morte
Dal punto di vista biologico, la m. si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazioni tra organi e funzioni. Nella riflessione filosofica il tema della m. è stato affrontato spesso nel quadro di una concezione dualistica dell’uomo basata sulla distinzione tra corpo (mortale) e anima (immortale). Frequenti sono stati altresì i tentativi di concettualizzare la m. come momento o fase di un ciclo cosmico di dissoluzione e rigenerazione. Il significato esistenziale della m. come ‘situazione-limite’, come ‘possibilità ultima’ che sovrasta e condiziona l’essere è stato invece tematizzato dalle correnti esistenzialistiche della filosofia contemporanea, in partic. da Heidegger.
Intesa come ritorno o risoluzione dell’individuo nell’universale o nell’indifferenziato, la m. costituisce un tema ricorrente della riflessione filosofica sin dall’antichità. Così il frammento di Anassimandro affronta il problema del nascere e del morire delle cose: le cose si sviluppano e poi si dissolvono, vengono al mondo e poi finiscono, ritornando nel principio primordiale da cui hanno avuto origine. Uno sviluppo ciclico delle cose, dall’unità originaria alla disgregazione nella molteplicità, al ritorno all’uno, è postulato anche da Empedocle e dalle varie concezioni cosmologiche secondo cui nascita e m. non sono che fasi di un incessante aggregarsi e disgregarsi di elementi. Così Leibniz postula una perenne metamorfosi organica che rende relativa e non più assoluta la distinzione tra vivo e morto, assimilando nascita e m. a processi di incessante composizione e scomposizione delle sostanze. L’idea della m. come ritorno dell’individuo alla natura è presente in Schopenhauer, mentre Hegel concettualizza la m. come fine del ciclo dell’esistenza individuale, intendendola però non come ritorno alla natura, bensì come passaggio dalla natura biologica alla esistenza spirituale, dalla Natura allo Spirito. L’idea della m. come inizio di un ciclo di vita, come liberazione dell’anima dai vincoli del mondo sensibile, ossia dal corpo, e come rinascita a una nuova vita nell’aldilà è alla base delle dottrine filosofiche che postulano l’immortalità dell’anima. Così Platone, nel Fedone (➔), richiamandosi all’orfismo e alla sua nozione di metempsicosi, cerca di dimostrare la sopravvivenza dell’anima dopo la morte: l’anima è ciò che dà vita al corpo e partecipa quindi in maniera essenziale all’idea di vita. Ma la vita, come idea, rappresenta l’opposto della m., non è dunque possibile che l’idea di vita, cioè l’anima, possa morire. Un concetto analogo si ritrova in tutte le dottrine che considerano la vita dell’uomo sulla Terra come preparazione o avvicinamento a un’altra vita, tipicamente nella teologia cristiana.
In quanto cessazione della vita, la m. è a rigore un fenomeno privo di un rapporto specifico con l’esistenza umana, nel senso che, come osservava Epicuro, «quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando c’è la morte, noi non ci siamo» (Lettera a Meneceo, 125). Essa è «un nulla per noi, e non ci tocca per nulla» (Lucrezio, De rerum natura, III), o come afferma Wittgenstein: «La morte non è un evento della vita: non si vive la morte» (Tractatus, 6.4311). Tuttavia, se è vero che la m. si colloca al di là dell’esperibile, essa resta presente nell’orizzonte della vita umana e assume un fondamentale significato esistenziale come necessità negativa, come «possibilità dell’impossibilità dell’esserci» (Heidegger). Questa idea è adombrata già nella concezione biblica della m. come punizione del peccato originale, e quindi come limitazione fondamentale che la vita umana ha subito a partire da Adamo. Da questo punto di vista la m. non è un evento particolare che segna l’inizio o il termine di un ciclo di vita, bensì una possibilità sempre presente nell’esistenza umana, una condizione che accompagna tutti i momenti di quest’ultima. In questo senso Jaspers definisce la morte come una «situazione-limite» – una situazione decisiva, essenziale, associata alla natura umana come tale e inevitabilmente data con l’essere finito. Da queste determinazioni concettuali prende le mosse l’analisi della m. sviluppata da Heidegger. La m., sostiene Heidegger, non è meramente il venir meno di una presenza, ma è la possibilità ultima che l’esserci (Dasein) assume da quando nasce, quella «imminenza» che sovrasta la sua vita e coinvolge totalmente il suo essere. L’idea epicurea secondo cui l’individuo non può esperire la propria m. riguarda la m. come fenomeno fisiologico, o come evento empirico. Ma l’uomo si rapporta già sempre alla propria fine non come a un fatto, ma come a una possibilità, come «possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci». Per questo «ogni esserci deve assumere la propria morte»; l’esserci esiste sempre come un essere in vista della propria fine, come un «essere-per-la-morte». La m. resta pertanto la «possibilità più propria, incondizionata, insuperabile» e certa, per quanto indeterminabile rispetto al suo ‘quando’. Ma precorrendo la m. come possibilità più propria, l’uomo assume sé stesso come perenne poter essere, si rende responsabile a fronte delle possibilità finite della sua esistenza. Precorrere la m. significa mantenersi costantemente nell’imminenza della m. come possibilità in senso radicale. In tale situazione di vicinanza alla m. l’esserci si apre alla comprensione delle concrete possibilità situate ‘al di qua’ di quella insuperabile, per sceglierle responsabilmente come possibilità finite.
Complessi problemi, affrontati dalla bioetica, pone la definizione del criterio di m. a seguito dei progressi della medicina e delle nuove pratiche di rianimazione. Nel 1968 un autorevole comitato di medici dell’univ. di Harvard propose di abbandonare la tradizionale definizione cardiorespiratoria e di considerare la m. cerebrale, ossia la cessazione definitiva delle funzioni di tutto l’encefalo, come il nuovo criterio di morte. Se è vero che la m. cerebrale non è un fatto ‘naturale’, nel senso che non si determina se non attraverso l’intervento dell’uomo (in questo senso ha una componente artificiale), anche la decisione di identificare la m. con l’arresto cardiocircolatorio irreversibile è in qualche modo arbitraria: infatti determinate attività biologiche continuano a svolgersi nel cadavere per diversi giorni e la vita non si spegne del tutto se non al compiersi del processo putrefattivo. In questo senso ogni definizione di m. socialmente accettabile ha in sé un aspetto pratico-valutativo. Riprendendo un’affermazione di John Lachs, si può dire che «la morte è un costrutto morale con una base biologica». D’altro canto, i sostenitori del criterio della m. cerebrale si distinguono per il tipo di motivazione addotta: secondo i fautori della cosiddetta teoria della m. del tronco encefalico (brainstem death), la m. cerebrale si identifica con la m. dell’individuo, in quanto il cervello è il centro integratore dell’intero organismo e la sua distruzione rappresenta la definitiva perdita della capacità dell’organismo di funzionare come un tutto. La posizione alternativa, nota come teoria della m. corticale, argomenta invece che il ‘nocciolo’ della m. è l’irreversibile perdita della capacità di coscienza e il locus specifico della m. è la corteccia cerebrale. La perdita irreversibile della coscienza equivarrebbe alla m. dell’individuo, anche se l’organismo (di quell’individuo) può essere considerato vivente. Il problema della definizione/ridefinizione della m. assume sotto questo profilo una dimensione fondamentalmente etica: si tratta di decidere se ciò che realmente conta sia il livello fisiologico oppure il livello psicologico dell’uomo, se l’essenza della m. cerebrale sia la perdita del sistema critico o del funzionamento integrato dell’organismo, oppure la perdita irreversibile e completa di ciò che caratterizza l’uomo come tale, cioè la capacità di coscienza. Alla tesi della m. corticale si è obiettato che vi sono attualmente considerevoli difficoltà teoriche ed empiriche a diagnosticare con certezza la perdita completa e definitiva della capacità di coscienza. In effetti, notevoli sono ancor oggi le incertezze sulla precisa localizzazione corticale delle funzioni mentali; la coscienza non può essere considerata funzione di un centro nervoso ben definito. Inoltre, si argomenta, una volta abbandonato il terreno biologico, non sarebbe difficile estendere il concetto di morte dallo stato vegetativo persistente (in cui l’assenza delle funzioni mentali è completa) ad altri stati psicologici anormali, quali la demenza avanzata o il ritardo mentale profondo. Gli argomenti pro e contro il concetto di m. corticale indicano l’esistenza di un dibattito vivace che non può considerarsi concluso. Sembra comunque che, allo stato attuale delle conoscenze, tale concetto non sia introducibile nella pratica, sia perché non si è per ora raggiunto un ampio consenso su di esso, sia perché vi sono notevoli problemi di accertamento diagnostico. Tali problemi sono stati invece completamente risolti per quanto riguarda il concetto di m. cerebrale ‘totale’, ed è questa una delle ragioni principali del suo successo nella prassi medica.