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MORTE

di Renato Boeri - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)
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MORTE

Renato Boeri

(XXIII, p. 878; App. I, p. 876; II, II, p. 350)

Diagnosi di morte. − La diagnosi di m. ha subito negli ultimi decenni profonde modificazioni sia in base alla messa in evidenza di situazioni cliniche nuove o comunque poco considerate nel passato, sia in relazione alla necessità di essere estremamente chiari, tempestivi e sicuri nel diagnosticare la m. certa qualora si voglia procedere all'espianto di un organo ancora vitale da donare a un malato che ne abbia bisogno.

Fino a 30 anni fa la constatazione dell'evento m. si basava sulla cessazione irreversibile delle funzioni del cosiddetto tripode di Bichat, medico francese (1771-1802). Il tripode è costituito da cervello, cuore e polmoni, e la constatazione della perdita di attività di questi tre organi del corpo umano consentiva di dichiarare con sicurezza la m. dell'individuo. Tutto si riduceva al rilievo della scomparsa dei battiti cardiaci e della respirazione, poiché l'attività cerebrale declinante, semplicemente accompagnava, col suo risolversi, lo spegnimento dell'attività cardiaca e polmonare. Un primo dubbio sull'opportunità di mantenere questo criterio del tripode lo si ebbe nel 1959, quando due autori francesi, P. Mollaret e M. Goulon, descrissero col termine di coma depassé quegli stati di coma ormai irreversibile, secondari a danno cerebrale gravissimo, caratterizzato dalla perdita totale di ogni tipo di risposta, anche elettrofisiologica, e dalla progressiva difficoltà di respirare in modo autonomo. In tali condizioni la respirazione artificiale concede al cuore di svolgere le sue funzioni ancora per qualche tempo, così come continua per qualche tempo l'attività vegetativa, sia pure in condizioni precarie, per una cattiva regolazione della temperatura corporea, per il manifestarsi di un diabete insipido e per il cedere progressivo dei valori della pressione arteriosa.

Questa nuova figura del coma depassé trovò poi continua conferma nelle esperienze successive dei nuovi reparti di rianimazione che risultarono in grado, grazie alla ventilazione forzata, di mantenere in vita, quanto meno apparente, individui in questo stato comatoso irreversibile per un periodo di tempo variabile da poche ore a una diecina di giorni (211 ore in un caso danese).

È stato, poi, nel 1968 un apposito Comitato della Harvard Medical School a dimostrare che questo stato comatoso è dovuto alla cessazione totale dell'attività del tronco cerebrale nella sua componente inferiore, a definire il coma depassé col termine di morte cerebrale e a precisare gli elementi clinici o strumentali in grado di porre con certezza questa diagnosi, che si potrebbe dire ''prognostica'' nei confronti della m. metabolica. Successivamente l'esperienza ha dimostrato che, a garantire la diagnosi, la causa di m. non dev'essere un'intossicazione da farmaci capaci di deprimere il centro respiratorio quali i barbiturici e il meprobamato o l'eccesso alcoolico in condizioni ambientali d'ipotermia. Questo concetto della m. cerebrale, derivato dalla fisiologia e non dalla biologia, ha avuto l'enorme merito di riferire al cervello funzionante in toto sia la vita che la m., e ha aperto la possibilità di disporre dei corpi umani biologicamente ancora viventi per l'esecuzione dei trapianti. Ma ancora più significativo è stato il documento elaborato dalla Conference of the Royal Medical Colleges and their Faculties, negli anni tra il 1976 e il 1979, nel quale si sostiene che la m. cerebrale è dovuta alla perdita del sistema d'integrazione superiore, tipico degli organismi superiori, e cioè di quel sistema di controllo il cui ruolo critico è quello d'integrare i sistemi sussidiari. Nell'uomo il sistema critico è certamente il cervello.

Questa interpretazione delle cose è stata un reale e importante passo avanti nella precisazione del criterio di accertamento della m. e rappresenta un vero salto di qualità nel giudicare i fatti. Sappiamo che la m. del cervello si verifica sempre quando il cuore, come pompa del circolo arterioso, e il polmone, come procuratore di ossigeno, cessano di funzionare. Ma è il cervello, comunque, a definire l'evento m., cioè il punto di non ritorno, perché il sistema critico dell'organismo è certamente rappresentato dal cervello, tanto che la vicarianza artificiale del cuore e dell'attività polmonare, quale si può attuare in un reparto di rianimazione, non sarà in grado di arrestare i processi mortali se il cervello è clinicamente morto.

L'accertamento della m. cerebrale richiede che si verifichino queste condizioni: 1) stato di coma non dovuto a intossicazione da farmaci o da alcool; 2) assenza totale di tutti i riflessi localizzati al tronco encefalico (riflesso corneale, fotomotore, oculovestibolare, faringeo, oculocefalico, ecc.); 3) assenza di attività elettrica cerebrale nella registrazione elettroencefalografica; 4) assenza di respirazione spontanea.

La legge italiana vigente prevede che la rilevazione elettroencefalografica sia fatta con registrazioni della durata di trenta minuti da ripetersi per quattro volte nelle dodici ore di osservazione prevista. Va detto che per altre legislazioni, come quella inglese, questo accertamento elettroencefalografico viene considerato come pleonastico: anche in Italia sono previste, in progetti di legge pronti per la discussione in Parlamento, riduzioni dei tempi di rilevazione elettroencefalografica e dei tempi di osservazione attiva, da dodici a sei ore. Altri segni e sintomi complementari sono la poliuria, dovuta a un difetto di produzione dell'ormone antidiuretico per sofferenza della zona diencefalica, l'instabilità cardiocircolatoria dovuta alla sofferenza dei centri vasomotori del tronco e l'ipotermia per perdita della capacità di autoregolazione della temperatura corporea. Altri esami non richiesti per legge, ma applicabili nel caso assai eccezionale di non sicurezza diagnostica, sono: l'angiografia cerebrale per documentare l'arresto del flusso arterioso carotideo a livello della base cranica; la flussimetria Doppler intracranica capace di documentare l'esistenza di un circolo attivo o meno; la scintigrafia cerebrale che permette l'identificazione della presenza o meno di un tracciante radioattivo; la SPECT (tomografia computerizzata a emissione di fotoni) che garantisce con assoluta certezza la presenza o meno di un circolo cerebrale funzionante. Va anche detto che, sulla base dell'esperienza fatta in questi anni, occorre prevedere criteri differenti per la valutazione della m. cerebrale in età neonatale o pediatrica in relazione alla non completezza di sviluppo delle strutture cerebrali e alla maggiore resistenza del tessuto nervoso del bambino ai gravi insulti patologici.

Questo concetto di m. cerebrale come criterio di definizione e di accertamento della m. nell'uomo, non è di derivazione filosofica, come sarebbe augurabile, e non può neppure definirsi di derivazione biologica, ma è esclusivamente clinico ed è emerso dalla nuova casistica derivata dall'adozione delle tecniche rianimatorie. Il fatto non deve meravigliare in quanto i biologi, in forza del loro compito, sono portati a distinguere tutto ciò che è vivente da tutto ciò che non lo è, tutto ciò che è organico da ciò che è inorganico.

Ne deriva che essi sono portati a ritenere la m. non come un ''evento'', ma come un ''processo'' e, nella loro obiettività, che non può contemplare i casi personali, considerano la m. come la cessazione definitiva di tutte le funzioni che mantengono la vita psicoorganica. Per loro il primum moriens è certamente il cervello, ma l'ultimum moriens è la cellula epiteliale, e pertanto non si ha m. biologica sino a che la degradazione proteica non ha un netto sopravvento sulla resintesi delle proteine e sinché non si determina un'incapacità di liberare energia mediante reazioni ossidative. Per un biologo, quindi, la m. è un lento processo e non un evento, e allo stesso modo in cui la vita, biologicamente, precede la nascita di un individuo, così la m., biologicamente, si verifica dopo lo stabilirsi di quelle condizioni che noi, pragmaticamente, definiamo con l'evento morte.

I filosofi d'altronde provano difficoltà a definire il concetto di m. in quanto essi tendono a limitarsi entro l'ambito del soggettivo consegnando ai tecnici il compito di definire l'obiettività del morire: un modo evasivo, forse persino scaramantico, di eludere il problema e quindi di non confortare in modo più corretto, dal punto di vista bioetico, il compito di colui che deve accertare l'avvenuta fine di un'esistenza umana, e cioè il medico.

Allo stato attuale la m. cerebrale rappresenta certamente il minimo comune denominatore accettabile da tutti quale parametro sicuro di accertamento della morte. Ma deve risultare chiaro che questo termine, come dice R. M. Veatch, è un termine transitorio, trattandosi sempre di morte virtuale. D'altronde servirsi della definizione di m. cerebrale non significa ridefinire il concetto di morte. Si tenga anche conto che, in futuro, la possibilità di mantenere in vita persone con tecniche artificiali risulterà probabilmente più ampia che non oggi, e inoltre che, sempre in futuro, le funzioni del tronco cerebrale potranno forse essere riprodotte, dal momento che il tronco non sembra essere insostituibile. In tal caso la definizione di m. cerebrale risulterebbe probabilmente insufficiente sia per stabilire i criteri di accertamento della m., sia per definire il concetto di morte. Già oggi, infatti, vi è chi, come i filosofi statunitensi H. Engelhardt e Veatch, si dice favorevole al concetto di m. corticale, che si verifica quando si ha la necrosi delle aree corticali dei due emisferi del cervello, anche se rimangono integre le strutture anatomiche del tronco, cioè quelle la cui compromissione consente l'accertamento della m. cerebrale.

In questa definizione rientrano dunque gli individui affetti da stato vegetativo persistente. Questo quadro patologico, creato dalle tecnologie rianimatorie, si verifica infatti soprattutto come conseguenza di traumi cranici gravissimi. Gli individui che presentano questa patologia sono colpiti da coma profondo da cui riemergono riacquistando soltanto l'attività puramente vegetativa, ma non recuperano nulla delle loro qualità mentali: in tale stato, se nutriti, idratati artificialmente e protetti igienicamente, possono sopravvivere anche per anni. Ma poiché per i filosofi citati la m. deve basarsi sul concetto di persona, questi malati non possono definirsi persone, perché sono privi di attività mentale, che è invece la condizione necessaria per ogni definizione di persona. Questa opinione è però decisamente contrastata da chi osserva che, da un lato, da parte delle diverse scuole di pensiero non vi è unanimità nella definizione di persona e che, dall'altro, l'accettare la m. corticale potrebbe costituire uno scivoloso propendere (slippery slope) verso un'estensione del concetto di m. ad altre patologie, quali le demenze e i ritardi mentali gravi.

È certo, però, che questo nuovo concetto di m. corticale merita una serena valutazione dei fatti ed è un ulteriore invito ai filosofi a dare un'esatta definizione del concetto di ''morte'', evitando di porre ancora una volta i medici di fronte a problemi superiori ai loro compiti, limitati allo stabilire i criteri di accertamento della m. e non abilitati a definire il concetto di morte.

Bibl.: P. Mollaret, M. Goulon, Le coma depassé, in Rev. Neurol., 101 (1959), pp. 3-15; Harvard Medical School, A definition of irreversible coma, in Journ. of the American Medical Association, 205 (1968), pp. 85-88; F. Veith, J. Fein, M. Moses e altri, Brain death: a status report, ibid., 238 (1977), pp. 1744-48; R. M. Veatch, Death, dying and biological revolution, New Haven 1978, p. 29; Conference of the Royal Medical Colleges and their Faculties in the United Kingdom, Diagnosis of brain death, Londra 1979; Comitato Nazionale per la Bioetica, Definizione e accertamento della morte dell'uomo, Roma 1991.

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