morte
Il vocabolo designa propriamente il termine della vita corporale, il cessare di ogni attività fisica, e, in senso traslato, il passaggio dalla gioia al dolore, dalla virtù al vizio, e simili, o anche lo stato di dolore o di vizio. La locuzione ‛ seconda m. ' designa la dannazione eterna che segue al giudizio finale.
La definizione di m. presso gli antichi autori insiste sul concetto della separazione dell'anima dal corpo, o anche della loro contemporanea estinzione. Secondo Cicerone, infatti, " sunt... qui discessum animi a corpore putent esse mortem; sunt qui nullum censeant fieri discessum, sed una animum et corpus occidere, animumque in corpore extingui " (Tusc. I IX 18; cfr. If X 15). Ma gli scrittori ecclesiastici, se ritengono il valore fondamentale di separazione dell'anima e del corpo (Tertulliano Liber de anima LI 736, Patrol. Lat. II 782 " Opus... mortis... discretio corporis et animae "; s. Agostino Enarratio in Ps. 48 II 2, Patrol. Lat. XXXVI 556 " Mors... separatio est animae a corpore "), ne indicano la causa nel peccato di Adamo sulla base dell'insegnamento della Bibbia (cfr. Gen. 3, 19 " In sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in terram de qua sumptus es; quia pulvis es, et in pulverem reverteris "; Paul. ad Rom. 5, 12 " Propterea sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransiit, in quo omnes peccaverunt "). E poiché per analogia l'Apocalisse chiama " mors secunda " la dannazione eterna, conseguente al peccato individuale (2, 11 " Qui vicerit non laedetur a morte secunda "; 20, 6 " in his secunda mors non habet potestatem ", e 14 " Et infernus et mors missi sunt in stagnum ignis. Haec est mors secunda "; 21, 8 " Timidis autem et incredulis et exsecratis et homicidis et fornicatoribus et veneficis et idolatris et omnibus mendacibus, pars illorum erit in stagno ardenti igne et sulphure: quod est mors secunda "), i padri parlano di " prima mors " per la m. del corpo e di " secunda mors " per la condanna alla pena eterna: cfr. Lattanzio Divin. Inst. II XIII, Patrol. Lat. VI 321A " Primam [mortem] sic definimus: Mors est naturae animantium dissolutio, vel ita: Mors est corporis animaeque seductio. Secundam vero sic: Mors est aeterni doloris perpessio; vel ita: Mors est animarum pro meritis ad aeterna supplicia damnatio ", e VII X, 769A " sicuti duae vitae praepositae sunt homini, quarum altera est animae, altera corporis: ita et mortes duae propositae sunt, una pertinens ad corpus, quae cunctos secundum naturam fungi necesse est, altera pertinens ad animam, quae scelere acquiritur, virtute vitatur "; s. Agostino Sermo 344 4, Patrol. Lat. XXXIX 1514 " vide duas mortes, unam temporalem, eandemque primam; alteram sempiternam, et eandem secundam. Prima mors omnibus praeparata est: secunda solis malis, impiis, infidelibus, blasphemis, et quidquid aliud sanae doctrinae adversatur... Nam prima mors spoliatura est te carne, interim seponenda, et suo tempore recipienda... ‛ et procedent qui bona fecerunt in resurrectionem vitae, qui vero mala egerunt in resurrectionem iudicii ' (Ioan. 5, 29). Hoc iudicium [v. GIUDICIO] ad quod subeundum resurgent impii, mors secunda appellatur... A diabolo te redimi oportet, qui te secum ad secundam mortem trahit, ubi audient impii ad sinistram positi, ‛ Ite, maledicti, in ignem aeternum ' (Matth. 25, 41). Ab ista secunda morte oportet ut redimas "; cfr. ancora Civ. XIII XXII 1, Trin. IV III 5, Contra secundi luliani Responsionem imperfectum opus II LXVI, Patrol. Lat. XLV 1170 e VI XXXI, 1584 (con esplicito riferimento all'uso di " mors secunda " in Apocalisse).
1. In senso proprio, m. denota la fine di ogni attività in generale, ed è propria di ogni creatura contingente: cfr. Pd XVI 79 Le vostre cose tutte hanno lor morte, / sì come voi. La m. è privazione (v.) della vita: Cv IV VIII 13 lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere, e 14 E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto de l'abito, e le pietre non sono subietto di vita, perché non ‛ morte ', ma ‛ non vivere ' dicere si deono.
Già s. Agostino (Hypomnesticon contra Pelagianos et Coelestianos IV 5, Patrol. Lat. XLV 1616) aveva considerato la m. come privazione: " Mors privatio vitae est, nomen tantum habens, non essentiam: et ideo Deus eius auctor dici non potest. Quidquid enim Deum fecisse dicimus, habet essentiam, id est, species est... Mors ergo nihil est nisi nomen recedente vita: sicuti fames, escarum defectus; sitis, egentia potus; tenebrae, absentia lucis ", e aveva aggiunto (XLV 1617): " Mors et infernus in diaboli persona dicta intelliguntur, quia per ipsam delinquenti homini accidit mors, id est privatio vitae; et per ipsum peccatores convertuntur in infernum, tanquam in eius carcerem, ubi damnatus est ipse ". Ma la dimensione metafisica del discorso di Agostino è assente dal discorso di D., che si svolge, secondo le indicazioni di Aristotele (in partic. Metaph. V 22, 1022b 33), su di un piano puramente linguistico.
Ma poiché la m. è il termine o la fine dell'attività vitale, la vita è intesa come un ‛ correre ' alla m.: Pg XXXIII 54 vivi / del viver ch'è un correre a la morte (cfr. s. Agostino Sermo 108 III 3, Patrol. Lat. XXXVIII 634 " Ipsum autem diu vivere quid est nisi ad finem currere? ", e s. Bernardo In ps. ‛ Qui habitat ' sermo XVII 1, Patrol. Lat. CLXXXIII 250 " Haec enim vita, qua vivimus, magis mors est; nec simpliciter vita, sed vita mortalis. Moritur homo, dicimus, quando morti certissime iam appropinquat. Quid vero agimus ex quo primum incipimus vivere, nisi morti appropinquare, et incipere mori? ").
Riferito all'uomo, il termine designa la morte del corpo (Cv II VIII 12), cioè il momento in cui l'anima si separa da esso. La m. può aver luogo ‛ naturalmente ', cioè in seguito al naturale processo di consunzione del corpo, e, se sopraggiunge in età avanzata, è accolta con serenità; oppure ha luogo ‛ violentemente ', per brusca interruzione del corso della vita; cfr. Tertulliano op. cit. LII 738, 783 " Hoc igitur opus mortis, separationem carnis atque animae, seposita quaestione fatorum et fortuitorum, bifariam distinxit humanus affectus, in ordinariam et extraordinariam formam: ordinariam quidem naturae deputans placidae cuiusque mortis; extraordinariam vero praeter naturam iudicans violenti cuiusque finis ". Così D. parla di naturale morte... quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo (Cv IV XXVIII 3; cfr. Cic. Senect. XIX 70 " aliquandoque in portum ex longa navigatione esse venturus "), aggiungendo: in essa cotale morte non è dolore né alcuna acerbitate... Onde Aristotile in quello De luventute et Senectute dice che " sanza tristizia è la morte ch'è ne la vecchiezza " (5 4; cfr. Iuv. et senect. 14, 479a 20, e F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 64-65). Accanto a questa morte pone però la morte per forza (If XI 34), o ‛ morte violenta ' (XXIX 31; morte... violenta, o vero per accidentale infertade affrettata, Cv IV XXIII 8). A quest'ultima specie di m. si riferiscono molte occorrenze della Commedia: If V 106 Amor condusse noi [Francesca e Paolo] ad una morte (alla stessa m.: cfr. Pd VII 47), e XII 18; XVIII 90 tutti li maschi loro a morte dienno; XXXIII 20 la morte mia [di Ugolino] fu cruda; Pg I 74 non ti fu per lei [la libertà] amara / in Utica la morte, e VI 14; VII 32 i pargoli innocenti / dai denti morsi de la morte, e XV 109; Pd VI 78 [Cleopatra] dal colubro / la morte prese subitana e atra; cfr. ancora If XIX 51, dove si ricorda che il condannato richiama il frate al fine di allontanare la m. per soffocamento.
Sempre nell'accezione fondamentale di " termine della vita fisica ", il vocabolo occorre con riferimento alla m. di Cristo (Vn XXII 1 sì come piacque al glorioso sire lo quale non negoe la morte a sé, e Cv IV XXIII 11) che, a diverso titolo, fu gradita a Dio e ai crocifissori (Pd VII 47 ch'a Dio e a' Giudei piacque una morte) e che ha procurato agli uomini il riscatto e la possibilità della vita eterna (XXVI 59 la morte ch'el sostenne perch'io viva).
Designa ancora la m. del corpo tutte le volte che ci si riferisce al viaggio di D. nell'oltretomba, non compiuto in seguito a m. (come invece è per le anime che il poeta incontra e il cui numero suscita la sua meraviglia: If III 57 sì lunga tratta / di gente, ch'i' non averei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta): egli attraversa l'aldilà sanza morte (VIII 84; cfr. XXVIII 46 Né morte 'l giunse ancor), prima che morte li abbia dato il volo (Pg XIV 2), con quella fascia [il corpo] / che la morte dissolve (XVI 38), non ancora preda della m. (XXVI 24 come tu non fossi ancora / di morte intrato dentro da la rete), prima che morte tempo li prescriba (Pd XXIV 6). Ma lungo il suo viaggio, capita a D. di temere per la propria vita (If XXXI 109 Allor temett'io più che mai la morte).
Alla m. del corpo si riferisce ancora il poeta quando considera l'esito dello struggimento d'amore. Ma in questi casi sono connotate con forza le pene che si accompagnano alla m., grazie all'impiego di aggettivi adeguati, sicché l'approssimarsi o la vicinanza della m. indica anche, in senso traslato, lo stato di dolore dell'innamorato. Talora è propriamente l'amore causa della m. che minaccia il poeta: così in Rime LXVI 10 la morte, che non ho servita [meritata], / molto più m'entra ne lo core amara (cfr. Pg I 73-74, citato); Rime LXVII 68 lo spirito maggior tremò sì forte, / che parve ben che morte / per lui in questo mondo giunta fosse; LXVIII 2 Lo doloroso amor che mi conduce / a fin di morte, e LXXXVIII 7 se la vertù d'Amore a morte move; l'occorrenza di CIII 31 la morte, che ogni senso / co li denti d'Amor già mi manduca, è spiegata ai vv. 33-34, dove si afferma che amore corrode o logora la specifica virtù dei sensi (Maggini) o l'intelletto (Contini), in modo da invalidarne l'operazione: ci si riferisce quindi all'incapacità di servirsi delle proprie facoltà quando si è dominati dalla passione amorosa. Ma altre volte s'indica la donna come causa di m.: LXVII 91 'nnanzi a voi perdono / la morte mia a quella bella cosa; LXVIII 13 'l viver mio (omai esser de' poco) / fin a la morte mia sospira e dice: / " Per quella moro c'ha nome Beatrice ", e 43; XC 57 costei / per giovanezza mi conduca a morte; CII 24 ella [la donna, petra] non mi meni col suo freddo / colà dov'io sarò di morte freddo (cfr. Pg XX 129 mi prese un gelo / qual prender suol colui ch'a morte vada, Pd XIII 15 sentì di morte il gelo, e Rime C 71-72 Saranne quello ch'è d'un uom di marmo, / se in pargoletta fia per core, un marmo); Rime dubbie V 31 per lei dolorosa morte faccio. Altre volte ancora sono gli occhi della donna (Rime LXXXIX 4: gli occhi della pargoletta hanno condotto il poeta al punto che non s'aspetta / per me se non la morte, che m'è dura [cfr. Rime dubbie III 3 2 la morte m'è dura]; Rime CXVI 66 merzé del fiero lume / che sfolgorando fa via a la morte), o la bellezza di lei (CIII 56 poi non mi sarebb'atra / la morte, ov'io per sua bellezza corro: per m. atra, cfr. Pd VI 18, citato). In Vn XV 6 14 li occhi, c'hanno di lor morte voglia, il termine indica non l'atto del morire, ma ciò che fa morire gli occhi, cioè la donna che li offusca con la sua bellezza, mentre in Rime dubbie II 9 si afferma che la m. strugge gli occhi del poeta privati della possibilità di vedere la donna amata (perché non posson veder lei, / li strugge Morte con tanta paura, / c'hanno fatto ghirlanda di martiri).
Dunque la m. incombente è temuta, e mette in angoscia l'animo innamorato (Rime LXVII 13 la morte mia, che tanto mi dispiace). Però l'amore per la donna può spingere anche ad affrontare con gioia i tormenti più atroci e la m.: XCI 37 la morte / face piacer, per ben servire altrui; C 65 se 'l martiro è dolce, / la morte de' passare ogni altro dolce (Barbi-Pernicone, per l'opposizione martirio-dolcezza, richiamano XCI 19 [gli occhi della donna amata] portan dolce ovunque io sento amaro, e 77 tanto Amor m'avvezza / con un martiro e con una dolcezza). In Vn XXIII 9 Dolcissima Morte, e 27 73 Morte, assai dolce ti tegno, la m. è pregiata perché è già stata nella donna amata. Sono legate ancora al tema della m. per amore le occorrenze di Rime dubbie X 9, XI 9, XII 11, XV 7 e XXVIII 10. In Rime CIV 87 è il desiderio della patria che conduce a m. Dante.
Nelle occorrenze ora esaminate i due valori di " m. fisica " e di " stato di dolore " sono compresenti e conferiscono intensità alla composizione poetica. Ma in altre occorrenze il termine è usato in senso traslato. In Rime L 39 la delusione per il soccorso negato è così grave che morte n'ha più tosto e più amara, " sicché la rovina viene più presto e con più dolore " (Barbi-Maggini); in CVI 26 O Deo, qual maraviglia / voler cadere in servo di signore, / o ver di vita in morte, D. esprime la meraviglia di fronte all'uomo che respinge la virtù che lo fa signore e s'induce a vivere da servo, passando così dalla vita della virtù alla morte del vizio. A questa occorrenza va accostata quella di Cv II XV 4 Veramente in voi [occhi della Filosofia] è la salute, per la quale si fa beato chi vi guarda, e salvo da la morte de la ignoranza e da li vizii, dove ‛ m. dell'ignoranza ' è lo stato dell'uomo che, non usando la ragione, vive come bestia. In If XIII 66 morte comune e de le corti vizio si riferisce all'invidia, rovina di tutti gli uomini e vizio particolarmente frequente nelle corti, mentre in XXVIII 109 morte di tua schiatta indica la rovina della famiglia dei Lamberti.
Tuttavia senso proprio e senso traslato sono compresenti ed entrambi ineliminabili ancora in If I 7 Tant'è amara che poco è più morte, e II 107 non vedi tu la morte che 'l combatte. Nel primo caso la lettera del testo indica che l'amarezza della selva è vicina a quella della m., di modo che la m. del corpo è termine di paragone (analogamente a quanto si può notare in Pd XI 59 a cui [Povertà], come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra), ma a una lettura in chiave simbolica viene in primo piano il riferimento alla dannazione, alla quale conduce il peccato; il secondo caso di ricollega direttamente al contesto del primo e designa il pericolo della m. rappresentato dalle fiere presenti nella selva e, simbolicamente, il pericolo della dannazione.
Il termine ricorre spesso, particolarmente in poesia, a indicare la personificazione della m. secondo lo stesso procedimento applicato per Amore, Fortuna, ecc.; così in Vn VIII 5 3, 8 1 (anticipato al § 3) e 12, XXIII 9, 11 e 17 3, XXXIII 6 1 e 7 3, XXXI 8 5; Rime CIII 51, CIV 87, CVI 38 e 90, oltre che nei luoghi già citati (Vn XXIII 9 [seconda occorrenza] e 27 3; Rime LXVIII 43, Rime dubbie II 9 e X 9).
Molte sono le locuzioni nelle quali entra il termine. Di esse alcune hanno prevalente riferimento cronologico: anzi la morte (Pg XVI 43, Pd XXV 41), ‛ appresso la m. ' (Cv IV III 6, Vn IX 1), ‛ dopo la m ' (Vn XXXVII 2, Rime LXXXIII 23), ne la morte di (‛ in occasione della m. ': Cv II XII 3, XIII 22). Ma si vedano le altre locuzioni: ‛ andare a m. ' (Pg XX 129), ‛ cadere in m. ' (Rime CVI 26), ‛ chiamare la m. ' (Vn XXIII 9, 11 e 17 3, XXXIII 6 1 e 7 3), ‛ condurre a m. ' (Rime LXVIII 2, XC 57, Rime dubbie XXVIII 10; cfr. If V 106), ‛ correre a m. ' (Cv IV I 10; cfr. II VIII 12), ‛ intendere alla m. ' (IV XIII 13), ‛ menare a m. ' (Vn XXXI 8 5, Rime dubbie XV 7), ‛ mettere a m. ' (Fiore CLXI 11), ‛ muovere a m. ' (Rime LXXXVIII 7), ‛ pensare alla m. ' (Vn XXXI 13 4), ‛ ragionare di m. ' (XXIII 20 2), ‛ ricevere m. ' (Fiore XXXII 4, CCV 7).
Il termine ricorre ancora in Vn VIII 2, XV 6 6, XXXVII 8 12, XXXIX 10 6; Cv I XI 8, II VII 7, XIII 22 (prima occorrenza), IV Le dolci rime 124, V 14 (Torquato, giudicatore del suo figliolo a morte per amore del publico bene); Pg XXVII 38, XXXI 53, Pd XX 51, Fiore CXI 11, CLXI 8.
2. L'occorrenza di If I 117 vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch'a la seconda morte ciascun grida, ha posto agl'interpreti vari problemi. Tralasciando qui la discussione della lezione che la (per cui cfr. Petrocchi, ad l.) e del valore di ‛ gridare ' (v.), ci si limita a precisare il senso dell'espressione seconda morte anche in relazione a due altri versi dell'Inferno (III 46 e XIII 118), nonché a Pg XXVII 21 e a Cv III VII 15.
Secondo l'interpretazione più diffusa, che risale a Graziolo, tutti i dannati invocano la morte dell'anima, che per essi, già morti nel corpo, sarebbe l'annullamento dell'essere, e quindi la fine dei tormenti; cfr., p. es., Giordano da Pisa Prediche inedite (a c. di V. Narducci, Bologna 1867, 316): " però e' chiamano la morte continovamente, e non la possono trovare... disiderano continovamente di tornare in nulla... se essere potesse " (Apoc. 9, 6 " Desiderabunt mori, et fugiet mors ab eis ").
Sennonché seconda morte era, nel linguaggio religioso, una formula tradizionale, designante non già la m. dell'anima (che sarebbe, comunque, cosa ben diversa dall'annichilamento: cfr. Agost. Civ. XIII 2 " Mors... animae fit, cum eam deserit Deus, sicut corporis, cum id deserit anima "), ma la dannazione eterna: e con questo senso la troviamo, oltre che in s. Francesco (Laudes creaturarum 30-31 " Beati quilli ke se trovarà nelle tue sanctissime voluntati / ka la morte secunda nol farrà male "), in D. stesso (Ep VI 5 Vos autem... nonne terror secundae mortis exagitat...?). Deve trattarsi dunque, come ha notato il Mattalia, di " questione diversa " dal presunto desiderio di annichilamento.
Per il Paratore si tratterebbe di " uno dei tanti esempi d'ingegnosa variatio semantica di cui abbonda la Divina Commedia " (cfr. Pd XX 116, dove " la ‛ morte seconda ' significa invece la seconda volta che Traiano morì dopo la sua miracolosa resurrezione "). Altri hanno inteso per la seconda morte la condizione presente dei dannati, morti, oltre che fisicamente, anche spiritualmente, poiché hanno perduto il ben de l'intelletto (If III 18); e in tal caso grida dovrebbe significare " attesta, proclama in grida dolorose " (Torraca), o qualcosa di simile.
Ma a rifiutare anche questa interpretazione ci costringe una più precisa determinazione del " senso tecnico-scritturale " del termine seconda morte, che, come ha definitivamente dimostrato F. Mazzoni, non indica propriamente lo stato presente (temporaneo, " stato di termine ", come dicono i teologi) delle anime d'Inferno (le quali, d'altronde, dopo il giudizio particolare non sono ancora ‛ totalmente ' abbandonate da Dio: cfr. If X 102 cotanto ancor ne splende il sommo duce), bensì la " dannazione eterna conseguente al giudizio universale ": cfr. Guido da Pisa, che così precisa il significato del termine: " ad corporum coniunctionem exclamant "; e il Buti: " Quanto a me pare che l'autore intendesse della dannazione ultima, che sarà al giudicio... la prima morte è la dannazione prima, quando l'anima partita dal corpo è dannata alle pene dello inferno per li suoi peccati. La seconda è quando al giudicio risuscitati, saranno dannati ultimamente l'anima col corpo insieme " (ma si ricordi, per prima morte, i testi citati nei quali sta per la m. del corpo); F. Villani: " Morte. Quae veniet post resurrexionem corporum in die iudicii ". Benissimo il Beccaria: " Nel concetto apocalittico la morte seconda è la estrema condanna, la quale dopo la risurrezione de' corpi, deve nel gran giudizio essere pronunziata di coloro che ora impropriamente son detti dannati, ma che nel vero senso sono dannandi. Ora Dante che da Giovanni prese la locuzione: morte seconda, ne dovette pur prendere il significato apocalittico ". Pertanto è evidente che seconda morte non designa un tormento presente, che i dannati possano attestare gridando.
Sennonché, almeno dal punto di vista della ‛ normale ' umanità, la condizione dei dannati dopo il giudizio universale non sembra affatto preferibile alla presente, per quanto dolorosa questa possa essere. Reintegrati nell'unità di anima e corpo (‛ seconda resurrezione '), tutti insieme gli uomini si presenteranno, nel giorno del giudizio, davanti a Dio, che separerà i buoni dai reprobi (cfr. Matt. 25, 32): quelli saranno totalmente assorti nell'estasi divina (cfr. Pd XIV 43-51), questi saranno totalmente abbandonati nel fuoco infernale, e in ciò consisterà la seconda morte, che, lungi dal metter fine ai loro tormenti, li aggraverà (cfr. If VI 103-111). Soltanto allora premi e castighi assumeranno le loro forme piene, definitive ed eterne.
Stando così le cose, potrebbe sembrar valida l'obiezione di Benvenuto: " Nec dicas sicut aliqui... quod auctor vocet hic secundam mortem diem iudicii; nam damnati talem mortem non vocant, nec optant sibi, quae augebit et duplicabit sibi poenam ".
Ma la ‛ psicologia ' dei dannati danteschi obbedisce a una logica precisamente opposta alla ‛ normale ' psicologia umana. Il loro stato morale " è quello di una piena e perpetua opposizione al vero, al giusto, a Dio ", la quale " ha con sé la punizione " (F. Cipolla): cfr. If III 103-105 Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme / di lor semenza e di lor nascimenti. Ai fini che qui più direttamente c'interessano, basta esaminare le parole con cui Virgilio spiega a D. la cagione dell'ansioso desiderio degli spiriti di esser traghettati oltre l'Acheronte: la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio (vv. 125-126). Dice il Buti: " la paura si volge in desiderio come colui che va alle forche, perché è sforzato, desidera di giugnere tosto, poi che pur ne li conviene, per ispacciarsi tosto ".
Queste medesime considerazioni possono valere anche per l'invocazione - da parte delle genti dolorose / c'hanno perduto il ben de l'intelletto (If III 17-18) - della seconda morte. " E questo ciascun grida - chiosò il Buti - perché ciascun vorrebbe come disperato, che già fosse l'ultima dannazione ". Ancora meglio F. Villani: " Et verba ista conveniunt damnatis... Nam... affectant corporum unionem... ex odio, ut corpora, quorum opera deliquerunt, simul cum animabus suis poenis aeternis crucientur: et nunc invident corporibus suis versis in cinerem, et quod nichil hoc interim patiantur ". Dunque tutti gli spiriti d'Inferno invocano nella seconda morte la condanna piena e definitiva. Ma è possibile vedere ne li antichi spiriti dolenti (I 116) tutti i dannati?
F. Villani, seguito inconsapevolmente da parecchi moderni, vide negli antichi spiriti dolenti i soli limbicoli (" differentiam, ut dices, facit inter desperatos stridores, quos damnat in Herebo, et antiquos spiritus dolentes, quos suspendit in limbo "): così dovette distinguere le ragioni per cui i limbicoli invocherebbero la seconda morte da quelle per cui la invocano gli altri dannati (" illi, qui sunt in limbo, et solam poenam damni sustinent, affectant corporum unionem, gratia perfectionis individui "). Ma la seconda morte non è la resurrezione dei corpi, bensì la condanna finale, che i limbicoli non possono desiderare per nessuna ragione.
Invero D. qui pensa a tutti i dannati in generale. Si tratta, come ha scritto il Pagliaro, delle " figure rappresentative di ciascun peccato, che saranno individuate durante il viaggio ": cfr. If III 16-18 Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c'hanno perduto il ben de l'intelletto. " Non vedrà solo gli antichi - spiegò il Tommaseo -, ma col desiderio de' più onorevole e onorati da Dante, Virgilio lo v'invoglia ".
Quanto al ‛ che ', parrebbe che - come in un luogo simile di Guido Cavalcanti (Li mie' foll'occhi 10-11 " i' trovai gente / che ciascun si doleva d'Amor forte ") - non si tratti di congiunzione modale (Chimenz: " nella condizione che "), ma di vero pronome introducente una proposizione relativa apposizionale. Il verbo è attratto al singolare da ciascun: cfr. Fiore XCVI 1-4 L'undici milia vergini beate / che davanti da Dio fanno lumera, / in roba di color ciaschedun'era / il giorno ch'elle fur martoriate, e CCXIII 12-13 E gli altri, ch'eran tutti lassi e vani, / ciascun si levò suso; e anche Pg VII 77. Simile è il caso di Pg III 29-30 non ti maravigliar più che d'i cieli / che l'uno a l'altro raggio non ingombra (cfr. Compagni Cron. III 27 " I figliuoli di Messer Mosca, che l'uno era arcivescovo... "; Buti, a If III 31 " e dentro dal fiume finge esser nove cerchi, che l'uno è minor che l'altro infino al centro della terra, ove è il minore cerchio "; ecc.).
Non resta che esaminare, in rapporto a If I 117, altri due versi dell'Inferno: III 46 Questi non hanno speranza di morte, / e la lor cieca vita è tanto bassa, / che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte, e XIII 118 Or accorri, accorri, morte!
Quanto al primo verso, esso enuncia un'eccezione alla ‛ legge ' formulata in I 117: se tutti i peccatori invocano, nella seconda morte, il compimento dell'ineluttabile giustizia di Dio, questi [gl'ignavi] non hanno speranza di morte.
" Non possono sperare che la presente vita abbia termine. La morte a cui s'allude, per questi sdegnati dalla giustizia non meno che dalla misericordia, non può essere che la seconda: quella che terrà dietro alla ‛ gran sentenza ' nel giorno del Giudizio. Neppure allora muterà la sorte di costoro! Non andranno coi reprobi, come non saranno accolti fra gli eletti " (Flamini). Essi sono privati della speranza nella dannazione definitiva come di ogni altra speranza; la loro pena consiste appunto, principalmente, nell'inquietudine più angosciosa e più disperata. Il loro è uno ‛ stato di termine ' senza termine. Da vivi, essi mai non fur vivi; cioè vissero come bruti, sanza 'nfamia e sanza lodo, e non da uomini, seguendo virtute e canoscenza: così, da morti, non possono neppure sperare di morire pienamente e definitivamente: questa stessa speranza sarebbe una distrazione e una consolazione immeritata al correre turbinoso, ininterrotto e vano che è proprio del loro misero modo, tale da renderli 'nvidiosi d'ogne altra sorte.
Quanto a If XIII 118, c'è da chiarire, anzitutto, se Lano sia condannato da D. come scialacquatore o come scialacquatore-suicida. Questa seconda ipotesi fu accettata da molti antichi commentatori, secondo i quali, nella battaglia della Pieve dal Toppo fra Aretini e Senesi (1287), Lano, che era senese, cercò la morte gettandosi tra i nemici.
Ma, come notò il Sanesi, " le parole [vv. 120-121], che il suo più lento compagno gli avventa alle spalle quasi per vendicarsi della superiorità che è costretto a riconoscere in lui, parole manifestamente ironiche (e di che terribile e sottile ironia!), sembrano alludere, non già ad un Lano galoppante, in quella infausta giornata, contro le schiere dei nemici, ma anzi fuggente a perdita di fiato, per campare dalla morte che gli sovrastava e che suo malgrado lo raggiunse ". È dunque probabile che gli antichi commentatori, " non conoscendo esattamente la fine del dissipatore senese, abbiano trasformato in un suicida chi, invece, si era dato alla fuga e, fuggendo, era morto ". In realtà Lano non è condannato come suicida, ché in tal caso sarebbe incarcerato, come Pier della Vigna, dentro uno degli alberi della selva, bensì è punito, come dissipatore, con l'essere continuamente inseguito e dilaniato da una muta di cagne, bramose e correnti.
Se gl'ignavi corrono eternamente dietro un'insegna, anche gli scialacquatori corrono, ma fuggendo davanti alle cagne, per ritardare il momento in cui queste li raggiungeranno e li sbraneranno, dopo di che la misera giostra ricomincerà, fino alla fine dei giorni, cioè fino al gran giudizio, quando il tormento assumerà la sua forma piena e definitiva: da allora le cagne potranno sbranare propriamente i corpi, e non soltanto le immagini aeree di essi. Assai bene si addice alla ‛ psicologia ' di un dannato dell'Inferno dantesco, come siamo venuti caratterizzandola, che egli, per disperazione, certo, ma anche per odio di sé, invochi la finale resa dei conti, cioè proprio la seconda morte. E poi, in particolare, l'odio di sé, del proprio corpo, torna naturalissimo in uno scialacquatore, che fu in vita violento contro le proprie sostanze.
In Pg XXVII 21 qui può esser tormento, ma non morte, il termine designa semplicemente la dannazione, che è esclusa dal luogo in cui le anime si purgano dal peccato prima di salire alla beatitudine. In Cv III VII 15, invece, etternale morte, in contrapposizione a etternale vita, designa la dannazione eterna: cfr. il testo liturgico della messa dei defunti: " Libera nos, Domine, a morte aeterna " (ma v. Matt. 25, 46 " Et ibunt hi in supplicium aeternum, iusti autem in vitam aeternam ").
Bibl. - C. Beccaria, Di alcuni luoghi difficili o controversi della D.C. di D.A., Savona 1889, 15-17; F. Cipolla, Che cosa è dannazione secondo il concetto dantesco, in " Giorn. stor. " XXIII (1894) 329 ss.; G. Maruffi, La morte nell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " II (1895) 52 ss.; F. Villani, Il comento al primo canto dell'Inferno, a c. di G. Cugnoni, Città di Castello 1896, 205-206; I. Sanesi, Per l'interpretazione della ‛ Commedia ' - Note, Torino 1902, 30; Barbi, Problemi I 260; E. Paratore, Analisi ‛ retorica ' del canto di Pier della Vigna, in " Studi d. " XLII (1965) 314 n., ora in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 178-220; T. Spoerri, Introduzione alla D.C., trad. ital. Milano 1966, 48-50; Pagliaro, Ulisse 459; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla " D.C. ", Firenze 1967, 142-143.