Mos italicus e mos gallicus
La coppia di concetti mos italicus/mos gallicus entrò in uso nel Cinquecento, allorché la metodologia nuova dell’Umanesimo giuridico – che si affermò soprattutto in Francia (da qui il nome: mos gallicus) – penetrò nella cultura e nell’insegnamento del diritto, proponendosi con tratti differenti da quelli tradizionali irradiati dagli studia italiani. Se a prima vista essa indica una contrapposizione tra due accostamenti allo studio del diritto, storiograficamente il problema da affrontare è quello dell’impatto della nuova metodologia sui canoni consolidati della scienza giuridica tardomedievale, che suole anche denominarsi bartolismo (da Bartolo da Sassoferrato).
L’Umanesimo si era affermato in Italia nel Trecento, in coincidenza con il nascere di nuove forme di organizzazione della vita civile. Il tramonto della civiltà comunale e la sua trasformazione in signorie, la crisi dell’impero e il declino del papato si combinarono a eventi bellici e a sciagure come la grande peste, e investirono gli ordinamenti, incidendo profondamente sugli aggregati sociali e sulle collocazioni dei ceti e delle élites. La spinta alla revisione delle mentalità e della cultura avvenne in questo quadro, e si manifestò con uno spirito critico che finì per mettere in discussione dogmi consolidati e principio di autorità.
In un mondo sempre più connotato da contrasti e violenze, ma anche da speranze e aspirazioni a riorganizzare la società politica, come protagonisti dell’ordine su cui puntare apparivano ora l’uomo, formatosi negli studia humanitatis, e le istituzioni del potere, nelle varie forme in cui esse andavano costruendosi. La nuova sensibilità artistica rendeva evidente il rivolgimento incentrato su questi poli: l’esigenza di riappropriarsi della filosofia e delle lettere si manifestava con una spinta che vedeva impegnati le nuove figure insediate nelle corti, committenti e mecenati, intellettuali e uomini di Stato, e guardava anche a una rinnovata funzione del diritto.
Nessun dubbio che già nel tardo Medioevo italiano il mondo del diritto si dimostrasse permeabile all’Umanesimo, manifestando:
a) una certa cura per la pulizia dei concetti e del linguaggio;
b) una qualche applicazione di criteri filologici e strumenti storici alle fonti, che, come espressioni di un diritto ricondotto all’uomo, dovevano essere riportate al tempo e al testo originari; l’attitudine filologico-storica cominciò a riguardare il Corpus iuris e in genere i documenti rilevanti per l’esperienza giuridico-politica, come quello contenente la supposta donazione di Costantino, di cui Lorenzo Valla – non a caso anche autore dell’invettiva contro Bartolo – dimostrò definitivamente la falsità; riguardò inoltre la stessa produzione dei giuristi (per es., la ricerca della paternità effettiva delle opere attribuite a Bartolo);
c) l’accentuata attenzione per la varietà delle fonti giuridiche e per il diritto posto dall’autorità (lex), con la conseguente propensione ad apprezzare la diversificazione del diritto;
d) l’interesse per il diritto pubblico, studiato in forma specifica e in evidente collegamento con le forme attuali di potere (ne è una spia il frequente impiego dei giuristi per missioni diplomatiche);
e) la fondazione e gestione dirigistica delle università.
E tuttavia l’Umanesimo, pur presente come cultura critica e di stimolo, penetrò diffusamente nel campo del diritto solo agli inizi del Cinquecento, in presenza di condizioni nuove.
Innanzi tutto, l’incontro con il mondo americano, ignoto, sconfinato, strutturalmente autonomo. Ben presto fu evidente che i rapporti con le popolazioni (numerose e già organizzate secondo proprie istituzioni) e con le terre non potevano essere gestiti con il vecchio strumentario tecnico-giuridico, ma sarebbe stato necessario uno sforzo di reimpostazione delle ideologie e del diritto.
In secondo luogo, la formazione di entità statuali forti, che tendevano a costruirsi con obiettivi e spirito unitario. Si trattava di un’emersione che non fece venire meno il pluralismo di ceti e dei centri di potere, ma che comunque postulava la revisione dei rapporti tra le fonti del diritto (si guardava alla legge come strumento di certezza e di disciplinamento), il rinnovamento delle magistrature e in generale della funzione dei giuristi.
In terzo luogo, l’invenzione e la diffusione della stampa. Il nuovo mezzo funse da volano nell’accrescere la circolazione delle idee. Le scoperte di documenti storici erano messe a disposizione di un pubblico relativamente vasto e a loro volta innescavano ulteriori prospettive di ricerca, i classici erano riediti e meditati con gli strumenti filologici nuovi, si ampliavano la conoscenze e gli aspetti critici della cultura. Gli studia non erano più i principali luoghi depositari di scritti, e dunque si allargavano i centri di riflessione intellettuale, con due conseguenze apparentemente contraddittorie ma tra loro collegate: l’accentuarsi dello specialismo delle discipline – per es., la politica si distinse dall’etica e dal diritto – e l’arricchirsi delle discipline tradizionali (quali la giurisprudenza) con le suggestioni derivanti dalle altre scienze o arti (la filosofia, la storia, l’etica e la retorica). Diventava possibile parlare di res publica dei letterati, di cui il giurista umanista faceva parte a tutti gli effetti.
Infine, lo scisma della Chiesa e la riforma protestante: fenomeni che rientravano pure nella cultura dell’Umanesimo, e che a loro volta accentuavano il processo di relativizzazione degli ordinamenti e la costruzione di un nuovo ordine inter gentes.
Tutto ciò spiega perché l’Umanesimo giuridico spesso propose le opere più originali al di fuori dei canali accademici, anche se lo Studio di Bourges divenne la roccaforte dei nuovi gusti culti, annoverando quali insegnanti molti dei principali esponenti dell’Umanesimo giuridico, da Andrea Alciato in poi. Si trattava di una cultura cosmopolita, che nel contempo era attenta alla singola polis e che si esprimeva come una ideologia 'del fare', sia tra quanti focalizzavano l’interesse verso un ordine fondato sull’equità, sia tra coloro che preferivano badare ai profili utilitaristici del diritto.
L’aspetto più vistoso della penetrazione dell’Umanesimo nel diritto fu il mutare della considerazione dei due corpi normativi attorno a cui era stato costruita la riflessione dei giuristi medievali.
Quello canonico era violentemente attaccato nelle terre protestanti perché ritenuto espressione della Chiesa di Roma, e per lo più sostituito con le fonti dirette dell’Antico e Nuovo testamento; ma anche nei Paesi cattolici, esso andò trasformando le sue funzioni, per la spinta alla semplificazione e alla certezza (che produsse l’esigenza di disporre di un manuale con i capisaldi della materia) e alla formazione di norme ecclesiastiche nazionali.
Quanto alla compilazione giustinianea, se ne accreditava l’immagine di testimonianza del passato. Non essendo più diritto vigente, cadeva anche la concezione che essa fosse di per sé espressione di ordine e armonia: un ius civile riportato al primitivo significato di diritto di un ordinamento particolare (la civitas Romanorum) da studiare per l’utilità che la storia offre per il presente. E questa utilità era sostanzialmente rinvenuta nel tesoro di soluzioni ragionevoli (rationes) depositate nel Corpus.
Gli atteggiamenti umanisti nei confronti del diritto possono sintetizzarsi come segue.
In primo luogo, la propensione a storicizzare le fonti, che spiega la ricerca di antichi documenti della giurisprudenza e della legislazione romana, il raffronto tra le fonti precedenti e la compilazione giustinianea, lo scavo entro quest’ultima, smontata attraverso una nuova esegesi. Tale lavorio consentiva al giurista di far propri i testi come oggetto di conoscenza, e contemporaneamente ne segnava il distacco, perché essi venivano relativizzati come un prodotto storico.
Quindi, l’aspirazione a sistemare razionalmente il diritto. I commentatori avevano utilizzato la compilazione giustinianea per trarne rationes sempre più attualizzate, ferma restando l’indiscussa autorità delle leges, e proprio per le costruzioni arbitrarie che si venivano a sovrapporre al testo essi venivano criticati dagli umanisti. Con i culti il Corpus tendeva a essere considerato come un deposito di materiali di ragione, ma non più in maniera esclusiva: un deposito non ordinato e non ordinante, per il semplice dato della sua storicità. Quei materiali, inoltre, abbisognavano di essere pazientemente colti e incastonati in un’armatura fondata su una dialettica rinnovata.
Infine, la spinta alla raccolta, edizione e studio delle fonti del diritto patrio. Era un altro risvolto dell’attitudine a storicizzare il diritto: relativizzati e ridotti a una funzione di 'deposito' di principi i due grandi corpora iuris, si trattava di accertare, sistemare, studiare le fonti effettivamente vigenti nell’ordinamento dato.
Questi tre atteggiamenti erano tra loro legati, ma non sempre si trovano congiunti e nella medesima misura in ciascun giurista, a riprova che l’opera degli umanisti è difficilmente inquadrabile entro schemi precostituiti. La storiografia ci ha provato e per lo più ha proposto due distinzioni di massima, volte, da un lato, a individuare al suo interno i diversi filoni dell’Umanesimo e, dall’altro, a rimarcare i connotati essenziali del cultismo rispetto alla scienza tradizionale.
Sotto il primo profilo, sin dalla storiografia ottocentesca (Stintzing 1880) si è prospettata la distinzione tra indirizzo erudito, attento all’indagine storico-filologica dei testi, e indirizzo sistematico, volto a redigere in artem (in maniera logica e sistematica) la materia giuridica. Sotto il secondo profilo si è scolpita la contrapposizione tra mos italicus e mos gallicus. Se ne parlerà, rispettivamente, nei prossimi paragrafi.
La prima distinzione può servire a fornire una prima idea degli interessi della scuola culta; ma non conviene enfatizzarla, onde evitare di limitare, per esigenze classificatorie, la ricchezza propria del mondo umanistico. Insomma, se appare utile riconoscere una propensione di tipo erudito e un’altra di tipo sistematico, esse però si intrecciavano in seno alle tante forme di umanesimo, manifestandosi anche nei percorsi di uno stesso autore. I caratteri salienti delle opere culte sembrano essere i seguenti.
I generi letterari utilizzati. La loro diversificazione è imponente, e mostra forme tipicamente umanistiche. Divennero di moda le epistulae (come quella De ratione docendi, discendique iuris conscripta, del 1544, indirizzata da Francesco Duareno [François Duaren o Douaren] ad André Guillart [o Guillard], autentico manifesto sull’insegnamento e apprendimento del diritto) e i pamphlets di battaglia politico-intellettuale (come l’Antitribonian, 1567, di François Hotman), spesso rivolti a un pubblico più vasto che non quello dei giuristi. Soprattutto, l’insegnamento acquisì modalità espressive specifiche: orazioni o prolusiones vennero adoperate per introduzioni metodologiche o programmatiche, mentre si diffusero i manuali esemplati sulla falsariga delle Istituzioni giustinianee, con trattazioni agili e stringate indicazioni sul diritto praticato.
La lingua. La ricerca dei valori fondanti delle varie civiltà, a cominciare da quelle classiche, indusse gli umanisti ad appropriarsi delle lingue antiche: il greco, in particolare, divenne patrimonio comune dei giuristi culti. D’altro canto, la dimensione pratica dello studio e l’accentuata consapevolezza del variare delle storie dell’uomo portavano a occuparsi della propria civiltà (istituzioni, consuetudini, credenze religiose) maneggiando gli strumenti più adatti per divulgarla. Da qui una spinta verso l’uso delle lingue nazionali. Nel campo del diritto questa direttrice si raccordava ai bisogni di accertamento e di semplificazione del mondo dei pratici (notai, giudici, ufficiali delle istituzioni cittadine, ecc.), che utilizzavano il volgare negli atti processuali e nel dar forma ai negozi. S’intende, poi, che l’affermazione del volgare negli usi giuridici fu favorita dal proliferare delle normative locali e principesche.
Le fonti. In generale il Corpus iuris mantenne un posto centrale nell’insegnamento, ma la scienza giuridica umanistica allargò il proprio spettro d’indagine. Andò a caccia di fonti antiche e, ora che graeca leguntur, di testi della legislazione e giurisprudenza bizantine. Si dedicò inoltre al diritto nuovo, non solo di matrice regia, ma anche quello consuetudinario. Sotto quest’ultimo profilo, dagli inizi del Cinquecento in Francia è significativa l’attività di redazione e di commento delle coutumes, che segna una saldatura tra l’azione del sovrano, la giurisprudenza pratica e la dottrina di scuola.
La ricerca di un 'sistema ordinato'. La proposta di riordinamento del diritto espressa nel 1508 dal padre degli umanisti francesi, Guillaume Budé (Annotationes in quatuor et viginti Pandectarum libros), ricevette vasta eco nel corso del secolo. Talora dominava l’esigenza della sintesi e della chiarezza, che spesso si esprimeva nella formulazione di un compendio racchiuso in tavole schematiche (è il caso della Iuris universi distributio di Jean Bodin nella sua prima edizione del 1578); talaltra prevaleva l’obiettivo di disporre organicamente la materia entro una partizione basilare, fosse quella gaiano-giustinianea (personae, res, actiones), o un suo derivato (è il caso di François de Connan, che intese per actiones i negozi giuridici e non lo strumento per agire in giudizio) o ancora uno schema nuovo (è il caso di Nicolaus Vigelius [Nikolaus Vigel] e di Hermann Vultejus). In tutti gli orientamenti la questione del redigere in artem il diritto significò uno sforzo per impiegare strumenti logici, principi filosofici e contenuti almeno parzialmente nuovi. Le prime sistemazioni furono tentate già negli anni Trenta e Quaranta nell’area tedesca – è un dato che mette in guardia dal confinare l’esperienza complessiva dell’umanesimo giuridico in terra francese –, ove, nel fertile ambiente della cultura luterana e grazie anche all’insegnamento di Filippo Melantone (Philipp Schwarzerdt), circolavano opere rinnovate di logica e si affermò la tendenza a introdurre nel diritto principi tratti dal cristianesimo delle origini (Berman 2003).
Furono comunque due giuristi francesi, François de Connan (1508-1551) e Hugues Doneau (Ugo Donello, 1527-1591), a distinguersi: il primo trasfigurò i materiali del corpus giustinianeo in una versione razionalizzata e ispirata ai principi filosofici neoaristotelici (Commentarii iuris civilis, 1553), mentre il secondo offrì una sintesi (ma in forma alquanto prolissa) di un sistema saldamente incentrato sull’uomo (Commentarii de jure civili, 5 voll., 1589-1596).
Le opere di de Connan e di Doneau comunque hanno caratteri comuni, come sistemazioni razionali del diritto privato su basi giusnaturalistiche. Premesso che il diritto doveva rispecchiare l’ordine naturale delle cose, essi procedevano attraverso l’esposizione dei principi, la definizione degli istituti e la successiva articolazione delle regole. Dato questo impianto, si comprende come le trattazioni si distaccassero dalla compilazione giustinianea, pur richiamandovisi continuamente. Quest’ultima veniva sì nobilitata con la considerazione che esprimesse la ratio scripta, ma a prezzo di una condanna a morte del diritto comune (Cortese 2000, pp. 410-11) in nome delle costruzioni giusnaturalistiche.
Le due opere pretendevano di essere espressione di ragione, e quindi questa era la loro fonte autoritativa, non più l’antico corpus sanzionato da Giustiniano. Al centro della redazione in artem del diritto venivano posti gli elementi fondanti e comuni delle diverse esperienze, nella consapevolezza che il diritto non si identifica con le leggi (ben possono darsi leggi antigiuridiche, per es. da parte dei tiranni), né con le opinioni dottrinali (di per sé arbitrarie e incerte).
Per lo più gli sforzi sistematici si rivolsero nel Cinquecento al campo privatistico, e questo dato sembrerebbe accreditare l’idea che il diritto sistemabile fosse unicamente quello riguardante le relazioni interpersonali, quasi che la relativa disciplina (il diritto privato) fosse espressione costante, a differenza del diritto pubblico, più legato alle contingenze e a una regolamentazione arbitraria. Ma, come esplicitava Doneau, anche il diritto pubblico muoveva da principi razionali ed era del resto pensabile solo come ambito funzionale al privato, da cui mutuava la nomenclatura e le categorie.
La sensibilità per l’autonomia di nuove materie. Come si è intravisto poc’anzi, la cultura umanistica si interessava alla materia pubblicistica: di solito, come in Francia, al di fuori delle aule scolastiche, sia per il coinvolgimento dell’alta magistratura nelle questioni più rilevanti del diritto pubblico (ivi compresi i rapporti con la Chiesa), sia perché le vicende politico-religiose che presero la forma di guerra civile portarono in primo piano la questione della sovranità. Ciò spingeva a ricostruire storicamente, anche con l’aiuto dei modelli classici, il processo attraverso cui la struttura istituzionale e le norme pubblicistiche si erano affermate.
È in questo quadro che opera la riflessione di Jean Bodin, sia sul piano della metodologia storica (Methodus ad facilem historiarum cognitionem, 1566), sia sul piano teorico della sovranità (Les six livres de la République, 1576). Nella prefazione della Methodus, dopo aver sostenuto che ogni scienza doveva basarsi su princìpi universali, Bodin criticava i giuristi intenti a rimasticare il ius civile (Romanorum), cioè il diritto di un ordinamento particolare, privo di ordine e storicamente passato. Nell’esperienza quotidiana si rinnovavano continuamente leggi, costumi, istituzioni: con il bagaglio delle humanae litterae, che gli consentiva di padroneggiare la storia e il metodo, e altresì con l’uso della filosofia, il giurista doveva cimentarsi nel presente, secondo la duplice dimensione del diritto, relativistica e mutevole eppure razionale e universale.
Un altro giurista, Franҫois Baudouin (1520-1573), esortava ad accantonare le leptologias (sottigliezze, sofisticherie) e ad aprire gli orizzonti ai tanti aspetti del vivere organizzato che attenevano al diritto pubblico: quelli de gubernatione Reipublicae, de bello, de pace, de foederibus, de vectigalibus.
Insomma: riscoperta del diritto pubblico come nodo della giurisprudenza e settore in cui in primo luogo si esplicava l’impegno civile del giurista. E, in quell’ambito, un posto centrale ebbe la materia criminale, in uno sforzo teso a enucleare modelli di giustizia imperniati sull’idea del reato come offesa pubblica e a ridisegnare complessivamente il processo.
I contenuti. L’attenzione per la prassi costituiva uno stimolo continuo a rinnovare costruzioni e soluzioni giuridiche. La stessa attitudine critica nei confronti delle elaborazioni «gotiche e deformi» dei giuristi medievali imponeva un ritorno al testo classico, salva però la possibilità di produrre nuove soluzioni con l’elastico ricorso alla ratio scripta. Infine la methodus, che non era solo armatura formale bensì strumento di ritrovamento e di disposizione ordinata di argomentazioni, consentiva al giurista di sottrarsi a schemi e istituti precostituiti.
Si può pensare, per es., alla differenziazione della categoria della proprietà da quella dei diritti su cosa altrui, connessa alla centralità che il proprium del soggetto andava assumendo nelle sistemazioni umanistiche. O ancora alla enucleazione di parti generali comuni a un’intera branca di istituti, sia nel campo del diritto penale (T. Deciani, Tractatus criminalis [...], 1590), sia nella materia dei contratti, ove tese a costruirsi una categoria generale di contratto a partire dalla sua definizione (conventio cum causa): una definizione onnicomprensiva dei singoli tipi, incentrata sull’accordo delle parti (conventio) che, proprio in quanto munito di causa, era protetto dall’ordinamento.
Che gli ambienti italiani fossero, in chiusura dell’età medievale, 'territori' di mos italicus, ovvero ambiti ove perduravano il metodo e la pratica della scuola dei commentatori, è cosa ovvia. Quel metodo si era dedicato a estrapolare, talvolta arditamente, le rationes dal Corpus giustinianeo esaltando il procedimento interpretativo per analogia. Combinando poi principi e norme provenienti dal diritto canonico, i commentatori avevano ampliato lo spettro d’attenzione verso le altre fonti del diritto (gli iura propria) e riorganizzato l’intera impalcatura del diritto (leges e interpretatio) utilizzando raffinati strumenti logici. La fortuna della scuola era stata inoltre alimentata dal proliferare, in Europa, di università sul modello bolognese, con un insegnamento che, imperniato sulle cattedre di ius civile Romanorum e ius canonicum, da un lato apprestava le basi di una formazione unitaria e cosmopolita del giurista, e dall’altro accentuava il carattere di autosufficienza della giurisprudenza, rispetto alle istanze critiche espresse dall’Umanesimo.
La stessa fortuna della scienza del commento, con i proventi e il prestigio sociale che ne derivavano per i giuristi bartolisti, spiega perché questi fossero restii a mettere in discussione il proprio statuto metodologico. Mancava inoltre la spinta derivante da quella coscienza unitaria che aveva innescato la storiografia della scuola culta francese e aveva dato impulso alle sistemazioni del diritto: dopo le grandi opere di Niccolò Machiavelli e di Francesco Guicciardini e, poco dopo, di Carlo Sigonio (1520-1584), professore di umanità particolarmente attento al rapporto tra storia e diritto e istituzioni, nella cultura italiana non spiccano esempi di storiografia civile ispirati a istanze unitarie e disposti a riconoscere un ruolo centrale al diritto.
In effetti, la debolezza delle istituzioni politiche, la frammentazione degli Stati e la conseguente scarsa incidenza dei relativi diritti municipali costituivano elementi non favorevoli all’attecchimento del mos gallicus. Né la dottrina aveva particolari stimoli per rinnovare il proprio ruolo attingendo dalla filosofia e dalla storia principi e insegnamenti capaci di sollevare la giurisprudenza dai problemi della gestione del quotidiano. Non che la filosofia e la storia fossero assenti dall’operare dei giuristi: ma esse erano quelle 'ufficiali' – la censura vigilava – e il giurista era abilitato ad argomentare sulle leges e, sempre di più, sulle interpretationes. Ecco dunque le condizioni di un’esperienza che va sotto il nome di mos italicus e che usualmente si concepisce come un filone dottrinario contrapposto a quello del mos gallicus. Ma, come si vedrà, la contrapposizione va storicizzata e non va intesa come espressione di accostamenti al diritto permanentemente opposti ed escludentisi.
Il perno del mos italicus andò spostandosi verso l’interpretatio giurisprudenziale che rinveniva il diritto, anche creativamente. Essa sfruttava le trame di costruzioni già collaudate, le connetteva e le irrobustiva con nuove elaborazioni. Le si attribuiva addirittura vim legis. La scienza bartolista aveva pure, a suo modo, un profilo 'sistematico': non nel senso che mirasse a disporre in ordine il Corpus iuris, bensì nel senso che organizzava istituti e branche del diritto (quello mercantile, per es.) secondo bisogni provenienti dalla pratica. La matrice universitaria dell’interpretatio scoloriva, come indica il declino del genere delle lecturae alla moda dei commentatori, soppiantato dall’attività consulente, dalle decisioni dei tribunali e dalla riflessione sulle normative vigenti.
Si possono così individuare i principali generi letterari fioriti attorno del mos italicus.
a) Raccolte di opiniones communes. Sin dal tardo Medioevo si rifletteva sul ruolo dell’opinio, che certo non era lex e che rientrava nel campo dell’interpretazione probabile; si trattava dunque di precisare i criteri (l’auctoritas dell’interprete, la buona ratio che doveva sorreggere l’interpretatio, magari il numero dei sostenitori) secondo i quali la communis opinio poteva essere applicata in giudizio senza responsabilità. Nel Cinquecento numerosi giuristi parteciparono alla discussione, che trovò forse nel Tractatus de communi utriusque iuris doctorum opinione [...] (1572) di Antonio Maria Corazza la sistemazione più nota, con inevitabile corollario di raccolte di communes opiniones: a volte esercitazioni scolastiche, brevi e magari rimaste allo stato di manoscritto, spesso veri e propri repertori, disposti per argomenti in ordine alfabetico. Si possono segnalare, il Repertorium iuris decisiuum (1481) di Giovanni Bertachini e, a testimonianza di una larga fortuna del genere, le Practicae conclusiones iuris in omni foro frequentiores (8 voll., 1605-1608) di Domenico Toschi, poderosa enciclopedia di quasi diecimila lemmi.
b) Consilia. Questa tipologia di opere era l’erede di un genere assai diffuso nel tardo Medioevo. Permase alto il prestigio dei responsa pro veritate e dei consilia sapientis, pareri dati al giudice (non tecnico della materia); ma l’affermazione, nel 16° sec., dei Grandi tribunali, composti di giuristi dotti, fece gradualmente arretrare questa tipologia di consilia. E tuttavia il numero delle raccolte consiliari è impressionante; giocava la relativa facilità di riempire il mercato di simili pubblicazioni, che procuravano immediata notorietà e soddisfacevano una domanda legata al prevalente approccio casistico. Gli indici degli argomenti, dal canto loro, facilitavano la consultazione e la fruibilità delle raccolte. Si pubblicava di tutto e, sotto il nome ambiguo di responsa o consilia, spesso venivano edite allegazioni di parte, prodotte solo per sostenere la posizione del cliente: il che, mentre provocò accese rimostranze da parte della giurisprudenza umanistica, alla lunga finì per screditare il valore complessivo di tale filone di opere.
c) Decisiones. Anche questo genere letterario prese avvio nel tardo Medioevo, e riguardava materiali desunti o collegati all’attività giurisdizionale di Grandi tribunali, a cominciare dalla Rota romana; alle raccolte fu riconosciuta autorevolezza, e le più rinomate circolarono in ambito europeo.
Qui, in particolare, preme rilevare che la loro fortuna testimonia la tendenza alla 'giurisprudenzializzazione' del diritto: pur essendo spesso opere di dottrina per l’intervento personale dell’autore nel disporre e argomentare i materiali, le raccolte di decisiones finivano infatti per enfatizzare l’usus fori, cioè l’indirizzo giurisprudenziale prevalente nei tribunali.
d) Tractatus. Tra Quattro e Cinquecento, si segnala un’importante letteratura che prese la forma di trattati monografici su temi di diritto privato, su istituti attinenti alla materia procedurale e sul pelago del diritto pubblico.
Se ne può parlare come erede di quella composita letteratura che, già dal Duecento, si era svolta nella forma di summa di particolari temi del corpus giustinianeo o come raccolta di quaestiones; ma la novità era ora l’affermazione del genere della monografia, quale trattazione compiuta di una materia, spesso secondo suggestioni d’attualità. La trasformazione non fu subitanea: permasero anche le esposizioni in forma casistica, e non di rado il risultato era una modesta compilazione che si limitava a racchiudere l’elaborazione tardomedievale, magari aggiornata. La scoperta della stampa consentì di raccogliere e divulgare queste esposizioni monografiche, talvolta attraverso sillogi monumentali (Venezia, 1548-50, 18 tomi; Lione 1549, 17 tt.; ancora Venezia 1583-86, 18 tt.). Ed emersero figure di specialisti – giuristi ed editori – che intuirono il rilievo della nuova forma dei tractatus e l’importanza di disporre panoramicamente di una loro raccolta ordinata: è il caso di Giovan Battista Ziletti, che ne fece il centro della propria attività.
Complessivamente, la tipologia dei tractatus andò comunque articolandosi per svariati impieghi. In particolare, venne a enuclearsi il genere delle Pratiche criminali, che assunse rilevanza autonoma (pur esibendo a sua volta vesti differenti) per l’importanza del processo come perno dell’amministrazione della giustizia. Esse si ponevano in sostanza come punto di snodo tra le legislazioni principesche, sempre più interessate alla materia, la riflessione teorica e la prassi: svolgevano un ruolo di raccordo tra le esigenze di razionalizzazione e i bisogni di certezza avvertiti sempre più insistentemente.
Di conseguenza, anche il genere dei tractatus andava piegandosi verso quella 'prammatizzazione' del diritto comune che era del resto un fenomeno pienamente avvertito dalla dottrina del mos italicus: come affermava Iacopo (o Giacomo) Menochio (De praesumptionibus, coniecturis, signis et indicijs, libro II , 1587-1590, praes. VI, rispettiv. nn. 14 e 9, ff. 5r e 4v), lo ius commune non era altro che l’insieme delle direttrici che scaturivano dalla consuetudine interpretativa.
Mos gallicus e mos italicus indicano indubbiamente accostamenti differenti allo studio del diritto, ma i confini tra le due visioni furono assai mobili. Se, per es., ci si rifà alla discussione a distanza tra Alciato e Deciani in tema di giurisprudenza consulente, ci si avvede, sì, della critica del primo verso la letteratura consiliare, in quanto resa per interessi di parte e dunque lontana dai compiti della scienza; e, viceversa, della difesa operata dal secondo, che la riteneva strumento essenziale per adeguare il diritto al sorgere continuo di nuovi negozi. E tuttavia l’affermazione di Deciani, per il quale il giurista doveva unire la riflessione teorica con la capacità di applicare i principi, sarebbe stata certamente fatta propria da Alciato; in realtà Deciani, quasi in chiusura della propria vita, aspirava a offrire una visione complessiva dei compiti dell’interprete e attingeva liberamente ai due indirizzi, come a proporne un’osmosi. Di certo poi, nonostante l’enfasi che anche nelle pagine precedenti si è posta sul legame tra il bartolismo e la pratica, si errerebbe se si ritenesse che il discrimine tra mos gallicus e mos italicus riguardasse rispettivamente la propensione verso gli aspetti teorici o verso quelli pratici; se ci spostiamo al piano fattuale, del resto, i culti (compreso lo stesso Alciato) non avevano affatto disdegnato di rendere consilia, tutt’altro che disinteressati.
In realtà entrambe le correnti avevano in sé, per così dire, dei punti deboli, e l’una non poteva fare a meno dell’altra. Infatti il mos gallicus, nella sua sottolineatura della storicità del diritto e quindi anche del diritto romano, rendeva incerto un altro presupposto spesso affermato, cioè l’universalità del diritto romano come ratio scripta. Una contraddizione sicuramente avvertita da giuristi che, come Deciani o Alberico Gentili, pur sensibili alla cultura umanistica, non erano disposti a viaggiare senza la scorta delle rationes tratte dal diritto romano. Dal canto suo il mos italicus – sperimentato da un lungo lavorio nella materia privatistica – era magnificamente adatto a destreggiarsi sull’esistente, ma era destinato a un ruolo marginale sia nello stesso campo privatistico (allorché si pose con forza la domanda di elaborazioni nuove), sia in settori come il diritto delle genti e in generale il diritto pubblico.
Si comprende come il modo di intendere la giurisprudenza fosse sfaccettato e mobile nel tempo da entrambe le parti. Nessuna contrapposizione cristallizzata, tra gli esponenti del mos italicus e quelli del mos gallicus, come una vecchia storiografia usava accreditare. Le punte più accese della polemica risentirono dell’occasione in cui le invettive furono pronunciate e talora di personalismi e ambizioni di carriera; più tardi influirono anche i sentimenti nazionalistici e le contese religiose, che investirono persino il mondo della cultura giuridica. Sono emblematiche le posizioni di Alberico Gentili, che nel De iuris interpretibus (1582) difese il mos italicus, ma che, complice anche il fertile ambiente politico-culturale dell’Inghilterra in cui si era rifugiato (era protestante), non esitò ad attingere agli strumenti storici e letterari del metodo umanistico.
Gli esempi si possono moltiplicare. Il pensiero va alla figura di Giovanni Nevizzano (m. 1540), o a quella di Matteo Gribaldi Mofa (inizi 16° sec.-1564), giuristi che usarono entrambi le tecniche della scuola culta per rinnovare il metodo tradizionale e collaudato dei bartolisti (Marchetto 2005, p. 88; Quaglioni 1999, p. 211), e che pertanto sono di difficile collocazione nell’uno o nell’altro indirizzo.
Del resto, se la coppia di concetti mos italicus/mos gallicus esprimesse una dicotomia stabile tra esperienze reciprocamente impermeabili, non si spiegherebbe la circolazione di giuristi e di opere che è invece uno dei caratteri salienti dell’esperienza del Cinquecento, nonostante i segni di chiusura che, in funzione di un controllo ideologico-religioso, si registrano nella seconda metà del secolo con i provvedimenti normativi che proibivano di immatricolarsi in università esterne al proprio ordinamento.
Non si spiegherebbe neanche il diffuso interesse per una riflessione sui modi di accostarsi al diritto, susseguitisi a partire dalle scuole medievali: la discussione impegnò molti giuristi accademici, ma anche eruditi e uomini di governo che avevano bisogno di individuare le coordinate della dottrina giuridica, e persino semplici studenti, che forse appuntavano le suggestioni ascoltate dai maestri. Sembrò diventare una moda, ma nasceva da un bisogno di autocoscienza proprio dello spirito critico, e ciò spiega perché la riflessione si protrasse fino al Settecento, ovvero fino a quando il sistema dei codici tolse interesse per l’autocoscienza del giurista.
Si usavano le prolusioni ai corsi o le premesse alle opere (come nel caso del De iure belli ac pacis di Grozio, 1625). Particolarmente significativa la prolusione tenuta a Heidelberg nel 1585 da Giulio Pace (1550-1635) – giurista protestante formatosi a Padova, ma di impronta umanistica –, il quale distingueva cinque metodologie di studio: quella che ebbe come vessilliferi il Piacentino e Azzone (tesa ad apprendere le leges sinteticamente con le Summae), poi quella di Accursio (con il metodo analitico delle glosse), quindi di Bartolo e di Baldo degli Ubaldi (espressione di una giurisprudenza racchiudente in sé anche la filosofia e perciò autosufficiente nel suo agire pratico), e infine due scuole umaniste, l’una con preoccupazioni storico-letterarie, l’altra, rappresentata da Alciato e da Adalricus Zasius (Ulrich Zäsi o Zasy), impegnata a combinare lo studio dei classici con la pratica giuridica. E, a mettere in guardia da ogni semplificazione, Pace dichiarava che, mentre parlava, il panorama andava arricchendosi di altri orientamenti.
Era un punto di vista umanistico. Ma anche in seno all’indirizzo che muoveva dal mos italicus cresceva un’attitudine critica contro un modo asfittico di intendere la pratica. Sostenuta anche dalle istanze più rigoriste del mondo cattolico e dal pensiero utopista, essa sollevò il velo sul volgo dei pragmatici, disinteressati alla scienza giuridica e intenti essenzialmente a fomentare le liti e ad assecondare le pretese dei clienti. Cominciò a delinearsi letterariamente la figura del leguleio, più tardi impietosamente scolpita nelle pagine di un grande pratico come Giovanni Battista De Luca.
A questo punto, la dicotomia mos gallicus/mos italicus da cui si è partiti sembra perdere un valore di classificazione caratterizzante, troppo rigida per sostenere, almeno alla lunga, le sfaccettature proprie del mondo della cultura, anche di quella giuridica; il ricorso a una sorta di via intermedia (v. Carpintero 1977), che avrebbe il merito di mobilizzare la griglia classificatoria, è una spia di tale difficoltà storiografica.
Ma la terza via non risolve nulla. Si tratta, invece, di riportare alla storia quella dicotomia, che ha avuto un significato fondante in una fase iniziale, allorché il cosiddetto mos gallicus si scontrò con la tradizione del mos italicus proponendosi di ridisegnare il rapporto tra i giuristi e le istituzioni, ripensando la formazione dei primi e prospettando regole capaci di governare il tumultuoso emergere delle seconde. L’impatto fu forte. A sua volta il mos italicus fu una realtà che aveva una base poderosa nella raffinata strumentazione di commento alle leges (civili e canoniche) e la sua roccaforte nelle università, da cui irraggiava anche l’impegno nell’attività consulente e nelle istituzioni: un fatto storico, appunto, che in progresso di tempo andò trasformandosi, come mostrano la diversa sensibilità dei giuristi e i generi letterari adoperati. Anche la dottrina italiana rientrò così, ovviamente con i dati della propria esperienza, in quel composito indirizzo solitamente denominato Usus modernus Pandectarum.
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