniziative sempre nuove e, quindi, di promuovere un’evoluzione e un progresso continui sul piano scientifico e tecnologico).
Si potrebbe dire che il liberalismo economico è la versione ‘forte’ del liberalismo, se si tiene presente il grande fascino che esso ha esercitato, negli ultimi due decenni, su ampie élites culturali e politiche. È significativa, a questo proposito, la notevole fortuna conosciuta in tutto il mondo occidentale dall’opera di Friedrich von Hayek (1899-1992). Per il pensatore austriaco, il mercato non è solamente quello spazio sociale in cui la concorrenza spinge gli imprenditori ad abbattere i costi di produzione; esso è anche il luogo dal quale sorge un flusso incessante di informazioni, che nessuna autorità, nessun organismo, nessuna scienza sarebbe in grado di fornire. Inoltre il mercato è il luogo in cui gli operatori economici, in concorrenza fra loro, mettono alla prova le nuove combinazioni produttive, attraverso le quali vengono realizzati nuovi beni (merci e servizi), e quindi esso è un formidabile (e insostituibile) strumento di scoperta e di innovazione (Pellicani 2002). Perciò lo Stato non può alterare in alcun modo il libero funzionamento del mercato, il suo sviluppo spontaneo, ma deve limitarsi a farlo funzionare in modo ottimale (attraverso un’opportuna legislazione antimonopolistica); né lo Stato può proporsi programmi di giustizia distributiva, sia perché non esistono ideali di questo tipo che siano universalmente condivisi, sia perché la realizzazione di tali programmi altererebbe gravemente il meccanismo dell’allocazione delle risorse, che deve essere regolato solo e soltanto dal mercato. Un intervento governativo per attuare programmi di ridistribuzione e di giustizia sociale lederebbe gravemente la libertà degli individui e preparerebbe una società prima autoritaria e poi totalitaria.
Il liberalismo economico ha conosciuto una larga fortuna negli ultimi due decenni. Ma negli ultimi anni esso è stato riesaminato criticamente da vari autori, che gli hanno rivolto gravi obiezioni. Così Richard Bellamy (2000), John Gray (2000), Glen Newey (2001) hanno rilevato nelle concezioni neoliberali un’astrattezza che ne compromette gravemente la credibilità. In realtà, alla fine del Novecento e all’inizio del 21° sec. si è manifestata un’approfondita revisione del liberalismo economico, che ne ha messo in discussione i presupposti e i fondamenti.
Una delle critiche più acute in questa direzione è stata svolta in Italia da Angelo Panebianco (n. 1948). Egli ha affermato che una società libera sul tipo di quella teorizzata da Hayek (caratterizzata dall’idea del primato degli individui e delle loro libere associazioni – la società civile – rispetto allo Stato, e di un ruolo minimo, residuale, riservato alla politica) non esiste, non è mai esistita, ed è assai difficile che possa esistere. Abbiamo probabilmente il diritto – ha aggiunto Panebianco – di definire società ‘libere’ o ‘aperte’ le società occidentali contemporanee, se le confrontiamo con altre società del presente e del passato. «Ciò non toglie tuttavia che, in tutte, la politica e lo Stato mantengano una presenza e un ruolo di gran lunga maggiori di quello ipotizzato [dai neoliberali] (Panebianco 2004, p. 11).
Più in generale, Panebianco ha rilevato che il pensiero liberale ha quasi sempre incontrato grandi difficoltà nel pensare la politica in modo realistico. Esso per lo più non ha visto che gli ostacoli al dispiegamento della società libera, anziché essere storicamente contingenti, derivano da certi tratti permanenti dell’organizzazione della vita collettiva, la cui presenza esclude la possibilità che molte delle ‘promesse’ del liberalismo possano essere mantenute (p. 20). Le diverse scuole liberali (dalla Scuola austriaca dell’economia al pensiero ‘liberista’ italiano, alla Scuola di Chicago, alle diverse filiazioni anarco-libertarie) non si sono rese conto che la natura della politica non consente quelle limitazioni così cogenti del potere politico che esse vorrebbero (p. 27).
In realtà, dice Panebianco, i rapporti fra politica ed economia di mercato sono assai complessi, e spesso accade che il liberalismo economico, nelle sue diverse articolazioni, sottovaluti tale complessità. Non è affatto sicuro quello che quasi tutti gli esponenti del liberalismo economico hanno sostenuto, ossia che le libertà economiche siano condizioni o presupposti delle libertà politiche. Con eguale verosimiglianza si potrebbe invertire la connessione causale e sostenere che sia invece la libertà politica condizione o presupposto di quella economica. Inoltre il mercato, per funzionare, richiede regole, un quadro normativo che tuteli in primo luogo i diritti di proprietà e la validità dei contratti; ma questo quadro normativo può essere assicurato solo dalla politica, sicché la possibilità di funzionamento del mercato sembra dipendere dalla politica. Ma se così è, allora come può il mercato limitare quel potere politico che è posto a tutela delle norme cui il mercato stesso deve la sua sopravvivenza?
E ancora: regole giuridiche a parte, la politica deve svolgere altri compiti comunque cruciali e ineliminabili (come la produzione di beni pubblici), necessari per lo stesso funzionamento dell’economia di mercato. Ma se questi compiti rendono davvero indispensabile la politica e quindi lo Stato, non è da cercare proprio qui una delle cause della ‘potenza’ dello Stato, dell’impossibilità di confinarlo in un ruolo subordinato e inoffensivo?
Inoltre, al liberalismo economico è inerente una certa incomprensione del ruolo della politica, in quanto questa non può essere relegata solo ai compiti di garantire l’osservanza di regole e di fornire beni pubblici, essendo essa anche l’arena in cui si svolgono i conflitti fra raggruppamenti con differenti, e spesso incompatibili, identità (Panebianco 2004, pp. 64-65). Senonché il conflitto – questo ‘nocciolo duro’ della politica, che implica lotte potestative fra minoranze organizzate (élites), coercizione, e dunque possibilità del ricorso alla violenza – è sostanzialmente assente dalle visioni del liberalismo economico (pp. 10-11). Così Ludwig von Mises (1881-1973) non riesce a pensare al conflitto se non come a una condizione patologica, proprio perché egli assume che l’armonia degli interessi sia sempre realizzabile se solo si lascia l’economia di scambio libera di funzionare, in regime di proprietà privata. Allo stesso modo Hayek espelle il conflitto, e la competizione per il potere, dal suo orizzonte teorico. Ciò discende direttamente dalla sua teoria dell’ordine spontaneo. «L’ordine spontaneo – dice Panebianco – è per Hayek l’unica soluzione soddisfacente al problema della dispersione sociale della conoscenza e al vincolo dell’ignoranza antropologica. L’ordine spontaneo risolve i problemi di coordinamento sociale fra individui dotati di conoscenze limitate e consente loro di perseguire, autonomamente, in libertà, fini personali la cui soddisfazione sarebbe irrealizzabile senza l’attivazione – che l’ordine spontaneo rende possibile – delle conoscenze diffuse» (Panebianco 2004, p. 78). Interessato al coordinamento sociale che gli ordini spontanei determinano, Hayek è portato a escludere dalla sua analisi i fenomeni di disordine e di conflitto. Ma in questo modo egli dà una raffigurazione del funzionamento della società assai diversa da quella reale. Nelle società storicamente esistite ed esistenti, infatti, il contrasto degli interessi, lo scontro, il conflitto sociale hanno giocato e continuano a giocare un ruolo assolutamente fondamentale.
Se la critica di Panebianco è rivolta alla ‘astrattezza’ di certe scuole neoliberali, e alla loro incapacità di intendere adeguatamente il nesso economia-politica, altri teorici criticano invece il neoliberalismo da altri punti di vista: in primo luogo per la sua sottovalutazione del livello di disuguaglianza che caratterizza le aree più sviluppate del mondo democratico-industriale.
Un’ampia critica in questo senso è stata sviluppata da un autore statunitense, che è ben conosciuto in Europa, Ronald Dworkin (n. 1931). «I dati relativi alla distribuzione della ricchezza e del reddito negli Stati Uniti – egli ha affermato – sono impressionanti. Nel 2001 l’1% della popolazione possedeva più di 1/3 della ricchezza nazionale, il 10% ne possedeva il 70% e il 50% ne possedeva solo il 2,8%» (Dworkin 2006; trad. it. 2007, p. 98). Moltissimi cittadini americani quando sono malati non possono permettersi nemmeno le cure mediche più essenziali, molti disoccupati non sono in grado di garantire a sé stessi e alla propria famiglia cibo e alloggio decenti, i loro figli nascono con prospettive di vita poco rosee (pp. 122 e 130). Una situazione sociale di questo genere – dice Dworkin – viola quel primo, fondamentale principio secondo il quale ogni vita umana ha un suo particolare valore oggettivo. Tale situazione, inoltre, vanifica qualunque idea di obbligazione politica. I cittadini, infatti, assumono degli obblighi politici se e solo se il governo della comunità rispetta la loro dignità umana. «Non posso avere degli obblighi nei confronti di una comunità che mi tratta come un cittadino di seconda classe; il governo sudafricano durante l’apartheid non aveva autorità legittima sui neri, e il governo degli Stati americani in epoca schiavistica non aveva alcuna autorità legittima sugli schiavi che trattava come delle proprietà» (p. 103).
E tuttavia, nonostante la radicalità della sua critica, Dworkin non si schiera a favore di una società assolutamente egualitaria. «Si potrebbe pensare – egli dice infatti – che le considerazioni svolte fin qui rendano inevitabile una conclusione molto radicale: che un governo dimostra pari considerazione per tutti i suoi cittadini solo se si organizza in modo che ognuno abbia le stesse risorse, indipendentemente dalle scelte che ha fatto e dalla fortuna che ha avuto. Ma è una conclusione affrettata; infatti un governo deve rispettare anche il secondo principio della dignità umana, che attribuisce a ogni cittadino la responsabilità di decidere cosa può dare valore alla sua vita e di cercare di realizzarlo» (p. 108). Immaginiamo per es., dice Dworkin, che un Paese adotti una politica radicalmente egualitaria, la quale preveda, una volta all’anno, la riscossione di tutte le risorse della comunità e la loro successiva ridistribuzione in parti eguali, in modo da consentire a ciascuno di ricominciare da capo in condizioni di parità. In un assetto di questo genere quello che uno fa non avrebbe alcuna importanza: le persone sarebbero indenni dalle conseguenze economiche delle loro azioni e così non riuscirebbero ad assumersi alcuna responsabilità della dimensione economica della loro vita. «In un mondo del genere – aggiunge Dworkin – non avrei motivo di intraprendere un corso di studi più lungo per avere un lavoro meglio pagato o di risparmiare oggi per poter dare domani un’istruzione migliore ai miei figli, o di fare un investimento oculato nella speranza di realizzare un profitto. Sono tutte scelte che non avrebbero senso perché, qualunque cosa io faccia, alla fine mi troverei nell’identica situazione economica; non potrei assumermi la responsabilità finanziaria delle mie scelte perché le mie scelte non avrebbero conseguenze finanziarie» (p. 108). Di qui il dissenso di Dworkin anche rispetto alla teoria della giustizia di John Rawls (1921-2002). Secondo tale teoria, egli dice, l’obiettivo dell’assetto politico di una comunità deve essere che, una volta tutelate adeguatamente le libertà più importanti, il gruppo ‘che sta peggio’ stia il meglio possibile. Ma Rawls definisce il gruppo ‘che sta peggio’ solo in funzione delle risorse dei suoi membri, senza distinguere fra quelli che sono in condizioni svantaggiate perché si sono ammalati o sono stati sfortunati, e quelli che lo sono perché hanno scelto di lavorare poco o di non lavorare affatto. Quindi nella concezione rawlsiana la situazione dei meno abbienti non dipende in alcun modo dalle loro scelte e responsabilità personali. Rawls, insomma, elimina, secondo Dworkin, la connessione fra scelta personale e destino personale, connessione che per il principio della responsabilità personale è invece fondamentale.
Dworkin sottolinea con cura che il principio della responsabilità personale richiede un’economia sostanzialmente di libero mercato, in cui siano i singoli e non il governo a stabilire i principali elementi strutturali della situazione economica nella quale essi vivono, compresi i prezzi dei diversi tipi di beni che essi decidono di acquistare e il costo del lavoro che essi decidono di offrire. Unicamente in questo modo le persone possono esercitare la loro responsabilità di individuare ciò che può dare un significato alla loro vita e di realizzarlo, perché solo così il prezzo di ciò che una persona acquista o produce riflette il valore che quella cosa ha per gli altri. Soltanto una diffusa economia di mercato consente di rispettare l’imperativo della responsabilità personale.
Ma il mercato produce enormi disuguaglianze, non solo perché alcuni lavorano e consumano di più, ma più ancora perché alcuni sono più bravi di altri a produrre cose che vengono apprezzate, e alcuni sono più fortunati di altri negli investimenti, nei casi della vita e nella salute. Una comunità che ha a cuore in egual misura tutti i cittadini non può semplicemente, dice Dworkin, ignorare le variabili del talento e della fortuna. La ridistribuzione mediante una politica di tasse e spese sembra essere l’unica soluzione per questi problemi, in grado di rispettare il funzionamento del mercato, perché essa interviene dopo che i singoli hanno compiuto le loro scelte, e quindi influenza i prezzi e le scelte meno di quanto farebbe un’economia più guidata (Dworkin 2006; trad. it. 2007, pp. 109 e 112).
L’obiettivo che Dworkin persegue è quello di una eguaglianza non ex post, bensì ex ante. L’eguaglianza ex post è quella che rimette in una situazione di parità i cittadini venutisi a trovare in uno stato di disagio quali che siano state le cause della loro sfortuna (incapacità, scarso impegno, sfortuna, malattie ecc.). Un governo democratico mira invece a una eguaglianza ex ante, cioè fa tutto ciò che è in suo potere per garantire ai singoli una posizione pari a quella degli altri, prevedendo le disavventure che potrebbero renderli disuguali – prevedendo cioè gli eventi o le circostanze che rientrano nell’ambito della buona o della cattiva sorte. Un tale governo può migliorare l’eguaglianza ex ante, per es., facendo in modo che tutti i cittadini abbiano la possibilità di acquistare alle stesse condizioni un’assicurazione che li metta al riparo da una scarsa capacità produttiva (per motivi di salute) o dai rovesci della fortuna (p. 113).
Di qui la simpatia che Dworkin esprime per il movimento fabiano in Gran Bretagna, per il New Deal di Franklin D. Roosevelt in America e per le politiche dei socialdemocratici europei del secondo dopoguerra: essi hanno realizzato programmi ridistributivi, programmi di assistenza sociale, assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e sussidi per i poveri, intesi come vasti progetti di assicurazione contro gli incidenti, le malattie, la disoccupazione e altre forme di cattiva sorte. Le tasse pagate per finanziare questi programmi sono state concepite come premi assicurativi, e i sussidi per le persone malate, disoccupate o comunque bisognose, sono stati concepiti come indennizzi. In questo modo i suddetti movimenti e partiti politici hanno voluto attribuire ai loro programmi i requisiti dell’eguaglianza ex ante, la quale richiede, ovviamente, una tassazione progressiva in rapporto all’ammontare dei patrimoni personali (mentre i conservatori neoliberali richiedono una tassazione sempre minore, appena sufficiente a finanziare l’amministrazione dello Stato e la creazione delle nuove infrastrutture indispensabili).
A livello più propriamente politico-istituzionale, Dworkin distingue fra democrazia maggioritaria e democrazia partecipativa. Secondo la prima, il governo deve essere semplicemente espressione della volontà della maggioranza, cioè della volontà del maggior numero di persone, tramite elezioni a suffragio universale. Ma non c’è alcuna garanzia, dice Dworkin, che la maggioranza prenda le decisioni giuste; essa può prendere decisioni ingiuste nei confronti delle minoranze, ignorarne sistematicamente gli interessi. In questo caso la democrazia è ingiusta, ma non per questo meno democratica (dal punto di vista della regola maggioritaria).
Secondo la visione partecipativa, invece, democrazia significa che ciascuno partecipa al governo come socio a pieno titolo di un’impresa politica collettiva, e che quindi le decisioni della maggioranza sono democratiche solo quando sono soddisfatte alcune condizioni che tutelano lo status e gli interessi di ogni cittadino. Secondo la visione partecipativa, quindi, una comunità che ignori costantemente gli interessi di una minoranza o di un altro gruppo non è democratica, anche se elegge i propri rappresentanti con impeccabili metodi maggioritari (Dworkin 2006; trad. it. 2007, p. 134).
In questo quadro Dworkin svaluta il principio maggioritario per il concreto funzionamento della democrazia. La democrazia maggioritaria, egli dice, si presenta come puramente procedurale e quindi come indipendente da altre dimensioni di moralità politica; essa consente di dire che una decisione è democratica anche se è palesemente ingiusta. Nella concezione partecipativa, invece, la democrazia non è indipendente da una visione globale della moralità politica; per poter decidere se una decisione è o non è democratica si deve fare riferimento a una teoria della partecipazione paritaria, che può essere costruita solo rifacendosi alle idee di giustizia, di eguaglianza e di libertà. Nella concezione partecipativa, dunque, la democrazia è un ideale reale e non puramente procedurale (pp. 136-37). In realtà, dice Dworkin, è un grave errore pensare che il voto di una maggioranza sia sempre il metodo giusto per prendere una decisione collettiva quando i membri di un gruppo si trovano in disaccordo sul da farsi. Forse si può garantire una migliore tutela dell’uguale considerazione per tutti i cittadini inserendo certi diritti individuali nella costituzione, e stabilendo che quest’ultima debba essere interpretata da giudici invece che da rappresentanti eletti, e che possa essere emendata solo da una maggioranza (pp. 141 e 146).
Si potrebbe obiettare a Dworkin che l’inserimento di certi diritti individuali nella carta costituzionale dovrebbe essere deciso pur sempre da una maggioranza, se si vuole rimanere sul terreno della democrazia liberale, e che quindi non si vede come la «democrazia partecipativa» possa allontanarsi dalla regola della maggioranza. Inoltre si avverte in Dworkin, fatta salva la sua giusta opzione per un avanzato sistema di welfare, che è la grande conquista delle socialdemocrazie europee, una assai scarsa considerazione per i meccanismi sociopolitici delle grandi società industriali avanzate, meccanismi che confliggono inevitabilmente con l’essenza della democrazia, e che spesso l’ostacolano gravemente. Si tratta dei grandi ‘paradossi’ della democrazia moderna, evocati da Norberto Bobbio (1909-2004) tanti anni fa, ma ancora attualissimi (Quale socialismo?, 1976). Il primo paradosso è che chiediamo sempre più democrazia in condizioni obiettive sempre più sfavorevoli: nulla è più difficile che far rispettare le regole del gioco democratico nelle grandi organizzazioni (e le organizzazioni diventano, a cominciare da quella statale, sempre più grandi). Un secondo paradosso nasce dal fatto che lo Stato moderno cresce sempre più non solo in dimensioni ma anche in funzioni, ma ogni aumento delle funzioni dello Stato accresce l’apparato burocratico, cioè un apparato a struttura gerarchica e non democratica, a potere discendente e non ascendente. Un terzo paradosso è l’effetto dello sviluppo tecnico, caratteristico delle società industriali. In queste società sono aumentati in misura esponenziale i problemi che richiedono soluzioni tecniche, affidabili solo a competenti (donde il peso crescente dei tecnici, il cui operato si risolve in una sorta di tecnocrazia); la democrazia, invece, si regge sull’idea che tutti possono decidere tutto: per la democrazia tutti i cittadini sono egualmente competenti negli affari politici, e tutti i cittadini sono sovrani. Ma via via che le decisioni diventano più tecniche, la sfera di competenza del cittadino si restringe e, quindi, si restringe la sua sovranità. Un quarto paradosso nasce dal contrasto fra processo democratico e società di massa: la democrazia presuppone il libero e pieno sviluppo dell’individualità, ma l’effetto della massificazione, che caratterizza le grandi società, è il conformismo generalizzato (si pensi al peso dell’industria culturale).
Gli aggiornamenti che devono essere portati a questo quadro mettono in luce non una diminuita, ma un’accresciuta difficoltà del governo democratico. Nella società industriale avanzata, infatti, le arene (oltre che i ruoli) in cui si sviluppa la dinamica sociopolitica e in cui si prendono le decisioni sono – come ha messo in rilievo Domenico Fisichella (n. 1935) – molteplici, pur se tra loro comunicanti: arene governativa, parlamentare, finanziaria, partitica, sindacale, elettorale, culturale, delle comunicazioni di massa ecc. (Fisichella 2005, pp. 121-22). «E il punto – dice Fisichella – è che le decisioni concernenti la res publica nella complessità dei suoi aspetti sono numerose e distribuite nel tempo, che ci sono decisioni assunte in certe arene ma non in altre, che non sempre sono decisive le stesse arene, che esistono fasi e momenti in cui acquistano rilievo certe arene (con riferimento all’andamento degli orientamenti politici e sociali del pubblico, delle relazioni internazionali, dello sviluppo economico) e fasi e momenti nei quali acquisiscono un rilievo altre arene, e i relativi soggetti» (p. 122). Il che significa che la sovranità si frantuma in molte sfere, ciascuna con una logica propria e con processi decisionali propri, di cui il governo democraticamente eletto deve spesso prendere semplicemente atto.
Inoltre – dice ancora Fisichella – bisogna tenere conto del fatto che le condizioni ormai planetarie della concorrenza economica comportano l’esigenza di rilevanti tassi di concentrazione finanziaria e produttiva. Aziende sopranazionali e multinazionali sono divenute perciò un fattore crescente del processo pubblico, con vari esiti possibili in sede politica, sia nazionale sia internazionale. Questo elemento è sufficiente «per dimostrare che un problema di concentrazione potestativa e di oligarchie esiste anche nelle democrazie dei moderni […]» (p. 123).
Tutto ciò non significa, ovviamente, che la democrazia nella società industriale avanzata sia impossibile, ma significa, certo, che essa incontra gravi difficoltà, e che tutte le sue categorie devono essere ripensate profondamente.
Quale europeismo?
In un’appassionata testimonianza, uno dei protagonisti del movimento europeista, Altiero Spinelli (1907-1986), ha affermato che l’ideale federalistico europeo è nato durante gli anni più duri della Seconda guerra mondiale nell’animo di alcuni uomini della Resistenza di vari Paesi d’Europa. Costoro, contemplando la rovina tragica e vergognosa a un tempo dei vecchi Stati e meditando su quel che si sarebbe dovuto fare una volta abbattuto il mostro nazifascista, non si contentarono di progettare restaurazioni democratiche nazionali e riforme sociali ed economiche, ma si posero come impegno di lotta politica la costruzione di una federazione europea. Finita la guerra, la ricostruzione in Europa avrebbe dovuto fondarsi sul ristabilimento dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini di ogni Stato, ma anche su una ricostruzione economica e sociale che mettesse fine alle rovinose autarchie. Se le regole della vita democratica, la politica estera, la politica militare, la politica economica e monetaria fossero ritornate ai singoli Stati in piena autonomia, l’avvenire dell’Europa sarebbe stato la ripetizione esatta del passato. Questi grandi settori della politica sarebbero stati gestiti nell’interesse di tutti i popoli europei solo se essi fossero stati sottratti alla sovranità dei singoli Stati e affidati a istituzioni politiche democratiche comuni, cioè a un governo, a un parlamento e a una corte di giustizia comuni. I cittadini d’Europa sarebbero rimasti cittadini di una nazione, tenuti al rispetto delle leggi nazionali nell’ambito delle materie di competenza degli Stati nazionali; sarebbero divenuti invece cittadini europei, tenuti al rispetto delle leggi europee e dotati di diritti europei, nell’ambito delle materie di competenza federale (A. Spinelli, Europeismo, in Enciclopedia del Novecento, 2° vol., 1977, ad vocem).
Nei decenni successivi a questa testimonianza, ha agito come potente stimolo alla costruzione dell’unità europea la consapevolezza sempre più chiara, acquisita dalle élites politiche e sociali dei vari Paesi d’Europa, che il vecchio continente avrebbe potuto avere ancora un ruolo, in mezzo ai colossi americano e sovietico, solo se esso non si fosse mosso in ordine sparso, ma avesse realizzato un’unione economica e politica.
Non è certo questa la sede per rievocare le tappe essenziali del cammino che ha portato alla realizzazione della CEE, trasformatasi poi in Unione Europea (Trattato di Maastricht, 1992). Ma qui si deve ricordare la svolta epocale del 1° maggio 2004, quando hanno aderito pienamente al progetto europeo i Paesi che per mezzo secolo erano stati al di là della ‘cortina di ferro’, la quale aveva segnato il confine fra l’impero sovietico e l’Europa democratica. Una svolta epocale poiché, dopo la guerra fredda che aveva contrapposto frontalmente i Paesi dell’Europa occidentale a quelli dell’Europa orientale, i nemici di ieri si sono riconosciuti e uniti in un’Europa democratica integrata, la quale, per usare una metafora di Giovanni Paolo II, ha potuto finalmente respirare con i suoi due polmoni, l’Est e l’Ovest. Questo avvenimento è apparso ai sostenitori più entusiasti dell’unità europea come il suo coronamento e il suo suggello. «Dovevamo rendere possibile – ha ricordato l’ex presidente dell’Unione Europea Romano Prodi (n. 1939) – un evento che avrebbe mutato la faccia del continente europeo e inciso profondamente sugli equilibri mondiali, presenti e futuri. Quello che potevamo fare, e che abbiamo fatto, è stato di capire che dovevamo […] dare una risposta forte e proporre un modello – di democrazia, di convivenza, di mercato – a Paesi che dovevano ricostruire tutto. Non potevamo lasciarli indefinitamente in sala d’attesa, perché le loro transizioni sarebbero fallite, o si sarebbero sviluppate in un modo molto diverso da quello da noi auspicato. Aprendo le nostre porte, abbiamo indicato a quei Paesi l’unica via d’uscita da una crisi drammatica. Abbiamo fatto in modo che il nostro modello economico e le nostre regole comuni diventassero il punto di riferimento per l’intero continente europeo» (Prodi 2008, pp. 5-6).
Prodi ha inoltre messo in rilievo i grandi successi economici conseguiti dall’Unione Europea, la quale «rappresenta oggi la prima potenza economica mondiale, dotata del mercato più grande e di una moneta che si afferma ogni giorno di più come punto di riferimento degli scambi globali. In termini pratici ciò significa che le regole dell’economia mondiale – dai negoziati in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, ai sistemi di stabilizzazione monetaria, al grande dibattito energetico – non potranno definirsi senza il contributo determinante di questa nuova Unione allargata» (p. 14).
E tuttavia, nonostante questi grandi successi, è sempre più diffusa la consapevolezza che l’Unione Europea – e l’ideale europeistico che l’ha ispirata – attraversa una crisi di notevoli proporzioni. Il doppio ‘no’ franco-olandese alla Costituzione europea ha segnato una drastica battuta d’arresto nella costruzione dell’Europa unita, la quale si configura oggi come un’entità essenzialmente economico-monetaria, non politica.
Si manifestano qui tutti i limiti (per ora insuperabili) dell’Unione Europea, limiti che gli europeisti più entusiasti hanno sottovalutato. L’Unione Europea, infatti, è un ordinamento che prevede sì, in molte materie, il primato della legge comunitaria sulle leggi nazionali dei singoli Stati, ma la fonte di questo primato è tuttora la volontà degli Stati membri (Panebianco 2004, p. 285). L’Unione potrà forse avere in futuro uno sviluppo in direzione federale, ma i governi nazionali conservano tuttora in essa un ruolo strategico, e continuano a riservarsi l’ultima parola in alcune materie-chiave in cui tradizionalmente si esercita il potere degli Stati: tassazione, difesa, politica estera. Sicché si può dire che l’Unione resta oggi, essenzialmente, un’arena di competizione e di composizione di interessi nazionali (pp. 285-86). Né, forse, può essere diversamente, poiché i governi dei singoli Stati vengono eletti sulle basi di programmi e di politiche in fatto di tassazione, di servizi, di welfare, di infrastrutture ecc.: tutti settori, questi, che non possono essere devoluti a una autorità sopranazionale. Ha osservato a questo proposito Ralf Dahrendorf (n. 1929): «Spesso si parla con troppa leggerezza della fine dello Stato nazionale. In realtà, le politiche decisive per le chances di vita dei singoli sono oggi come ieri politiche di Stati nazionali» (Dahrendorf 2003; trad. it. 2003, p. 113). Gli ideali europeistici incontrano qui un ostacolo probabilmente insuperabile.
A ciò bisogna aggiungere che lo stesso allargamento dell’Unione Europea a est, e la prospettiva (per ora remota, ma non da escludersi) di un suo ulteriore allargamento a Paesi come la Turchia, hanno suscitato in alcuni settori della coscienza europea dubbi di vasta portata. In Francia, in particolare, uno studioso di spicco, Pierre Manent (n. 1949; uno degli animatori della rivista «Commentaire», che raccoglie i discepoli e i seguaci di Raymond Aron) ha posto interrogativi radicali. Fra la democrazia e la nazione – ha osservato Manent – c’è stato in passato un legame inscindibile, poiché la democrazia quale noi la concepiamo si è realizzata nel quadro nazionale. Il 19° sec. è stato a un tempo il secolo della fioritura democratica e il secolo delle nazionalità. Da un lato, la democrazia è stata un moltiplicatore di forza per le nazioni europee, la cui straordinaria energia si è manifestata nelle conquiste coloniali, e nella intensità e nella durata della Grande guerra. Dall’altro lato, in senso inverso ma con lo stesso effetto ‘realizzatore’ e ‘moltiplicatore’, la dimensione nazionale ha dato un contenuto concreto, ‘carnale’, all’astrazione democratica della sovranità del popolo e della volontà generale (Manent 2007, p. 170). Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’affievolirsi del sentimento della nazione, il principio democratico sembra aver perduto il proprio strumento, il proprio veicolo, il proprio ‘corpo’. O è forse l’Europa il quadro politico nuovo all’interno del quale può operare con rinnovato vigore il principio democratico? In realtà, dice Manent, pesa sulla costruzione europea una grave ambiguità, che rischia di diventare paralizzante. Oggi infatti non sappiamo se l’Europa significhi la depoliticizzazione della vita dei popoli, cioè la riduzione sempre più metodica della loro esistenza collettiva alle attività della società civile, oppure se significhi la costruzione di un corpo politico nuovo, di una grande, di una enorme nazione. Che prevalga il primo corno del dilemma, è stato dimostrato, secondo Manent, dalla guerra nella ex Jugoslavia, che ha messo a nudo la vacuità politica dell’Europa. Il rifiuto dell’Europa di prendere sul serio la questione del territorio e della popolazione come questione politica, ha trovato il suo pendant, e la sua nemesi, nell’altra Europa, in cui i fanatici della pulizia etnica hanno cercato, con furore e ferocia criminali, di far coincidere popolazione e territorio. L’Europa non comprende che, se essa vuole pensare e agire politicamente, deve prima di tutto pensare e volere un certo ordine territoriale, che non può essere un corpo senza limiti (pp. 173-74 e 179-80).
Sembra a Manent che oggi in Europa ci siano tre diversi modi di concepire l’unità europea, ciascuno dei quali con gravi insufficienze, talché nessuno di essi è riuscito a imporsi. La prima prospettiva è quella universalista pura, favorevole all’estensione indefinita dell’Unione Europea, vista come primo passo verso l’unificazione dell’umanità (questa concezione è sostenuta da ampi gruppi cristiani). La seconda prospettiva è del tutto differente: è la prospettiva inglese, o, se si preferisce, una generalizzazione della prospettiva inglese. Essa prevede la diffusione degli istituti e dei costumi anglosassoni (ivi compresa la lingua inglese, la corporate governance ecc.), con la conservazione degli Stati europei così come essi sono. La terza prospettiva è quella federalista, che postula la costruzione di un corpo politico europeo distinto dalle antiche nazioni che lo compongono, distinto dallo spazio che sta al di là dell’Atlantico, distinto nell’ambito del mercato mondiale. Quali sono i confini di questo corpo politico? Sono i confini culturali europei, rispondono i sostenitori di questa prospettiva (contrari a un allargamento indefinito dell’Europa). Ma quali sono questi confini culturali? Qui i pareri divergono, e la discussione non trova una sua conclusione convincente. C’è una crisi, dunque, secondo Manent, dell’idea stessa d’Europa, la quale non ha più una immagine largamente accettata dalla coscienza europea (pp. 206-14).
Bibliografia
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