MORTE
(lat. mors; fr. mort; sp. muerte; ted. Tod; ingl. death).
Sommario. - Biologia (p. 878); Filosofia (p. 878); Teologia cattolica (p. 879); Diritto (p. 879); Accertamento della morte (p. 879). - La morte nelle credenze, nei costumi e nelle leggi dei varî popoli: Primitivi (p. 880); Egitto (p. 883); Babilonesi e Assiri (p. 883); Ebrei e popoli affini (p. 883); Arabi e islamismo (p. 884); Persia (p. 884); India (p. 884); Cina (p. 884); Giappone (p. 885); Grecia e Roma (p. 885); Odierni popoli occidentali (p. 889). - Iconografia (p. 892). - Statistica della mortalità (p. 893). - La pena di morte (p. 896). La morte civile (p. 898).
Biologia. - Da un punto di vista biologico generale non è possibile definire la morte, poiché la possibilità di una tale definizione presume la conoscenza stessa della vita; fenomeno che la scienza non ha potuto esaurientemente precisare. Né sono noti, per conseguenza, i limiti fra la vita e la morte. La vita, nell'estrinsecazione della propria energia, rappresenta in realtà un consumo più o meno rapido di materiali protoplasmatici e, pertanto, nella sua stessa intimità, una continua morte: la vita s'identifica così con la morte. Ma la morte, empiricamente e praticamente considerata, si riferisce all'estinzione dell'individualità corporea, non tanto nei singoli elementi che la compongono, quanto nelle necessarie correlazioni fra organi e funzioni. Si noti che questo trapasso si compie per gradi e che alla morte d'insieme dell'individualità sopravvivono, per parecchio tempo, gli elementi di singoli tessuti i quali, se trapiantati, possono infatti continuare a vivere. A rigore non si potrebbe dunque affermare che esista un momento preciso in cui sia identificabile la morte d'insieme di tutto l'individuo. Esiste anzi una specie di gerarchia di varia resistenza alla morte tra i differenti organi e i varî tessuti. Il sistema nervoso, per es., sottratto alle condizioni necessarie alla propria vita, si spegne quasi subito, mentre la cartilagine, l'osso, la cute, ecc., possono sopravvivere per un certo tempo alla morte generale dell'individuo. Dobbiamo quindi, biologicamente, distinguere la morte d'insieme da quella dei singoli elementi che compongono un organismo. La morte d'insieme, che rappresenta la vera morte dell'individuo, dipende dalla cessazione delle correlazioni funzionali di quegli organi che sono deputati alla conservazione del necessario ambiente interno della vita cellulare. Noi diciamo che un individuo è morto allorché vengono a cessare le funzioni del respiro, le funzioni del cuore, le funzioni del sistema nervoso, ecc.; funzioni fondamentali e necessarie a mantenere l'equilibrio ambientale dei tessuti e delle cellule in generale.
Si noti ancora che, per quanto appaiano cessate le grandi funzioni del cosiddetto tripode vitale (cuore, polmone e cervello) non sarebbe ancora precisamente accertabile quando, come e perché più non sia possibile una ripresa delle funzioni stesse. La scienza infatti ha dimostrato la possibilità di sospensioni più o meno protratte di queste correlative funzioni, sospensione tuttora compatibile con una loro eventuale ripresa funzionale. La fisiologia ci fa assistere a impressionanti esperimenti di riviviscenza, per es., del cuore, nonché ai mirabili esperimenti sulla funzione di visceri isolati dall'organismo e alla coltura e rigenerazione dei tessuti in vitro, ecc. Del resto ci sono noti gli esperimenti sulla morte apparente di molti organismi inferiori (protozoi, anguillule, rotiferi, ecc.) e la ripresa funzionale di piante e di semi già congelati. D'altronde il cuore e la muscolatura d'un individuo possono continuare per qualche tempo a contrarsi dimostrando l'esistenza di manifestazioni vitali nel caso, per es., di decapitati. Queste considerazioni generali valgano a spiegarci come possano essersi verificati casi, del resto rarissimi, di una morte apparente e come le leggi civili e sanitarie di tutti i paesi contengano disposizioni dirette a evitare i pericoli delle inumazioni precoci e prescrivano, all'uopo, un congruo termine di osservazione delle salme nonché il regolare accertamento del decesso (v. appresso: Accertamento della morte).
Filosofia. - Dal punto di vista filosofico, il problema della morte s'identifica nella massima parte con quello dell'immortalità (v.), in quanto la sua soluzione viene ricondotta a quella della questione concernente la sopravvivenza, che si possa considerare propria dello spirito dopo la cessazione della vita organica. Aspetto indipendente serba tuttavia il problema filosofico della morte in quanto la risposta all'angoscioso problema che essa pone può essere filosoficamente data anche prescindendo dall'asserzione della sopravvivenza, o addirittura negandola affatto.
Questa risposta è quella tipicamente data, nel pensiero classico, dal sistema epicureo, il quale nega che la morte sia un male, anzi che sia qualcosa di comunque interessante per noi, perché, "quando noi ci siamo, la morte non c'è, e, quando c'è la morte, non ci siamo noi". Questa rigorosa negazione soggettivistica della morte non è d'altronde esclusiva dell'epicureismo, ma è già implicita nel pensiero socratico quale ci è noto, tra l'altro, dall'Apologia platonica (la morte non è un male, perché o inizia una sopravvivenza, o è assoluta insensibilità come quella di un sonno senza sogni), e si continua in una tradizione di cui sussistono non poche tracce (p. es. nel περὶ πένϑους dell'accademico Crantore e nel I libro delle Tusculanae di Cicerone). Può anche darsi, anzi, che questa esperienza della vitalità irriducibile dello spirito come presenza soggettiva condizioni l'argomento della vitalità essenziale dell'anima, che nel Fedone platonico ha importanza suprema per la dimostrazione della sua stessa immortalità temporale. In essa è del resto espressa, quantunque in forma elementare, la stessa verità che sta alla base delle più recenti dottrine idealistiche (p. es., di G. Gentile) dell'"immortalità presente" dello spirito.
Teologia cattolica. - La dottrina cristiana considera la morte normalmente come la fine d'una vita di prova, soggetta al peccato, e l'inizio di una vita eterna che, se la precedente fu buona, sarà in eterno gloriosa (v. paradiso), se cattiva, eternamente penosa (v. inferno). Intercede uno stato intermedio temporaneo (v. purgatorio), riservato a coloro che, pure essendo morti con il perdono dei peccati e perciò in stato di grazia, tuttavia nella vita terrena non scontarono tutta la pena dovuta, per divina giustizia, ai loro peccati. La morte che naturalmente è conseguenza della temporaneità dell'unione dell'anima con il corpo, soprannaturalmente riveste il carattere di punizione del peccato originale perché, prima del peccato, l'uomo per soprannaturale privilegio era esente da questo grave tributo di natura; ed è universale, non essendovisi sottratti né Gesù Cristo né Maria Vergine, che pure, in proposito, erano oggetto d'una singolarissima provvidenza. La morte consiste nella separazione dell'anima immortale dal corpo: l'anima passa dopo il giudizio particolare a vita eterna e, come dicono i teologi, entra nello "stato di termine"; il corpo si corrompe, ma temporaneamente, dovendo risorgere al giudizio universale e ricongiungersi all'anima per partecipare alla sua sorte o di gloria o di dannazione. Da tutto ciò e dal ricordo della morte di Cristo e del suo valore ai fini della redenzione, nasce nei cristiani la cura sollecita e devota per i moribondi e per i morti.
Non poco giovò al rispetto della morte, presso i cristiani, il martirio e il culto dei martiri (v. martire). Il pensiero della morte è, intanto, fra i più raccomandati temi della vita e riflessione ascetica; e nella storia della pietà cristiana ha parte amplissima e ricca letteratura.
Diritto. - La morte dell'uomo, così come la nascita, è momento essenziale di fronte al diritto, giacché con essa viene meno il requisito naturale della capacità giuridica della persona fisica. Alle persone defunte non possono spettare diritti, né incombere doveri; soltanto qualche eccezionale disposizione è posta nell'interesse di terzi viventi o per fare acquistare diritti a terzi viventi (v. appresso).
Accertamento della morte. - I pericoli delle inumazioni a corpo vivo sono stati certamente esagerati, ma non si può negare che questo accertamento della morte, in alcune contingenze patologiche (stati sincopali, catalettici, asfittici, ecc.) possa presentare qualche difficoltà.
La letteratura medico-legale è piena di terrificanti storie di persone credute erroneamente morte. Fra gli esempî, forse esaltati dalla fantasia volgare, si cita il caso del grande Vesalio che avrebbe sezionato un gentiluomo della corte di Filippo II trovandone il cuore tuttora pulsante. È pure celebre il caso di certo Civille il quale, tratto vivo dal ventre della madre, fu poi sepolto per ben tre volte, essendo stato inumato per errore. Si citano casi di morte male controllati specialmente durante la confusione e il terrore di gravi epidemie; casi di reviviscenza di asfissiati, di deposti dopo l'impiccamento, ecc. In Francia menò grande scalpore la famosa autodescrizione di reviviscenza esposta al senato dal cardinale F.-F.-A. Donnet (1795-1882).
La constatazione dei decessi da parte del sanitario a ciò deputato è quindi compito che non deve essere, come spesso avviene, considerato come una semplice formalità. Questa constatazione, generalmente facile, tenuto conto delle già note cause di morte, è ufficio non scevro di speciale importanza medico-legale, anche per la precisazione del momento e delle modalità con cui il decesso si verificò e ciò per questioni eventuali in ordine alla premorienza o commorienza fra più persone in relazione alla loro successione; e si deve esplicare con la dovuta diligenza.
Naturalmente, in primo tempo e cioè nel periodo in cui il cuore e il respiro siano da poco arrestati, l'interessamento del medico si deve anzitutto rivolgere a un eventuale soccorso d'urgenza per il caso che si tratti di una morte apparente; quindi, preliminarmente terapia e diagnostica s'identificano in una stessa provvidenza.
I principali e preliminari esperimenti tanatoscopici sono i seguenti: 1. Riguardo alla funzione respiratoria, se da poco arrestata, se ne potrà tentare la riattivazione mediante la respirazione artificiale. Si praticheranno trazioni ritmiche della lingua e stimolazioni elettriche dei muscoli e dei nervi respiratorî. Si vedrà così se il respiro riprenda spontaneamente, ovvero se definitivamente venga a mancare. All'uopo si potrà avvicinare alle narici e alla bocca la fiamma di una candela oppure una piuma leggiera per vedere se subiscano oscillazioni. Si usa pure avvicinare uno specchio alla bocca per vedere se l'alito lo appanni. Sévérin Icard, che lungamente s'è occupato dei modi di accertamento della morte, fra l'altro ha proposto di avvicinare alle narici e alla bocca un pezzetto di carta sorbente bagnato con soluzione di acetato di piombo, che finirebbe con annerirsi con l'insorgere delle esalazioni cadaveriche putrefattive per la formazione dell'idrogeno solforato. Evidentemente, si tratta di un metodo troppo tardivo nelle sue indicazioni e non scevro di possibili errori.
2. Rispetto alle funzioni circolatorie, ha naturalmente un'importanza fondamentale il riscontro del polso e dei battiti cardiaci mediante lo stetoscopio. Sarà pure utile l'osservazione dello stato dei capillari mediante la pletismografia e capillaroscopia. Si trarranno utili dati con l'osservazione degli effetti che s'ottengono con le varie stimolazioni cutanee in relazione alla reattività vasomotoria. Si potranno sperimentare i massaggi, le frizioni, le irritazioni con iniezioni d'etere, ecc. Avendo ragione di sospettare che la morte apparente sia dovuta ad anemia acuta per emorragia, si praticheranno prontamente trasfusioni, ipodermoclisi e altri soccorsi del genere. L'arteriotomia, la flebotomia o, anche, l'amputazione di piccole estremità erano un uso rituale già in tempi antichi prima che il cadavere venisse inumato o esposto alla cremazione sulla pira; ciò per verificare se il sangue fluiva ancora o se era di già coagulato. Altri ha proposto la puntura del cuore per verificarne l'eventuale persistenza dei movimenti. Oggi, con l'agopuntura, si può, in pari tempo, praticare l'iniezione intracardiaca di una soluzione di adrenalina per eccitarne la residua contrattilità. Altri, sempre per accertare lo stato della circolazione, ha proposto la forcipressura, la legatura e costrizione di un arto, le ventose scarificate o secche, ecc. Un esperimento insistentemente proposto è quello dell'iniezione ipodermica epigastrica d'una soluzione alcalina di fluoresceina (2:10), che è una sostanza colorante innocua ma assai diffusibile, la quale, in caso di persistenza della circolazione del sangue, si distribuirebbe rapidamente per tutto il corpo tingendo la cute e la sclerotica in giallo verdastro intenso.
3. Riguardo alle funzioni neuropsichiche, sono da studiare attentamente l'abolizione completa della coscienza e del sensorio e lo stabilirsi della cosiddetta facies hippocratica in seguito all'abbandono e al cadaverico rilasciamento di tutte le membra. Si dovranno quindi porre in opera tutti i mezzi atti a ridestare i riflessi nervosi; si useranno stimolazioni meccaniche, termiche, elettriche, chimiche, ecc.
4. Riguardo all'eccitabilità muscolare, la quale va gradatamente scomparendo dopo il mortale rilasciamento generale, è da tenere presente che, sia per stimolazioni elettrofaradiche, sia per stimoli semplicemente meccanici, essa si abolisce più o meno rapidamente a seconda dei varî gruppi muscolari e anche a seconda delle varie cause di morte e di molte altre circostanze individuali o estrinseche, ambientali. Nelle morti violente e subitanee l'eccitabilità elettrica può persistere anche per parecchie ore (3-10), il che risulta chiaro dagli esperimenti sui giustiziati, oltreché da quelli sugli animali È noto inoltre che i muscoli tuttora vivi si mantengono in una speciale elasticità e tonalità vitale, che si dilegua a poco a poco con l'inoltrarsi della morte reale. Or bene, questo cosiddetto "tono muscolare" si rivela anche all'ascoltazione con un rumore speciale. Torna così assai utile, per la constatazione della morte, la dinamoscopia muscolare, che si pratica con uno speciale stetoscopio a ditale, ossia con uno stetoscopio adattabile a un dito del soggetto esplorando (dinamoscopia del Collangues), oppure con uno stetoscopio o fonendoscopio da applicarsi sulle masse muscolari. Si potrebbero pure applicare sui muscoli speciali apparati microfonici registratori. Il rumore muscolare dato dal tono muscolare (bourdonnement rotatoire) ognuno può sentirlo ascoltandolo per mezzo di un dito immesso in un orecchio. Finché s'ascolta il rumore del tono muscolare (che può durare 10-15 ore), non si potrebbe dire spenta la vita muscolare. Questo rumore va scomparendo a cominciare dalla periferia fin verso le parti più centrali del corpo.
Importante è la constatazione del completo rilasciamento di tutti gli sfinteri e la conseguente perdita delle urine, delle feci e dello sperma. Si noti che gli elementi spermatici conservano per un certo tempo (10-15 ore) i loro movimenti, ciò che può fornire pure qualche utile dato intorno al momento della morte.
5. Relativamente allo stato biochimico e biofisico dei tessuti od organi, la tanatoscopia ha cercato di utilizzare, mediante opportuni rivelatori, le intime alterazioni del metabolismo e dell'equilibrio degli elementi dovuti al sopravvenire della morte. Prescindendo dalla scomparsa dei fenomeni di reattività vitale e flogistica controllabile per mezzo degli effetti d'irritanti cutanei (ammoniacali, vescicatorî, ecc.), si potrà saggiare la persistenza o meno della naturale attività ossidativa dei tessuti mediante l'infissione di un ago terso nei tessuti stessi per vedere se l'ossidazione avvenga.
Sapendosi che col sopravvenire della morte negli elementi cellulari gli scambî protoplasmatici vanno estinguendosi, alterando il loro equilibrio acido-basico, sono stati escogitati metodi di accertamento fondati sul rilievo del pH dei liquidi organici. L'alcalescenza dei visceri e dei muscoli in relazione agl'intimi scambî respiratorî e l'equilibrio degl'idrogenioni durante la vita tende a mantenersi a una quota fissa che sta fra 7,35-7,40. Il sangue e i liquidi organici sono dunque, in vita, leggermente alcalini. La morte, in primo tempo, e prima che compaiano le fermentazioni putrefattive, tende ad abbassare il pH. Nei liquidi organici è quindi accertabile una reazione che volge verso l'acidità; il che può essere constatato mediante speciali reattivi rivelatori. Furono così saggiate non solo le condizioni acido-basiche del muscolo mediante il blu di bromotimolo, ma anche del sangue, della polpa splenica, delle lacrime e di altri liquidi, col blu di metilene, con la fenolftaleina, ecc. In quest'ordine d'idee merita qui citazione la cosiddetta docimasia epatica di A. Lacassagne e E. Martin, consistente nel riscontro del consumo del glicogeno contenuto nel fegato, specialmente nei casi in cui la morte sia avvenuta lentamente. Ciò potrebbe presentare qualche utilità per l'accertamento delle modalità del decesso in caso di necroscopia. Ricorderemo ancora che, per le materiali diffusioni o scambî postmortali, il punto di congelazione (il cosiddetto punto crioscopico o Δ) tende ad abbassarsi progressivamente, cosicché H. Revenstorf e R. Magnanimi avrebbero pure pensato a utilizzare la crioscopia come dato tanatoscopico. Così si dica della conducibilità elettrica.
Varie altre alterazioni postmortali d'indole fisico-chimica sono state prese, volta a volta, in considerazione per la constatazione della morte. Recentemente si sarebbe perfino pensato a utilizzare le problematiche radiazioni che emanerebbero dal corpo vivente in confronto al morto. Merita menzione l'opacamento dei tessuti dato dall'agglutinazione dei colloidi protoplasmatici e dalla coagulazione delle sostanze albuminose. Questo fatto diafanoscopico è un fenomeno facilmente constatabile; basta esaminare per trasparenza o le dita di una mano o il padiglione delle orecchie frapponendole a una lampadina elettrica. L'esperimento potrà essere eseguito con precisione mediante indagini nefelometriche.
6. Riguardo ai segni mortali che si possono trarre dall'esame dell'occhio, oltre alle sovraccennate reazioni indicative dell'acidità delle lacrime, le quali si possono facilmente raccogliere subito dopo la morte, varie altre constatazioni sono d'uso comune. Il necroscopo potrà notare la scomparsa dei riflessi congiuntivali anche di fronte agli stimoli più energici. La pupilla che dapprima, con la morte, tende a dilatarsi, successivamente s'irrigidisce e si restringe mediocremente. Dopo 2-4 ore più non risente l'azione dell'atropina e dell'eserina. Il contorno pupillare, per l'afflosciarsi del globo oculare, si dimostra alquanto oscillante con la palpazione pressoria sull'occhio stesso. L'esame oftalmoscopico del fondo oculare rivela modificazioni attinenti all'eventuale arresto della circolazione retinica. Poi, a poco a poco, l'occhio va perdendo la propria lucentezza e la cornea si vela per lieve intorbidamento. Le palpebre rimangono fisse nella loro posizione socchiusa; rimane quindi allo scoperto una parte del globo oculare e della relativa sclerotica, la quale tende a prosciugarsi per la postmortale evaporazione dei suoi liquidi. Compare così una macchia scura sulla sclerotica ai lati della cornea (macchia di Larcher), la quale è dovuta al fatto che l'uvea viene a trasparire attraverso alla sclerotica, che si va, per l'appunto, prosciugando.
Da questo complesso di dati, che si riferiscono ai fenomeni più precocemente rilevabili nel momento del trapasso fra la vita e la morte (periodo embiotico), si potranno facilmente trarre i segni per la constatazione del decesso. Ma, con l'osservazione delle salme per il periodo prescritto dalla legge, si arriva generalmente al rilievo di altri segni che si possono dire di assoluta certezza. Così il raffreddamento postmortale che, in primo tempo, si comporta assai irregolarmente, potendosi perfino osservare, in alcuni generi di morte, un notevole aumento postmortale della temperatura. Indi il raffreddamento segue le leggi fisiche cui andrebbe incontro un corpo sovrariscaldato che vada equiparando la propria temperatura alla temperatura ambientale. Generalmente, a ogni ora si perde poco più di un grado, cosicché dopo 15-20 ore il corpo di un adulto può essere completamente raffreddato. La sensazione di freddo che si prova toccando un cadavere, è dovuta all'umidità del corpo la cui evaporazione, per legge fisica, come per un pannolino bagnato, determina magari un lieve abbassamento della temperatura rispetto alla temperatura dell'ambiente. Ben s'intende che numerose condizioni estrinseche e intrinseche in cui si può trovare un cadavere influiscono sulla maggiore o minore rapidità del raffreddamento. Tali sono la stagione, l'umidità, l'eventuale permanenza nell'acqua, la qualità e quantità degl'indumenti, la massa, l'atteggiamento, la quantità dell'adipe, la causa e la modalità della morte, ecc.
La constatazione della morte riesce via via più semplice appena altri e decisivi segni cadaverici si vanno manifestando. Citeremo la rigidità cadaverica, che deve essere vagliata nei confronti con stati di contrattura o di catalessi isterica.
La rigidità cadaverica (rigor mortis) consiste nella perdita della flessibilità cui va incontro il corpo dopo la morte. Tale fenomeno è dovuto a modificazioni fisico-chimiche che si verificano nei muscoli per l'accumularsi di sostanze del ricambio. Il muscolo si fa acido e s'indurisce retraendosi. La rigidità pervade gradualmente la muscolatura iniziandosi dopo qualche ora, intensificandosi in due o tre giorni e poi scomparendo in altri due o tre giorni con l'avanzarsi della putrefazione. Talora, specialmente nei muscoli affaticati (per lotta sostenuta, convulsioni, lesioni di centri nervosi, ecc.), la rigidità può comparire istantaneamente dopo la morte (rigidità catalettica); più di rado si può avere tardivamente, in modo fuggevole o appena percettibile come nelle morti che lentamente seguono a malattie croniche. La rigidità incomincia intensamente alle mascelle e, successivamente, segue nei muscoli del tronco e poi negli arti. Anche il cuore s'irrigidisce; così pure la muscolatura liscia e anche gli stessi muscoli della cute, dando luogo al fenomeno della pelle d'oca. Molte circostanze intrinseche ed estrinseche sono suscettibili d'influenzare l'andamento della rigidità. In medicina legale è assai importante lo studio di questo fenomeno, potendosene trarre preziosi indizî, non solo per la diagnosi della causa della morte (tetano, avvelenamento per stricnina, ecc.), ma anche per stabilire la data e le circostanze in cui la morte s'è verificata.
Ricorderemo inoltre i varî fenomeni dell'ipostasi (v.) e relative sue macchie cadaveriche sino alla comparsa di quelle dovute alla putrefazione: stadio cadaverico in cui nessun dubbio è più possibile tanto che, da taluno, s'è insistentemente proposta la necessità di attendere questi avanzati fenomeni trasformativi per evitare, con assoluta certezza, ogni pericolo di precoce inumazione.
La dissoluzione dei cadaveri, oltreché dai processi putrefattivi, è generalmente determinata dall'azione distruttiva di svariati animali necrofili che si nutrono dei resti cadaverici. Per lo più tale lavorio distruttivo è sostenuto da numerose specie d'Artropodi, che compiono molti stadî delle loro metamorfosi nei resti cadaverici e quivi si succedono nel loro lavorio distruttivo con un certo ordine nelle varie regioni e in varie condizioni ambientali. Il medico può quindi trarne criterio di giudizio intorno all'epoca e alle circostanze in cui avvenne la morte. Iniziano il lavorio distruttivo varie specie di mosche (M. domestica, calliphora, lucilia, sarcophaga, ecc.), seguono alcuni Coleotteri e Lepidotteri con altri Ditteri (Pyophila, Tireophora, ecc.), e infine sopraggiungono gli Acari e piccole tignole (Tineola) e poi anche Coleotteri del genere Tenebrio e Ptinus. I cadaveri sommersi possono cadere preda di animali acquatici (Pesci, Mollusehi, piccoli granchi [Gammarus], ecc.). Animali rapaci e carnivori (avvoltoi, maiali, lupi, iene, topi, ecc.) possono in certe plaghe divorare le salme dando talora luogo a complesse questioni medico-legali intorno all'identificazione delle lesioni e alterazioni che si riscontrano nel cadavere.
Bibl.: P.-C.-A. Louis, Lettres sur la certitude des signes de la mort, Parigi 1792; L. Levasseur, De la mort apparente et des moyens de la reconnaître, Rouen 1868; F.-X. Bichat, Recherches sur la vie et la mort, Parigi 1852; E. Bouchut, Traité des signes de la mort et des moyens de ne pas être enterré vivant, Parigi 1874; P.-C.-H. Brouardel, La mort et la mort subite, Parigi 1895; S. Icard, La mort réelle et la mort apparente, Parigi 1897; id., La constatation des décès dans les hôpitaux en France et à l'étranger, Parigi 1910; F. Dell'Acqua, La morte vera e la apparente, Milano 1897; A. Dastre, La vie et la morte, Parigi 1907; A. Creazzo, Studio su la morte apparente e la morte reale, Roma 1913; H. Chiari, Leichenerscheinungen, Leichenbeschau, in P. Dittrich, Handbuch der ärztlichen Sachverständigen-Tätigkeit, Vienna e Lipsia 1913; H. de Varigny, La mort et la biologie, Parigi 1926; G. Lazzaretti, Corso teorico pratico di medicina legale, Padova 1874; P. Megnin, La faune des cadavres, Parigi 1884.
La morte nelle credenze, negli usi e nelle leggi dei varî popoli.
Primitivi. - La morte nel pensiero del primitivo è un malefizio, e raramente un fatto naturale. A scongiurare le funeste conseguenze in casi di malattie gravi e disperate, i familiari dell'infermo ricorrono a espedienti varî, di natura magica (scongiuri, offerte di cibi e di altri oggetti presso il capezzale del sofferente) allo scopo di debellare l'opera degli spiriti, o degli stregoni. L'uso di otturare il naso e le orecchie, di chiudere gli occhi e la bocca, ovvero di legare le mascelle del moribondo rientra in tale categoria di pratiche e mira a impedire che l'anima fugga dal corpo (Neocaledoni, indigeni di Nias, Bogobo delle Filippine, Alfuri di Celebes, Itonama dell'America Meridionale, ecc.).
A scoprire le tracce della "mala magia" spesso viene consultato il cadavere, che è sottoposto a un'attenta ispezione per rilevare dall'atteggiamento o da altri segni (gambe contratte o divaricate, smorfie della faccia, graffiature, cicatrici, ecc.) le cause che provocarono il decesso.
La maniera con cui l'uomo si comporta di fronte ai propri morti, costituisce o determina i riti funerarî, i quali nelle loro varie forme, ora semplici, ora complesse, differiscono da luogo a luogo e da popolo a popolo. Presso molte genti le salme dei defunti non ricevono alcun segno di protezione o d'onore, ma sono abbandonate alle fiere. Alcune schiatte africane e dell'Asia settentrionale gettano nelle selve, nelle paludi, negli stagni i cadaveri della gente comune e degli schiavi. La ragione del fatto non dipende sempre dalla mancanza di pietà, ma da credenze di natura magica e animistica. In varî paesi agisce il timore del contagio o della contaminazione, che induce i superstiti a fuggire i proprî cari nel momento in cui hanno dato l'ultimo respiro e a distruggere gli oggetti che quelli predilessero in vita. Questo trattamento, in qualche luogo, è riserbato a quanti hanno avuto la sventura di soccombere di "mala morte", comprendendo in questa espressione tutti i casi di morte non naturale, sia quelli per accidente, sia quelli violenti. Nell'una e nell'altra circostanza, le spoglie degl'infelici non ricevono sepoltura, e spesso per facilitarne la decomposizione, vengono ridotte in pezzi. Non si sottraggono, talvolta, a questa inesorabile legge le puerpere che periscano durante il travaglio del parto (Alfuri di Celebes, Pigmei del Gabon, ecc.), e i loro corpi sono fuggiti come cose obbrobriose, per le malefiche influenze che emanano. Tra molti Negri africani uguale trattamento è fatto ai cadaveri degli stregoni, degl'individui perversi e di quanti si ritengono periti a causa delle loro stregonerie.
In queste e molte altre pratiche del genere, l'idea dominante è il contagio, che generalmente si crede di neutralizzare distruggendo i cadaveri, sia perché indicati come fomiti d'impurità, sia perché ritenuti ricettacoli di spiriti demoniaci. L'uso di fare divorare i corpi morti da speciali animali si riporta a siffatta specie di superstizione. I Neozelandesi sono convinti che un uomo muoia "definitivamente", nel corpo e nello spirito, qualora il suo cadavere sia mangiato. Analoga idea è stata riscontrata tra i Californiani per gli uomini bruciati.
Molto numerose in confronto delle genti che sogliono abbandonare nelle foreste e nei fiumi i corpi dei loro morti, sono quelle altre che prendono cura dei resti umani, proteggendoli con cumuli di terra, di pietre, di foglie, di spine (tombe a catasta), ovvero con recinti e palizzate di tronchi o di rami (tombe a torretta, tombe anulari), ovvero mediante palchi elevati e simili costruzioni. Si può dire che siffatte genti partono dal principio che, proteggendo il corpo esanime, si possa richiamarvi lo spirito; ovvero dall'altro, notato in qualche luogo, che la conservazione del corpo impedisca la morte "definitiva" del defunto.
Questo in linea molto generale, perché in pratica ogni rito o gruppo di riti rispecchia i particolari aspetti del concetto che i varî nuclei primitivi hanno della morte, del sopravvivere dell'essenza vitale o dell'anima, della reincarnazione, dell'altro mondo, e via dicendo. Difatti, mentre alcuni popoli credono che lo "spirito" abbandoni il corpo nel momento in cui questo esala l'ultimo anelito; altri sono convinti, al contrario, che pure non dando l'organismo segni di vita, non sia morto; onde i primi sogliono spesso seppellire i vivi, nello stato agonico o preagonico; i secondi usano soprassedere alla sepoltura, nella convinzione che l'"anima ritorni nel corpo addormentato". Nelle isole Figi la toletta funeraria precede di parecchie ore la morte dell'uomo, e se questi è un capo, le mogli che debbono seguirlo nell'al di là, sono talvolta strangolate, secondo la consuetudine, prima che il marito sia spirato.
Alla credenza che l'uomo continui a vivere dopo morte si riferisce l'uso di provvedere il trapassato, nella sua tomba, di quanto possa occorrergli nella vita oltremondana, la quale, per molti popoli delle civiltà inferiori, è il riflesso della vita terrena, con le sue organizzazioni per clan, per classi di età, di sesso, ecc. Quindi una serie di riti, di cui parte servono a "staccare" il morto dal mondo dei vivi; e parte ad aggregarlo al mondo degli spiriti. Alla prima categoria appartiene la cosiddetta "cacciata del morto" che la tribù Arunta (centro dell'Australia) esegue con pantomime armate dopo 12o 18 mesi dal decesso, sul luogo che crede frequentato dallo spirito del defunto, e sulla sua tomba. Alla cerimonia prende parte una turba d'ambo i sessi con scudi e lance, grida e gesti strani.
Alla seconda categoria di riti si fa spesso allusíone nelle leggende e nei racconti che descrivono il viaggio di qualche eroe nel paese dei morti, specialmente laddove si raccomanda al personaggio di non toccare o saggiare i prodotti di quel territorio, di non lasciarsi toccare o abbracciare da alcun morto, come pure di non mangiare o bere con gli spiriti. Tali riti sono, per le loro modalità, simili a quelli che fra i primitivi sono in uso per l'aggregazione di un individuo a un clan, per l'adozione, per l'ospitalità, ecc.
Indipendentemente dalla loro consistenza, i riti dell'una e dell'altra categoria sono ritenuti indispensabili, tanto per i defunti, quanto per i superstiti. Senza prescritte cerimonie, lo spirito dell'estinto condurrebbe un'"esistenza" triste, non potrebbe pezietrare nell'oltretomba e farsi aggregare al gruppo o alla classe sociale cui avrebbe diritto. I morti non onorati rappresentano, per l'uomo primitivo, la più terribile classe degli spiriti: privi di mezzi, di sede, di focolare, essi reagiscono contro i viventi, trattandoli da nemici.
Con la funzione di quel complesso di riti, che abbiamo distinto in due classi, di aggregazione e di separazione, sono connessi gli usi di provvedere il morto di cibi, vettovaglie, servi, vesti, armi, talismani e altri oggetti utili o d'ornamento, tenendo conto del suo stato sociale, delle cariche e delle dignità, che il defunto ebbe in questa vita e che deve mantenere nell'oltretomba. Nell'Ascianti il morto passa nel regno degli spiriti con una scorta proporzionata al suo rango. Il rito assume forma di ecatombe, se il defunto sia un capo, per il gran numero di schiavi che in tale funesta circostanza vengono sacrificati. A Catunga, nel vecchio regno di Yarriba, alla morte del sovrano i principali personaggi della corte, la prima moglie del re, il figlio primogenito e gli schiavi prediletti dall'estinto erano obbligati ad avvelenarsi, per essere sepolti col loro capo. A Jenna, sul Niger, l'obbligo era fatto a una o a due delle mogli del governatore, perché questi non s'avviasse da solo per l'altro mondo. Più macabro e grottesco è il rito che G. Casati osservò presso i Wanyoro. Sei delle mogli, sedute, nella fossa, reggevano il corpo del re defunto, mentre un fanciullo, ai suoi piedi, teneva la pipa e il recipiente col tabacco. Formato l'orrendo gruppo, la fossa venne colmata di terra, e sulla tomba, poi, vennero sgozzate le vittime umane in onore dell'estinto.
A seconda della rappresentazione topografica dell'oltretomba (montagna, paese circondato da fiumi, isola, caverna, spelonca, ecc.); e a seconda che il morto vi debba giungere a piedi o con qualche mezzo, si seppelliscono col cadavere le scarpe, il cammello, il cavallo o qualche altro animale del defunto, ovvero la slitta, il canotto coi remi, ecc. I Lapponi, per mettere l'estinto in condizioni di compiere il viaggio, che può durare da 3 settimane a tre anni, uccidono una renna sulla fossa, dopo il seppellimento del cadavere. I Lushai dell'Assam immolano un becco, una capra e un cane, affinché i tre quadrupedi col proprio fiuto indichino al morto la via da battere per giungere al paese di Mi-thi-hua.
Il rito della barca funebre si trova tra popoli malesi, australiani, polinesiani ed è in relazione col concetto che rappresenta il regno dei morti in un'isola, detta dai Polinesiani l'isola degli spiriti. Queste genti hanno l'abitudine di collocare il cadavere in un canotto. A Mulgrave gl'isolani spingono in mare il canotto col defunto, allo scopo di fargli abbreviare il viaggio. Col volgere delle generazioni l'uso continua in forma simbolica, onde la bara, entro cui viene deposta la salma, assume la forma di una barca. Questa seconda fase si osserva nelle schiatte malesi, nei distretti meridionali dell'isola di Nias, presso i Bataki (Sumatra), nel Longputi (Borneo), e presso qualche altro popolo. Di uso in uso si arriva alla barca di piccole proporzioni e perfino alla barca in effigie.
Contro questa interpretazione che, informata a principî animistici, spiega il rito del "corredo funebre" coi bisogni del morto nell'altro regno, si è obiettato che gli elementi del corredo sarebbero inservibili al morto, perché, se animali o uomini, vengono uccisi; se armi o utensili, rotti o distrutti. Il canotto e la slitta sono in molti casi collocati alla rovescia sulla tomba. Da queste e da altre circostanze è sorta l'idea di alcuni etnologi che il fondamento dei suddetti riti sia da cercare nel tabù che prescrive la distruzione di ogni cosa che sia appartenuta o che sia stata a contatto col defunto. Il rito di collocare il cadavere in atteggiamento di riposo, sul fianco, con le mani sotto il capo, viene messo ordinariamente in relazione con la credenza che fa del morto un individuo assopito, che si sveglierà nell'altro mondo; l'altro di accosciare il morto con le gambe ripiegate sul petto, viene messo in rapporto con la credenza che il defunto ritorni nel grembo della madre terra, per una ulteriore incarnazione, in quella posizione che, durante la gestazione, ebbe nel grembo della genitrice; e l'altro, poi, di mantenere il cadavere in forma rannicchiata con legami resistenti, viene messo in rapporto con il terrore degli spiriti, che i superstiti cercano d'immobilizzare, incatenando o legando i corpi dei defunti. Queste tre spiegazioni, che sono dette simbolica la prima, embriologica la seconda, e apotropaica la terza, partono dal presupposto che il corpo umano venga collocato dai primitivi in quello speciale atteggiamento dopo la morte; mentre l'uso di alcune popolazioni farebbe pensare il contrario. Difatti presso la tribù dei Barotse, sull'alto Zambesi, e quelle dei Pigmei del Gabon, degli Acioli dell'Uganda, dei Bieneseio, dei Mieken e di varie altre genti galla nell'Etiopia occidentale, la posizione rituale si suole dare al corpo umano prima della cessazione della vita, e precisamente ai primi segni dell'agonia. Se le membra non possono essere piegate, il cadavere si lascia disteso (Pigmei), ma in tal caso il suo spirito, che è equiparato a quello dell'uomo perito di mala morte, deve essere calmato con l'immolazione di qualche animale.
Alla credenza che il defunto non possa entrare nel paese degli spiriti se non dopo essersi liberato delle spoglie mortali, si suole riportare il complesso di quei riti che hanno per oggetto il disseccamento, la decomposizione e la scarnitura del cadavere. I Caraibi, al tempo del grande missionario I. Lafitau, erano convinti che i morti non potessero passare nell'altro mondo, finché il loro involucro carnale non si fosse completamente disfatto. Analoga idea porta i Betsileo di Madagascar ad accelerare, nelle capanne, la decomposizione dei cadaveri, attivandola con l'azione del fuoco, dopo di che passano a seppellire lo scheletro.
Non differisce da questo, ora enunciato, il principio da cui partono quei popoli che usano inumare il cadavere temporaneamente, per rilevarne lo scheletro dopo la decomposizione (Maori, ecc.). Presso alcuni Pigmei, se il cadavere di un capo, dopo parecchi mesi dalla morte, si trova disfatto, fa pensare che il suo spirito sia stato ricevuto da Khmvum; ma se, invece, si conserva intatto o mummificato, è necessario ricorrere a uno speciale procedimento di sepoltura, inumando, cioè, la salma nel letto di un fiumicello, deviando l'acqua, e ripristinandone l'alveo, dopo il seppellimento. Il cadavere è deposto nella fossa con le armi, sopra un giaciglio di felci.
Varie le idee intorno ai suicidi, che alcuni primitivi considerano come esseri o spiriti meritorî, specie se essi rinunziarono alla vita per sfuggire o sottrarsi a una grave infermità, a una mutilazione, al servaggio, al triste stato della vedovanza; altri come esseri dannati, e però costretti a errare perpetuamente, fuori del mondo degli spiriti. I morti sono benevoli o malefici, a seconda della loro indole, che spesso dipende dal genere di morte, o delle cerimonie con cui sono onorati. Se negletti dai superstiti, che hanno violato o fatto violare le tombe, non hanno curato le dovute offerte o compiuto i riti sacri e solenni, fra cui quello della vendetta, essi diventano terribili, seminano i guai, la miseria, le infermità, provocano la carestia, la siccità e simili mali, penetrano nel corpo degli esseri odiati, facendoli impazzire. Se invece sono fatti oggetto di pietà e di culto, essi assistono i loro cari con ogni amore, li aiutano nella caccia e nella pesca, promuovono la fecondità dei loro campi e del bestiame, li soccorrono con consigli e suggerimenti, comparendo in sogno.
Quasi generale è la ripugnanza a pronunziare i nomi delle persone defunte, per l'idea che la pronunzia del nome equivalga all'appello del morto. Siffatta superstizione s'incontra fra popoli diversi e lontani: Samoiedi della Siberia, Soda dell'India, Mongoli della Tartaria, Tuaregh del Sahara, Aino del Giappone, Acamba e Nandi dell'Africa orientale, Ninguiani delle Filippine, indigeni delle Nicobar, di Borneo, della Nuova Guinea, dell'Australia, ecc.
A onore dei defunti spesso sono organizzate feste dal capo della famiglia o del clan; ma talvolta esse sono riservate ai morti degni o cospicui, come eroi, capi, grandi personaggi, ecc. Siffatte solennità, che le tradizioni e le leggende locali magnificano, non sono rese sulle tombe, ma in quei luoghi che si credono frequentati dagli spiriti (boschetti, crocevia, campi, ecc.), hanno ordinariamente carattere periodico e sono celebrate sotto il titolo di "feste dei morti". Generalmente in tali circostanze i partecipanti indossano speciali maschere, quasi a rappresentare i morti, il demonio dei defunti e altri spiriti. Presso i Dualla del Camerun la festa del morto dura nove giorni, affinché l'anima del trapassato possa giungere al luogo dell'eterno riposo: Bela. A Tahiti l'ufficio di rappresentare l'estinto, durante la festa funeraria, è affidato a uno stregone, il quale, truccato con una bizzarra maschera, si dimena, facendo gesti strani ed emettendo grida sinistre.
Alcune genti celebrano queste feste o cerimonie a scopo magico-animistico, partendo dal pensiero che, mediante tali pratiche, lo spirito del defunto si possa reincarnare in qualche essere vivente, che ora è un neonato, ora un individuo adulto del clan. Gli Uroni e altre tribù del Canada, per risuscitare un guerriero, prescelgono fra loro quello che mostri temperamento simile a quello del defunto; quindi lo circondano e, mentre egli sta sul suolo, essi alzando le palme delle mani, fanno cenno di richiamarlo in vita, appellandolo col nome del guerriero, che da quel momento deve rappresentare.
L'esumazione delle ossa, la quale viene praticata, trascorso un certo tempo dopo la morte, da varie tribù dell'Indonesia, della Melanesia, dell'America e dell'Africa, dà luogo a vere e proprie orge.
Lutto. - Il lutto per i primitivi riveste i caratteri di un tabù. Ignorando le ragioni naturali della cessazione della vita, essi le attribuiscono, come si è accennato, a cause superstiziose (stregoneria, ecc.); onde preoccupati del malefico contagio, considerano in stato d'impurità i familiari del defunto. Da qui il provvedimento di segregarli per un tempo variabile, che può comprendere anche degli anni, e d'imporre loro delle restrizioni in tutto quanto riguarda la vita. Uno speciale trattamento è fatto ai vedovi, e più alla donna che all'uomo. Presso molte tribù dell'Africa centrale e meridionale, alla moglie sopravvivente si fa obbligo di stare seduta sulla nuda terra per tre mesi, prima di poter aspirare a un nuovo marito; o di rimanere distesa nella capanna per un mese, di non accendere fuoco, di non conversare con alcuno. Più dura è la condizione della vedova nelle isole Tobriand (Melanesia), dove ella deve stare segregata da sei mesi a due anni in una specie di gabbia, osservando severi tabù: non accendere lume, non uscire, non lavarsi, non parlare ad alta voce, non prendere cibo con le proprie mani, ecc.
Segni esteriori per le persone in lutto sono le scottature sul corpo (Nuova Caledonia), le lacerazioni dell'epidermide (Australiani), il taglio delle orecchie (isole Hawaii, ecc.), lo strappamento di alcuni denti (Polinesia orientale), l'amputazione del pollice (Figiani) o di qualche falange delle dita (Boscimani). Segni meno obbrobriosi sono l'uso di strapparsi i peli della barba (Australiani, Figiani, ecc.), di radersi in tutto o in parte i capelli (Basuto, Galla, Malesi, Comanchi, Chippeway, Dacota, Tupi e altri Indiani dell'America), d'imbrattarsi la faccia o il corpo con determinate tinte (Australiani, Polinesiani, Negri africani), di lacerarsi gli indumentì o di negligerli (Malesi, Beciuana, Indiani di America, ecc.); ovvero di avvolgere la persona in vesti speciali, lasciandole sul corpo finché cadranno da sé, consumate e a brandelli. Il colore della tinta con cui i primitivi, in caso di lutto, spalmano il corpo, varia non solo a seconda dei popoli, ma anche delle circostanze e delle cerimonie funerarie. I popoli della regione del Lobi (Alto Senegal e Niger) si tingono in rosso nel momento di dare sepoltura al cadavere; si tingono, invece, in bianco nelle altre occasioni.
Queste manifestazioni si accentuano quando il morto è un capo, il re, o altro personaggio ragguardevole, e si estendono dai familiari ai dipendenti. Alcuni segni servono, poi, a indicare che il lutto è cessato. Presso i congolesi Baweka, trascorsi due anni dalla morte, il successore del defunto prende possesso della vedova, dopo averle dipinto in rosso la mano; presso varie tribù della Costa d'Avorio la tonsura della vedova indica la fine del periodo del lutto.
Alcuni etnologi in tali atti vedono riti di passaggio dallo stato d'interdizione allo stato libero, o di ritorno alla vita sociale, altri cerimonie o segni di propiziazione dei morti, o di omaggio o di subordinazione allo spirito dei trapassati.
Egitto. - L'importanza che la memoria e il culto dei trapassati ebbe già da tempi antichissimi nella vita religiosa degli Egiziani, senza mai venire meno fino all'estinguersi delle antiche credenze e pratiche con l'avvento del cristianesimo, dimostra quanta parte avesse nella coscienza di questo popolo il concetto della morte. Rimandando alla voce egitto: Religione, per quanto riguarda le credenze nella vita dell'oltretomba e nel giudizio delle anime, i riti funebri e il culto dei morti, basterà ricordare che presso gli Egiziani (come presso quasi tutti i popoli dell'antichità) la morte costituisce la proiezione nell'al di là della vita terrena, onde manca, nonostante la credenza nella retribuzione delle azioni compiute in vita, il concetto della trasformazione totale delle condizioni terrene nella vita dell'al di là: lo stesso ordinamento sociale che vige sulla terra si mantiene anche nel regno dei morti; l'idea di un regime d'uguaglianza dell'oltretomba non poteva sorgere che in religioni più perfette quali il giudaismo e il cristianesimo.
Babilonesi e Assiri. - Lo stesso concetto della morte, quale prolungamento indefinito della vita terrena, si osserva presso i Babilonesi e gli Assiri; sennonché presso questi popoli l'orientamento dello spirito è volto piuttosto verso la vita terrena, e la morte è considerata con ripugnanza, quale una condizione inferiore e triste di esistenza. I morti sono riuniti in una vasta città sotterranea; spetta ai vivi di fornire loro quanto valga a soddisfarli, sì che si astengano di uscire dalla loro sede per tormentare, in forma di demoni, i vivi. Come meno sviluppate che tra gli Egiziani sono le credenze intorno al giudizio delle anime (benché non manchino accenni a ricompense per i giusti e a castighi per gli empî), così molto più semplici che in Egitto sono le cerimonie funebri e la sepoltura. Non mancano tra i Babilonesi esempî di tombe con ricca suppellettile (esempio cospicuo le grandi tombe regali di Ur, appartenenti alle prime dinastie), ma, in generale, la preoccupazione dei vivi riguardo ai defunti è assai meno viva. Per i particolari, v. babilonia e assiria.
Ebrei e popoli affini. - Se nella civiltà babilonese e assira l'elemento semitico nomade fu assai per tempo obliterato dall'influsso della civiltà dei Sumeri sedentarî, nei popoli semitici che si stanziarono nella Siria e nella Palestina questo elemento durò più a lungo e con maggiore intensità, anche per il continuo affluire di nuovi elementi nomadi provenienti dal deserto. Così si constata presso i Fenici e gli Aramei il permanere di alcune credenze primitive, accanto ad altre più progredite, per quanto riguarda la morte e la sepoltura. Di queste ultime fanno fede le tombe sontuose, per lo più costituite da sarcofagi egiziani o egittizzanti, specialmente per i sovrani, racchiuse per lo più entro cripte (Sidone, Tiro) e munite d'iscrizioni spesso molto lunghe, quasi per intero volte a deprecare con terribili minacce l'occupazione e la violazione del sepolcro. Questo costume si perpetua attraverso i secoli fino alle iscrizioni sepolcrali dei Nabatei (v.), posteriori all'era cristiana. Da alcune espressioni delle iscrizioni sepolcrali fenicie risulta che il soggiorno dopo la morte è paragonato a un riposo, del quale è negato il godimento ai colpevoli; altrove (iscrizione aramaica di Panammu) il premio riserbato ai giusti è la partecipazione al banchetto degli dei. Ma, nel complesso, i dati forniti dalle iscrizioni sono assai scarsi e non bastano a fornire un'idea completa dei concetti sulla morte. Neppure per gli Ebrei si ha una grande abbondanza di dati. In generale l'idea di una retribuzione dopo morte è scarsamente attestata più forse perché la letteratura religiosa giunta fino a noi, formatasi sotto l'impulso del profetismo, è piuttosto rivolta al momento sociale della religione che non a quello del destino individuale dell'anima, che per la mancanza assoluta della credenza in una sopravvivenza dell'anima. Che questa esistesse (del resto nessuna religione dell'antichità ne è sprovvista), è attestato dalle tracce del culto dei morti, dalle allusioni alla vita che questi menano nel regno sotterraneo dello she'ol, dall'evocazione degli spiriti dei defunti (esempio classico quello dell'ombra di Samuele per opera della pitonessa di Endor, I Re [Samuele], XXVIII). Ma queste pratiche, appunto perché condannate come avanzi di paganesimo dalla legislazione mosaica, ci sono soltanto scarsamente e indirettamente note. I riti funebri e la sepoltura non differiscono molto presso gli Ebrei da quelli di altri popoli dell'antichità: è attestato così l'uso della sepoltura a cripta destinato a un'intera famiglia (come quello acquistato da Abramo per seppellirvi Sara), come quello della sepoltura isolata, sormontato da un cippo, talvolta chiamato maóóébeth, come il cippo di carattere sacrale, talaltra yad "mano" (forse perché ornato da una mano simbolica, come in molti cippi funerarî punici? o per la sua forma?).
Lo svolgimento ulteriore della religione ebraica, e soprattutto la concezione profetica della trasformazione che il mondo subirà alla fine dei tempi con l'avvento del regno messianico (v. escatologia; messianismo), mette in evidenza il concetto della resurrezione dei morti, che a poco a poco prevale nella coscienza popolare su quello della retribuzione individuale, senza tuttavia soppiantarlo interamente. La religione giudaica, quale è al tempo di Gesù Cristo, mostra la presenza di ambedue le credenze, non sempre chiaramente distinte.
Arabi e islamismo. - La civiltà dell'Arabia meridionale, di carattere agricolo e sedentario, presenta forme del culto dei morti molto vicine a quelle degli altri Semiti; e non molto diverse, per quel tanto che se ne conosce, sono quelle delle popolazioni dell'Arabia settentrionale, dai Nabatei (fortemente aramaizzate) ai Liḥyaniti. Il prevalere dell'elemento nomade nella maggior parte della penisola araba in seguito al decadere e allo sfasciarsi degli stati agricoli e commerciali del nord e del sud (v. arabi: Storia) rimette in primo piano, nei documenti letterarî giunti fino a noi, riferentisi all'età immediatamente anteriore al nomadismo, le concezioni tipicamente beduine, in cui lo scarso sentimento religioso, il crudo realismo, l'interesse volto alle necessità pratiche della vita, la semplicità primitiva della vita informano anche le idee relative alla morte e all'oltretomba. La morte è sentita come una perdita irreparabile, e perciò il morto è pianto con accenti di disperazione, manifestantisi nelle lamentazioni femminili e nelle elegie lungamente accorate; le tombe, di tipo assai semplice (lastre di pietra disposte a campana), sono scarsamente mantenute, anche perché il nomadismo non consente una cura continua di esse, ma vengono visitate periodicamente, e vi si fanno sacrifici e libazioni; si ha cura specialmente che esse lascino adito all'acqua piovana, sì da rinfrescare il morto perennemente assetato, la cui anima, qualora manchi di acqua, è creduta svolazzare in forma di uccello notturno. Di retribuzione dell'oltretomba non vi è traccia.
L'Islām reagisce contro queste tendenze beduine, vietando le lamentazioni funebri e i sacrifici sulle tombe. Nella sua concezione dell'al di là esso s'ispira interamente a idee giudaiche e cristiane (v. islamismo). Come queste religioni, e specialmente la seconda, esso vede nella morte da un lato il fatale retaggio del destino umano (pure senza metterla in diretta relazione col peccato originale), in cui la tendenza ascetica addita la caducità di ogni grandezza terrena, dall'altro il passaggio a una vita eterna, che per i credenti è fonte di gioia perenne.
Comune a tutti i popoli semitici è la sepoltura a inumazione. Le poche tracce di cremazione che vi si riscontrano (segnatamente presso i Fenici) vanno attribuite a influenze straniere.
Persia. - Nell'antica religione zoroastriana (e nelle sue attuali sopravvivenze nella Persia stessa, e tra i Parsi d'India) i riti accompagnanti la morte e la sepoltura sono determinati per gran parte dal concetto dell'impurità a cui il corpo soggiace appena fatto cadavere: la drūg o demonio a esso particolare vi accorre dal nord sotto forma di una mosca e se ne impossessa. Esso non può quindi essere né inumato, né tanto meno cremato per non contaminare i puri elementi dell'acqua e del fuoco. Lavato e rivestito con un abito bianco usato, il corpo viene disteso in apposito luogo della casa, e ritualmente separato dal mondo dei vivi per mezzo di tre cerchi tracciatigli attorno dai due khāndiya o portatori, che lo preparano per il trasporto funebre: si compie quindi la cerimonia del sag-dīd (sguardo del cane), in cui un cane è condotto più volte accanto al cadavere, espellendone il demone con lo sguardo. Infine altri portatori biancovestiti, collocato il corpo su una barella di ferro, e recitate le preghiere rituali avestiche, iniziano il trasporto funebre verso la dakhma. È questa una costruzione di forma circolare, contenente al centro un pozzo attorno a cui a guisa di anfiteatro, in cerchi concentrici, s'innalzano dei letti di pietra, destinati a ricevere i cadaveri. Qui il corpo è trasportato, ed esposto dai portatori (nāsā-sālār), spoglio di ogni veste, all'aria aperta sul letto di pietra. Gli avvoltoi e altri uccelli di rapina che frequentano quei luoghi, non tardano a divorare le carni, mentre gli scheletri sono due volte l'anno gettati dentro il pozzo centrale, ove si dissolvono in polvere. Nella casa donde il morto è stato rimosso, si compie una generale purificazione con bagni e accensione di fuoco profumato. La sorte dell'anima appena sciolta dal corpo, e sottratta dall'angelo Sraosh alle insidie dei demoni, è di attraversare il ponte Cinvat, teso tra la terra e il cielo, e quivi sostenere il giudizio di Mitra, dopo il quale precipita nell'abisso infernale, o è ammessa in paradiso.
India. - Il rito funebre, di gran lunga prevalente nell'attuale induismo, è quello della cremazione, essendo contemplata l'inumazione solo nel caso di fanciulli o di asceti. Il minuziosissimo cerimoniale relativo è già esposto negl'inni vedici, e soprattutto nei Sūtra. Il morente viene collocato accanto al fuoco domestico (o ai tre fuochi sacrificali da lui mantenuti), col capo rivolto a sud, e gli vengono ripetuti all'orecchio passi del Veda. Avvenuta la morte, si tagliano i capelli e le unghie del defunto, e, stesolo sulla bara, lo si riveste di un abito nuovo. Quindi muove il corteggio verso il luogo della cremazione, conducendo con sé tre becchi (o, invece di questi, tre pasticci di riso) e una vecchia vacca senza corna (anustaraṇī). A un terzo o quarto della strada, si uccide uno dei becchi, o si rovescia uno dei pasticci di riso su una zolla di terra, mentre gli astanti eseguono attorno al cadavere e alla zolla un triplice giro da destra a sinistra, con i capelli sciolti dal lato destro del capo e legati sul sinistro; cerimonie che si ripetono al secondo terzo, e alla fine del percorso. Giunti al luogo della cremazione, il corpo è collocato sulla pira, le cui proporzioni, orientazione, ecc. sono regolate da minute prescrizioni e sulla pira si depongono i fuochi sacrificali e gli attrezzi usati dal defunto per il sacrificio. La vacca anustaraṇī è allora accostata e immolata, o, nel caso che il morto non ne abbia precedentemente fatto offerta ai Bramani, lasciata andare viva dopo essere stata condotta intorno alla pira, con la recitazione di apposite formule. Anche la vedova del morto, dapprima accucciatasi sul lato settentrionale della pira, è invitata poi a ritrarsene con formule che la richiamano al mondo della vita (è qui appena necessario ricordare che sino agl'inizî del sec. XIX il barbaro uso di ardere anche la vedova era largamente praticato in India). Accesa la pira, i congiunti si ritirano evitando di fare sembianti di lutto, prendono un bagno purificatorio, e trascorrono uno speciale periodo d'impurità (āśuñca), che va da 1 a 10 giorni, e in cui si fanno offerte di riso, di acqua e latte per il morto. I resti del corpo cremato vengono in seguito raccolti (saṃcayana) in un'urna e deposti in una fossa, o ai piedi di un albero.
Come è noto (v. escatologia; induismo, ecc.), la credenza fondamentale induistica sulla sorte dell'uomo dopo morte, è quella della sua reincarnazione in base alla legge del Karman, sino ad avere acquistato quel totale stato di purità che faccia cessare il ciclo delle nascite e la confonda nell'anima universale. Ma già prima che si stabilisse la dottrina della metempsicosi, e ancora adesso ne sussistono tracce, vigeva la credenza nel regno dei morti, retto dal primo uomo Yama, e continuante nell'al di là la vita terrena.
Cina. - Alle notizie già date sulle usanze funebri dei Cinesi (v. cina, X, p. 274) si aggiungono le seguenti. Risulta dai classici confuciani (per es., Mencio, III, 1,5) che gli antichissimi Cinesi abbandonavano i cadaveri nelle campagne insepolti, spesso ricoperti di stuoie, specialmente nei periodi di epidemie, carestie e altre calamità. Sistematicamente ancora oggi i bambini defunti sono abbandonati in aperta campagna o fuori delle mura delle città, soltanto involti in stuoie, e non è loro accordata una stabile sepoltura per singolari superstizioni. Persone benefiche, specialmente nella Cina settentrionale, hanno costruito torri speciali per accogliere cadaveri di bambini. La cremazione non è soltanto limitata ai monaci buddhisti, come è spesso asserito, ma si diffuse nel popolo cinese dal principio dell'era volgare fino al sec. IX d. C. Anche membri della famiglia imperiale furono cremati nel 946 e nel 950 d. C. Un editto del 962 d. C., ispirato dai confuciani, osserva che la cremazione, universalmente praticata in quel tempo, dev'essere proibita, poiché essa offende le prescrizioni rituali. Altri editti del 1157 e del 1261 d. C., dimostrano che la cremazione era ancora comune in varie provincie, specialmente nel Shan-si, Che-kiang e Kiang-su. Durante la dinastia mongola, la cremazione era pure comune nel Fu-kien. Il codice penale della dinastia Ming, riprodotto dal codice dell'ultima dinastia Manciù, dedica varî articoli alla repressione della cremazione. Nel Kiang-si, nel 1891, era praticata la cremazione dei bambini defunti.
I cimiteri, accanto ai villaggi e alle città, sono costituiti da lunghe serie di tumuli rettangolari, ognuno dei quali porta eretta una stele, spesso senza iscrizione. Le famiglie più ricche hanno tombe di famiglia, l'orientazione e la forma delle quali è determinata non solo dalla tradizione, ma da considerazioni geomantiche.
Per il lutto, v. cina, X, p. 274.
Gli antichi Cinesi credevano che una delle varie anime riunite nell'uomo vivente (hun) salisse al cielo nel regno del Signore del Cielo (shang-ti) e lo servisse secondo il suo grado. Il Taoismo medievale e moderno ha popolato le varie costellazioni di numerose divinità che presiedono alle varie regioni del cielo e a quelle corrispondenti della terra. Le anime dei defunti si raccolgono specialmente nel Palazzo Celeste, nell'Orsa Maggiore, custodite dal lupo celeste (la stella Sirio), ecc.
Giappone. - La cremazione introdotta in Giappone col buddhismo, verso il 700 d. C., non ha mai interamente sostituito il più antico rito dell'inumazione. Il 18 gennaio 1873 la cremazione fu proibita, ma tale decreto fu revocato il 25 maggio 1875. Esistono oggi nove forni crematorî a Tōkyō. Enormi somme sono spese spesso nei funerali, specialmente dalla famiglia imperiale; le antiche cerimonie furono rigorosamente osservate nei funerali dell'imperatore Meiji, Mutsuhito, nel 1912, e dell'imperatore Taishō, Yoshihito, nel 1926. Nel 1912 il celebre maresciallo Nogi, rinnovando una tradizione forse preistorica, si uccise nel momento in cui il carro funebre usciva dal palazzo imperiale, insieme con la moglie sessantenne. I riti confuciani, e specialmente l'uso delle tavolette funebri, nelle quali risiede l'anima del defunto, sono penetrati nei culti shintoista e buddhista.
Grecia e roma. - L'idea della morte. - Presso i Greci antichissimi, l'idea della morte è inseparabile da quella di una potenza divina che la provoca: tali erano riguardati, nel periodo più arcaico, soprattutto Apollo e Artemide (v.), che nei poemi omerici ci si presentano ancora sotto l'aspetto, spesso prevalente, di divinità mortifere. In progresso di tempo, tale aspetto fu rivestito più specialmente da Ade e da Persefone (v.); i quali però, piuttosto e più spesso che come autori della morte, furono considerati come i sovrani del regno dell'oltretomba, dove le anime dei morti discendono ad abitare, e come la personificazione stessa della morte. Ma anche altre divinità erano ugualmente riconosciute dai Greci come mortifere: così Zeus, Atena, Ares. Le quali tutte, però, s'immaginava che esercitassero tale potere per mezzo di demoni (δαίμονες, πρόπολοι), ossia di ministri ai loro ordini (tali le Arpie, le Sirene: v.).
Presto, però, già in Omero e in Esiodo compare una figura che riunisce in sé e personifica il complesso di tali ministri della morte: essa è Thanatos, figlio della Notte e dell'Erebo e fratello del Sonno (Hypnos), a cui moltissimo rassomiglia; s'immaginava che i due fratelli avessero sede nelle regioni infernali, a lato delle divinità stesse sovrane degl'inferi. Thanatos rimase per lungo tempo una figura divina astratta; soltanto nella tragedia esso assume personalità concreta e definita: nell'Alcesti, egli appare sulla scena avvolto in nero manto e armato di spada; e "sacro agl'inferi dèi si fa quel capo, a cui tronca il mio brando il crin fatale". Più tardi, la rappresentazione di Thanatos si completò con l'aggiunta delle lunghe, nere ali; per cui Orazio dirà (Sat. I, 58): mors atris circumvolat alis.
I Romani rappresentarono la morte con una delle astratte, incerte figure degli indigitamenta (v.): Mors o Morta; più tardi, e specialmente nelle superstizioni popolari, personificarono la morte nella figura di Orcus, identificato poi così con Thanatos come con Ade dei Greci, ma riassumente in sé anche alcuni tratti del Caronte etrusco (v. caronte). Orco ricorre di frequente nei poeti più antichi, fino a Terenzio; più di rado in quelli dell'età augustea. Del resto, nessuna di queste personificazioni della morte arrivò a rivestire, presso i Romani, aspetto di vera e propria divinità; e gli omaggi che, nella religione romana, sì rendono alle divinità mortifere, costituiscono piuttosto una manifestazione di pietà verso i defunti che un atto di adorazione a un Dio.
Una delle più antiche rappresentazioni plastiche di Thanatos sarebbe da riconoscersi (se è giusta l'interpretazione di C. Robert) su una delle basi scolpite delle colonne dell'Artemisio di Efeso, dove sarebbe rappresentata la scena della morte di Alcesti: ivi Thanatos appare in figura di un giovane nudo, di aspetto malinconico, con le grandi ali spiegate e la lunga spada pendente dal fianco, dentro il fodero. Sulle lékythoi attiche, Thanatos si trova spesso rappresentato in compagnia di Hypnos, nell'atto di procedere al seppellimento dei morti: le due figure si rassomigliano sostanzialmente, ma Thanatos si distingue dal fratello, imberbe e di forme gentili, per essere rappresentato barbato e peloso in tutto il corpo: esso è posto, in generale, ai piedi, Hypnos invece alla testa del morto, che i due fratelli stanno deponendo ai piedi di una stele. Su monumenti sepolcrali di fanciulli, la morte è spesso rappresentata da figure di Eroti; l'Eros è di solito rappresentato in piedi, con una gamba spinta in avanti e la testa appoggiata su una torcia arrovesciata; altre volte è raffigurato disteso e addormentato.
Ma con la morte non si tronca del tutto l'esistenza dell'individuo né i suoi rapporti col mondo dei viventi. Tanto i Greci quanto i Romani ebbero, fino dalle età più remote della loro civiltà, radicata la fede nella sopravvivenza dell'anima alla morte del corpo. Quando la vita si spegne, quando lo spirito vitale (ϑυμός, spiritus) si scioglie dal corpo, l'anima (ψυχή, anima: ma si badi che, pei latini, spiritus e anima sono una cosa sola; è lo stesso spirito vitale, l'anima che sopravvive al corpo) esce volando e scende nell'oltretomba, nel regno di Ade, nell'Averno. L'esistenza, triste e grigia, delle anime nell'oltretomba, non è però del tutto appartata da quella dei vivi e indifferente a essa; s'immaginava che le anime dei defunti, più volte all'anno, in determinate ricorrenze, ritornassero sulla superficie della terra e prendessero così diretto contatto col mondo dei viventi, e ad esse si attribuiva poi il continuo influsso, benigno o malevolo, sull'esistenza di quelli (per l'oltretomba greco e romano, v. ade; averno; mani). Da tali credenze doveva naturalmente scaturire la necessità di un culto dei morti.
Il culto dei morti presso i Greci. - Non v'è dubbio che il culto dei morti risalga, in Grecia, ai tempi antichissimi: ne fanno fede le tombe dell'età micenea, le quali mostrano che il corpo del defunto veniva seppellito, dopo che, in quel luogo stesso, si era offerto un sacrificio funebre, generalmente di pecore e di capre, e si era adornata la tomba di un'abbondante suppellettile. Siffatto rito funebre è da mettersi indubbiamente in rapporto con l'idea che i Greci preomerici si erano fatti della vita dell'anima; il pensiero di questa vita che sopravviveva alla morte del corpo, destava terrore; le anime dei morti erano perciò riguardate come genî malefici, dai quali bisognava in qualche modo proteggersi. Nacquero così le forme assai note dell'antico culto dei morti: adornamento delle tombe con suppellettili e vettovaglie, offerte di primizie e di cibarie, sacrifici di animali, e anche vittime umane, a soddisfazione delle anime dei defunti. Nell'età omerica cambiò l'idea che i Greci si facevano dell'esistenza dell'anima nell'oltretomba. L'epopea ci dimostra che allora, benché si seguitasse a praticare siffatto culto delle anime, se n'era però dimenticato il significato e lo scopo originario, avendo allora preso il sopravvento su ogni altra la concezione della vita inconscia e indifferente delle anime nell'oltretomba.
Le varie manifestazioni di un culto delle anime, che occorrono nell'epica, sono pertanto da considerarsi come sopravvivenze di riti dell'età precedente (micenea), nella quale si attribuiva alle anime il potere d'influire, in senso buono o cattivo, sulle cose di questo mondo e si sentiva quindi la necessità di propiziarsele coi sacrifici; venuta poi a predominare l'idea dell'assoluta separazione dell'anima, che sta nell'Ade, dal mondo dei viventi, e della sua inerzia e impossibilità a entrare, comunque, in contatto coi vivi (idea rafforzata e integrata anche dal nuovo rito della cremazione), mancò ogni ragione e ogni significato di un culto dei morti, dopo compiuta quella cremazione del cadavere che assicurava, appunto, la discesa dell'anima nell'Ade; alla fine dell'età omerica, e cioè dal sec. VIII in poi, risorse però la fede, già perdutasi, in una vita attiva dell'anima nell'Ade e con essa l'antico culto.
Sta il fatto che i riti funebri dei periodi miceneo e omerico si continuarono a praticare, con sempre maggiore diligenza, nei secoli VIII e VII e nei successivi. Primo ufficio da rendere al defunto, perché esso trovi pace nell'oltretomba, è quello della sepoltura, che, quando non si possa compiere effettivamente, deve almeno essere celebrata in forma simbolica. Il primo, pietoso ufficio che si rendeva al defunto, appena spirato, era quello di chiudergli gli occhi e la bocca, e coprirgli indi il viso con un velo o con un panno. Quindi il cadavere, lavato e unto, rivestito di panni nettissimi, col capo ravvolto in ghirlande e bende, restava un giorno esposto in casa, sul letto di morte, coi piedi rivolti verso la porta; accanto alla salma si recitava quindi dalle donne della famiglia il lamento funebre, di cui le leggi regolavano e limitavano, in varî stati (per es., quelle di Solone in Atene), i modi e le forme. Dinnanzi alla porta di casa, si collocava un vaso pieno di acqua attinta a qualche casa vicina, affinché le persone che uscivano si potessero purificare prima di venire in contatto con altri.
Al mattino del terzo giorno dopo la morte, si formava un numeroso corteo funebre (la cui pompa era pure, in molte città, regolata da apposite leggi), che accompagnava il cadavere al luogo della sepoltura.
È da tenere presente che, in età postomerica, ritornò in uso, accanto al rito della cremazione, quello dell'inumazione: in tale caso, il corpo veniva rinchiuso in una cassa di argilla o di legno o, secondo l'uso greco più antico, deposto semplicemente sopra uno strato di foglie o su un giaciglio di pietra. Nella tomba, si lasciava presso la salma (o presso le ceneri di essa) abbondante vasellame e altra suppellettile, per dare modo, almeno simbolicamente, al morto di continuare nell'al di là la sua solita vita. Questo corredo funebre andò però sempre diminuendo; nelle tombe attiche del sec. V non si trovano più che le caratteristiche leciti. Si andò invece diffondendo sempre più l'uso di porre in bocca al morto una moneta da pagarsi a Caronte (v.) come prezzo di passaggio nell'Ade (si confronti, a tale proposito, l'uso, non infrequente presso il popolo, di custodire in bocca le piccole monete).
Composto il defunto nella sua eterna dimora, non era con ciò finita la serie delle cerimonie pietose. La tomba era sacra e inviolabile a tutti, e la cura e il culto di essa spettava alla famiglia del defunto; e ciò anche quando le tombe, che un tempo erano state nell'interno stesso della casa, furono relegate, per scrupolo religioso e per necessità sociale, fuori delle mura. Subito all'atto del seppellimento, si versava sulla tomba una libagione di vino, olio e miele; e non erano rari i sacrifici cruenti, umani in età più antica (cfr. il funerale di Patroclo nell'Iliade, XXIII, v. 166 segg.), di animali in tempi più recenti. Al ritorno dalla cerimonia, i familiari si riunivano a banchetto funebre (περίδειπονον), al quale si considerava partecipasse anche l'anima del morto. Al morto stesso veniva offerto un pasto sulla sua tomba nel terzo e nel nono giorno dalla sepoltura (τρίτα, ἔνατα) e con esso finiva anche generalmente il lutto (a Sparta, però, il periodo del lutto era di undici giorni).
Ma, col finire del lutto, non aveva termine il culto del morto. Il trentesimo giorno di ogni mese (τριακάδες) era sacro ai morti; e in questi giorni, come anche negli anniversarî della nascita (γενέσια), e forse anche della morte, del defunto si portavano offerte e libagioni alle tombe dei proprî cari (per le fonti, vedi Rohde, Psiche, trad. it., I, p. 236). Né mancavano feste pubbliche a data fissa, in onore dei morti: tali, ad Atene, le Genesie del 5 Boedromione, le Nemesie e le primaverili Antesterie, sacre a Dioniso, quando si credeva che le anime dei morti ritornassero per qualche tempo nel mondo dei vivi, e il cui ultimo giorno, chiamato dei Chitri (χύτροι), era sacro a Ermete Psicopompo, cui s'imbandivano offerte. Le pitture degli unguentarî del sec. IV riproducono spesso, nella loro semplice intimità, codeste scene del culto domestico delle anime. E tutto questo culto delle anime presuppone la credenza popolare della dimora dell'anima nella tomba o nei pressi di questa; credenza che coesisteva, in Grecia come a Roma, con l'altra, della dimora di tutte le anime nell'oltretomba comune (v. averno).
Il culto dei morti presso i Romani. - Anche i Romani credettero, fino dai tempi più antichi cui ci è dato risalire, alla sopravvivenza dell'anima del morto; come dimora della quale essi riguardavano la tomba stessa, senza che ciò escludesse l'idea dell'oltretomba comune. Presso le tombe si svolgevano pertanto le cerimonie rituali che accompagnavano e seguivano l'inumazione o l'incinerimento dei defunti, soprattutto le offerte di cibi e di bevande, che si riguardavano come somministrazioni fatte ai defunti lì dimoranti; mentre si riteneva che i morti che non ricevessero tali offerte fossero tormentati dalla fame e uscissero a perseguitare i negligenti (v. averno). Siccome brune o nere s'immaginavano le anime, così a esse s'immolavano animali di colore scuro, ed erano loro sacri alberi scuri o dagli oscuri frutti (atra cupressus), e nere vesti si portavano in segno di lutto. Per la stessa ragione la notte era il tempo preferito per le cerimonie funebri; e, in origine, il trasporto alla tomba (la translatio cadaveris) si faceva sempre di notte, e sempre di notte si celebravano i lettisternî e i ludi dedicati ai defunti.
Anche a Roma si onoravano i morti, a epoche determinate, con cerimonie private e pubbliche: a loro erano dedicate le feste Parentalia e le Lemuria e i giorni in cui si apriva il mundus, cioè il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Le Parentalia (o dies parentales) si celebravano dal 13 al 21 di febbraio; e durante questi nove giorni ogni famiglia onorava con determinate offerte i proprî morti, cioè le anime degli antenati, i di parentum; l'ultimo giorno (Feralia) la festa, nel suo momento più solenne, rivestiva carattere pubblico: subito dopo, il 22 febbraio, le famiglie si riunivano, per la festa delle Caristia (o cara cognatio), a solenne banchetto. Le Lemuria ricorrevano il 9, l'11 e il 13 maggio; durante questi giorni, come anche in quelli delle Parentalia, i templi restavano chiusi, si sospendeva la trattazione di ogni affare, non si celebravano matrimonî: scopo delle cerimonie e delle preghiere di questi periodi era di tenere lontane dalla casa le ombre dei morti, le larve aggirantisi nottetempo intorno alla loro antica dimora. Negli altri tre giorni indicati, infine, rimaneva aperto il mundus, quella fossa, cioè, che si riteneva mettesse in comunicazione l'oltretomba col mondo dei vivi e attraverso la quale le anime risalivano sulla terra, a godere delle offerte che venivano per loro deposte (v. Averno).
In epoca imperiale, fu molto diffusa in Italia, e anche in altre parti dell'impero, la "festa delle rose" (rosalia, ροδισμός): in un giorno del mese di maggio, le singole famiglie - o i membri dei collegi funerarî - si recavano a visitare le tombe dei morti, deponendovi offerte di frutta e di fiori e corone di rose: questo rito, al quale si attribuisce da alcuni origine orfico-dionisiaca, sarebbe invece, secondo altri, di carattere prettamente italico. Assai in uso erano anche l'offerta primaverile delle viole (violatio) e le offerte vendemmiali dell'autunno. E del resto la consuetudine gentile di portare fiori alle tombe fu sempre molto diffusa nel mondo romano, e vi accennano spesso le iscrizioni metriche sepolcrali.
Sistemi di sepoltura presso i Greci. - Come si è già avuto occasione di accennare, presso i Greci antichi furono noti e usati così il rito dell'inumazione come quello della cremazione. Più frequente e diffusa però fu sempre l'inumazione, come più facile e meno costosa, essendo la cremazione riservata a casi particolari, di grandi morìe, per guerre o pestilenze, o di morti avvenute lontano dalla patria del defunto. In ogni modo, non v'è dubbio che nell'età postmicenea, quale si riflette nei poemi omerici, la cremazione fu preferita e acquistò il sopravvento, presso le classi più elevate della popolazione: nell'età premicenea e micenea, invece, e nei periodi posteriori della civiltà greca, l'inumazione fu senza confronto il rito più diffuso, almeno fino all'età romana, quando la cremazione si fece di nuovo più frequente. E perciò, quando Luciano contrappone Elleni a Persiani, osservando che quelli bruciavano e questi sotterravano i loro cadaveri, il contrapposto va inteso solo nel senso che i Persiani, a differenza dei Greci, non praticavano punto il rito della cremazione. Del resto, quanto fosse radicato negli antichi il rito dell'inumazione, lo mostra la cura che si aveva che nessun cadavere, anche se di straniero o d'ignoto, rimanesse insepolto, e l'importanza che si dava, dopo ogni battaglia, al seppellimento dei cadaveri, anche se, per necessità, in fosse comuni (πολυάνδρια). Tale sentimento spiega l'usanza invalsa, quando non si potessero ricuperare i resti di un morto, di allestirgli tuttavia una tomba vuota (κενοτάϕιον), in tutto eguale ad una vera.
Per l'incinerazione dei cadaveri, si preparava il rogo con legna accatastate; su esso si deponeva il cadavere con gli oggetti a lui già cari e con vasi di profumi e di unguenti; indi vi si appiccava il fuoco. Compiuta la cremazione, si raccoglievano i resti delle ossa, che venivano custodite in urne di metallo prezioso o in appositi vasi. Nel rito dell'inumazione, il cadavere veniva prima racchiuso in casse di legno o di argilla, raramente di pietra (i sarcofagi di pietra o di marmo, sebbene se ne abbiano esempî antichissimi, come il sarcofago di Hágia Triáda, non divengono frequenti che in età tarda). I cadaveri delle classi più povere si seppellivano in sepolcreti pubblici, in terreni a ciò destinati; i ricchi si facevano invece costruire o scavare nella roccia apposite tombe o sistemare speciali luoghi di sepoltura per le loro famiglie, nei possessi di campagna: e non di rado le tombe dei grandi e dei ricchi si ersero come veri e proprî, spesso grandiosi, monumenti. Ordinariamente il luogo di sepoltura, di qualunque specie essa fosse, doveva essere scelto fuori delle mura della città, in vicinanza di una delle porte; la tomba nell'interno della città rappresentò sempre uno speciale segno di distinzione. Quanto al corredo funebre che si seppelliva insieme col morto, vedi quanto si è detto sopra.
Il luogo dove il defunto era stato sepolto, veniva generalmente indicato con una pietra sepolcrale, la quale portava un'epigrafe, spesso in forma metrica, e, talora, soltanto l'indicazione del nome e della patria del morto. Caratteristiche furono, a tale riguardo, quelle lapidi di pietra o di marmo, disposte verticalmente e chiamate stele (στῆλαι), sulla cui faccia era dipinta, ma più spesso scolpita, l'immagine del defunto, in uno degli atteggiamenti e degli abbigliamenti che gli erano stati più familiari in vita.
Funerali romani. - A Roma, dopo che si era raccolto con un bacio l'estremo respiro del defunto, gli si chiudevano pietosamente gli occhi e la bocca e si ripeteva ad alta voce il nome (conclamatio). Poi cominciava la preparazione del cadavere, della quale spesso erano incaricati i ministri di Libitina, libitinarii (v. libitina), e che richiedeva pratiche diligenti, se, com'era d'uso, specie nelle classi più ricche, il cadavere doveva rimanere esposto più giorni. A tale uopo, lo si lavava con acqua calda e lo si ungeva con unguenti atti a ritardarne la decomposizione; in certi casi, si procedeva a una vera e propria imbalsamazione. Quindi il cadavere, rivestito degli abiti proprî della sua condizione da vivo, adornato di gioielli, veniva composto nell'alto letto funebre e collocato nell'atrio, coi piedi rivolti verso la porta e circondato di torce, lampade, candelabri, cassette d'incenso e di fiori. Anche presso i Romani fu assai diffusa l'usanza di porre in bocca al morto una moneta, come obolus Carontis.
Durante i giorni dell'esposizione della salma - che, nelle famiglie ricche, si poteva prolungare anche per una settimana - si faceva dai parenti il lamento funebre. Indi s'iniziava il vero e proprio funerale (funus), che comprendeva la composizione della salma nella bara, la formazione del corteo funebre e la sepoltura del cadavere: di tutte queste operazioni si occupavano i libitinarii, dei quali si servivano anche i poveri. I funerali si facevano, in età storica, ordinariamente di giorno, tranne i casi di esequie di fanciulli (funera acerba) o di poveri; e le famiglie nobili e ricche andavano a gara nell'allestire funerali pomposi e costosi, che più volte, ma sempre invano, si tentò di moderare o di reprimere col rigore delle leggi.
Annunziato da un araldo per tutta la città, il funerale moveva, all'ora stabilita, dalla casa del defunto: lo aprivano i musicanti; seguivano i portatori di torce, le prefiche, i danzatori e mimi, indi le immagini degli antenati; poi, preceduto da littori in nere vesti (in numero corrispondente alla dignità del defunto) e coi fasci abbassati, seguiva il feretro, portato a spalla dai parenti stessi oppure da liberti o da cittadini ragguardevoli; seguivano il feretro i parenti e gli amici in abito da lutto. I cortei funebri di personaggi importanti passavano di solito pel Foro; quivi sostavano dinnanzi ai rostra, dove si pronunziava la laudatio funebris.
Il corpo del defunto era collocato presso i rostri, spesso in piedi, perché tutti lo vedessero. Ivi in mezzo alla folla accorsa, il figlio o, in mancanza di lui, uno dei parenti, saliva i rostri e pronunziava l'elogio del defunto.
Niente si può dire con certezza sull'origine di questo rito. Tuttavia non è improbabile che da principio i patrizî fossero lodati nelle loro esequie da qualche parente e che poi questa cerimonia da privata divenisse pubblica. Certo è che si tratta di un costume romano. L'onore della laudatio funebris toccava solo agli adulti. Dapprima l'ebbero solo i patrizî, poi i plebei, infine anche le donne. Come abbiamo detto, doveva tenere l'elogio del defunto il figlio o il parente più stretto. Le eccezioni sono rare nell'età repubblicana e si possono giustificare facilmente. Invece nell'età imperiale il senato ne diede spesso l'incarico ai magistrati. Solo chi aveva il diritto di parlare in pubblico (ius contionandi) poteva lodare il morto. La laudatio si faceva di regola nel Foro. Quando un personaggio riceveva, come accadde qualche volta durante l'impero, due laudationes, una era pronunziata nel Foro, l'altra in un altro luogo, talora anche tutt'e due in due luoghi diversi del Foro.
Come ben s'intende, molte laudationes furono pubblicate dopo la cerimonia funebre: gli esempî più antichi che noi conosciamo sono la laudatio di Q. Cecilio Metello in onore del padre Lucio (221 a. C.), quella di M. Claudio Marcello in onore del padre Quinto (anno 208), quella di Q. Fabio Massimo in onore del figlio Quinto (fra il 207 e il 203). Ma spesso le famiglie illustri riposero per orgoglio di casato nei loro archivî laudationes falsificate, che attestavano un numero maggiore di magistrature e di trionfi. Talvolta avvenne che per varie circostanze non si poté pronunciare la laudatio, e allora questa dopo qualche tempo fu scritta e pubblicata. L'esempio più antico che noi conosciamo è quello di Bruto che scrisse e pubblicò la laudatio del suocero Appio Claudio. La materia degli elogi funebri era varia. Per lo più dopo l'esordio si parlava degli antenati del defunto, poi dell'educazione giovanile, delle magistrature, delle gesta, dei costumi, delle condizioni familiari. In ultimo c'erano parole di conforto ai superstiti. Noi abbiamo notizia di poco meno di quaranta laudationes. Nessuna ci è arrivata intera, solo di poche ci restano brevi frammenti. La cosiddetta laudatio di Turia è un'epigrafe, composta di sei frammenti, di cui tre si conservano ancora e l'ultimo fu scoperto e pubblicato da D. Vaglieri l'anno 1898. È mutila in principio, perciò non sappiamo né il nome della defunta, né quello del marito, che fece incidere nel marmo l'elogio in suo onore. L'epigrafe fu scritta nell'età augustea e non prima del 27 a. C., perché Cesare Ottaviano aveva già il titolo di Augusto. Questa epigrafe non è propriamente una laudatio, specialmente perché il marito non si rivolge ai Quiriti, com'era consuetudine di chi pronunziava un elogio funebre, ma alla moglie, e poi perché la laudatio si pronunziava nel giorno stesso delle esequie, e questa epigrafe come appare dal contesto fu composta qualche tempo dopo. La laudatio di Murdia è anch'essa un'epigrafe, ma molto più breve della precedente; solo dall'ortografia e dalla grammatica si rileva che è dell'età augustea, perché nulla si può stabilire dal contesto. I Greci e i cristiani presero dai Romani la prassi della laudatio funebris. I retori greci, a cominciare da Dione di Prusa, e i vescovi cristiani, a cominciare da Gregorio di Nazianzo, pubblicarono discorsi pronunziati realmente o no in onore di defunti.
Sistemi di sepoltura romani. - In Italia e a Roma, i due riti dell'inumazione e dell'incinerazione coesisterono l'uno accanto all'altro fino dal sec. VIII, con prevalenza ora del primo, ora del secondo. Alla fine della repubblica e nel sec. I dell'impero, la pratica della cremazione fu quella ordinariamente seguita; e la moda si diffuse, con qualche ritardo cronologico, nella maggior parte delle provincie. Questo rito venne poi decadendo dall'uso nel corso del sec. III; gli ultimi esempî sono dell'età di Costantino, ma già dal principio del sec. III non si cremavano più gli imperatori. Il cambiamento non pare dovuto a influssi religiosi, né a nuove idee sull'oltretomba (fatta eccezione, naturalmente, per i cristiani), ma semplicemente a una questione di moda, d'accordo anche con la rinnovata usanza dei sarcofagi (Nock).
Il luogo di sepoltura era sempre scelto fuori delle mura della città: in caso d'incinerazione, si innalzava il rogo in apposita località (ustrina), vicina al luogo destinato alla deposizione delle ceneri; sul rogo il cadavere era collocato insieme col lectus, e la cremazione si compiva con modalità non dissimili da quelle dei Greci: i resti della cremazione erano raccolti dai familiari in apposite urne cinerarie. Meno diffuse notizie abbiamo sul rito della inumazione, praticato generalmente dalle classi povere.
Poco però differivano le tombe, sia che vi si deponessero le salme degl'inumati sia le urne cinerarie dei cremati. Le famiglie povere seppellivano i loro defunti in grandi necropoli: in pozzetti (puticoli) i cadaveri, in colombarî (v. colombario) le urne: a Roma, furono molto usate per tale scopo, in età repubblicana, le pendici dell'Esquilino. Le famiglie più abbienti disdegnavano i sepolcreti comuni, e facevano seppellire i loro morti (o, più spesso, deporre le urne con le loro ceneri) in luoghi riservati, sui quali poi la memoria del defunto veniva eternata con un monumento funerario. Siffatte tombe monumentali si ergevano spesso in vicinanza delle porte delle città, lungo le vie che partivano da esse; ed è appena necessario di ricordare le tombe della Via Appia e la Strada dei sepolcri di Pompei. La maggior parte di queste tombe sono non individuali, ma di famiglia, e contenevano ciascuna parecchie camere sepolcrali, nelle quali si deponevano in buon numero urne o sarcofagi. Caratteristica è la costruzione di alcuni di tali monumenti sepolcrali in forma di triclinio, corrispondente all'idea che anche il morto si allietasse delle gioie del cibo.
La morte, i funerali e il lutto nel diritto romano. - Le fonti giuridiche romane non dettano norme d'interesse speciale circa questo momento finale della personalità umana, e ai Romani, nel moderno tecnico significato, è ignoto anche l'istituto giuridico dell'assenza. Essi operano, per quanto attiene all'onere di provare la morte di una persona, con le norme probatorie generali: la prova incombe a chi, da quella morte, vuole derivare diritti, per esempio, di successione. I Romani non conobbero neppure atti di stato civile. Il diritto romano poneva la regola generale che in caso di commorienza di più persone per comune infortunio, esse si presumessero morte insieme. Questa presunzione era soltanto iuris, cioè eliminabile dalla prova contraria. Soltanto il diritto giustinianeo, come ha dimostrato C. Ferrini, poneva delle presunzioni di premorienza in caso di padre e figlio soggiacenti per lo stesso evento (Dig., XXXIIII, 5, de reb. dub., 9, 4 e 10).
L'importanza religiosa che fino dalla più remota antichità vennero assumendo i funerali e le istituzioni funerarie, si spiega con la credenza che l'insepolto (e tale si considera anche chi non abbia ricevuto sepoltura rituale) si renda funesto ai proprî familiari. Di qui la preoccupazione in chi moriva di raccomandare o imporre ai superstiti coi termini e coi mezzi più varî (legati, fidecommessi, mandati post mortem) il compimento dei riti funerarî e degli altri iusta, idonei ad assicurargli la pace dell'oltretomba; di qui nei superstiti la preoccupazione, ancora più imperiosa, di propiziare con onoranze funebri la pace dei proprî defunti e impedirne la nocività. Ma per avere una sepoltura rituale (iustum sepulchrum) era necessario che essa fosse preceduta dai funerali e che questi fossero conformi alle prescrizioni del diritto pontificale. E poiché non si potevano rendere onori funebri ai cadaveri mutilati, alle persone uccise dal fulmine, ai condannati al supplizio, ai suicidi, così ne seguiva che costoro non potevano avere sepoltura rituale. Non era la solennità dei funerali quello che contava; il rito funebre si considerava ritualmente compiuto così nel caso di funerali fastosi (funera indictiva, funera collaticia, funera publica, funera censoria, funera publica municipalia), come in quello di funerali modesti (funera translaticia, vulgaria, plebeia). Ad assicurare il funerale e l'inumazione agl'individui appartenenti alle classi più umili (tenuiores e servi) provvedevano nelle città e nelle campagne speciali associazioni (collegia funeraticia, collegia tenuiorum), ricordate di frequente nelle fonti giuridiche ed epigrafiche, nelle quali si debbono rintracciare le prime forme giuridiche dell'assicurazione.
Il pretore romano promette a chi ha provveduto e sostenuto le spese per i funerali l'actio funeraria, azione probabilmente di origine sacrale e pontificale in forza di una clausola edittale che così ci viene riferita da Ulpiano (Dig., XI, 7, de rel. et sumpt. fun., 12, 2): Quod funeris causa sumptus factus erit, eius reciperandi nomine in eum ad quem ea res pertinet, iudicium dabo. È ignota la data di questo editto, che però è certamente tra i più antichi, come si rileva dalla sua forma diretta. Legittimato attivamente all'azione è chi, senza esservi obbligato, abbia provveduto ai funerali e alla sepoltura del defunto (non congiunto) non semplicemente pietatis o humanitatis causa, ma animo negotia aliena gerendi e anche (è dubbio però se già per diritto classico) contro il divieto di colui che fosse tenuto a funerare: l'azione compete contro colui ad quem funus pertinet. Legittimati passivamente all'azione sono: anzitutto la persona designata dal testatore; in mancanza di designazione l'heres, data la stretta connessione fra i sacra e l'hereditas (contro l'opinione del Leist, secondo il quale l'obbligo religioso dei funerali spetta al gruppo cognatizio, cfr. le decisive argomentazioni di P. De Francisci, in Annali università Perugia, 1921, p. 293 segg.), il bonorum possessor, il dominus, il pater familias. La nuova legislazione imperiale, col prevalere dell'elemento patrimoniale nel campo ereditario, aggiunge alcuni casi anomali di legittimazioni passive, nei quali i sumptus funerum si considerano come un onere del patrimonio ereditario, un aes alienum che grava su coloro che dall'eredità risentono un vantaggio economico.
L'azione funeraria, che è perpetua, in bonum et aequum concepta, trasmissibile ereditariamente sia dal lato attivo sia dal lato passivo, compete con privilegio sull'eredità per tutte le spese sostenute nella misura corrispondente alla dignità e posizione sociale del defunto. Essa comprende tutte le spese senza le quali funus duci non possit (spese di abbigliamento della salma, spese per la veglia, per il trasporto di essa, per le cerimonie che l'accompagnano, spese per l'acquisto del luogo di sepoltura). Compete in diritto giustinianeo un'actio funeraria utilis a chi abbia assunto la cura del cadavere, nell'erronea credenza che egli fosse tenuto a funerare, contro colui che è invece effettivamente obbligato.
La morte di un prossimo congiunto importa una serie di prescrizioni di carattere religioso e sociale, le quali vengono ad avere anche alcune sanzioni dal diritto. È fatto obbligo, secondo i mores, ai prossimi congiunti del defunto di non partecipare a feste e a pubblici spettacoli, d'indossare vesti speciali; alle vedove di non contrarre nuovo matrimonio entro 10 mesi o un anno dalla morte del marito.
Già in una legge attribuita a Numa Pompilio (Plut., Numa, 12) si fissa il termine di un mese di lutto in caso di morte di fanciullo minore di tre anni, di un mese per ogni anno di età per persona da tre a dieci anni, e si stabilisce che il massimo periodo per il lutto non debba eccedere i 10 mesi. Entro questo periodo è vietato alle vedove il secondo matrimonio sotto la sanzione di un sacrifizio espiatorio. Il medesimo termine troviamo ricordato in varî altri passi letterarî e giuridici, talvolta espresso in dieci mesi, talvolta in un anno (ricordiamo che in origine l'anno era di 10 mesi), talvolta nelle fonti giuridiche indicato semplicemente con legitimum tempus (interpolazione giustinianea). Una costituzione del 381 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Cod. Theod., III, 8,1; Cod. Iust., V, 9, de sec. nupt., 2) stabilisce decisamente il termine di un anno per le vedove.
Hanno l'obbligo del lutto le donne, per il marito, per gli ascendenti, i discendenti, i figli, gli agnati e i cognati, inoltre il figlio per la morte del padre e della madre (Dig., III, 2, de his qui not., 25 pr.), la familia dell'erede (Dig., XLV, 3, de stip. serv., 28, 4) per 9 giorni che hanno termine con la coena novemdialis.
Da un passo di Paolo (Sent., I, 21, 13, tratto dal Codex Vesontinus) e dal fr. 25 del libro III, 2 del Digesto, sembrerebbe che anche gli uomini fossero obbligati al lutto per gli ascendenti, gli agnati e i cognati. Talvolta le donne sono obbligate da un decreto pubblico a portare il lutto per uomini benemeriti della patria. Non vi è invece obbligo di portare il lutto per gli hostes, i perduelliones e i suicidi. I censori dovevano applicare la nota contro coloro che, contrariamente alle prescrizioni religiose, non osservavano il lutto. L'editto del pretore, quale ci è conservato in Fragm. Vat., 320 e in Dig., III, 2, de his q. n.,1, comminava l'infamia alla donna, la quale non osservava il lutto per il marito, per gli ascendenti e per i figli, alla donna che passava a seconde nozze entro il periodo prescritto per il lutto del marito, al paterfamilias che collocava in matrimonio la figlia vedova, al secondo marito e al paterfamilias di questo. Si può però dubitare se nella lista delle persone colpite dalla nota pretoria non fossero compresi anche gli uomini, i quali non avevano osservato il lutto per gli ascendenti, i discendenti, gli agnati e i cognati. Certo si è che per quanto riguarda l'osservanza del lutto per gli ascendenti, i discendenti, gli agnati e i cognati, il diritto giustinianeo stabilisce che ciascun uomo è libero di regolarsi come crede, secondo la sua pietà, senza incorrere in nessuna pena. Il divieto pretorio alla vedova di sposarsi entro il tempo fissato per il lutto del marito, sembra fondarsi su un doppio ordine di ragioni: obbligare all'osservanza della reverentia ai Mani del defunto e impedire la turbatio sanguinis. Perciò anche le vedove degli uomini, per la cui morte non vi è obbligo di lutto, non possono passare a nuove nozze entro il tempo prescritto, a meno che non abbiano partorito. Nondimeno, il matrimonio compiuto contro il divieto è pienamente valido: solo espone i trasgressori all'infamia. Nel diritto postclassico e giustinianeo il motivo della reverentia ai Mani, fondato su concetti religiosi pagani, sparisce, lasciando solo quello della turbatio sanguinis. Di conseguenza si hanno, soprattutto nel diritto delle Novelle, varie innovazioni: oltre a introdurre nuove e gravissime pene patrimoniali contro la vedova, Giustiniano punisce anche la donna che entro l'anno del lutto ha avuto un figlio da persona diversa dal marito.
Il senato in origine e più tardi gl'imperatori possono diminuire il lutto o concedere dispense speciali.
Odierni popoli occidentali. - Liturgia cattolica. - Allorché la morte, per il corso d'una malattia o per tragico incidente, pare imminente, la Chiesa propone tutta una complessa liturgia, che è raccolta e spiegata nel Rituale, e consta fondamentalmente di tre parti; confessione e comunione in forma di "viatico" spirituale per l'eternità; poi "estrema unzione"; indi "raccomandazione dell'anima", vale a dire recita di alcune esortazioni e preghiere. Anche senza il pericolo di morte, i malati hanno diritto a cure particolari, e questo sino dai primi tempi cristiani; ma per il moribondo, il parroco di sua giurisdizione ha l'obbligo di visitarlo con frequenza, e il Rituale suggerisce preghiere e benedizioni speciali. Le preci della raccomandazione dell'anima propriamente detta risalgono, alcune, a prima del Mille; altre, come la Commendo te che è di S. Pier Damiani (in Patrol. Lat., CXLIV, col. 497 seg.), a poco dopo: l'intero rito è dell'alto Medioevo.
Le cure per il morto recente sono anch'esse antiche, e tutta la liturgia mortuale - benedizione della salma, traslazione dalla casa in chiesa, ufficio dei morti, messa funebre, assoluzione del tumulo, accompagno al camposanto, sepoltura, e susseguenti suffragi - come pure la legislazione relativa, suppongono e provano da parte della Chiesa la massima cura.
Particolarmente notevole, nella legislazione funeraria, tutto quello che riguarda la sepoltura e i cimiteri e la proibizione della cremazione ivi (Codex iuris canonici, can. 1203); come pure, nella liturgia, è notevole la preghiera costante per i morti, la quale appare anche nel Canone della messa, e la consacrazione d'un giorno nel calendario ecclesiastico al loro ricordo e culto, cioè il 2 novembre.
I funerali nel diritto canonico. - Le norme della legge canonica sui funerali (Codex iuris canonici, can. 1215 segg.) si collegano a quelle sulla sepoltura ecclesiastica (can. 1203 segg.) per la quale la Chiesa, nonostante le riforme amministrative che da tempo hanno avocato all'autorità statale la sorveglianza sulle sepolture laicizzandole, ha sempre riaffermato teoricamente il suo diritto. Il primo momento della sepoltura ecclesiastica, nella sua forma ordinaria che è quella parrocchiale, consiste nel levare il cadavere (levare cadaver) dalla casa del fedele o dal luogo del suo trapasso per associarlo alla Chiesa funerante che è l'ecclesia paroecialis (deducere ad ecclesiam), il secondo momento consiste nel celebrare le esequie (exequias persolvere); il terzo momento nell'accompagnamento della salma al cimitero (comitare cadaver ad locum sepulturae).
Il principio ubi tumulus ibi funus, proprio di un'epoca in cui la Chiesa e il cimitero costituivano un'inscindibile unità topografica, ha ceduto oggi il posto a un principio contrario: ubi funus ibi tumulus; e ciò sia in caso di sepoltura elettiva, in cui l'ecclesia prescelta per il funerale vale anche per la tumulazione, sia in caso di sepoltura gentilizia, in cui il diritto di associare ad essa la salma spetta a chi ha celebrato le esequie.
Il percorso e l'ordinamento dei funerali religiosi spetta di regola al parroco; non si ammettono al seguito società o insegne manifestamente ostili alla religione. La legge canonica riconosce al parroco un diritto ad onorario secondo tariffa (can. 1234); solo per i poveri il parroco ha l'obbligo di funerare senza diritto a compenso (can. 1235). Quando le esequie di un fedele non avvengano per propria elezione nella sua chiesa parrocchiale, il parroco di questa ha diritto a una quota parte degli emolumenti da parte della chiesa funerante (portio paroecialis o canonica: can. 1236).
La sepoltura di chi abbia rifiutato i funerali religiosi o di chi, non avendo potuto ricevere l'assoluzione sia stato funerato senza di essi, non viola il carattere sacro del cimitero, tranne che si tratti di persona colpita da sentenza di scomunica.
Diritto moderno. - Si è visto che le fonti giuridiche romane non dettano norme speciali circa la morte, e che ai Romani è ignoto anche l'istituto giuridico dell'assenza, le cui basi furono poste nella pratica medievale.
Le norme del nostro diritto stabiliscono, analogamente al sistema romano, che chi voglia derivare diritti dalla morte di una persona deve fornirne la prova; uguale prova deve fornire chi sostenga la priorità della morte di una persona rispetto a un'altra. Normalmente tale prova si potrà fornire con la pubblicità ufficiale degli atti di morte, ovvero con i mezzi equipollenti dettati dalla legge (artt. 363 e 364 del c. civ.). Ma l'anteriorità della morte di una persona rispetto a un'altra può, talvolta, riuscire di difficile prova: ciò si verifica quando, in occasione di circostanze del tutto speciali, più persone muoiano contemporaneamente (commorienza). Eppure anche qui può avere giuridica importanza lo stabilire l'anteriorità della morte dell'uno rispetto all'altro, se i commorienti sono chiamati a succedersi reciprocamente.
Si è visto pure che già il diritto romano poneva la regola generale che in caso di commorienza di più persone per comune infortunio, esse si presumessero morte insieme. La regola generale è stata ricevuta nel nostro diritto e riprodotta nell'art. 924 c. civ. La prova dell'anteriorità della morte è esclusa, e la commorienza si presume iuris et de iure in casi eccezionali (per esempio, in occasione di calamità cagionatrici di morti numerose e contemporanee: v. art. 6 del r. decreto per il terremoto di Reggio e Messina). In casi speciali, norme legislative hanno creato invece vere ipotesi di morte presunta, regolando i rapporti familiari, ereditarî e il caso del ritorno; ricorderemo, a questo proposito, il d. l. 15 agosto 1919 per gli scomparsi nella guerra mondiale. Ma, come regola, la nostra legislazione attuale (a parte le aspirazioni della dottrina e i progetti di riforma) non prevede che si possa addivenire a una dichiarazione giudiziale di morte, né presume la morte. Tale presunzione, a differenza di altri ordinamenti giuridici moderni, non si ammette per quanto lungo possa essere stato il periodo di tempo intercorso dalla morte dell'individuo. Ai casi d'incertezza sulla sorte di uno scomparso, si provvede con le norme relative all'istituto dell'assenza.
La morte ha rilevanza estrema nel campo dei diritti di successione; essa è presupposto e condizione perché si apra la successione così testamentaria come legittima, e si faccia luogo a tutte le disposizioni di ultima volontà dettate, in vita, dal defunto.
Oggi in Italia in forza del concordato concluso con la S. Sede (legge 27 maggio 1929, n. 810), con cui resta assicurato alla chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale e il libero e pubblico esercizio del culto, i funerali rientrano naturalmente nella materia in esso contemplata.
Il diritto di ogni persona di disporre dei proprî funerali costituisce un'estrinsecazione del diritto di personalità e può costituire il contenuto valido di un mandato post mortem (Cod. iur. can., c. 1226; L. Coviello, in Riv. Dir. Civ., 1930, p. 37); come tale la disposizione relativa ai proprî funerali, comunque espressa e dovunque inserita, purché risulti manifestazione di una volontà seria, consapevole ed espressa di chi sia provvisto di capacità naturale, va rispettata, salvo i limiti derivanti dalla sua confessione religiosa, nonché da ragioni di ordine pubblico o da norme legislative o regolamentari vigenti in materia di sanità pubblica e di polizia (reg. di polizia mortuaria: r. decr. 25 luglio 1892, n. 448, art. 17 e segg.; t. u. legge P. S., 18 giugno 1931, n. 773, art. 27). L'autorità di P. S. può disporre che il trasporto funebre avvenga in forma solenne, oppure può determinare speciali cautele a tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza dei ciaadini (legge P. S., cit., art. 27). In Italia non si è mai sentita la necessità di una legge sulla libertà dei funerali, come vige attualmente in Francia (legge 15 novembre 1887).
La questione più grave che per diritto privato attiene alla materia dei funerali è quella di determinare a chi spetti il diritto di decisione in merito ad essi: se cioè all'erede testamentario, o ai familiari e congiunti del defunto. La questione naturalmente sorge solo quando il defunto non abbia al riguardo nulla disposto, poiché in tale caso e con i limiti sopra riferiti ultima voluntas defuncti servari debet, costituendo quella disposizione l'estrinsecazione, come abbiamo detto, del suo diritto di personalità. In mancanza di tali disposizioni, sorgendo conflitto fra gli eredi e i parenti o congiunti del defunto, la preferenza di decidere spetta a questï ultimi, trattandosi di un diritto di carattere familiare (diritto familiare alla cura del morto), sorgendo poi conflitto tra gli stessi familiari, prevale il parere di coloro i quali sono legati al defunto con il vincolo del matrimonio o da più stretti vincoli di sangue e di affinità. Anche quando si cumuli la qualità di erede con quella di parente del defunto, il diritto di decidere spetterà a questo come diritto personale e non ereditario: ne consegue che l'avere dato disposizioni in ordine ai funerali non costituisce atto da cui si può dedurre la volontà di accettare l'eredità.
Diverso problema è il pagamento delle spese funerarie: questo costituisce un debito dell'eredità ed è a carico degli eredi indipendentemente dalla loro qualità di parenti o congiunti del defunto. L'art. 1956, n. 2, cod. civ., concede un privilegio generale su tutta la sostanza mobiliare del defunto per le spese funebri necessarie secondo gli usi; il privilegio, come già per diritto romano, va considerato come un titolo di prelievo delle spese dal compendio ereditario e quindi l'erede non può essere tenuto a subire l'esercizio del privilegio anche sui beni proprî.
Il lutto nell'abbigliamento. - Certe caratteristiche del lutto pagano rimasero dopo il sorgere del cristianesimo, benché la Chiesa le combattesse: la toga pulla dei romani (veste bruna) si trasforma nell'abito di lana nera, privo di ornamenti, adottato per il lutto cristiano in Occidente. Le fogge del lutto variano nelle diverse epoche: presso i Germani solo le donne portavano il lutto, essendo questo ritenuto un segno di debolezza; i Galli lasciavano crescere i capelli in segno di lutto: ma sino al sec. XI i documenti sono incerti: nei secoli XII e XIII i poemi francesi si riferiscono ancora ai costumi dei Germani. Solo verso il sec. XIV si cominciano a stabilire delle norme. Le prime notizie si trovano, per la Francia, nel libro di Jean d'Arras, Mélusine (sec. XIV), e nei racconti di Geoffroy de Fleury (per la morte di Luigi X, 1316); tuttavia l'etichetta del lutto non venne stabilita prima dell'anno 1380 (per la morte di Carlo V).
L'abbigliamento corto e stretto degli uomini fu abbandonato per le ampie e lunghe vesti da lutto, foderate di vaio, e, per le donne, orlate di cigno o di ermellino. Tipico fu per il lutto il mantello a cappuccio e l'acconciatura vedovile delle classi alte: lunghi veli bianchi e bende candide incornicianti il viso; foggia questa, peraltro, che non fu adottata soltanto dalle vedove. È noto tuttavia che tutte le regine madri in Francia, dal principio del sec. XIV sino al 1500 portarono il lutto bianco e la caratteristica acconciatura del capo; Anna di Bretagna cambiò per prima in nero il lutto bianco delle regine vedove. Nel 1485 Aliénor de Poitiers in Les honneurs de la cour, descrive il lutto di corte: la regina rimaneva coricata per sei settimane nella sua camera parata a lutto; le livree, il seguito prendevano il lutto; solo il re e i cardinali vestivano di rosso o di violetto. Negli scritti del Sacchetti e del Boccaccio, negl'inventarî trecenteschi si ritrovano usi e fogge del lutto; a Firenze le donne si vestivano di bruno, gli uomini solo di nero. Nel 1348, l'anno della peste, a Siena il comune vietò gli abiti da lutto, tranne che per le vedove; a Venezia nello stesso anno furono vietati "i panni de carroccio". A Roma nel 1500 anche le camere venivano parate a lutto; ma quest'uso, venuto dalla Francia, fu prerogativa, come altre forme di lutto, delle classi alte. La durata del lutto fu variabile, secondo il grado di parentela e in relazione alla maggiore o minore nobiltà di famiglia. Durante il sec. XVI il lutto divenne meno lugubre. La regina Anna di Francia portò il lutto di Luigi XIII in grigio; e il suo esempio fu seguito nel sec. XVII anche dalla borghesia. Nel '700 divenne anch'esso un pretesto di mondanità, dando origine a molte pubblicazioni. La rivoluzione abolì il lutto considerandolo una tradizione aristocratica. Napoleone lo riammise a corte (lutto viola); nel sec. XIX il lutto perde ogni speciale importanza e il lutto privato, esteso a tutte le classi sociali, si limita all'abito nero o grigio, ai veli neri e alle semplici fogge del vestire. I colori e le forme degli abiti variano presso i varî popoli.
Folklore. - La morte, quando si presenta alla fantasia popolare come un fatto non naturale, è ritenuta effetto di malefizî (v. fattura), i cui segni rimangono impressi sul volto scomposto del defunto. L'agonia stessa se lunga e angosciosa è l'espressione di un tal fatto e, per attenuare al morente le sofferenze, i familiari provvedono a collocarlo sulla paglia (Serbia), o sulla nuda terra, fuori dell'abitazione (Lettonia, Lituania, ecc.), o a portare presso il capezzale un gatto o un giogo, specie quando si abbia il sospetto che l'agonizzante avesse in vita messo a morte un felino o bruciato qualche sacro strumento dell'aratura. In qualche luogo non si fa differenza fra l'agonia e la morte, perché si ritiene che nello stato preagonico, l'anima si distacchi dal corpo per incominciare, guidata da S. Giacomo, l'estremo pellegrinaggio in Galizia.
La constatazione del decesso si fa in alcuni paesi applicando ai piedi del defunto mattoni caldi, ovvero stringendo fra le dita le pudende; quindi, se ne dà l'annunzio o mediante il banditore, come nell'antico uso romano, o col suono delle campane. Accertata la morte, si spegne il fuoco nella casa e si spalancano le finestre della camera e l'uscio sulla strada, che si lascia aperto per tre notti; si lava il cadavere, avendo cura di chiudergli occhi e bocca e di turargli le orecchie con ovatta. Quindi si procede alla vestizione, chiamando il defunto per nome e invitandolo a lasciarsi infilare gli abiti, come se fosse vivo. La vergine va all'estrema dimora vestita di bianco con ghirlanda di fiori di arancio; se fidanzata, la veste è quella nuziale e la persona destinata a vestirla è il fidanzato (Puglia). In alcuni paesi il cadavere è cucito, lasciando libero il capo, in un drappo nel quale si lascia infilato l'ago; e, secondo una consuetudine quasi generale nell'Europa, viene seppellito coi piedi scalzi, ma provvisto di abiti e di ornamenti e di oggetti varî, che vengono deposti nella cassa. Singolare è la costumanza delle popolazioni germaniche di consegnare al trapassato un pettine, un paio di forbici, un ago. Chi lega i piedi a un morto o chi raccoglie l'ultima sua lacrima compie un maleficio, perché gl'impedisce, nel primo caso, di fare il prescritto viaggio a S. Giacomo di Compostella; e nel secondo, lo priva della vista, costringendolo a passare nell'al di là completamente cieco. Norme speciali regolano il collocamento nella bara: se il cadavere è di un celibe, le braccia si lasciano distese; se è di un coniugato, s'incrociano sul ventre; se è di un bambino, si compongono sul petto. Le donne portano i capelli sciolti (Sardegna) e un tempo, in qualche regione (Sicilia orientale), il viso dipinto. Perdura in una vasta area (Russia, Prussia, Boemia, Sassonia, Turingia, Italia, ecc.) l'uso di provvedere il morto di una o più monete, che dovranno servire per il traghetto, secondo l'antica tradizione, o per S. Pietro (tributum Petri). Esse sono di solito poste nella mano, o nella bocca, o nella tasca, ovvero attaccate al cero che poi si adatta sul petto del cadavere. Nella Russia le monete sono due e si applicano sopra gli occhi, per farli rimanere chiusi. In varie località di questo paese è stato segnalato, insieme con il cosiddetto obolo di Caronte, il passaporto funebre, che è scritto dal curato o da altro ecclesiastico e viene consegnato al defunto, perché provi nell'altro mondo di essere vissuto da buon cristiano. Compiuta la toletta, il feretro viene posto nella cassa o sul cataletto coi piedi verso l'uscio, e talora, come in Sicilia, seduto sopra una seggiola, col capo appoggiato a un guanciale, in atto di riposo. Accanto al cadavere, se rimane nella notte in casa, si colloca una bacinella piena d'acqua (popolazioni slave, germaniche, ecc.), un asciugamano e un pettine (Abruzzo), ovvero alcuni formaggi (territorio di Piacenza), che dopo il trasporto passano al sacerdote. Nella camera funebre tre ceri ardono, uno al di sopra del capo, gli altri due ai lati, talora unitamente a una lampada a olio. La credenza che S. Michele si rechi a giudicarlo, induce alcune popolazioni a lasciare solo il trapassato, nell'abitazione, durante il corso della notte. Se la morte è dovuta a un assassinio del quale l'autore rimane ignoto, s'invitano tutti quelli che furono presenti al fatto a girare successivamente intorno alla bara e poi a baciare la salma. Si tratta di una prova: perché si crede che all'avvicinarsi dell'assassino la ferita sanguini nuovamente. Al corteo funebre prendono parte di regola soltanto gli uomini, ma non mancano le eccezioni. La bara è trasportata dai parenti o dagli amici, mentre le prefiche intonano le nenie rituali, esaltanti i meriti dell'estinto. Il drappo che copre la cassa ha in molti luoghi un colore simbolico: bianco per una fanciulla, rosso per gli adulti, nero per i vecchi.
Fiori e confetti accompagnano il feretro d'un bambino, nel suo passaggio, e spesso anche mandorle e fichi secchi.
Durante il trasporto, specie dove questo è fatto a braccia, molte circostanze hanno un significato. Così, se il cadavere barcolla o dondola il capo, predice la morte di altri parenti; se è molto grave e pesante, significa che le anime del Purgatorio vi si sono posate sopra. Se piove, è segno che pioverà nei giorni successivi e perfino per sette mesi; l'attraversare col feretro un corso d'acqua è pericoloso, e prima di porre il piede sul ponte, si chiama il defunto per nome. Nell'atto di seppellire la salma, il sacerdote vi butta sopra una palata di terra, e il suo gesto è imitato da tutti i presenti. Sul posto dove qualcuno perì di morte violenta, i passanti gettano dei sassi, che col volgere del tempo, formano dei cumuli, e sono detti, come nella Corsica, "mucchi della mala morte". In qualche località della Calabria, se la morte sia avvenuta per assideramento, invece di pietre i passanti ammucchiano rami e tronchi di albero, ai quali dànno fuoco una volta l'anno.
Il destino dell'anima è collegato col genere della morte. L'anima dell'ucciso vagola attorno alla croce, che la pietà dei superstiti pianta o dipinge sul luogo del misfatto; ovvero erra per il mondo, fino al giorno in cui era destinata a vivere, molestando i passanti ora sotto forma di vento o di turbine, ora sotto spoglie animali. L'anima dell'impiccato rimane in aria, come in aria restò il suo corpo; l'anima del bruciato va direttamente in Paradiso, perché provò le fiamme su questa terra; quella del suicida va senz'altro all'Inferno, se non si pentì nell'estremo momento. Per conoscere il destino toccato ai morti nell'altro mondo, il popolo ricorre a osservazioni e pratiche diverse. Se nella mezzanotte del novilunio del terzo mese dalla morte il cielo nella parte di levante è ottenebrato di nuvole, il vento spira e si ode abbaiare un cane, l'anima del defunto è dannata; se, invece, è chiaro, senza vento, e si ode il lamento d'un gufo, l'anima è in Purgatorio; e se, nella serenità del firmamento, si vede una stella cadere lasciando un solco di luce, l'anima è in Paradiso. I popoli dell'Oriente europeo sogliono prestare attenzione ai segni del volto del cadavere, per dedurne la condizione dello spirito nell'al di là; e talvolta estendono l'ispezione a tutto il corpo. Nella Romania si ha per certo che l'anima è dannata, quando la salma non sia interamente disfatta o corrotta dopo sette mesi dalla sepoltura.
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Iconografia.
La Morte appare di rado personificata nell'arte dei primi secoli del Medioevo, benché non ne manchino esempî. In un avorio del sec. IV del British Museum è alata, vecchia, nel Cosma Indicopleuste (Bibl. Vat., cod. 699) ha sembianze di giovane con carnagione scura. In una croce d'avorio, forse danese (1075), del museo di Copenaghen, come donna si sprofonda in una bara con la scritta Mors, sotto i piedi di una regina in cui è personificata la Vita. Nel Camposanto di Pisa assume sembianze di vecchia strega, mentre appare più comunemente come scheletro. Fra i primi esempî è la Morte apocalittica, figurata in uno scheletro galoppante con falce o spada, che semina la strage, congiunta agli altri cavalieri dell'Apoealisse. Descritta dalla "Guida" della pittura bizantina, è diffusa negli affreschi e nella miniatura italiana del '300. A Clusone (Bergamo) la Morte scheletro ha corona, manto e scettro regali. Lo scheletro trionfante su un carro appare nel '400 e nel '500 nei Trionfi. Alato, irruente, armato spesso di clessidra e sorreggente un medaglione con l'immagine del defunto, è diffusissimo nell'arte funeraria del '600 (fra i più cospicui esempî in Italia i monumenti funebri del Bernini, specie quelli di Urbano VIII e Alessandro VII in S. Pietro). L'iconografia della Morte nel secolo XVIII insiste nelle forme del XVII, talora modificandole. Nel secolo XIX il Canova sostituisce al realismo dello scheletro il Genio funebre giovane nudo con grandi ali, abbandonato con la face riversa. Rientra nel tema della Morte la leggenda dei tre morti e dei tre vivi che è un "memento mori" con l'apparizione, non della Morte, ma dei morti ai vivi, in aspetto per lo più di scheletri. La leggenda che dice dell'incontro di tre giovani re con tre morti, che sorgono dalle loro tombe, è riassunta nelle parole dei secondi ai primi: fummo ciò che siete, sarete quel che siamo (adagio noto a Orientali, Greci, Romani). Entra nell'arte per la prima volta in Italia, con figurazioni più numerose che altrove (affresco di S. Margherita, Melfi; Cattedrale di Atri; S. Maria di Vezzolano). Diffusa in Italia nel '300 (Camposanto di Pisa, Sacro Speco di Subiaco), mentre in Francia non pare illustrata prima del '400. Frequente nei Livres d'Heures, dove è congiunta sia alla danza macabra, sia al giudizio finale. Nel sec. XVI ne troviamo esempî in Germania e in Svizzera. La Morte che falcia i giovani e i ricchi, invano invocata dagl'infelici, già rappresentata nel Camposanto di Pisa (onde il nome di Trionfo della Morte, altra grande e più complessa rappresentazione) si riallaccia a quella serie di Trionfi allegorici che illustrano la vita politica e religiosa del '300 e sono un precedente ispiratore dell'insieme organico dei Trionfi del poema petrarchesco. È da notare che nel Trionfo della Morte di palazzo Sclafani a Palermo, uno dei migliori esempî, in quello del Sacro Speco di Subiaco, la Morte scheletro a cavallo è derivata dalle pitture apocalittiche, con cui non va confusa, mancando gli altri tre cavalieri. A Pisa e a Subiaco il Trionfo è accompagnato al "detto dei tre vivi e dei tre morti", a Clusone (Bergamo) anche alla danza macabra, costituendo un ciclo figurativo organico del tema della Morte. Nel sec. XVI dilagano nelle arti maggiori e minori, i Trionfi, derivati dal poema del Petrarca, composto sulla fine del 1300. La Morte nel suo trionfo, intimamente congiunto agli altri, troneggia scheletro con falce su un carro-bara, tirato da bufali, calpestando papi, imperatori, grandi figure storiche, accompagnate spesso da scritte illustrative. In genere gli artisti sono ligi a tale schema iconografico, dovuto forse a un unico artista. Nel sec. XV i Trionfi hanno la maggiore diffusione in Italia, mentre nel XVI penetrano nell'Europa settentrionale e la Morte è volontieri sostituita dalle Parche in Francia, come nel Trionfo di Paris Bordone in Italia. A tale ciclo attinse evidentemente anche Piero di Cosimo, per il corteo dei Trionfi da lui allestito, svoltosi per le vie di Firenze; e col Trionfo della Morte fu illustrata pure L'arte di ben morire del Savonarola. Mentre da noi nel Rinascimento imperano i Trionfi, nel Nord i morti trascinano con sé i vivi, di tutte le classi sociali, nella danza macabra, nata prima che altrove in Francia, sullo seorcio del sec. XIV. Diffusa rapidamente nell'arte questa specie di satira democratica, che uguaglia tutte le classi sociali nella morte, ha le sue origini nel dramma religioso e in fonti letterarie. Va distinta dalla danza dei soli scheletri assai rara. Specialmente diffusa nel sec. XV-XVI in Germania, Svizzera, Inghilterra, penetra sulla fine del sec. XV per il Tirolo in Italia (Metnitz e Pinzolo). In un secondo tempo perde il carattere di movimento e diviene dialogo fra i morti e i vivi (v. fra le più note figurazioni quelle di Kermaria [Côtes-du-Nord], di La Chaise-Dieu [Alvernia], di Marienkirche di Lubecca, le stampe del Holbein, gli affreschi di Clusone). Dalle tendenze macabre del Nord, nascono le più svariate rappresentazioni della Morte nel Rinascimento e nel periodo romantico. Raccapriccianti nella scultura francese del '400 i cadaveri in varie fasi di decomposizione (transi). Notevoli le tombe di Jeanne de Bourbon al Louvre, di René de Châlons a Bar-le-Duc, mentre una scultura simile uscì anche dalla bottega dei Della Robbia, per commissione di un prelato francese. Esempî di transi si hanno nei paesi nordici fino nel secolo XIX. Rappresentazioni macabre frequenti in Germania (secoli XV-XVI), quelle della "Morte e la Donna" (stampe di Dürer, pitture di Baldung Grien), della "Morte e la Cortigiana" (impressionante disegno di N. Manuel Deutsch nella Galleria di Basilea), della "Morte e gli Innamorati" (dittico nel museo di Norimberga), mentre più diffusa in Germania che altrove la "Morte e i soldati". Notissime le stampe del tedesco Rethel, ispirate alle otto giornate di Parigi, nelle quali la Morte, variamente camuffata, semina la strage sulle barricate. Il capolavoro dell'artista è la "Morte amica", che, scheletro in saio di frate, suona per il sagrestano, addormentato nel campanile, i rintocchi del funerale. In Italia ebbero assai minore fortuna queste rappresentazioni, di cui non mancano esempî, come i pannelli di S. Grata a Bergamo, nei quali il Bonomini rappresentò la Morte nella Vita, figurando gli scheletri come vivi in aspetti e costumi del '700. Già in medaglie e in sculture del Rinascimento, la Vita e la Morte sono espresse da un bambino e da un teschio. Numerose ovunque le rappresentazioni allegoriche, collegate alla Morte, ma molte di esse oltrepassano i limiti della sua trattazione.
V. tavv. CLXIII e CLXIV.
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Statistica della mortalità.
Mortalità, nella sua più ampia accezione, è quella parte della demografia che tratta del fenomeno delle morti. In senso più particolare è la frequenza dei decessi in una certa popolazione e in una certa unità di tempo, o, più precisamente, è, secondo l'uso comune, il numero dei decessi per 1000 abitanti nello spazio di un anno (quoziente di mortalità generale). Si noti che i numeri assoluti dei decessi verificatisi di anno in anno per una data popolazione non sono sufficienti a dare un'idea dell'intensità del fenomeno della mortalità, né in relazione alla popolazione stessa, né in comparazione con altre, poiché quei numeri dipendono da molteplici circostanze (ammontare della popolazione, sua composizione per sesso e per età, condizioni sanitarie, ambientali, stagionali, ecc.) che li rendono poco significativi e non confrontabili rigorosamente, finché non sia da essi eliminata l'influenza di una o più delle accennate circostanze. Considerare come una misura dell'intensità del fenomeno in oggetto il quoziente di mortalità generale (col riferire il numero delle morti al numero medio degli abitanti nell'anno di osservazione delle morti) significa appunto eliminare l'effetto che sui numeri assoluti dei decessi ha l'ammontare della popolazione. (Per il modo di calcolare l'ammontare medio della popolazione, v. matrimonio: Statistica della nuzialità).
Per l'Italia (nuovi confini dal 1924 in poi) i numeri assoluti dei morti e i quozienti di mortalità generale, nei singoli anni e nella media annua dei periodi indicati, furono quelli riportati nella prima tabella.
Come si vede, il declino della mortalità in Italia nel cinquantennio considerato è stato fortissimo e, tranne che nel triennio della guerra mondiale, ininterrotto, tanto da ridurre a meno della metà il numero iniziale delle morti per 1000 ab. Ecco poi, per il 1928 e per il 1931 (seconda tabella), la mortalità generale dell'Italia in confronto con quella di altri paesi.
La mortalità generale mostra, non soltanto in Italia, ma anche nella maggior parte dei paesi civili, una spiccata tendenza alla diminuzione. Avendo per 13 paesi (Italia, Finlandia, Francia, Germania, Inghilterra e Galles, Olanda, Svezia, Svizzera, Ungheria, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda) considerato lunghe serie di quozienti (annuali) di mortaìità generale, tutte comprese nell'ottantennio 1850-1929 (a esclusione del sessennio 1914-1919, perturbato dalla guerra), venne per ciascuna di esse calcolato m indice della tendenza secolare della mortalità, eseguendo col metodo dei minimi quadrati l'interpolazione di una retta di equazione y = ax + b, dove x è il tempo espresso in anni (a partire dal 1850, preso come origine) e y il quoziente di mortalità generale. I risultati dell'interpolazione sono i seguenti:
Dato che l'origine dei tempi (1850) è comune per tutte le interpolazioni eseguite, il valore b (ordinata all'origine della retta interpolatrice) denota l'intensità che per ciascun paese la mortalità avrebbe avuta nel 1850 in base all'interpolazione o all'estrapolazione lineare dei relativi quozienti di mortalità. I valori di b si possono, dunque, considerare come indici fra loro comparabili, per quanto fittizî, dell'altezza iniziale della mortalità nei diversi paesi (massima per l'Ungheria, minima per la Nuova Zelanda). In quanto ai valori di a, essi sono tutti negativi, e denotano quindi una generale diminuzione della mortalità ovunque. La diminuzione più lenta si è verificata per la Nuova Zelanda, la più rapida per l'Ungheria; soltanto l'Ungheria e gli Stati Uniti hanno avuto una riduzione della mortalità generale più intensa di quella dell'Italia. Dalla tabella si rileva pure che quasi sempre una maggiore elevatezza della mortalità iniziale si accompagna con una sua più rapida decrescenza: l'azione livellatrice della civiltà, si manifesta facendo fruire le più diverse popolazioni degli stessi benefici, e conduce le ritardatarie ad accelerare il passo per allinearsi con le altre.
A somiglianza di quanto avviene per gli altri quozienti demografici (di nuzialità, di natalità) si potranno considerare, oltre che il quoziente di mortalità generale, quozienti di mortalità specifici per i singoli sessi, o per le singole classi di popolazione nei diversi intervalli di età, o distintamente per celibi, coniugati, vedovi, e via dicendo: il quoziente specifico di mortalità per una qualsiasi di tali classi si avrà ragguagliando all'ammontare medio della classe durante l'anno di osservazione, il numero delle morti che si verificarono nello stesso anno, e moltiplicando il risultato per 1000. Come esempio, ecco per alcuni anni i
La mortalità appare lievemente più elevata nel complesso dei comuni con popolazione poco accentrata. Quozienti specifici di mortalità si possono altresì calcolare eliminando simultaneamente l'effetto di due o più circostanze differenziali: sono tali quelli offerti dalla seguente tabella, dati da G. Zingali:
Si osserva che, in ciascuna classe di età, la mortalità dei coniugati è, tranne poche eccezioni, inferiore a quella dei celibi (benché sia da presumersi che in ogni classe, i coniugati siano, in media, piò anziani e quindi più esposti a morire, pel fatto dell'età, dei celibi). Si nota pure che la mortalità dei vedovi e divorziati è, in ogni classe d'età, superiore a quella dei celibi e dei coniugati: è tuttavia verosimilmente da attribuire una parte almeno di tale eccesso di mortalità al fatto che, in ognuna delle classi stesse, i vedovi hanno certo, in media, un'età superiore a quella dei celibi e dei coniugati. La comune persuasione che la vita coniugale costituisca un fattore di longevità pare ricevere conferma anche da questi dati.
La mortalità generale subisce variazioni di carattere stagionale, e in Italia è solitamente più elevata durante i mesi invernali e quelli più caldi dell'estate. La maggiore mortalità invernale va messa in relazione non soltanto coi rigori della stagione, ma anche con la maggiore natalità che si verifica nella stessa stagione, poiché essendo la mortalità specifica dei bambini assai elevata, essa concorre ad accrescere la mortalità generale, quando il numero dei nati aumenta. Per questa ragione, una più elevata mortalità generale, che si possa eventualmente osservare in una regione a paragone di altre, non è sempre da considerarsi come un indizio di sfavorevoli condizioni di vita, ma può, invece, essere l'effetto di una natalità più alta in quella regione rispetto alle altre e risolversi definitivamente nel vantaggio di una più alta eccedenza delle nascite sulle morti. Si noti altresì che l'osservazione combinata della mortalità stagionale e dell'età ha messo in evidenza un particolare acuirsi della mortalità infantile e senile durante i cambiamenti di stagione, mentre le classi d'età media, e specialmente quelle femminili, avrebbero una minore sensibilità a tali cambiamenti.
Poiché in Italia la proporzione dei sessi fra i nati vivi è di circa 105 o 106 maschi per ogni 100 femmine, così se i maschi e le femmine costituissero separatamente popolazioni stazionarie, anche il rapporto dei sessi fra i morti dovrebbe avere lo stesso valore. Ma quell'ipotesi non si avvera, e oltre a ciò i maschi vanno, nel complesso, soggetti a una mortalità specifica più elevata delle femmine. Si aggiunga che alcune circostanze transitorie possono diversamente influire sulla mortalità di ciascun sesso, che i maschi emigrano per l'estero più largamente delle femmine, ecc., e si conchiuderà che il rapporto dei sessi alla morte si potrà discostare da quello alla nascita e andare soggetto a una maggiore variabilità. Tale illazione è confermata dai dati dello specchio seguente:
Fra le varie circostanze che possono influire sulla mortalità, alcune sono transitorie, come le guerre, altre permanenti, come le professioni. Per quanto concerne gli effetti della guerra sulla mortalità, essi sono stati studiati da C. Gini, da L. Livi e da altri, che si sono proposti di misurare la supermortalità dovuta a quella causa. Circa le professioni, è indubitato che alcune di esse, particolarmente malsane, determinano una mortalità prematura. Tuttavia i risultati delle osservazioni compiute in alcuni paesi (non molti, finora) sono tutt'altro che concordi nell'attestare un tenore di mortalità specifico per le varie professioni, quasi che, piuttosto che la professione in sé, a determinare differenze nella mortalità, fossero altre circostanze, sia pure connesse alle professioni, ma variabili da paese a paese.
Quozienti specifici di mortalità. - Le differenziazioni della mortalità dipendenti dalla professione, di cui si è ora fatto cenno, si possono studiare attraverso quozienti specifici di mortalità. Quozienti specifici si possono pure calcolare in relazione alle successive classi d'età, e anche per combinazione del sesso e dell'età. Questi ultimi si possono, fra l'altro, impiegare per comparare, col cosiddetto "metodo della popolazione tipo" la mortalità dell'uno e dell'altro sesso, di una data popolazione. Così, per l'Italia, si è assunta come popolazione tipo quella (complessiva) censita il 1° dicembre 1921. Applicando alle classi di questa popolazione (annuali fino a 6 anni, indi poliennali) i quozienti di mortalità specificī per le diverse classi di età (pei maschi e separatamente per le femmine, secondo l'osservazione dei decessi nel biennio 1921-1922), addizionando per ciascun sesso, i diversi prodotti, si sono avuti due risultati, Tm e Tf, rappresentanti i numeri dei morti in un anno che proverrebbero dalla popolazione tipo, secondo i quozienti di mortalità maschili e secondo quelli femminili. E poiché Tm sta a Tf come 1067 a 1000, così questi due numeri si possono prendere come indici della mortalità complessiva maschile e di quella femminile (in base all'osservazione italiana nel detto biennio). È confermata l'affermazione, già fatta, di una mortalità specifica maschile maggiore di quella femminile.
Le cause di morte. - È palese l'importanza che ha, per lo studioso privato, e più ancora per l'uomo di governo, la conoscenza delle cause di morte, sia per potere più efficacemente sostenere la lotta in difesa della vita umana, dirigendo l'azione preventiva e curativa contro quei mali che hanno o che possono avere una più larga diffusione e che mietono più ampio numero di vittime, sia anche per potere constatare quali siano i progressi conseguiti nel tempo, tanto intrinsecamente quanto in comparazione con gli altri popoli. Tali confronti esigono, per essere corretti, che una stessa classificazione e una stessa nomenclatura delle cause di morte sia adottata dai diversi paesi. Non si può dire, però, che a tutt'oggi tale uniformità sia stata perfettamente raggiunta. Il primo progetto di nomenclatura nosologica, che tutti gli stati avrebbero dovuto adottare, venne presentato nel 1893 da A. Bertillon, come frutto degli studî di una speciale commissione designata dall'Istituto internazionale di statistica. Questa nomenclatura internazionale venne successivamente modificata e riveduta ultimamente nel 1929; essa, nella sua forma più particolareggiata, comprendente 200 voci, è stata adottata anche dall'Istituto centrale di statistica del regno d'Italia, a partire dalla statistica delle cause di morte del 1931, mentre per le statistiche analoghe relative agli anni immediatamente precedenti, la nomenclatura adottata comprendeva 264 voci. Si vedano nella tabella seguente i numeri assoluti e i numeri proporzionali (per 1.000.000 di abitanti) per l'Italia.
L'intervallo dal 1920 al 1930 è troppo breve per poterne inferire quali siano le tendenze della mortalità per ciascuna delle varie cause indicate; si deve, nondimeno, rilevare la cospicua diminuzione nella mortalità proveniente da febbre tifoidea, pertosse, malaria, tubercolosi, bronchite acuta.
Tavole di mortalità e di sopravvivenza. - Una tavola di mortalità è un prospetto il quale contiene, in corrispondenza ad ogni età x, generalmente espressa da un numero intero di anni, il rapporto qx fra i numeri dx e lx, essendo dx il numero delle morti in età da x ad x + 1 anni provenienti dalle lx persone di una collettività che durante un determinato intervallo di tempo superano l'età precisa di x anni. Il valore qx = dx : lx si dice probabilità di morte all'età x, perché denota la probabilità, per uno degli lx considerati, di morire prima di avere raggiunto l'età x +1, ed anche perché se, dopo aver costruito una tavola di mortalità per una certa collettività, la si voglia impiegare al fine di calcolare il numero presuntivo delle morti in un'altra collettività analoga, allora i qx acquistano appunto il significato di probabilità a priori. I qx non debbono confondersi coi quozienti specifici di mortalità alle diverse età, dianzi definiti. Una tavola di mortalità contiene di solito, oltre le probabilità di morte qx, anche altri valori lx, dx, px, ex, πx che insieme con qx costituiscono le cosiddette funzioni biometriche (dell'età x) relativamente alla popolazione in cui venne fatta l'osservazione della mortalità per la costruzione della tavola stessa.
Considerato un contingente iniziale di N nati, espresso, come è consuetudine, da una potenza di 10, p. es. 100.000 o1.000.000, lx e dx denotano rispettivamente quanti di questi nati sopravvivano all'età precisa di x anni e quanti di essi muoiano in età fra x ed x + 1 anni, onde
ed anche
il simbolo px rappresenta il rapporto fra il numero dei sopravviventi lx + 1 all'età precisa di x + 1 anni e quello dei sopravviventi lx all'età di x anni, ossia px = lx + 1: lx = 1 - qx; esso si dice probabilità di vita all'età x perché costituisce la probabilità che ha ciascuno degli lx considerati di non morire fra x ed x + 1 anni. È chiaro che quando sia nota la successione dei sopravviventi l1, l2,... lx ..., che derivano dall'iniziale contingente di N = l0 nati, il calcolo dei qx e dei px si può immediatamente eseguire; e poiché, d'altra parte, le tavole di mortalità contengono anche i numeri dei sopravviventi lx, così esse si dicono pure tavole di sopravvivenza. La funzione biometrica ???ex, ossia vita media all'età x, significa quale durata di vita spetterebbe ulteriormente a ciascun individuo di età precisa x, se la durata complessiva della vita vissuta oltre l'età stessa da tutti gli lx individui sopravviventi all'età x, venisse fra essi ugualmente ripartita. Infine si può indicare con πx la vita probabile all'età x, intendendosi come tale il tempo che dovrebbe decorrere (in relazione ai qx calcolati) affinché un contingente di lx individui entranti nell'età precisa x si riducesse numericamente a metà per effetto delle morti. Conviene osservare che qx e px sono le probabilità di morte e di vita relative agli lx sopravviventi all'età x; invece per gli N = l0 nati dell'ipotetico contingente considerato la probabilità di morire fra x ed x + 1 anni di età è p0p1 ... px − 1qx e quella di sopravvivere a x + 1 anni è p0p1 ... px − 1px. Si avverta pure che, in relazione alle definizioni precedenti, una tavola di mortalità si dovrebbe costruire rilevando effettivamente i contingenti di sopravviventi l1, l2 ... lx a 1, 2, ... x, anni derivanti da un certo contingente l0 di nati, preso in osservazione. Una siffatta tavola (che si direbbe di prima specie o per generazione e che rispecchierebbe le condizioni della mortalità alle diverse età nel gruppo inizialmente preso in esame) presenterebbe dal punto di vista della sua costruzione varie difficoltà: quella di richiedere un complesso d'osservazioni avente la durata di un secolo circa (quanto è presso a poco necessario perché si estingua il contingente di nati esaminato); quella di dover seguire questi individui nei loro spostamenti dal luogo di origine; e altre difficoltà ancora. Si aggiunga che, quasi sempre, quello che più interessa conoscere non è tanto la misura della mortalità che ha colpito alle diverse età una generazione di nati, quanto quella a cui è andata soggetta (alle diverse età) una popolazione osservata in un breve intervallo (per esempio fra due censimenti decennali o quinquennali, oppure in un biennio, in un triennio, in un quadriennio.... intorno a un certo censimento). Perciò, pure riconoscendo l'utilità, per certi fini, di costruire tavole di mortalità di prima specie (l'Olanda ha incominciato la costruzione di siffatte tavole per il complesso dei nati dal 1869 al 1873; e anche in Italia se ne sono costruite per le età infantili) quelle che solitamente si costruiscono e si adoperano sono tavole cosiddette di seconda specie o per contemporanei, cioè basate sull'osservazione della mortalità che ha colpito una popolazione in un intervallo di tempo avente la durata di pochi anni. In tal caso i primi elementi che si calcolano per la costruzione della tavola di mortalità sono i qx, ciascuno dei quali si ha come quoziente del numero dei morti (in età fra x ed x + 1 anni, osservati in quell'intervallo di tempo) per il numero degli esposti a morire (oltrepassanti l'età precisa x in quell'intervallo di tempo). Calcolata la successione dei qs è facile dedurne la successione dei sopravviventi lx derivanti da un supposto contingente iniziale di N nati, nonché i valori delle altre funzioni biometriche. La tavola assume così la stessa forma esteriore di una tavola di prima specie; ma non si riferisce a un contingente reale di nati, bensì a un contingente ipotetico, come se esso nelle suceessive età venisse colpito da una mortalità di intensità pari a quella effettivamente osservata nella popolazione esaminata.
Tavole di mortalità (e di sopravvivenza), anche tenendo conto dei movimenti migratorî, non si costruiscono soltanto per la popolazione complessiva, per quella maschile e per quella femminile di un intero paese; ma anche per determinati gruppi dì popolazione, distinti a seconda della professione o di altre circostanze. Nei calcoli attuariali hanno particolare importanza quelle costruite sulla osservazione della mortalità negli assicurati (teste scelte). Per la popolazione italiana sono state costruite (C. Gini e L. Galvani) tavole di mortalità uniformi quanto più fosse possibile, e quindi paragonabili fra di loro, basate sui seguenti dati: sul censimento 10 dicembre 1921 e sull'osservazione delle morti nel 1921-22, sul censimento 1° giugno 1911 e sull'osservazione delle morti nel 1910-12, sul censimento 10 febbraio 1901 e sull'osservazione delle morti nel 1899-1902, sul censimento 31 dicembre 1881 e sull'osservazione delle morti nel 1881-82. Dalla prima di tali tavole si ricava la seguente tabella, nella quale i simboli lx, dx, ???ex hanno i significati già spiegati.
Mortalità infantile. - Essa merita di essere considerata con speciale attenzione. Anzitutto per una ragione di umanità: il fatto che la mortalità sia particolarmente elevata nel primo anno di età, ma estremamente variabile da paese a paese, fa intendere come sia possibile conseguire in molti di questi, grandi progressi nell'opera di difesa delle giovanissime vite. E poi perché, essendo la mortalità rapidamente decrescente dai primi giorni ai periodi successivi, il suo studio esige per alcuni scopi, un'analisi piuttosto minuta in ciascuno di questi intervalli. Perciò va sempre più diffondendosi l'uso di misurare la mortalità infantile di settimana in settimana (per il primo mese) poi di mese in mese (fino a 6 mesi o fino a un anno). Inoltre anche le solite probabilità (annuali) di morte, da 0 a 5 o 6 anni di età, vengono determinate riferendo i morti ai sopravviventi calcolati direttamente in base ai dati del movimento della popolazione, presumendosi che questo procedimento possa, per le primissime età, fornire per i numeri dei sopravviventi risultati più attendibili di quelli che potrebbero aversi deducendoli dai dati di un censimento. Ecco una serie di probabilità di morte per le età infantili intendendo che i simboli q1, q0,... abbiano il significato sopra dichiarato.
È confortante rilevare quale enorme riduzione abbia da noi subito 1a mortalità infantile dal 1881 ad oggi.
Bibl.: W. Lexis, Abhandlungen zur Theorie der Bevölkerungs- und Moralstatistik, Jena 1903; F. P. Cantelli, Genesi e costruzione delle tavole di mortalità, in Bollettino di notizie sul credito e sulla previdenza, Roma 1914; C. Gini, Sull'aumento della mortalità determinato dalla guerra (Italia 1915-20), in Rivista italiana di sociologia, 1916; id., Sulla mortalità infantile durante la guerra, in Atti della Soc. ital. di ostetricia e ginecol,. 1919; G. Mortara, Lezioni di statistica metodologica, Città di Castello 1922; F. Vinci, Sulla costruzione delle tavole di mortalità, in Giorn. di matem. finanz., 1925; L. Livi, Valutazione della supermortalità di guerra (Italia 1915-20), in Bollett. dell'Istit. stat.-econ. di Trieste, 1926; G. Zingali, Demografia, in Tratt. ital. d'igiene, diretto da O. Casagrandi, Torino 1930; C. Gini, e L. Galvani, Tavole di mortalità della popolazione italiana, in Annali di statistica, s. 6ª, VIII, 1931; F. Insolera, I nuovi fondamenti scientifici delle tavole di mortalità di assicurati e prime applicazioni biometriche e attuariali, in Giorn. di matem. finanziaria 1931; L. Galvani, Diminuzione della mortalità in alcuni stati, in Atti del Congr. Intern. per gli studi sulla popolazione, Roma 1932; Istit. centr. di stat., Movimento della popolazione secondo gli atti di stato civile nel 1928, Roma 1932; id., Statistica delle cause di morte nell'anno 1928, Roma 1932; P. Smolensky, Tavola europea di mortalità, in Giorn. dell'Istit. ital. degli attuari, 1932; L. De Berardinis, Alcune caratteristiche della natimortalità e della mortalità infantile, in Compendio statistico italiano, XI, Roma 1932.
Il paragone della mortalità nell'anteguerra (media del quinquennio 1910-1914) e nel dopoguerra (media del triennio 1922-24) per i singoli comuni italiani risulta dagli appositi cartogrammi dell'Atlante statistico italiano, parte 1ª, Roma 1929, edito dall'Istituto centrale di statistica.
La pena di morte.
Storia. - Tutte le nazioni, barbare o civili, governate da aristocrazie, teocrazie, democrazie o proletariato, ebbero nelle loro leggi la pena capitale. E oggi quasi tutte la conservano, benché sia stato sempre più ridotto il numero dei reati ai quali essa possa applicarsi. Però la morte non era sembrata, nei tempi passati, una punizione sufficiente: essa non era che l'ultimo atto di una serie di torture con le quali si straziava il delinquente. E quando queste erano state esaurite, si studiava ancora il modo di dare la morte più atroce, con prolungati tormenti.
L'antica Roma non applicava la pena di morte ai proprî cittadini, tranne il caso di alto tradimento. Ma per gli schiavi e per i ribelli, vi erano la crocifissione, l'esposizione alle belve, e anche il rogo. Fra gli Ebrei, oltre gli altri supplizî, è noto quello della lapidazione (v.), che si eseguiva dal popolo. Sparta faceva spesso perire il delinquente per fame e per freddo. Atene faceva porgere al delinquente il veleno che egli trangugiava a suo agio. L'invito al suicidio fu anche adoperato, come è noto, da qualche imperatore romano. A Cartagine erano orribili i tormenti: così erano stati in Assiria, dove in alcune iscrizioni i sovrani si vantavano degli strazî inflitti a prigionieri. Ai giorni nostri, nelle nazioni più incivilite, invece di prolungare il supplizio, si è cercato il mezzo di rendere la morte più rapida e meno dolorosa.
Diversi sono però i modi dell'esecuzione. L'Inghilterra, con altri paesi anglosassoni, conserva il capestro; la Spagna ha la garrote; la Germania la decapitazione, che in Francia si esegue sempre con la ghigliottina; alcuni degli Stati Uniti d'America hanno la sedia elettrica; l'Italia la fucilazione.
Numerosissimi erano poi, nelle legislazioni del sec. XVIII e dei primi venti anni del XIX, i casi di applicazione dell'estremo supplizio. Non parliamo del periodo del Terrore in Francia, dove molti cittadini, dal 1793 al 1795, furono mandati alla ghigliottina per semplice sospetto di avversione alla repubblica o di fedeltà al re. Ma pure in epoche di calma, presso nazioni che si vantano di grande progresso civile, la pena capitale era largamente prodigata. Basti dire che in Francia, prima del 1789, ve ne erano 132 casi, fra i quali il peculato, la concussione, il furto domestico, il falso in scrittura pubblica, la falsa testimonianza in giudizio, l'incesto, il ratto e altri molti reati minori. Nel 1791 i deputati Le Pottier e Robespierre presentarono all'assemblea una mozione per l'abolizione della pena capitale. La proposta non ebbe seguito: furono però soppressi i tormenti che accompagnavano l'esecuzione: e per questa, fu ricercato il mezzo che parve più rapido: così fu introdotta la ghigliottina. Rimasero però in vigore alcuni modi o gradi di pubblico esempio, per alcuni speciali delitti, come il parricidio. Continua fu inoltre, dal 1810 al 1831, nelle leggi francesi, la diminuzione dei casi di pena capitale. In quest'ultimo anno, li troviamo ridotti a 22. La repubblica del 1848 abolì la pena di morte per i reati politici: esclusione illusoria, poiché, nei periodi di sommosse o rivoluzioni, è indifferente l'esservi o non esservi la pena di morte nei codici: essa esiste di fatto, specialmente nei moti proletarî.
In Russia, all'opposto, la pena di morte era stata soppressa per i reati comuni: viceversa, era largamente prodigata per gli attentati politici: e tale sistema si continua nella U.R.S.S. per i reati contro la rivoluzione.
In molte nazioni, la facoltà data al giudice di mitigare la pena con l'ammissione di circostanze attenuanti, e l'uso sempre più frequente della grazia da parte dei sovrani, fecero diminuire di molto il numero delle esecuzioni capitali. E così, in Francia, da 114 nel 1825, si discese a 38 nel 1830, a 11 nel 1863 e a 5 soltanto nel 1870. Pareva che si tendesse all'abolizione completa, ma un movimento opposto si manifestò negli anni successivi; e così troviamo 27 esecuzioni nel 1872 e 19 nel 1873. Una nuova oscillazione si ebbe dal 1878 al 1884. Nel primo di quegli anni non vi furono che 2 esecuzioni. Fu quello un esperimento che volle fare J. Grévy, presidente della repubblica, ma che gli tornò a male: gli assassinî crebbero notevolmente, e a lui toccò il nomignolo di père des assassins, perché alla sua clemenza inopportuna si attribuiva il male. E spesso i giurati che qualche volta, precedentemente, avevano raccomandato la grazia, deliberarono invece una petizione al presidente della repubblica perché quella fosse negata. Si dové mutare condotta; le esecuzioni divennero più frequenti: nel 1910, fra 28 condannati, ne furono giustiziati 10, circa il terzo; e tale proporzione fu mantenuta quasi costantemente. Per una consuetudine già da lungo tempo invalsa, alle donne si risparmia il patibolo.
In Germania, negli anni 1926, 1927 e 1928, troviamo: condannati a morte rispettivamente 92, 89, 64; giustiziati 16, 14, 6 (Kriminalstatistik für das Jahr, 1926; id. 1927; id. 1928; le accuse per assassinio erano state, rispettivamente, 185, 170, 124). Con l'avvento al potere del nazionalsocialismo, fu arrestata la tendenza alla diminuzione delle esecuzioni, che sembrava il preludio della abolizione dell'estremo supplizio; così le esecuzioni divennero più numerose nel 1933. In Inghilterra nel 1919 si ebbero condannati 24, dei quali 9 ottennero commutazione in penal servitude perpetua; nel 1920, condannati 35, dei quali 22 giustiziati. Nella Svizzera, la pena di morte era stata abolita nel 1874, in virtù dell'art. 65 della costituzione federale: ma un movimento in favore di quella pena, nei cantoni di San Gallo, Sciaffusa, Lucerna, Friburgo e qualche altro, indusse il consiglio federale a indire un referendum, il cui risultato fu che i singoli cantoni ottennero, nel 1879, la facoltà, per i reati non politici, di rimetterla nella propria legislazione; ciò di cui molti di essi si affrettarono ad avvalersi. La Toscana l'aveva anche abolita fin dal 1786, ma pochi anni dopo la rimise in vigore. Una nuova abolizione vi fu nel 1847, e un nuovo ripristinamento, nel 1852. Per la terza volta, nel rivolgimento politico del 1859, essa scomparve. Fu osservato, negli anni immediatamente successivi, un aumento notevole negli omicidî premeditati: da 15 nel distretto di Firenze, per il periodo 1854-59, essi crebbero a 23 dal 1859 al 1864; e a 35 nel periodo 1881-85.
Nel regno d'Italia, nel 1865, la camera dei deputati fece voto per la soppressione della pena capitale; questa però, per l'opposizione fatta dal senato, fu conservata nel codice, dove però essa era limitata a pochi reati politici, agli omicidî premeditati e a qualche altro crimine gravissimo. Intanto, le esecuzioni divenivano sempre più rare: dal 1876 non ve ne fu che qualcuna per reati militari. L'abolizione formale vi fu nel 1889 nel codice Zanardelli, ferma però la pena nel codice militare. Fu osservato che l'abolizione non ebbe effetto sul movimento della criminalità, ma è anche da notare che la pena di morte già da oltre quindici anni non era stata eseguita: essa dunque, se non di diritto, non esisteva più di fatto ed era pertanto indifferente che fosse ancora scritta nel codice. Sennonché, un considerevole aumento dei più gravi misfatti, avvenuto dopo il 1919, provocò un mutamento nell'opinione pubblica che in Italia era stata generalmente avversa alla conservazione della pena capitale. Si cominciò nuovamente a vedere in essa il solo freno efficace contro l'alta criminalità. Una serie di attentati politici indusse il governo e il parlamento, nel novembre 1926, a emanare una legge per la difesa dello stato, nella quale compariva la fucilazione per i più gravi delitti politici e per gli attentati alle persone reali e al capo del governo. Ma, come fu osservato nella discussione che a tale proposito vi fu al senato, il fatto che la pena capitale si credette necessaria per i crimini politici, conduceva naturalmente a esaminare se una eguale necessità non vi fosse per i più gravi delitti comuni. Quella legge speciale fu dunque un avviamento al ripristinamento della pena capitale nella legge comune. E ciò avvenne nel 1930, con la pubblicazione del nuovo codice penale, nel quale è stabilita la pena capitale non solo per alcuni gravissimi delitti contro la patria e contro le persone reali e il capo del governo (art. 241 e segg.), ma anche per alcuni gravissimi delitti di comune pericolo, dai quali derivi la morte di più persone (articoli 422 e 439), e, infine, per l'omicidio nelle ipotesi più gravi, quali il parricidio in circostanze o modi di esecuzione particolarmente crudeli, ovvero l'omicidio commesso per eseguire od occultare un altro reato, ovvero per conseguirne il lucro, o per assicurare l'impunità di un altro reato; e in altre circostanze atroci, come nel caso di violenza carnale (art. 576). La premeditazione, per sé sola, non importa la pena massima, bensì quella dell'ergastolo (art. 577).
Argomenti pro e contro la pena di morte. - Nei tempi antichi e nel Medioevo, la necessità di cotesta pena pareva indiscutibile. Solo qualche filosofo credette necessario giustificarla, come, con poche parole, fece Platone nel Protagora e nella Repubblica - e così Seneca nel De clementia e nel De ira. Soltanto nel sec. XVIII cominciò la lotta sistematica contro la pena di morte, iniziata in Francia dal Voltaire, il quale però fu principalmente mosso da alcuni deplorabili casi di condanne avvenute in seguito a dubbie prove; e, in Italia, da C. Beccaria con quel libro che ebbe così grande eco nel mondo intero, Dei delitti e delle pene. Molti giuristi, da quel tempo ai giorni nostri, non cessarono dal combattere la legittimità o l'utilità di cotesta pena.
Argomenti principali degli abolizionisti (lasciando da parte quelli tratti dai limiti dei diritti della società contro l'individuo, secondo quel contratto sociale che bene a ragione il Romagnosi chiamò "una favoletta") - sono l'inviolabilità della vita umana; l'incoerenza della legge che, per punire l'omicidio, impone alla sua volta un omicidio; e, dal punto di vista della difesa sociale, l'inutilità della morte del reo quando questi, privato della libertà, può essere reso innocuo; - infine la irrevocabilità di tale pena, mentre può esservi - come dolorosamente vi è stato - qualche aaso d'innocenti giustiziati per errore giudiziario.
A questo argomento un altro, d'indole più pratica, ne fu aggiunto: e fu proprio il Beccaria a proporlo: l'affermazione cioè che, più dell'ultimo supplizio, valga a frenare il delinquente la minaccia della reclusione perpetua. Ma fu risposto che l'esperienza prova l'opposto. Messo da parte codesto argomento, che sembra il più debole fra quelli degli abolizionisti, e passando sopra alle ragioni filosofiche e sociologiche, alle quali è facile contrapporne altre, i fautori della pena di morte si trovano dinnanzi alla questione della irrevocabilità. È questa, senza dubbio, una ragione di maggior valore: però il timore che siano giustiziate persone innocenti sembra oggi infondato, tante sono le cautele e le garanzie dei giudizî nei casi di applicazione della pena massima, per lo meno nei reati comuni. D'altra parte, quando qualche dubbio potesse esservi, non sarebbe inefficace il ricorso alla grazia sovrana. Parliamo naturalmente delle nazioni più civili, nelle quali sia bene organizzata l'amministrazione della giustizia.
Se ora passiamo a esaminare gli argomenti favorevoli alla pena capitale, vedremo che essi possono essere così riassunti: 1. L'efficacia preventiva (intimidazione); 2. L'utilità della morte dei malfattori come mezzo di selezione della razza; 3. La necessità della eliminazione dalla società degli elementi più nocivi e inassimilabili.
Al primo argomento, gli abolizionisti contrappongono il fatto di molti delinquenti insensibili alla minaccia del patibolo. Ciò non si nega dai fautori della pena di morte, ma essi rispondono che ben più insensibili sarebbero quei delinquenti alla minaccia di qualsiasi altro male. Se il timore della morte non è un freno sufficiente per tutti, esso, per il più grande numero, è certamente il freno maggiore, infinitamente più valido della paura della prigione, sia pure perpetua: cosa che del resto non ha nulla di assoluto, perché la liberazione è sempre possibile per effetto di una grazia sovrana, o per evasione, o, infine, per tumulti popolari che aprano le porte delle carceri.
Più debole è il secondo argomento, quello della selezione, non già perché sia falsa l'eredità frequente delle tendenze criminose, ma perché l'applicazione della pena di morte a scopo di selezione della razza importerebbe una strage in così larghe proporzioni da non potersi consigliare ad alcun governo.
Più serio è il terzo argomento, quello della necessità della eliminazione degli elementi più antisociali e inassimilabili, quali sono alcuni malfattori spinti alle più atroci azioni da una completa insensibilità morale, dalle più brutali tendenze, ovvero da un egoismo tale da far tacere qualsiasi senso di pietà o di giustizia.
Platone nel Protagora (322 D) scrisse che è un comando divino l'uccidere come un flagello della società, gli uomini incapaci di pudore e di giustizia. L'eliminazione degli elementi antisociali e inassimilabili si può effettuare, oltre che con l'uccisione, anche con l'esilio di tali elementi, sennonché l'esilio, che per gli antichi era un male incommensurabile, non sarebbe più possibile ai tempi nostri, per le condizioni delle nazioni odierne, le quali non dànno ingresso nel proprio territorio a delinquenti stranieri: né, d'altra parte, vi sarebbe alcuna sicurezza che gli espulsi non facciano ritorno in patria. E infine, vi si opporrebbe sempre il principio della solidarietà delle nazioni. Oggi neppure le colonie più lontane vogliono dare ospitalità a quegli esseri pericolosi. Né la prigione perpetua può rappresentare una forma di vera e completa eliminazione, per le considerazioni testé fatte, e anche perché nella prigione medesima il condannato trova la propria società. Essa, infine, dato che l'uomo può assuefarsi a ogni genere di vita, finisce per non rappresentare più un male, anzi qualche volta l'opposto di esso, perché dà al condannato il privilegio dell'alloggio e vitto sicuro, pur senza lavoro, ciò che - come osservò il Romagnosi - è per molte persone non un castigo, ma "un regalo".
Nell'infinita congerie di libri e monografie di diritto criminale, non si sono mai indicati i fini delle leggi punitive in modo più semplice ed esauriente, come in queste poche parole di Seneca nel libro De clementia (I, 22): "In vindicandis iniuriis, haec tria lex secuta est, quae Princeps quoque sequi debet: aut ut eum quem punit emendet, aut ut poena eius coeteros meliores reddat, aut ut, sublatis malis, securiores coeteri vivant". Ecco dunque tre specie di discipline penali, non sempre concorrenti né convergenti a un identico fine: non tutti i delinquenti sono emendabili, né i semplici castighi possono sempre recare un effetto salutare, ma conviene che alcuni malfattori siano estirpati dal corpo sociale. E nello stesso senso scriveva il Montesquieu: "Cette peine est tirée de la nature des choses... Elle est comme le remède de la société malade" (De l'esprit des lois, lib. XII, cap. IV). E il Romagnosi aggiungeva che il negare indefinitamente tale necessità, sarebbe la stessa cosa che l'affermare non potersi dare il caso, per un chirurgo, "di fare l'amputazione di un membro" (Memoria sulle pene capitali).
Da tutto ciò che si è esposto appare che tra filosofi, sociologi e giuristi non è cessata la lotta intorno alla legittimità e all'utilità della pena di morte. Ma questa intanto è, in quasi tutte le nazioni, considerata come un'arma della quale non si deve privare il potere sociale. Quest'arma da oltre un secolo è stata sempre più raramente adoperata. Né oggi si adopera, nelle nazioni più civili, che per reprimere gli attentati ai sovrani o capi di stato o di governo, e inoltre, quei brutali assassinî i cui autori conviene eliminare dalla società in modo assoluto. Così limitata, nonostante la penosa impressione dell'esecuzione, e nonostante il progresso della civiltà, la pena di morte sarà probabilmente conservata, ciò che sembra apoditticamente dimostrato dal fatto che è stata ristabilita in parecchi stati che l'avevano abolita.
Nel diritto italiano il condannato alla pena di morte è equiparato al condannato all'ergastolo per quanto riguarda la sua condizione giuridica: esso è in stato d'interdizione legale e perde anche la patria potestà, l'autorità maritale e la capacità di testare; inoltre è reso nullo il testamento fatto prima della condanna (articoli 38 e 32 cod. pen.).
Bibl.: C. J. v. Mittermaier, Die Todesstrafe nach den Ergebniss. der wissensch. Forschungen, der Fortschr. der Gesetzg. v. der Erfahrungen, Heidelberg 1862; A. Vera, La pena di morte, Napoli 1863; Ch. Lucas, De l'abolition de la peine de mort en Portugal, Parigi 1869; Ch. Hetzel, Die Todesstrafe in ihrer kulturgesch. Entw., Berlino 1869; F. v. Holtzendorff, Das Verbrechen des Mordes und die Todesstrafe, ivi 1875; A. Freuler, Für die Todessstrafe, Schaffusa 1879; R. Lanciano, Sulla pena di morte, Chieti 1880; R. Garofalo, Contro la corrente, Napoli 1888; E. Carnevale, La questione della pena di morte nella filos. scientifica, Torino 1888; J. R. Monke, The death penalty, in The monthly Summary, Elmira 1891; A. Reusch, Todesstrafe u. Unfreiheit des Willens, ein Beitrag zür Rechtsfestigung der Todesstr., Darmstadt 1927; R. Pellegrini, Rapporti tra la politica e l'odierna legislazione italiana con le scienze biologiche e la medicina giuridica, in Archivio fasc. di medicina politica, Parma 1927; P. Rossi, La pena di morte e la sua critica, Genova 1932; A. Rocco, Intorno alla pena di morte, in Rivista internaz. di filos. del diritto, 1933.
La morte civile.
Il diritto dei popoli antichi e di passate legislazioni dell'età moderna conobbe forme e istituti che sopprimevano, in tutto o in parte, la personalità dell'uomo tuttora vivente.
Nel diritto romano una morte civile si verificava nei casi di capitis deminutio per la perdita dello stato di libertà e dello stato di cittadinanza: status libertatis e status civitatis sono essenziali, nel concetto romano, insieme con il requisito naturale (existentia hominis), perché si abbia la capacità giuridica (caput). La capitis deminutio, si dice, "iure civili morti coaequatur".
La latitudine di applicazione del concetto è varia. La capitis deminutio è maxima a seguito della perdita della libertà: la prigionia di guerra (captivitas) fa, per tale motivo, estinguere secondo alcuni (U. Ratti) tutti i diritti (salvo la patria potestas che perdura in uno stato di pendenza) di cui il cittadino è titolare e li fa rinascere solo quando egli torna in patria per virtù di una norma di diritto singolare (postliminium); secondo altri (A. Guarneri Citati) li fa entrare in uno stato di quiescenza che ha termine quando si verifica il ritorno in patria del captivus.
La capitis deminutio è media a seguito della perdita della cittadinanza.
Nel diritto romano classico è in condizioni di minorata capacità civile il mancipio subiectus: tale è il soggetto libero venduto dal proprio paterfamilias o consegnato ad altro paterfamilias per liberarsi da ogni responsabilità derivante da delitti commessi dal soggetto stesso (noxae datus). Questi si trova in una condizione quasi servile, temperata però via via dalla maggiore raffinatezza sociale e giuridica; Gaio ci fa comprendere la decadenza dell'istituto in epoca progredita: nel diritto giustinianeo è scomparso. Nonostante divergenti opinioni, non si deve considerare in causa mancipii il cittadino romano che altri riscattò dalla prigionia di guerra (redemptus ab hostibus). Fino al pagamento del prezzo di riscatto al riscattante, il redemptus era tenuto, durante l'età classica, in una condizione semiservile non confondibile con quella del mancipio datus; nel diritto giustinianeo, grava su lui una specie di diritto di pegno a favore del riscattante.
Nella prima età medievale non mancarono categorie di persone in condizione servile o semiservile: gli schiavi erano, come nei tempi più antichi, privi di ogni diritto, se si eccettuano alcuni temperamenti, dovuti specialmente all'opera della Chiesa. Semiliberi erano i liti o aldî, i servi della gleba.
Nel diritto longobardo era considerato tamquam mortuus il lebbroso, e ancora nel sec. XI la legge di Rotari era osservata rigidamente. Nel diritto germanico chi è extra sermonem regis è trattato come bestia selvaggia: caput gerit lupinum; è privo di ogni diritto familiare e patrimoniale. Dalla Friedlosigkeit germanica discende l'istituto del bannum: il bandito era escluso dal consorzio sociale come colui che l'aveva turbato agendo come un nemico. Caratteristica fu sotto i Carolingi la condizione del condannato a morte che otteneva per grazia la vita. Viveva fisicamente, non giuridicamente.
I bandi collettivi emanati da Federico I e dai successivi imperatori contro le città ribelli ci presentano i colpiti dal bando come reiecti a gratia imperiali, come hostes imperii, senza capacità giuridica. In seguito la morte civile fu ridotta ai casi di bannum perpetuum. La giurisprudenza medievale cooperò ad alleviare le conseguenze di uno stato giuridico, che le leggi continuavano a mantenere. Da essa derivò quella corrente d'idee che sboccò nelle critiche degli economisti e dei filosofi del secolo XVIII, le quali portavano all'abolizione dell'istituto. Il codice napoleonico tornò però ad ammettere la morte civile quale conseguenza delle pene capitali. E fu seguito anche da leggi italiane, che l'ammisero con ristrette conseguenze, limitandosi qualcuna (cod. parm., art. 25) a far perdere il diritto di cittadinanza, ammettendo altre (cod. pen. sic.) che per il tramite del morto civile potessero acquistare i suoi eredi.
Morti civilmente si considerarono i profitenti di un ordine religioso. Quanto riguarda i profitenti di un ordine religioso crea una ipotesi tutta speciale di morte civile, che è viva, in forza dei canoni della Chiesa cattolica, nella storia giuridica moderna. La spiegazione e la giustificazione di questo concetto devono necessariamente adeguarsi ai principî che regolano e informano la religione cattolica. Per questa, lo stato religioso crea agli ecclesiastici, indelebilmente, una minorazione dei comuni diritti (ius spolii, incapacità matrimoniale); crea agli ecclesiastici appartenenti a ordini religiosi una vera e propria morte civile. Ciò è conseguenza, essenziale e naturale, della professione dei voti religiosi. Il concetto è ora fissato nel canone 579 del Codex iuris canonici. I voti solenni e perpetui fondano uno stato soggettivo d'incapacità, frutto dell'irrevocabilità della professione: il che si traduce nell'invalidità di ogni atto contrario a povertà e castità e nel diritto dei superiori a rendere irriti quegli atti che sono contro l'obbedienza. Conseguentemente del patrimonio del profitente si dispone giuridicamente come di quello di un defunto; se il profitente non ha testato, succede l'ordine religioso in cui egli fece l'ingresso. Si permette solo in alcuni ordini che egli conservi un modesto peculio per i bisogni minuti dell'esistenza terrena. Limitatamente, le legislazioni degli stati anteriori al regno d'Italia ammisero gli effetti di tale morte civile pur chiamando in parte alla successione legittima gli eredi del morto civile. In Italia questa morte civile non fu più riconosciuta nei suoi effetti con la legge del 7 luglio 1866.
Bibl.: H. Krüger, Geschichte der capitis deminutio, Breslavia 1887; F. Eisele, Zur natur und Geschichte der capitis deminutio, in Beiträge zur römischen Rechtsgeschichte, Friburgo in B. 1896, p. 160 segg.; F. Desserteaux, Études sur la formation historique de la capitis deminutio, I, Parigi 1909; II, ivi 1919-26; III, ivi 1929; U. Coli, Saggi critici, I: Capitis deminutio, Firenze 1922; U. Ratti, Studi sulla captivitas, Roma 1927; L. M. Hartmann, Über Rechtsverlust und Rechtsfähigkeit der Deportirten, in Zeitschr. d. Sav.-St. (rom. Abt.), IX (1888), p. 42 segg. - Sul redemptus ab hostibus cfr. in particolare M. Pampaloni, Persone in causa mancipii nel diritto romano giustinianeo, in Bul. ist. dir. rom., 1905; C. Longo, Lezioni di diritto di famiglia, Milano 1926 e 1930; S. Romano, Redemptus ab hostibus, in Riv. it. sc. giur., 1930. Sulla morte civile nell'età medievale e modera cfr. in particolare Desquiron, Traité de la mort civile en France, Parigi 1821; E. Besta, Le persone nella storia del diritto italiano, Padova 1931.