MOSAICO
Termine di incerta etimologia che definisce in generale la decorazione di una superficie architettonica (pavimento, parete, soffitto) realizzata per mezzo di piccole pietre naturali o, assai più frequentemente, di frammenti di pietra, terracotta o pasta vitrea, lavorati in forma di piccoli cubi e saldamente fissati su di uno strato di supporto, generalmente intonaco, a formare una superficie liscia, monocroma o decorata con motivi geometrici o elementi figurativi.
Lo studio della tecnica esecutiva dei m. paleocristiani e medievali risponde a più obiettivi. Il primo è quello di riuscire a cogliere le intenzioni artistiche dei maestri che li eseguirono, poiché una conoscenza approfondita del mezzo tecnico è una delle chiavi per comprendere le concezioni che stanno alla base delle opere. Dato che sono disponibili solo pochissime fonti scritte sulla tecnica dei m. medievali, questa conoscenza deve essere ricavata dall'esame minuzioso dei monumenti esistenti. Inoltre, l'analisi e la documentazione delle particolarità tecniche possono offrire indicazioni cronologiche e strumenti atti a distinguere tra varie scuole e tendenze locali, accrescendo inoltre la possibilità di individuare riparazioni e restauri.A livello scientifico, le ricerche sulla tecnica dei m. iniziarono negli anni Trenta con l'opera di Whittemore (1933-1952) sui m. della Santa Sofia a Costantinopoli, con cui venne introdotto il metodo della meticolosa descrizione di ogni tessera, dei materiali e dei colori utilizzati. Tale metodo fu ripreso in seguito da Underwood, Mango e Hawkins nelle ricerche condotte a Costantinopoli e altrove (Underwood 1959; 1966; Underwood, Hawkins, 1961; Mango, Hawkins, 1965; 1972; Hawkins 1968). Un procedimento simile fu applicato da Lazarev (1960; 1966) ai m. di Kiev e da Torp (1963) a quelli di Salonicco. Per le opere italiane, un approccio sistematico analogo fu seguito da Davis-Weyer (1974) nel suo lavoro sui m. romani del sec. 9°, da Andreescu (1972; 1976) per i m. veneziani e da Nordhagen (1965; 1978; 1982; 1983a; 1983b) per una serie di m. databili dal 5° all'8° secolo. Il metodo è stato infine recentemente perfezionato con il ricorso a strumenti d'indagine di tipo scientifico: il Corning Mus. of Glass di Corning (NY) e altri laboratori sono infatti in grado di effettuare analisi di tipo fisico-chimico sulle tessere recuperate. Analisi di questo genere sono state eseguite, per es., in occasione dello studio condotto da Hjort (1991) sui m. di S. Clemente a Roma. Fondamentali per questi studi risultano infine le ricerche sui monumenti ravennati portate avanti nel dopoguerra da Bovini (1952a; 1952b; 1953; 1957; 1966a; 1966b).Sebbene durante tutto il Medioevo si siano continuati ad allestire m. pavimentali, particolare importanza assumono quelli parietali, in ragione della loro tecnica raffinata e del ruolo assunto nella decorazione degli interni. Inoltre è questa categoria di m. che si allontanò più radicalmente, sotto il profilo dell'innovazione tecnica, dalla tradizione del m. romano, da cui pure era derivata.
Sembra che sin dall'epoca romana i m. parietali fossero applicati su una preparazione di malta di calce costituita da tre strati: i due interni (arriccio) erano assai ruvidi e contenevano paglia triturata, mentre l'ultimo strato (intonaco), quello su cui venivano inserite le tessere, presentava normalmente una tessitura più fine e conteneva polvere di marmo. La superficie dei primi due strati veniva intaccata o graffiata con la cazzuola mentre era ancora umida, per assicurare una migliore aderenza dello strato successivo.Nelle volte erano talora usati chiodi a testa larga per ancorare alla parete i due strati interni: tali chiodi si trovano, per es., nella rotonda di S. Giorgio a Salonicco - dove si conservano m. probabilmente databili alla prima metà del sec. 5° -, in diverse chiese di Ravenna, a Dafni, nella Santa Sofia e nel S. Salvatore di Chora (Kariye Cami) a Costantinopoli. Nel corso dei secoli, il processo di ossidazione del metallo ha determinato spesso un aumento di volume di questi chiodi e ciò può causare seri danni ai m. in cui essi sono inseriti.
Nei m. si riscontrano più tipi di disegni preparatori. A volte i maestri che eseguivano il m. abbozzavano le linee principali della composizione direttamente sulle pareti nude degli edifici da decorare, come nella cupola di S. Giorgio a Salonicco o nell'abside della chiesa di Cromi, in Georgia, i cui m. del sec. 7° sono conservati a Tbilisi (Gosudarstvennyj mus. iskusstvo). Nella maggior parte dei casi però queste sinopie si trovano sul secondo dei due strati preparatori. I molti esempi pervenuti di tale procedimento dimostrano come esso sia stato seguito per tutto il Medioevo in Occidente (non sono invece note sinopie dei m. costantinopolitani e bizantini in genere): nel m. con Elia rapito in cielo, nella cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo Maggiore a Milano, della fine del sec. 4°; nell'arco trionfale di S. Maria Maggiore a Roma, della prima metà del sec. 5°; nell'abside di S. Apollinare in Classe a Ravenna, della metà del sec. 6°; nella volta nel battistero di S. Giovanni a Firenze, del sec. 13°; sulle pareti e volte dei secc. 12°-14° nella basilica di S. Marco a Venezia. In più casi queste sinopie rivelano come le composizioni siano state modificate prima dell'esecuzione del mosaico.Un disegno preparatorio più dettagliato veniva quindi dipinto sull'ultimo strato di intonaco per servire da guida ai mosaicisti che disponevano le tessere. Questi disegni variano molto tra loro e vanno da schizzi approssimativi a pitture compiute, sempre però con pochi colori; essi sono visibili ovunque le tessere si siano staccate dall'intonaco, come per es.: nel m. con Cristo Helios nel mausoleo dei Giulii della necropoli vaticana a Roma, forse della metà del sec. 3°; nel frammento con figura ecclesiastica, collocato negli ambienti sotterranei di S. Martino ai Monti a Roma, del sec. 6°; nella Santa Sofia di Costantinopoli, sia nel m., forse della seconda metà sec. 6°, dell'ambiente sopra il vestibolo sudoccidentale, sia nel pannello, del sec. 11°, con l'imperatrice Zoe, sia nella Déesis, del sec. 13°, nella tribuna sud; nel nartece del S. Salvatore di Chora ancora a Costantinopoli, del 14° secolo. Le aree da ricoprire con l'oro erano campite con pittura gialla o rossa che aveva la funzione anche di colorare l'intonaco, in modo da rendere meno visibili gli interstizi tra tessera e tessera, come nel m. absidale della Santa Sofia costantinopolitana, del sec. 9°, dove linee rosse concentriche furono tracciate a partire dall'apice come linee guida per la posa delle file di tessere d'oro che costituiscono lo sfondo.Rimane aperta la questione sull'uso di cartoni - disegni a grandezza naturale - da parte degli artisti per definire i contorni della composizione sull'ultimo strato di malta prima dell'inserimento delle tessere. I m. della Santa Sofia forniscono al riguardo contraddittori elementi di valutazione; nel pannello con l'immagine di un imperatore in proskýnesis dinanzi a Cristo - posto al di sopra della porta principale del nartece, o porta Regia, del sec. 9°-10° - linee di contorno incise nell'intonaco potrebbero indicare l'uso di cartoni, mentre le composizioni nell'abside della stessa chiesa, eseguite - come mostrano le loro proporzioni - stando su un ponteggio posto immediatamente sotto e di fronte alla conca absidale, non avrebbero potuto essere realizzate alla stessa maniera: è dunque probabile che la composizione sia stata fatta a mano libera sul posto.
Nei m. pavimentali romani il materiale più comune era la pietra naturale, mentre il vetro era riservato alle tinte più vivaci. Tuttavia nei m. parietali i mosaicisti romani già utilizzavano le ricche potenzialità cromatiche della pasta vitrea, come è visibile nel ninfeo nel peristilio della casa del m. di Nettuno e di Anfitrite a Ercolano, del sec. 1° d.C., nel citato m. con Cristo Helios della necropoli vaticana e nel m. tardoantico della nicchia con il dio Silvano nei Mus. Vaticani. Sebbene con i mezzi tecnici disponibili nella Tarda Antichità fosse possibile ottenere quasi tutti i colori in vetro pigmentato, in realtà la gamma era piuttosto ristretta. Dato il conservatorismo congenito di quest'arte, i colori individuati nei m. tardobizantini del S. Salvatore di Chora possono essere considerati rappresentativi della tavolozza usata dai mosaicisti durante tutto il Medioevo: i colori principali sono rosso, giallo, verde, blu, viola e nero. Il rosso e il nero sono in genere di una sola tonalità; il blu, il verde e il viola hanno ognuno quattro o cinque sfumature; il blu, il verde e il giallo si presentano inoltre in una vasta gamma di gradazioni, frutto di impasti o risultante di una miscela di colori: tra essi i toni verdastri sono particolarmente numerosi. Il giallo-verde chiaro era adoperato già nei m. paleocristiani come accompagnamento all'oro, nell'ombreggiatura delle vesti d'oro o nelle zone di transizione tra lo sfondo d'oro e il verde, generalmente usato nelle scene di paesaggio.I procedimenti usati nel Medioevo per produrre vetro per i m. sono noti attraverso le fonti scritte, ma poche sono le ricerche fin qui condotte sulla tecnologia della pasta vitrea. Pare che, oltre al colore, fossero considerati significativi dal punto di vista artistico anche gli effetti di superficie. È riscontrabile, infatti, una notevole varietà nel trattamento delle superfici delle tessere in pasta vitrea, che varia dal lucente all'opaco, secondo il lato della tessera lasciato in vista: le facce superiore e inferiore delle lastre da cui si ritagliavano le tessere erano opache, mentre i fianchi delle tessere che risultavano dal taglio erano lucidi.Quanto più è chiaro il colore del vetro, tanto più è frequente che esso contenga bollicine d'aria, e alcune tinte chiare sono pressoché cristalline in superficie. Il vetro colorato può essere opaco, traslucido o trasparente; il vetro trasparente non colorato era spesso utilizzato per ottenere effetti particolari, come per es. in S. Maria Maggiore a Roma, dove esso conferisce agli elementi architettonici un colore di pietra chiara.Ai mosaicisti romani va attribuita anche l'invenzione delle tessere a foglia d'oro, materiale che in epoca tardoimperiale e altomedievale assunse un ruolo decisivo nell'arte del mosaico. Secondo una tecnica sviluppatasi nella fabbricazione di oggetti in vetro, le tessere venivano ritagliate da lastre a più strati, dove la foglia d'oro era inserita tra due strati di vetro, uno più spesso e l'altro più sottile: un esempio precoce si trova negli emblemata posti nella volta del ninfeo della Domus Aurea di Nerone a Roma, della seconda metà del sec. 1° dopo Cristo. Come si vede in due mausolei, quello di Costanza a Roma e quello di Centcelles, presso Tarragona, questo materiale fu ampiamente utilizzato nei m. monumentali del 4° secolo.Intorno al 400 fu introdotto il vetro a foglia d'argento per andare incontro alle nuove esigenze poste dall'evoluzione del m. monumentale nell'impero d'Oriente. Con una tecnica identica a quella del vetro a foglia d'oro, una sottile lamina d'argento o di stagno veniva racchiusa tra strati di vetro in modo da dare alle tessere ritagliate forti riflessi simili a specchi. Le tessere a foglia d'oro o d'argento erano soggette a fendersi per il distacco della lamina metallica dal sottile strato superiore di vetro. La perdita della foglia metallica può interessare fino al 50% delle tessere d'oro nei m. paleocristiani, come è visibile nel m. con Cristo circondato dagli apostoli nell'abside della cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo Maggiore, della fine del 4° secolo.Altri materiali utilizzati erano la madreperla, largamente adoperata a imitazione delle perle, come nei m. con Giustiniano e Teodora in S. Vitale a Ravenna, del sec. 6°, e la terracotta, presente, per es., nel pannello, del sec. 10°, con l'imperatore Alessandro nella Santa Sofia di Costantinopoli, dove è usata per gli stivali dell'imperatore, e nei citati m. del nartece del S. Salvatore di Chora, dove figura come colore principale - un rosso chiaro - ed è adoperata nelle vesti, negli oggetti e negli sfondi.Nella cultura artistica che si irradiava da Costantinopoli, la pietra naturale appare nuovamente utilizzata, dopo essere stata quasi completamente abbandonata nei m. parietali occidentali di epoca tardoromana: un'eccezione è quella dei citati m. del mausoleo di Costanza a Roma, dove gli sfondi sono formati da piccoli cubi di marmo bianco. Tanto nei citati m. della rotonda di S. Giorgio a Salonicco quanto in tutti i m. bizantini successivi, la pietra è il materiale riservato alla resa dell'incarnato: soprattutto i volti, le mani e i piedi erano formati con tessere litiche, mentre il vetro era applicato solo nelle zone più ombreggiate. Questa soluzione tecnica costituisce un tratto distintivo dell'arte musiva bizantina, mentre l'uso della pietra per altri scopi, per es. nelle vesti e negli sfondi, variando da un secolo all'altro, raggiunse il suo culmine nei m. tardobizantini di epoca paleologa (secc. 13°-15°). La raffinatezza dei volti modellati in questo modo è straordinaria e spesso in forte contrasto con gli intensi colori ottenuti con l'impiego della pasta vitrea nelle aree adiacenti. Nei volti, il passaggio dalle zone d'incarnato modellate con tessere in pietra ai netti contorni in materiale vetroso è spesso attenuato dall'impiego di una fila di tessere in pasta vitrea neutre, non colorate e trasparenti.L'elenco dei tipi di pietra e dei colori utilizzati nel citato m. absidale della Santa Sofia di Costantinopoli indica la presenza dei seguenti materiali lapidei: calcare bianco (a grana sottile, usato per le lumeggiature dei volti), marmo proconnesio bianco, marmo proconnesio grigio, marmo bianco a grana fine, marmo color crema (per l'incarnato), marmo rosa (attestato in tre sfumature, usate per la resa dei toni dell'incarnato), granito grigio purpureo, granito ocra-bruno e pietra grigio ardesia (proveniente da Beykoz, sulla sponda asiatica del Bosforo). Nel S. Salvatore di Chora sono presenti, oltre a tutti quelli appena citati, diversi altri tipi di pietre colorate, per es. in giallo ocra in varie tonalità.In alcuni m. orientali si trovano tessere di pietra sulle quali è stato applicato uno strato di colore. Nel m. della Panaghia Kanakaria di Lythrangomi, a Cipro, del sec. 6°, tali cubetti dipinti vennero impiegati ovunque fosse necessario un rosso chiaro, evidentemente perché era difficile produrre questa tonalità in vetro colorato. Nella Santa Sofia di Costantinopoli queste tessere si trovano impiegate nelle calzature, come quelle della Vergine nell'abside e quelle dell'imperatore in atto di proskýnesis davanti a Cristo, nel citato m. della lunetta della porta centrale del nartece: nello stesso m. esse si trovano anche nel cuscino su cui è seduto Cristo. In tali esempi questo raro procedimento pare potesse aver a che fare con il desiderio di riprodurre correttamente la tinta rosso-viola che indica la porpora imperiale.Tra i m. ravennati della prima metà del sec. 6° vi sono casi in cui cubetti di marmo bianco sono stati utilizzati per sottolineare dettagli di una certa rilevanza iconografica. Nel m. nella cupola del battistero degli Ariani, il pallio di S. Pietro nella serie degli apostoli è realizzato con cubetti di marmo bianco, mentre tutti gli altri apostoli indossano palli eseguiti con tessere in pasta vitrea; in questo caso il marmo bianco fu usato per creare l'effetto di un pallio di lana, del tipo indossato dai pontefici. Allo stesso modo, nel m. con la teoria delle Vergini di S. Apollinare Nuovo il velo di tutte le figure è eseguito in marmo, evidentemente per creare l'illusione di una stoffa estremamente morbida che contrastasse con lo splendore serico delle altre vesti, realizzate in pasta vitrea. Infine, nel pannello raffigurante Cristo che separa le pecore dai capri, nella stessa chiesa, le pecore sono eseguite con abbondanza di cubetti di marmo, che, visti da lontano, creano l'effetto del vello lanoso; i capri, invece, sono eseguiti interamente con tessere in pasta vitrea. Questi casi indicano che certe variazioni nell'uso dei materiali non furono casuali, bensì intenzionalmente volte a evidenziare aspetti relativi ai contenuti delle immagini musive.
La dimensione delle tessere variò considerevolmente nelle diverse epoche e nelle differenti aree regionali. Nei m. italiani del sec. 5° i cubetti sono abbastanza grandi e le misure vanno in media da mm 77 a mm 1010 (le tessere d'oro in S. Maria Maggiore a Roma si trovano al limite inferiore di questa scala e sono un po' più piccole di altre tessere dello stesso m.).Nell'arte musiva bizantina si riscontra una particolarità strettamente collegata con l'uso, sopra ricordato, della pietra naturale per rappresentare l'incarnato: le tessere usate a questo scopo sono notevolmente più piccole di quelle circostanti. In un monumento precoce come il S. Giorgio di Salonicco le tessere usate per gli incarnati sono da un terzo a un quarto più piccole di quelle impiegate nelle zone adiacenti. Il contrasto è meno marcato nei m. del sec. 6° di Ravenna e del monastero di S. Caterina sul monte Sinai, ma diventa più accentuato agli inizi del sec. 8°, come nel m. dell'oratorio di Giovanni VII nell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, i cui frammenti sono dispersi tra Roma (S. Pietro in Vaticano, Grotte; S. Maria in Cosmedin), Firenze (S. Marco), Orte (Mus. Diocesano di Arte Sacra) e Mosca (Gosudarstvennyj Muz. izobrazitel'nych iskusstv im. A.S. Puškina). Nei m. mediobizantini quest'uso varia molto, mentre in epoca paleologa, quando in genere diminuisce la dimensione dei cubetti, la differenza è di nuovo evidente.Nei primi m. bizantini, nella raffigurazione di perle e diamanti si nota l'uso di tessere ovali o circolari molto grandi rispetto a quelle di dimensioni ordinarie: tali tessere giganti si trovano in S. Giorgio a Salonicco ('perle' d'argento), in S. Vitale a Ravenna (pietra naturale, madreperla) e nella Cupola della Roccia a Gerusalemme (madreperla). Nei m. della perduta chiesa della Dormizione della Vergine (Kóimesis) a Nicea, tessere circolari di marmo furono impiegate per rendere le perle dei lóroi degli arcangeli, mentre pezzi eccezionalmente grandi di vetro d'oro o colorato vennero rinvenuti in alcuni punti fra loro molto lontani; essi erano utilizzati, presumibilmente, per nascondere grappe o chiodi inseriti durante restauri eseguiti in epoca medievale. Nei m. pertinenti alla fase posticonoclastica della Santa Sofia costantinopolitana tessere ovali o a forma di goccia furono usate nei volti per rendere il disegno del naso: dato che un procedimento identico è utilizzato anche per gli arcangeli di Nicea, un elemento di natura tecnica viene ad aggiungersi ad altri argomenti in favore di una datazione di quest'ultima opera nell'ambito del 9° secolo.
Per la posa in opera delle tessere la regola era di iniziare il lavoro dal punto più alto della parete e dalla sommità delle volte e delle absidi per proseguire poi verso il basso, come nella pittura parietale ad affresco. Le singole 'giornate' di lavoro - vale a dire quella parte del letto di posa stesa, all'incirca, durante una giornata di lavoro - sono raramente riconoscibili, a causa della cura posta nel nasconderle; esse sono però visibili, almeno in parte, nel citato pannello costantinopolitano con l'imperatore Alessandro e una serie completa se ne può riscontrare nell'abside della basilica superiore di S. Clemente a Roma, del sec. 12°, dove ogni giornata comprende una voluta dei girali che costituiscono l'elemento principale della decorazione. Nella citata chiesa georgiana di Cromi l'intonaco era steso in aree regolari di cm 5050.In parecchi casi le figure erano composte prima dello sfondo d'oro circostante, ma era frequente anche il procedimento inverso: una bordura di più file di tessere d'oro contorna di solito le figure per integrarle nella trama, assai regolare, dello sfondo d'oro. Si hanno parecchi esempi di mani e piedi composti solo in parte, perché l'intonaco si era indurito troppo presto, come la mano dell'imperatore Alessandro che reca il globo terrestre nella Santa Sofia o, nella chiesa costantinopolitana di S. Maria Pammakaristos (Fethiye Cami), del sec. 14°, le mani e i piedi di s. Giovanni Battista, la testa di s. Clemente, le mani dei ss. Cirillo e Anastasio; in alcuni di questi casi, i contorni sono stati eseguiti prima che fossero finite le parti dell'incarnato. Linee di contorno non completate si trovano in parecchie raffigurazioni delle mani nei frammenti della decorazione musiva del citato oratorio di Giovanni VII e indicano una sequenza tecnica opposta, poiché dimostrano che i contorni venivano completati nell'ultima fase dei lavori.Le tessere del m. erano generalmente collocate così vicine che solo pochissimo intonaco è visibile negli interstizi: tuttavia, in un particolare momento delle prime fasi dell'arte bizantina, le tessere appaiono più rade e producono effetti 'impressionistici' di sfumato, che si manifestano contemporaneamente alla rinascita dell''ellenismo' pittorico nella pittura parietale ad affresco, come nel m. del citato oratorio di Giovanni VII o nel frammento con busto di un angelo, dalla chiesa di S. Nicola al Fanar a Costantinopoli, del 7° secolo.Per ottenere la fusione dei colori nell'ombreggiatura dei volti veniva spesso usata una disposizione a scacchiera, alternando tessere di due colori, come nel S. Giorgio a Salonicco, nei m. ciprioti (abside della Panaghia Angheloktistos a Kiti, sec. 6°) e nei m. di epoca paleologa a Costantinopoli.Di origine bizantina è anche la soluzione di inserire le tessere d'oro e d'argento nell'intonaco con una determinata angolazione, in modo da dirigere verso il basso i riflessi metallici, aumentando così l'intensità della luce sulla superficie del mosaico. Il primo esempio datato di questa tecnica particolare è stato reso noto dagli scavi della chiesa di S. Polieucto a Costantinopoli, fondata da Anicia Giuliana tra il 524 e il 527, che hanno messo in luce frammenti di m. parietali d'oro, le cui tessere sono messe in opera con un'angolazione obliqua. Altri esempi si riscontrano in Oriente in m. databili dal sec. 6° al 10°: nei lacerti superstiti, nel naós e nel nartece, della decorazione di epoca giustinianea della Santa Sofia di Costantinopoli; nell'arco trionfale nella chiesa di S. Caterina sul monte Sinai; nei pannelli in S. Demetrio a Salonicco, dei secc. 6°-7°; nell'arco trionfale della basilica eufrasiana a Parenzo, in Croazia, della metà del sec. 6°; nel m. della Cupola della Roccia a Gerusalemme, della fine del sec. 6°; nel m. dell'atrio della Grande moschea di Damasco, degli inizi del sec. 8°; nell'arco del bema della Santa Irene di Costantinopoli, pure dell'8° secolo. Tale procedimento raggiunge il massimo di virtuosismo artistico nei m. posticonoclastici della Santa Sofia costantinopolitana, dove, nel citato m. posto sopra la porta principale del nartece, a un'altezza di quasi m 10 dal suolo, le tessere d'oro sono inclinate fino a 26°, in modo che i loro riflessi possano raggiungere l'osservatore. Nel pannello musivo con la Vergine e il Bambino in trono affiancati dagli imperatori Costantino e Giustiniano, databile probabilmente al sec. 10° e posto sopra la porta del vestibolo sud-ovest, a un'altezza di soli m 6,50, l'inclinazione è pari a meno della metà di quella precedente. La tecnica dell'inclinazione, la cui funzione primaria è quella di accrescere l'intensità della luce riflessa dal m., serviva anche a un altro scopo; essa riduceva a metà il numero di tessere a foglia d'oro da applicare sulla parete, poiché le file orizzontali nelle quali sono disposte le tessere inclinate potevano essere assai distanziate e dare tuttavia l'impressione di una tessitura fitta. Il metodo dell'inclinazione sembra caduto in disuso durante l'epoca mediobizantina per riemergere in età paleologa: se ne ha un unico esempio nei bracci della croce del nimbo di Cristo nel citato m. con la Déesis nella tribuna sud della Santa Sofia a Costantinopoli. La tecnica dell'inclinazione non si diffuse mai in Occidente e dev'essere considerata come espressione dell'affinamento tecnico raggiunto dai bizantini.Possono essere citati altri esempi di particolari tecniche nell'uso di tessere a componente metallica. In primo luogo, la tendenza a mescolare le tessere a foglia d'argento con quelle a foglia d'oro in modo da intensificare lo scintillo degli sfondi d'oro, metodo applicato nei luoghi male illuminati. Nel citato m. del vestibolo sud-ovest della Santa Sofia a Costantinopoli, poco illuminato, il numero di tessere a foglia d'argento presenti nello sfondo d'oro è inferiore al 10% del totale, mentre nello sfondo che circonda la citata immagine dell'imperatore Alessandro, posta in un angolo particolarmente buio della galleria nella stessa chiesa, raggiunge il 30%. Allo stesso modo, l'argento usato per le lumeggiature nella resa delle vesti d'oro (il Bambino sia nell'abside sia nel vestibolo sud-ovest della Santa Sofia di Costantinopoli) aumenta di molto i riflessi della zona d'oro senza che per l'osservatore sia possibile percepire la fonte di questa accresciuta irradiazione. L'effetto dell'oro poteva inoltre essere attenuato, per es. nella rappresentazione di oggetti posti in ombra, o applicando le tessere con la foglia d'oro rivolta verso l'intonaco - in modo che i loro riflessi si spegnessero, come nella parte ombreggiata del trono di Cristo negli ambienti sud-ovest della Santa Sofia di Costantinopoli, del sec. 6° - o togliendo da ogni tessera una parte della foglia d'oro, per es. nel trono dell'Etimasia e nello sgabello della Vergine nel bema della chiesa della Dormizione della Vergine a Nicea. Senza dubbio, nell'esecuzione dei m. paleocristiani e della prima epoca bizantina vi fu uno sforzo cosciente per evitare lo scintillio troppo uniforme delle superfici e per questo tutte le tessere venivano inserite nell'intonaco con inclinazioni leggermente diverse.Le parti non restaurate dei m. di epoca mediobizantina sembrano riflettere un atteggiamento diverso; le tessere sono più o meno a livello della superficie della parete per neutralizzare la rifrazione della luce; questa tecnica pare fosse adottata nella decorazione delle chiese a pianta centrale per mettere in evidenza la struttura delle volte e delle cupole, cioè di quelle parti dell'architettura cui era annesso un forte valore simbolico.
Benché rimangano solo poche tracce dei m. parietali romani precristiani, indicazioni circa un loro ampio utilizzo si ricavano dalle fonti e soprattutto dalle testimonianze archeologiche, per es. dalla quantità di tessere sparse rinvenute sopra i m. pavimentali nelle rovine degli edifici a volta della villa di Piazza Armerina in Sicilia.
La tecnica adoperata dai mosaicisti del tardo sec. 4° e degli inizi del 5° in Italia si basava probabilmente sulla tradizione sviluppatasi fin dal sec. 1° d.C. nella decorazione dei ninfei e delle grotte artificiali; questa tecnica di m. interamente in pasta vitrea era di tanto in tanto variata con l'impiego della pietra naturale, in un modo che indica come gli esecutori dei m. pavimentali lavorassero anche ai m. parietali: il mausoleo di Costanza a Roma e quello di Centcelles costituiscono due esempi di questa tecnica mista. Tuttavia, i m. romani di S. Pudenziana (abside), del sec. 4°, e di S. Maria Maggiore (navata centrale, arco trionfale), del sec. 5°, quelli del battistero di S. Giovanni in Fonte annesso al duomo di Napoli (cupola), del sec. 5°, della cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo Maggiore a Milano (absidi), della fine del sec. 4°, del battistero degli Ortodossi (cupola) e del mausoleo di Galla Placidia (cupola, volta) a Ravenna, entrambi del sec. 5°, testimoniano tutti l'esistenza, nella parte occidentale dell'impero, di una corrente basata esclusivamente sull'uso del vetro colorato; nella terza zona del m. nel battistero degli Ortodossi a Ravenna compaiono piccoli cubi di marmo bianco nella raffigurazione delle transenne in pietra.L'obiettivo dei m. eseguiti con questa tecnica era di adeguarsi alla funzione attribuita alle immagini sacre nella cristianità occidentale, quella cioè di ornare e di istruire, anche se, con il graduale diffondersi dell'uso dell'oro, si cominciarono a sfruttare le qualità trascendentali proprie del mosaico. La concentrazione delle tessere d'oro nella sommità della cupola del mausoleo di Centcelles potrebbe indicare che lo sfondo d'oro fu introdotto in Occidente intorno al 350, mentre i citati m. della cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo Maggiore dimostrano in modo incontestabile che questo importante mezzo per introdurre nelle immagini l'elemento soprannaturale era ampiamente utilizzato verso la fine dello stesso secolo. Tuttavia si esitava ancora a usarlo ovunque: per es. in S. Maria Maggiore l'oro si trova soltanto in una ristretta fascia o area dello sfondo, mentre nel battistero degli Ortodossi, con lo sfondo in prevalenza di color blu oltremare, esso è riservato soltanto ad alcune parti della decorazione.
Il primo m. parietale di proporzioni monumentali conservatosi nell'ambito del cristianesimo orientale è quello nella rotonda di S. Giorgio a Salonicco, che rivela l'emergere di una scuola completamente nuova, che si basa su una tecnica trasformata. Tra le innovazioni che vi si riscontrano va menzionato innanzi tutto l'uso della pietra naturale in cubi molto piccoli per la resa delle aree di incarnato nelle figure umane: solo le ombre più scure dei volti venivano eseguite con pasta di vetro colorato. La modellazione in colori tenui dei volti dei personaggi sacri e i trapassi graduali prendono il posto dei contrasti di colore ottenuti con cubi in pasta vitrea, quali si vedono nel battistero degli Ortodossi.L'introduzione dell'argento, abbondantemente usato nel S. Giorgio di Salonicco, diede un nuovo indirizzo all'arte musiva, con la possibilità di modulare la luce. Mescolato con tessere bianche, come per es. nelle clamidi di alcuni santi nel citato m., l'argento aumenta lo scintillio delle figure; posto in opera insieme a tessere d'oro negli elementi architettonici, accresce il potere di riflettere la luce, fondendosi impercettibilmente con l'oro; adoperato puro e in gran quantità, come nel medaglione centrale con la figura di Cristo, oggi molto danneggiato, rende più intensa la luminosità scintillante di questa parte, in modo da sovrastare lo splendore delle altre zone dell'ampia decorazione.L'ulteriore sviluppo di questa tendenza è in parte sconosciuto a causa della perdita quasi completa dei m. bizantini preiconoclastici e può essere ricostruito solo a grandi linee. Un'altra importante innovazione tecnica, la posa obliqua delle tessere con foglie metalliche, appare per la prima volta agli inizi del sec. 6°, per divenire nei secoli successivi uno dei principali strumenti di animazione delle immagini mediante lo scintillio della luce. Nell'insieme, gli sforzi per inventare artifici tecnici nell'arte musiva sembrano connessi alla teoria orientale delle immagini, in base alla quale la funzione delle pitture non era solo quella di istruire e spiegare, ma di servire anche come strumento di venerazione, attraverso il quale cogliere un riflesso della divinità, espresso nella forma di un'accresciuta irradiazione. I m. di Salonicco, soprattutto quelli di S. Demetrio e di Hosios David (abside, fine del sec. 5°-inizi del 6°), costituiscono il migliore esempio delle vette raggiunte dall'arte musiva in questa fase sperimentale.I mosaicisti bizantini, ricercati per la straordinaria abilità, diffusero la loro arte negli avamposti cristiani sul Mediterraneo e anche in alcuni centri di cultura diversa. Nel sec. 6° una bottega costantinopolitana lavorò nel lontano Sinai (monastero di S. Caterina); nel sec. 7° e agli inizi dell'8° maestranze della stessa provenienza eseguirono per i califfi omayyadi m. nella Cupola della Roccia a Gerusalemme e nella Grande moschea di Damasco, realizzando in quest'ultimo caso una delle più grandi decorazioni a m. mai eseguite.I mosaicisti bizantini giunsero di tanto in tanto in Occidente, ove contribuirono a mantenere in vita questa tecnica artistica nonostante il declino delle scuole locali. La loro prima comparsa in Italia avvenne durante il regno di Teodorico (493-526), sui cui grandi monumenti essi lasciarono la propria impronta, come si vede soprattutto in S. Apollinare Nuovo, nell'uso dell'argento e nel parziale impiego della pietra naturale nei volti. Roma sembra aver ceduto a questa tendenza molto più tardi; infatti, il m. dell'arco trionfale di S. Lorenzo f.l.m., del tardo sec. 6°, appartiene ancora alla tradizione occidentale del m. interamente in pasta vitrea. Anche il m. absidale di S. Agnese f.l.m., del secondo quarto del sec. 7°, mostra una tecnica bizantina impoverita, mentre i m., leggermente più tardi, della cappella di S. Venanzio nel battistero Lateranense continuano la tradizione del m. in pasta vitrea. Infine, i citati frammenti del m. dell'oratorio di Giovanni VII, dei primissimi anni del sec. 8°, mostrano un lavoro bizantino di gran qualità, sebbene non vi siano utilizzati né l'argento né la posa obliqua, presumibilmente evitati per motivi ideologici.In questo periodo i m. pavimentali continuarono a essere impiegati nelle chiese e nei palazzi, per lo più in una versione con tessere grossolane, semplificata rispetto alla tradizione tardoromana più ricca anche nella gamma cromatica. Il materiale conservatosi indica una rinascita di quest'arte nel sec. 6° in Oriente, espressa soprattutto dal m. pavimentale riportato alla luce, prima e dopo la seconda guerra mondiale, nell'area del Grande Palazzo a Costantinopoli: qui la tecnica risulta rinnovata per renderla simile a quella delle opere di buon livello dei secc. 1° e 2°, con tessere piccole e con lo sfondo bianco disposto secondo un motivo a conchiglia. I colori, resi in gran parte con cubetti di pietra, sono intensi, sebbene non così brillanti come nei m. parietali della stessa epoca.
Tra i problemi più difficili da risolvere della storia della tecnica del m. è il riemergere a Roma, agli inizi del sec. 9°, della tradizione occidentale del m. eseguito interamente in pasta vitrea. Le opere principali di questa tendenza, visibile già nel m. dell'epoca di Leone III (795-816) nella chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo, sono l'arco trionfale e la cappella di S. Zenone a S. Prassede, il catino absidale a S. Cecilia in Trastevere, l'arco trionfale e il catino absidale a S. Maria in Domnica, tutti eseguiti per Pasquale I (817-824), e il catino absidale di S. Marco, per Gregorio IV (827-844). Le tessere in pasta vitrea adoperate per questi m. sono materiali in larga misura di recupero, presi probabilmente da antichi m. di Roma e dei dintorni, e hanno gli angoli smussati, a causa dell'uso del fuoco per rimuovere la calce rimasta attaccata alle tessere dal precedente letto di posa. La scelta della pasta vitrea quale materiale prevalente per questi m. poteva essere motivata dalla disponibilità di una grande quantità di tessere già usate; un'altra spiegazione, meno pragmatica, è che questa scelta fosse fatta consapevolmente, come ritorno alla tradizione dei m. paleocristiani a Roma, in parallelo con l'adozione delle forme della basilica paleocristiana e del repertorio di immagini, così ben documentato per quel periodo e in particolare testimoniato dalla pianta e dalla decorazione della chiesa di S. Prassede. Il m. con il Cristo benedicente del sacello dei Ss. Giovenale e Cassio nel duomo di Narni, dell'880 ca., segna la fine di questa rinascita, poiché appare eseguito secondo una versione semplificata della tecnica bizantina, impiegando la pietra per la resa dell'incarnato.In Oriente, i monumenti posticonoclastici della seconda metà del sec. 9° dimostrano un ritorno ai principali procedimenti che si erano sviluppati prima del conflitto politico-religioso: essi segnano, infatti, il culmine di questi sforzi, come testimoniano i citati m. di questo periodo nella Santa Sofia di Costantinopoli. Il m. dell'Ascensione nella cupola della Santa Sofia a Salonicco testimonia un uso raffinato dell'argento e presenta una vasta gamma di pietre colorate nei volti.
A parte la tecnica dell'inclinazione delle tessere, che non sopravvisse al sec. 10°, la maggior parte delle caratteristiche realizzative dei primi m. bizantini si ritrova nell'epoca mediobizantina. Tuttavia l'argento divenne a poco a poco più raro e fu utilizzato solo per la croce del nimbo del Salvatore o per i raggi di luce che indicavano l'emanazione divina nelle scene della Natività, del Battesimo, della Trasfigurazione e della Pentecoste. I colori diventarono più scuri, con uso sporadico del giallo e del rosso, benché un'opera del sec. 11° - i m. della Nea Moni nell'isola di Chio, eseguiti, sembra, da una bottega locale - abbia conservato quell'intensità cromatica tipica delle prime opere posticonoclastiche. L'oro assunse un ruolo crescente e fu lo strumento attraverso cui il vasto apparato di scene e figure del 'programma classico' delle chiese a pianta centrale mantenne la sua unità. Isolare le figure su ampi sfondi d'oro, come si vede per es. nella figura del Pantocratore nella cupola della chiesa del monastero di Dafni in Grecia, del sec. 11°, o in quella della Vergine nell'abside della basilica di Torcello, del sec. 12°, fu l'espediente utilizzato per mettere in evidenza gli elementi centrali in questo vasto corpo di immagini. In tali composizioni si doveva fare attenzione a che tutte le parti fossero illuminate in modo uniforme: in effetti, nella decorazione musiva della Santa Sofia di Kiev, della metà del sec. 11° - opera di una bottega in cui lavorarono fianco a fianco bizantini e russi -, si è osservato come nella parte più buia dell'interno siano stati adoperati colori più forti e più chiari, dal momento che la scarsa illuminazione avrebbe compromesso seriamente la luminosità del mosaico.Botteghe itineranti, di cui non si è in grado di valutare la dimensione, continuavano a diffondere i modelli e le tecniche dell'arte musiva bizantina. Una di queste lavorò nel sec. 10° nella Grande moschea di Córdova, un'altra nel sec. 12° nella chiesa della Natività a Betlemme, mentre i m. del monastero di Gelati, in Georgia, sempre del sec. 12°, testimoniano per la rozza tecnica bizantineggiante la presenza nella regione di una bottega di formazione bizantina.In Italia, a più riprese si fecero venire maestri stranieri per dare nuovo impulso all'arte del mosaico. Tra i centri di tale attività, individuabili attraverso le fonti o sulla base dell'analisi della tecnica esecutiva, i principali furono Montecassino (il m. dell'abbazia fu distrutto durante la ricostruzione della chiesa nel sec. 17°) - importante, a quanto pare, per l'arte musiva a Roma nel sec. 12°, in cui predominò una tecnica pseudo-bizantina -, Palermo, dove i Normanni chiamarono varie botteghe costantinopolitane intorno alla metà del sec. 12° (Cappella Palatina, Martorana, duomo di Cefalù) e poi verso la fine dello stesso secolo (duomo di Monreale), e infine Venezia, dove la decorazione di S. Marco, a lungo protrattasi, attirò botteghe greche a più riprese, dal 1100 ca. fino al 14° secolo. In Italia si formò così una stabile tradizione locale in risposta agli influssi provenienti dall'Oriente.Le botteghe stabilitesi in Sicilia e a Venezia erano attive anche nei territori limitrofi. I m. del sec. 12° nel duomo di Salerno e nel monastero di Grottaferrata, vicino a Roma, sono considerati prodotti della scuola siculo-bizantina. La decorazione absidale della cattedrale di Ravenna, degli inizi del sec. 12°, di cui sopravvivono alcuni frammenti nel Mus. Arcivescovile della stessa città, pare fosse opera di mosaicisti veneziani; artisti veneziani decorarono anche la cupola del battistero di S. Giovanni a Firenze, del 1225-1330 circa. Anche i m. sulla facciata meridionale della cattedrale di S. Vito a Praga, del sec. 14°, sono veneziani.
Con l'avvento al potere della dinastia dei Paleologi, alla metà del sec. 13°, si ebbe nell'impero bizantino una rinascita culturale che diede la sua impronta anche all'arte musiva. La tecnica rimase fondamentalmente la stessa di prima, rinnovata però attraverso il ritorno al cromatismo degli inizi del Medioevo e l'uso di tessere di minori dimensioni, che conferivano alle immagini una precisione da miniatura.In quest'epoca venne sfruttata al massimo un'innovazione architettonica che dava nuove possibilità all'uso dell'oro: le cupole con massicci costoloni al cui centro era di solito collocato un medaglione con la Vergine o con Cristo, da cui scendevano verso il basso raggi di luce attraverso zone coperte d'oro fino a raggiungere, alla base della cupola, le teste dei patriarchi. Questo effetto illusionistico si può studiare nella sua espressione migliore nei m. del nartece del S. Salvatore di Chora e in quelli di S. Maria Pammakaristos, tutti attribuibili al primo quarto del 14° secolo. Quest'ultima fase della tradizione musiva bizantina influenzò fortemente l'Occidente, in cui fu certamente introdotta, come per il passato, da botteghe chiamate da Costantinopoli.L'attività dei mosaicisti greci in Italia durante questo periodo è documentata da opere isolate, prodotte da artigiani bizantini: un frammento con la Vergine (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), figure di arcangeli nella chiesa di S. Gregorio a Messina, santi e un Cristo giovanile nelle nicchie della cappella Zen nella basilica di S. Marco a Venezia. In una serie di cupole minori nel nartece di S. Marco si possono vedere versioni locali di questa tendenza, che si affermò anche a Roma e ispirò i lavori di Pietro Cavallini a S. Maria in Trastevere e di Jacopo Torriti nell'abside di S. Maria Maggiore, caratterizzati da una nuova insistenza su colori forti e pieni, tipica del m. paleologo.
Il modello bizantino fu condizione necessaria per la fioritura dell'arte musiva in Occidente e quando - con il declino dell'impero bizantino nel tardo sec. 14° e agli inizi del successivo - la splendida tradizione orientale si spense, l'arte del m. in Italia conobbe una grave involuzione. L'organizzazione delle botteghe, basata sulla partecipazione del disegnatore delle immagini alla loro effettiva esecuzione, andò perdendosi e venne sostituita dalla riproduzione meccanica in m. in pasta vitrea di cartoni forniti da artisti non esperti della tecnica musiva.L'arte del m. sopravvisse nelle scuole istituite per la conservazione e il restauro di alcune chiese ampiamente decorate a m., per es. S. Marco a Venezia e il nuovo S. Pietro in Vaticano di Bramante e Michelangelo, subendo però profonde alterazioni. Andò perduta la conoscenza degli effetti che si potevano raggiungere solo attraverso il m., come anche la comprensione del gioco dei colori tra le tessere in pasta vitrea o in pietra; l'oro acquisì un violento contrasto con i vetri colorati, difetto comune a gran parte dei m. più recenti, fino all'epoca contemporanea.
Tentativi di riparare e restaurare i m. più antichi si verificarono già precocemente: ne sono esempio il completamento nel sec. 7° dei più antichi m. di S. Demetrio a Salonicco, danneggiati da un incendio nel sec. 6°, e il ripristino nel 9° di una parte del pannello con il Miracolo delle quaglie, eseguito quattro secoli prima nella navata di S. Maria Maggiore a Roma.In Oriente, la fine dell'iconoclastia determinò il ripristino su larga scala di decorazioni musive andate distrutte: l'esempio più noto è la decorazione del bema (Vergine e arcangeli) nella chiesa della Dormizione della Vergine a Nicea. Nel periodo tardobizantino, la cupola della Santa Sofia di Costantinopoli fu danneggiata da un terremoto e poi parzialmente ricostruita: i m. eseguiti in quest'occasione erano concepiti per uguagliare quelli originali, ma furono realizzati con una tecnica impoverita.La conservazione di antichi m. continuò anche dopo la fine del Medioevo. S. Marco a Venezia porta le tracce di molti di questi interventi fino dal 15° secolo. I m. normanni in Sicilia presentano ampi ritocchi barocchi: casi analoghi, ben noti, si hanno nei m. absidali di S. Pudenziana e dei Ss. Cosma e Damiano a Roma, che furono restaurati nei secc. 16° e 17° e documentano la volontà delle autorità ecclesiastiche di riparare, ove possibile, gli antichi monumenti anziché rifarli completamente. Nel sec. 19°, con il rinnovato interesse per l'arte medievale fiorì anche il restauro, con risultati spesso fatali. S. Marco a Venezia risentì pesantemente di questa attività, così come la basilica di Torcello. I restauratori ritoccarono alcuni m. di Ravenna, tra l'altro i Magi nella zona più bassa nella navata di S. Apollinare Nuovo e, a Roma, la Scuola vaticana del m. condusse ampie campagne di restauro, per es. nel mausoleo di Costanza. Ancora negli anni Trenta del nostro secolo, quando i mosaicisti di questa scuola eseguirono un restauro - per altri versi abbastanza moderno e rispettoso dell'originale - dei m. sull'arco trionfale di S. Maria Maggiore, le parti andate perdute furono ricostruite con uno stile e una tecnica tali da farle confondere con quelle originali. Oggi, quando si devono colmare delle lacune, lo si indica sulla superficie del m. (Ravenna, S. Apollinare in Classe, abside) in modo da evitare ogni equivoco: si preferisce infatti, dopo la ripulitura e il consolidamento, lasciare i m. con i difetti e le lacune subite per il trascorrere del tempo.
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La parola araba che definisce il m. (fusayfisā') deriva dal greco, probabilmente tramite la mediazione dell'aramaico fassun.
Benché manchino ancora analisi approfondite sulle tecniche e sui materiali impiegati nella realizzazione dei m. parietali nel mondo islamico, sulla base delle attestazioni pervenute si può affermare che, almeno per la prima epoca islamica, essi si riallaccino direttamente alla pratica artigianale e artistica del mondo bizantino. Ciò vale sia per la tecnica di preparazione delle superfici da decorare (arriccio, intonaco, sinopie, colorazione della superficie), sia per le modalità di posa in opera delle tessere (inclinazione delle superfici fino a un massimo di 45° per aumentare i riflessi della luce; Van Berchem, 1969-19792, I, 1), sia per i colori principalmente utilizzati nelle tessere di pasta vitrea (blu, verde, oro, argento, rosso, violetto, marrone, nero, ciascuno presente in molte tonalità), sia infine per l'impiego di materiali diversi in associazione alla pasta vitrea (piccole pietre, cubetti d'argento e di madreperla). In genere appare invece più rudimentale - soprattutto nell'impiego di tessere vitree e lapidee di maggiori dimensioni, di taglio irregolare e disposte in piano - la tecnica esecutiva dei m. medievali pervenuti.Uno scenario a grandi linee analogo sembra delinearsi anche per quel che riguarda i m. pavimentali, per i quali tecniche esecutive (due strati di allettamento, uno più grossolano in malta ricca di calce, paglia e sabbia, uno più sottile costituito essenzialmente di calce fine), materiali impiegati e gamma cromatica riprendono direttamente la grande tradizione della regione siropalestinese in epoca tardoantica e protobizantina. All'area siriana debbono essere ricondotte anche le prime botteghe di mosaicisti islamici, con Damasco che rimase a lungo il principale centro di produzione e di diffusione di quest'arte, mentre scuole autonome si svilupparono a poco a poco anche nella regione nordafricana.
La prima attestazione di una decorazione parietale a m. nella penisola arabica in epoca preislamica riguarda la perduta chiesa, fatta erigere dal re abissino Abraha, a Ṣan῾ā᾽, nello Yemen, alla metà del sec. 6°, decorata da m. a carattere aniconico con girali, alberi e stelle su fondo oro. Anche in questo caso, come avvenne successivamente in epoca omayyade, gli inizi dell'arte musiva nella regione appaiono in stretta connessione con l'introduzione delle conoscenze tecniche e dei materiali, operata dalle maestranze bizantine. Con m. di questo tipo ῾Abdallāh b. al-Zubayr fece decorare nel 684 le pareti interne della Ka῾ba alla Mecca (Creswell, 1989, p. 16).Tra il 691 e il 692 il califfo omayyade ῾Abd al-Malik eresse a Gerusalemme sullo Ḥaram al-Sharīf o spianata del Tempio, la Cupola della Roccia, rivestita all'interno e sulla facciata di m. a fondo oro. All'inizio del sec. 8°, il suo successore al-Walīd I (705-715), nella realizzazione del Masjid al-Ḥaram intorno alla Ka῾ba della Mecca previde l'impiego di una decorazione musiva per le arcate del peristilio, ove, come tramanda la tradizione, comparivano "raffigurazioni del paradiso e dei suoi palazzi" (Finster, 1970-1971, p. 120). Lo stesso califfo in tutti i maggiori edifici sacri da lui commissionati - la Grande moschea del Profeta a Medina, la moschea del Venerdì ad al-Fusṭāṭ, la moschea al-Aqṣā a Gerusalemme e la Grande moschea di Damasco - fece decorare con m. i muri al di sopra dei pilastri ricoperti con lastre di marmo. Questa tradizione proseguì anche nella Grande moschea di Aleppo, edificata da Sulaymān (715-717), e in quella di Qubā' (presso Medina), fatta costruire da ῾Umar b. ῾Abd al-῾Azīz (717-720).Si sono inoltre conservati i m. della Cupola della Roccia di Gerusalemme e parte di quelli della Grande moschea di Damasco. Mentre nella Cupola della Roccia il programma è costituito da rappresentazioni di alberi, girali, ghirlande, cantari preziosi e corone, nella moschea di Damasco la decorazione presenta paesaggi di architetture ideali disposte l'una sopra l'altra lungo un fiume tra alti alberi. Candelabri di acanto e cornucopie rivestono le tribune, mentre gli angoli sono occupati da raffigurazioni di alberi da frutta.Questo repertorio di forme iconografiche si ricollega alle rappresentazioni di paesaggi popolati di città, presenti per es. nel m. pavimentale di S. Giorgio a Madaba, del sec. 6°, e in quello della chiesa dei Ss. Lot e Procopio, dello stesso secolo, nel villaggio di Khirbat al-Muḥayyat sul monte Nebo, entrambi in Giordania (Piccirillo, 1993, pp. 80, 160). Dal punto di vista dell'organizzazione strutturale, tuttavia, la decorazione si ricollega ai programmi propri degli edifici monofisiti della Turchia sudorientale, come per es. quello della chiesa del monastero di Mar Gabriel, del 512, presso Kartmin nella regione del Ṭūr ῾Abdīn (Hawkins, Mundell, 1973, p. 280ss.). Se nei m. delle chiese bizantine la rappresentazione del Nilo assolve un'evidente funzione simbolica come raffigurazione del fiume del paradiso, come per es. nella citata chiesa dei Ss. Lot e Procopio, il fiume paradisiaco che compare nella moschea di Damasco costituisce un motivo autonomo (Piccirillo, 1993, p. 163). Questa nuova interpretazione della visione paradisiaca è resa possibile dai gruppi di architetture comuni, dai preziosi palazzi, padiglioni e case, che, posti su fondo oro ed esaltati da questo materiale, sembrano estranei a qualsiasi realtà. Analogamente a quanto accade nei m. pavimentali delle chiese cristiane, si ritrova una commistione di architetture realistiche e di temi tratti dalla tradizione figurativa, come nel pavimento musivo della chiesa di S. Stefano a Umm al-Raṣāṣ, in Giordania (Piccirillo, 1993, p. 345); viene tuttavia evitata la formula della 'città cinta di mura' che nella tradizione cristiana aveva giocato un grande ruolo.La commistione nell'ornamentazione di elementi fitomorfi con quelli derivati dalla toreutica (per es. recipienti, cantari) corrisponde al tipo di raffigurazioni dei m. delle chiese cristiane. Le fasce con iscrizioni - anch'esse a m., ma non conservate - facevano riferimento al Giudizio universale, alla Risurrezione e alla promessa del paradiso, così che il paesaggio può essere interpretato più come allusione paradisiaca che non come semplice visione di un luogo ameno, tema che peraltro non trova alcuna corrispondenza nel mondo islamico (Förtsch, 1993, p. 210). In modo analogo deve essere inteso il programma della Cupola della Roccia: alberi della vita, anfore - nell'iconografia cristiana simbolo del Fons vitae -, tralci di girali e corone sospese, che indicano un luogo santo. Questa iconografia appare dunque coerente con la natura dell'edificio, giacché la Cupola della Roccia non è una moschea, ma con la sua pianta ottagonale a doppio ambulacro che corrisponde nell'impianto a un martyrium, essa mette in evidenza la sacralità del sito su cui sorge.Analogamente a quanto accadeva in Siria, anche in Spagna il califfo omayyade al-Ḥakam II (961-976) nel corso del terzo ampliamento della Grande moschea di Córdova fece giungere da Costantinopoli m. e manufatti, per rivestire la nicchia del miḥrāb e la campata adiacente di m. a fondo oro (965-971). Dal lavoro congiunto dei maestri costantinopolitani e degli artisti andalusi che li affiancarono derivò una commistione di ornamenti che trovano un preciso confronto, da un lato, con l'arte della capitale bizantina (Santa Sofia, nartece) e, dall'altro, con la coeva arte islamica. Nella cupola a ombrello posta al di sopra della campata del miḥrāb compare per la prima volta nell'arte islamica una stella a otto raggi. Di straordinaria bellezza e qualità sono i fregi, con ogni probabilità frutto del lavoro di un artista islamico, che recano iscrizioni musive con versi dal Corano, relative alla committenza dell'edificio e realizzate con lettere cufiche in oro su fondo nero.La tradizione dell'arte musiva trovò la propria prosecuzione sotto gli Abbasidi dell'Iraq, anche se di quest'epoca non sopravvivono testimonianze materiali. Il califfo al-Mahdī (775-785) ampliò il Masjid al-Ḥaram della Mecca (783-784) e fece decorare con m. le pareti ad arcate e i grandi portali che, a Gerusalemme, conducono allo Ḥaram al-Sharīf. Le paste vitree, rinvenute nella sala di preghiera della Grande moschea di Samarra (848-851), in Iraq, hanno dimostrato che questo ambiente era ornato di m., così come il thólos posto al di sopra della vasca della fontana nella corte. Anche nel portale trionfale a tre fornici, realizzato intorno all'849 - uno dei tre archi monumentali che conducevano al palazzo di Balkuwārā -, sono state ritrovate tessere di pasta vitrea a foglia d'oro e in varie tonalità di verde, insieme con madreperla.Un'idea sufficientemente precisa di questo tipo di decorazioni musive può essere fornita dai resti del m., del 788, che decorava la c.d. casa del tesoro nella Grande moschea omayyade di Damasco. Qui appaiono ripetuti i motivi con girali d'acanto e alberi da frutta, ma le forme sono contornate di nero, risultano più approssimative e rivelano un frequente uso di toni rossi, con numerosi inserti di madreperla.Dopo i lavori di restauro dei m. nella cupola della moschea al-Aqṣā, eseguiti sotto il califfo fatimide al-Ẓāhir (1021-1035), il quale aveva probabilmente fatto rivestire di m. anche il Bāb Da῾ud sullo Ḥaram al-Sharīf, e dopo le opere di restauro ai m. della Grande moschea di Damasco e di Gerusalemme, portate a termine sotto il sultano mamelucco Ẓāhir Baybars I (1260-1277), l'arte musiva conobbe una rinascita nei secc. 13° e 14°, sotto gli Ayyubidi e i Mamelucchi. Lo testimoniano già sia i m. nella nicchia del miḥrāb nei mausolei del Cairo di Shajar al-Durr e di al-Ṣāliḥ Najm al-Dīn, entrambi del 1250, sia la fascia a m. con iscrizione coranica nel miḥrāb della moschea cairota di Ibn Ṭūlūn, del 1296, con cui fu anche intrapreso il tentativo di esprimere nel m. nuove forme, che non si limitavano a ripetere i motivi tramandati dagli Omayyadi.Le sale delle feste nel palazzo di Ẓāhir Baybars I, la Dār al-Dhahab (1266-1267) a Damasco, erano, stando alla tradizione, ornate di pannelli marmorei sovrastati da zone a m. di pasta vitrea. Analogamente, fiori di vario genere e alberi paradisiaci realizzati con piccole tessere vitree decoravano all'interno la cupola della moschea del sultano Baybars I al Cairo, presumibilmente secondo il modello dei m. della Grande moschea di Damasco, da lui stesso fatti restaurare (Meinecke, 1992, pp. 1, 30, 34, 96). Una testimonianza significativa dell'arte musiva medievale è offerta dai m. del mausoleo di Baybars I a Damasco, commissionato nel 1281 da al-Manṣūr Qalā᾽ūn, il quale, con i suoi alberi e le sue architetture fantastiche, si rifà chiaramente ai motivi della Grande moschea, alla quale non possono essere tuttavia paragonati da un punto di vista qualitativo. Varie opere di restauro nella Grande moschea di Damasco mostrano che quest'arte vi venne ancora coltivata, sebbene a un livello inferiore. Il governatore Tankiz fece restaurare ancora una volta i m. della Grande moschea (1326-1327) e decorare di m. la propria sepoltura e la nicchia del miḥrāb nella Tankiziyya a Gerusalemme (1330-1332), nonché il miḥrāb della moschea di Hebron (Burgoyne, 1987, p. 7; Meinecke, 1992, p. 97). Anche al Cairo vennero utilizzati m. con girali su fondo oro come decorazione appropriata per la nicchia della preghiera, per es. nel miḥrāb della madrasa di Aqbughā (1333-1339); si tentò invece di rinunciare al fondo oro nella nicchia del miḥrāb della madrasa di Ṭaybars, del 1309. Saltuariamente, nelle fondazioni cairote, tessere vitree compaiono inserite nelle incrostazioni marmoree impiegate nei rivestimenti parietali (Meinecke, 1992, p. 97).
In epoca omayyade l'arte del m. pavimentale fiorì soprattutto nella regione siropalestinese. L'impianto di ogni 'castello' o palazzo mostra resti di m. pavimentali oppure possiede, come nel caso del bagno di Khirbat al-Mafjar, in Israele, i m. originali ancora intatti. Essi rappresentano un momento culminante dell'arte astratto-geometrica del Tardo Antico e riprendono, per es. nei citati m. di Khirbat al-Mafjar, la tecnica, i colori e le forme di analoghi m. geometrici di epoca preislamica; i singoli motivi ornamentali erano già attestati nei m. pavimentali delle chiese del sec. 5° in Giordania, tuttavia rimane senza confronti la loro varietà in un unico monumento.I motivi sono fittamente disposti e spesso anche sovrapposti, come accadeva nell'arte cristiana; essi seguono per lo più un reticolo quadrato, ma non mancano ornamenti organizzati secondo un reticolo romboidale. La sottolineatura attraverso l'impiego di tessere vitree delle singole linee che all'interno di un motivo ne costruiscono un altro si ritrovava già sui pavimenti delle chiese cristiane, anche se in questo caso l'elemento della duplicità viene elevato a tema principale. Resti di m. pavimentali si ritrovano nei castelli di Quṣayr ῾Amrā, ῾Anjar, al-Qasṭal, Qaṣr al-Ḥallābāt e nel Qaṣr di 'Ammān, in Giordania, nonché in quelli di Khirbat al-Minya e Qaṣr al-Ḥayr al-Sharqī, in Siria. Il pavimento di Qaṣr al-Ḥallābāt presenta scene figurate nel campo centrale, inserite all'interno di un'ornamentazione geometrica (Bisheh, 1986). Per il tema e per la stilizzazione delle figure i m. possono essere confrontati con quelli pavimentali delle chiese cristiane. A Khirbat al-Mafjar compaiono, accanto a rappresentazioni simboliche, come il cedro con il coltello, riprese dall'iconografia ebraica (Loos-Dietz, 1990), scene che chiaramente fanno parte del programma figurativo di un antico bagno, come per es. scene di lotta tra animali. Rimane incerto se a tali scene venisse attribuito uno specifico significato, giacché lo stesso gruppo si ritrova anche nel bagno di Sergilla, in Siria, del 5° secolo.A Raqqāda, a S di Kairouan, in Tunisia, gli ambienti dei palazzi degli Aghlabidi mostrano pavimenti con decorazione geometrica realizzata con piccole pietre bianche e nere (sec. 9°). Il motivo, costituito da forme esagonali con quadrato inscritto e all'interno stelle romboidali e nodi della fortuna, è legato ai modelli tradizionali delle chiese nordafricane. I m. pavimentali in uno dei palazzi fatimidi di Mahdia, ancora in Tunisia, del sec. 10°, sono in confronto più ricchi nell'ornamentazione e nel colore. Al bianco e al nero sono uniti ocra e rosso; come elemento centrale compare un motivo a intreccio con cerchi e quadrilobi; nel bordo si trovano cerchi e forme a scudo: anche questi elementi appartengono al repertorio dei m. pavimentali delle chiese cristiane. Palmette e piccoli motivi secondari completano il riempimento della superficie (Marçais, 1954, pp. 28, 34, 86, 98).
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