Vedi MOSAICO dell'anno: 1963 - 1973 - 1995
MOSAICO (v. vol. v, p. 209 e s 1970, p. 504)
A partire dal 1968 il Bulletin de l'Association Internationale de la Mosaïque Antique ha pubblicato esaurienti bibliografie, comprendenti sia edizioni di nuovi materiali, sia studi di più ampio respiro sul m. antico. Inoltre sette convegni internazionali sono stati tenuti a Parigi (1963), Vienne (1971), Ravenna (1980), Treviri (1984), Bath (1987), Palencia-Mérida (1990) e Tunisi (1994). Sebbene rimangano ancora gravi lacune, anche l'edizione di corpora e di cataloghi di musei ha compiuto sostanziali progressi. La creazione di corpora a carattere regionale e la pubblicazione di dettagliate relazioni di scavo, che comprendono, a prescindere dagli aspetti qualitativi, tutti i m. di una data località, collegati, per quanto possibile, al loro ambito architettonico e al loro contesto archeologico e corredati di tutta la documentazione disponibile a fini cronologici, hanno determinato lo schiudersi di molte prospettive nuove in questo campo di studi. È possibile ora constatare, almeno nelle linee generali, le differenze nello sviluppo artistico in regioni diverse dell'impero romano e riconoscere, al di là di certe diffuse tendenze generali, che si tratta di un'arte (o di un artigianato) strettamente legata ai centri di produzione locali. Alcuni tentativi di mettere ancora meglio a fuoco tale problema e di distinguere le caratteristiche e le attività di singole officine all'interno di più ampie aree geografiche sono stati avviati per l'Italia, la Grecia e il Vicino Oriente, ma hanno avuto un maggior successo in regioni come la Britannia, la Gallia meridionale, l'Africa settentrionale, dove il numero dei m. conservati e lo stato delle pubblicazioni offrono un'adeguata campionatura.
Una crescente attenzione è stata anche rivolta alle caratteristiche e al repertorio dei motivi geometrici e di altri elementi ornamentali. Infatti le scene figurate costituiscono solo una piccola percentuale dell'intero totale dei m., mentre il ben più comune disegno ornamentale offre un terreno maggiormente affidabile per la distinzione di stili regionali o di officine locali, che tendono a sviluppare in forma autonoma il repertorio di motivi preferito e la maniera di eseguirlo. Per tracciare uno sviluppo cronologico, esso fornisce inoltre una base più solida che non le scene figurate. Una classificazione dei motivi geometrici in uso nei m. romani e una terminologia standardizzata di riferimento è stata proposta di recente (Balmelle e altri, 1985), con disegni di motivi diffusi in tutto l'impero, accompagnati da definizioni in varie lingue. Sono stati classificati inoltre i principali sistemi di composizione geometrica in uso nei m. e le linee fondamentali della loro evoluzione (Salies, 1974). Ricerche sono state condotte anche sui rapporti del m. con altre arti decorative, come la pittura parietale e gli stucchi, sul ruolo dei m. nella decorazione degli edifici e sulle loro correlazioni con l'architettura (Barbet, 1983).
Le tecniche di produzione del m. hanno infine suscitato l'interesse degli studiosi, anche se in questo campo alcune conclusioni restano controverse. Una revisione critica delle firme, in passato accettate come quelle di mosaicisti (v. vol. v, pp. 297-300, s.v. Musivarius, e singole voci), ha portato all'espunzione di un certo numero di esse. Firme e iscrizioni sono state studiate allo scopo di chiarire lo stato sociale degli artigiani, la loro organizzazione nelle officine e il loro ruolo nella realizzazione dei pavimenti (Balmelle e Darmon, 1986; Lancha, 1984 per la penisola iberica; Donderer, 1989). È stata di recente posta in dubbio l'ipotesi, spesso avanzata, dell'uso di repertorî o cartoni come base di diffusione dei modelli per m. geometrici o a scene figurate, senza tuttavia trovare unanime consenso. Altre discussioni si sono incentrate su problemi relativi all'uso della messa in opera, diretta o indiretta, delle tessere e su elementi utili a dimostrare l'esistenza nel m. di parti prefabbricate o alla sua completa realizzazione sul posto (v. p.es. Johnston, 1983 su prove raccolte in Britannia). Sono state eseguite inoltre alcune analisi dei materiali impiegati dai mosaicisti e ricerche sulle cave di pietra sfruttate, di solito, nel contesto di singole relazioni di scavo.
Grecia. Età classica ed ellenistica (cfr. anche s 1970, p. 602, s.v. Pavimento). - Un panorama generale dei m. greci è costituito dallo studio di Bruneau (1976) mentre Salzmann più di recente (1982) ha presentato uno studio dettagliato dei m. a ciottoli. Egli pone la loro origine in Grecia in pavimenti a ciottoli dell'Età del Bronzo (uno dei quali, a Tirinto, presenta una semplice decorazione), mentre in Asia Minore e nella Siria settentrionale m. a ciottoli dell'VIII sec. a.C. sono noti ad Arslan Taş, Til Barsip e Gordion. In Grecia pavimenti a ciottoli non decorati sono stati rinvenuti in santuarîdel VII e del VI sec.; i primi esemplari a ciottoli decorati sono databili invece intorno alla fine del V-inizì del IV sec. e sono tipici, fin dal principio, sia di abitazioni private che di edifici pubblici (Olinto, Corinto, Sicione). Nel corso del IV sec. il periodo di massima fioritura, caratterizzato da un largo uso di ornamenti figurati e vegetali, culmina con la ricca policromia e con gli effetti tridimensionali dei m. a ciottoli di Pella, ora datati con sicurezza all'ultimo terzo del IV secolo (Makaronas, Giouri, 1989). Questo tipo di produzione musiva continua durante tutto il III sec., ma con un ritorno a disegni bidimensionali e a forme più semplici, declinando definitivamente nel II secolo.
Tra le scoperte più recenti di m. a ciottoli, di grande importanza sono i m. di Eretria, in particolare quelli della «Casa dei Mosaici», databili intorno alla metà del IV sec. (Ducrey, Metzger, 1993) e quelli da Rodi. Al numero dei m. a ciottoli già noti da Atene, Corinto e Sicione, e dai centri di Verghina e Pella in Macedonia si sono aggiunti in questi ultimi anni ulteriori esemplari, a conferma che l'invenzione del m. a ciottoli, ampiamente diffuso in tutta la Grecia continentale, non può essere ricondotta a nessuna regione particolare del mondo greco. Successivamente la tecnica si estese nel mondo ellenistico, con esempî anche in aree periferiche come Olbia e Chersoneso sul Mar Nero e Ai Khānum in Afghanistan. In Occidente i m. a ciottoli sono derivazioni isolate dalla tradizione della madrepatria greca (Taranto, Mozia) oppure appartengono a sviluppi locali del tutto indipendenti. M. di questo tipo, recentemente rinvenuti in Spagna, databili tra il VII e il IV sec. a.C. (Fernández Galiano, 1982), attestano chiaramente l'esistenza di tali sviluppi locali in regioni così lontane.
Il problema dell'invenzione della tecnica del tessellato e dei suoi rapporti con il m. a ciottoli resta tuttavia controverso. Diverse tecniche note possono infatti rientrare in categorie «intermedie»: p.es. i m. composti da schegge di pietra irregolari e informi (esempi sono noti da Lykosoura, Erythrae, Pergamo, e nel m. del tritone da Sparta); i m. in cui i ciottoli sono combinati con pezzi appositamente modellati o con tessere (tritone di Olimpia, ora datato alla metà o alla seconda metà del III sec. a.C.; Lebena; Alessandria). Alcuni di questi esempi sono databili al III sec. a.C., ma molti restano di incerta cronologia. I m. da Morgantina in Sicilia, composti da tessere regolari, schegge irregolari e pezzi di forma specificamente stabilita, sono stati di solito considerati i più antichi m. a tessere noti, ma la data del 260-250 a.C., a essi tradizionalmente assegnata, è stata posta in dubbio (Salzmann, 1982). La comparsa della tecnica del tessellato va quasi certamente situata nel corso del III sec. a.C., ma il momento preciso rimane ancora da chiarire; l'insieme dei dati sembra tuttavia indicare, invece di una disciplinata e unitaria transizione da una tecnica all'altra, un'evoluzione complessa, con varie tecniche sperimentali simultaneamente in uso e con differenti sviluppi nelle diverse regioni del mondo greco.
Daszewski (1985) si è occupato dei m. dell'Egitto fino alla fine del I sec. a.C., la cui gran parte è costituita da m. provenienti da Alessandria e da Thmuis. Benché la teoria che localizzava ad Alessandria l’«invenzione» del m. tessellato sia stata da tempo superata, il lavoro del Daszewski illustra il progressivo passaggio, in questa città, dalle tecniche a ciottoli e a opera mista, a quella, finissima, del c.d. vermiculatum, e conferma Alessandria come centro di produzione ad alto livello qualitativo nel periodo ellenistico, probabilmente sotto il diretto controllo della corte. Un importante testo, che getta luce sulla produzione di m. nell'Egitto tolemaico, è il papiro di Zenone (Cairo, n. 59665), databile tra il 256 e il 246 a.C., che fornisce dettagliate e specifiche indicazioni relative alla messa in opera di un m. in un ambiente termale. Boeselager (1983) tratta i m. della Sicilia fino al III sec. d.C., dedicando un'importante parte del lavoro ai m. del periodo ellenistico. La studiosa respinge le teorie che ascrivono all'isola l'invenzione della tecnica del m. tessellato e dimostra che, malgrado alcune caratteristiche locali, la maggioranza dei m. appartiene alla generale koinè ellenistica. Bruneau (1972) presenta una magistrale sintesi e un catalogo dei pavimenti di Delo, per tutti i tipi attestati, con un completo resoconto della problematica relativa alla tecnica e al repertorio decorativo; in questo centro appare chiara la coesistenza delle varie tecniche di m. e di altri tipi di rivestimento pavimentale e la loro relativa distribuzione, nell'arco di un limitato periodo di produzione, nel tardo II sec. e agli inizî del I sec. a.C. M. ellenistici sono stati rinvenuti anche a Cirene (Baldassarre, 1969-70 e 1976), a Samo (Giannouli, Guimier-Sorbets, 1988) e a Xanthos (Llinas, 1974).
Italia. Età repubblicana e imperiale. - Negli ultimi venti anni le conoscenze sui m. dell'Italia antica sono state accresciute dalla pubblicazione di cinque nuovi volumi della serie Mosaici antichi in Italia, relativi ai m. da Baccano (1970), Anzio (1975), Ravenna (1976), dalla Sardegna (1981) e da Stabiae (1989) oltre che da studi specifici sui m. in bianco e nero, geometrici e figurati (Clarke, 1979; Donderer, 1986), da monografie sui m. di singoli centrio, più in particolare, su singole composizioni musive.
Per quanto riguarda l'Italia centrale il quadro generale dell'evoluzione della produzione musiva sintetizzato da G. Becatti (1965 e 1975) non ha subito grandi modifiche in seguito a nuovi trovamenti e pubblicazioni, sebbene si vada meglio delineando la variazione degli sviluppi nelle diverse regioni. Nei dintorni di Roma è venuto alla luce un numero sempre maggiore di m. tardo-repubblicani, tra i quali si ricordano quelli di due domus di Priverno, di cui uno con scena figurata centrale e fregio con ghirlanda di frutti e di maschere (Morricone, 1981; Righi, 1984). Nella Villa dei Volusii a Lucus Feroniae eleganti pavimenti della metà del I sec. a.C., alcuni con effetti policromi tridimensionali, sono associati ad altri, di età augustea, dai più complessi disegni geometrici bianco-neri.
Studî recenti e nuove scoperte forniscono maggiori conoscenze sui m. della Sicilia. La produzione musiva dell'isola nel periodo imperiale è distinta dalla Boeselager (1983) in due gruppi principali: l'uno costituito dai m. in bianco e nero realizzati nella prima epoca imperiale, fortemente influenzati da Roma e dall'Italia centrale, e in larga misura alquanto provinciali nello stile e nell'esecuzione; l'altro relativo ai più ambiziosi m. policromi dei secoli successivi, nei quali predomina l'influsso nordafricano. Molti di questi m. rinvenuti più di recente sono ancora pubblicati in forma parziale, così come attendono ancora un'edizione completa quelli di Agrigento e Marsala che sono tra i centri di maggiore importanza. L'apparente unicità dei m. di Piazza Armerina da tempo noti, ma solo da poco oggetto di un'esauriente pubblicazione, è stata abbondantemente ridimensionata dal rinvenimento di m. pavimentali policromi nelle ville tardo-imperiali (IV sec.) del Tellaro, a O di Eloro e di Patti Marina. Benché siano leggermente più tardi, i m. della villa del Tellaro ricordano, sul piano qualitativo, i m. di Piazza Armerina; tra l'altro, in un ambiente a Ν del peristilio si trova un grande m. con scena di caccia, strettamente correlato alla c.d. Piccola Caccia della Villa di Piazza Armerina (Voza, 1982 e 1983).
I m. pubblicati della Sardegna rivelano i numerosi influssi presenti nell'isola, mostrando strette analogie con la produzione dell'Africa settentrionale nel tardo impero (Angiolillo, 1981).
Europa nord-occidentale e Britannia. - Per la Gallia i fascicoli del Recueil général des mosaïques de la Gaule comprendono ora i ritrovamenti della Gallia Belgica, della Lugdunense e di parti della Narbonense e dell'Aquitania. Singoli studi sono stati inoltre condotti sui m. geometrici della regione di Vienne (Lancha, 1977) e su un gruppo di m. di Vaison-la-Romaine (Lassus, 1970 e 1971). Alcune ricerche recenti sottolineano le differenze e le caratteristiche peculiari di officine regionali come, p. es., lo stile a «decoro multiplo» della valle del Rodano e i motivi vegetali, tipici dell'Aquitania, questi ultimi ben rappresentati nella villa di Séviac, presso Montréal (Balmelle, 1987). Un altro aspetto rilevante è costituito dalla ricchezza della decorazione di molte ville del tardo periodo imperiale e dalla continuità dell'impiego del m. durante e dopo la caduta dell'impero di Occidente.
In Germania, Hellenkemper Salies (1983) ha pubblicato tutti i m. scoperti a partire dal 1959, il più importante dei quali è quello con paesaggio marino e busto di Oceano a Bad Kreuznach. Una monografia è stata dedicata ai m. di Salisburgo (Jobst, 1982); Berger e Joos (1971), hanno eseguito un'analisi tecnica e petrográfica del m. con gladiatori da Augst, in Svizzera. I m. dell'Ungheria sono raccolti da Kiss (1973), quelli dell'Albania da Adhami (1974), mentre un interessante gruppo da una villa di Ivailovgrad in Bulgaria è pubblicato da Mladenova (1983).
Un notevole lavoro è stato svolto sui m. della Britannia. I più antichi, per lo più provenienti dal palazzo di Fishbourne, si datano a partire dalla seconda metà del I sec. d.C. e sono certamente opera di artigiani provenienti dall'Italia, ma i principali periodi di produzione si pongono nel II sec. d.C., quando i m. si trovano soprattutto nelle città, e nel IV, in cui prevalentemente vengono rinvenuti in ville.
Di grande importanza sono i numerosi studi condotti da D. J. Smith, relativi, in particolare, all'identificazione di officine regionali del IV sec. (1965) e alla classificazione dei m. anteriori a tale periodo (1975); i risultati, con alcuni aggiustamenti tipologici e cronologici, sono stati di recente oggetto di una sintesi generale (1983). Di notevole interesse è inoltre la raccolta di m. rinvenuti in ville (1969) e la rassegna di figure e scene mitologiche che compaiono su m. della Britannia.
Caratteristico è il tema di Orfeo e delle fiere, con un tipo di composizione, virtualmente ristretto ai m. della Britannia, in cui le fiere sono disposte in giri concentrici attorno alla figura centrale di Orfeo (Smith, 1983). Problematica è la lettura del m. da Hinton St. Mary, che combina un busto, probabilmente di Cristo, con dietro il monogramma chi - rho, e una scena di Bellerofonte e la Chimera (Toynbee, 1964). Infine degli aspetti tecnici si è occupato Neal (1981), che tratta di alcuni schemi geometrici impiegati nei m., compilando un dettagliato catalogo di 87 pavimenti.
Spagna e Portogallo. - Pubblicazioni e nuove scoperte hanno notevolmente accresciuto la conoscenza dei m. nella Penisola Iberica. In aggiunta ai dieci volumi del Corpus de mosaicos de España, un'altra edizione interessa aree della Hispania Citerior. Tra i siti più ricchi di ritrovamenti si distinguono, in Spagna, Mérida (Bianco Freijeiro, 1978; Alvarez Martínez, 1990), Italica (Blanco Freijeiro, 1978) e Cordova (Blázquez, 1981), mentre recenti scavi ad Alcalá de Henares (Complutum) hanno messo in luce alcune case con m. apparentemente distribuiti cronologicamente tra il III e il V sec. d.C. (Fernández Galiano, 1984). In Portogallo i siti più importanti sono Conimbriga, dove si sono rinvenuti m. geometrici e figurati di un tipo molto particolare (Bairrao Oleiro, 1965) e la villa di Torre de Palma (De Almeida, 1975). Non è stato molto approfondito il problema della distinzione di determinate officine regionali, benché sia chiaro che tra aree differenti esistano sostanziali variazioni; una maggiore attenzione è stata invece rivolta a problemi di evoluzione generale e di influssi esterni. Nella Penisola Iberica la produzione dei m. ha inizio sotto forti influssi provenienti dall'Italia e m. in bianco e nero sono comuni nel II sec. d.C. Accanto a questi fa la sua comparsa il gusto per una limitata policromia, con zone colorate in pavimenti prevalentemente in bianco e nero o con quattro colori, bianco, nero, rosso e giallo. M. di questo periodo sono principalmente di provenienza urbana e i motivi geometrici predominano sulle scene figurate. Una grande espansione della produzione musiva si verifica nel IV sec. d.C., soprattutto in ville; in quest'epoca gli influssi dominanti sono di origine nordafricana, benché taluni studiosi abbiano anche supposto ascendenze dalle regioni orientali dell'impero. Grandi m. policromi con scene figurate sono creati almeno fino agli inizî del V sec.; comprendono scene di vita comune, come la caccia o i giochi del circo e un'ampia gamma di soggetti mitologici. Tra gli esempi più rilevanti, oltre ai m. con scene circensi da Barcellona e da Gerona (Balil, 1962), figurano i m. di IV sec. della villa di Pedrosa de la Vega, con scene di caccia e Achille a Sciro (De Palol e Cortés, 1974). Alcune scene mitologiche di soggetto inusuale, forse del tardo IV sec. o degli inizî del V, appaiono nel «M. delle metamorfosi» a Carranque (Arce, 1986; Fernández Galiano, 1994).
Unico nelle provincie occidentali dell'impero è il m. cosmologico di Mérida: un grande pannello policromo contenente una moltitudine di personificazioni celesti e topografiche e altre figure allegoriche, identificate con il loro nome. Una prima interpretazione in senso mitriaco è stata ora confutata e i recenti commentatori sono generalmente concordi nel considerare la scena come un'elaborata allegoria del cosmo, ma esprimono interpretazioni diverse per quanto riguarda elementi particolari. Alcuni la ritengono una versione latinizzata di un originale ellenistico, probabilmente creato per Alessandria, altri un'opera realizzata ex novo nel II sec. d.C., con specifici riferimenti ai benefici del governo imperiale; l'interpretazione delle singole figure varia secondo gli studiosi (Alföldi, 1979; Quet, 1981; Musso, 1983-1984; Alföldi-Rosenbaum, 1993). Lancha (1983) ne fa una dettagliata analisi tecnica e stilistica, concludendo che la datazione può oscillare tra la seconda metà del II sec. e il III sec. d.C.
Altrettanto eccezionale è il m. con iscrizioni da Puente Genii, Cordova (Daviault, Lancha, Palomo, 1987). Una serie di scene comiche egittizzanti, con combattimenti fra pigmei e gru, è accompagnata da iscrizioni che riportano sia il nome dei personaggi, sia le battute del dialogo. Ciò sembra suggerire una lettura come raffigurazione di reali scene di teatro, forse di mimo. La datazione si pone probabilmente intorno al IV sec. d.C.
Africa settentrionale. - L'importanza e l'originalità delle officine di mosaicisti nelle provincie dell'Africa settentrionale, in particolare quelle dell'Africa Proconsolare, sono state ben evidenziate in numerose pubblicazioni. Volumi del Corpus des mosaïques de Tunisie sono ora disponibili per i siti di Utica e Thuburbo Maius. Per l'Algeria Germain (1969) ha raccolto i m. di Timgad, mentre sono in corso di realizzazione progetti di studio per Cartagine e Cesarea. Gruppi di m. nel contesto del loro ambiente architettonico sono stati studiati ad Althiburus (Ennaifer, 1976), Bulla Regia (Hanoune, 1980), Cartagine (Salomonson, 1965), Haidra (Baratte, 1974), Mactar (Picard e altri, 1977), Neapolis (Darmon, 1980) e Acholla (Gozlan, 1992) in Tunisia, nonché a Cuicul in Algeria (Blanchard-Lemée, 1975). Una visione d'insieme dell'intero sviluppo del m. africano, in particolare dei m. figurati e della loro iconografia, è offerta da K. M. D. Dunbabin (1978), mentre Parrish (1984) si è occupato del ricorrente tema delle Stagioni. Una certa attenzione è stata rivolta ai motivi geometrici e all'apporto che essi danno alla caratterizzazione di scuole o officine regionali: così (Gozlan, 1976 e 1980) è stata analizzata una serie di motivi particolarmente caratteristici di località africane, specialmente quelli della Byzacena, e si è giunti all'identificazione dei motivi usati da un'officina cartaginese nel momento di passaggio tra il IV e il V sec. d.C. (Dunbabin, 1980). Molto rimane tuttavia ancora da chiarire a livello cronologico per quanto riguarda l'evoluzione regionale.
Malgrado alcuni notevoli problemi di cronologia ancora aperti, si è oggi in grado di tracciare le linee generali dell'evoluzione dei m. nell'Africa settentrionale. Gli scavi di Cartagine hanno dimostrato, in case puniche anteriori al 146 a.C., l'esistenza, accanto ad altri tipi di pavimentazione, di m. tessellati (Chelbi, 1984; v. pavimento). Dopo la conquista romana, pochi pavimenti in bianco e nero rivelano l'influsso di artigiani italici (Parlasca, 1982), ma il periodo principale di produzione comincia apparentemente agli inizî del II sec. d.C., con l'impianto di officine, soprattutto nei centri costieri della provincia proconsolare. Nel secolo successivo l'uso del m. ebbe un'ampia espansione e, nel corso del III sec., pavimenti a m. sono diffusi in tutte le provincie africane, con centri di produzione persino in piccole cittadine. È prevalente l'uso della policromia e il'caratteristico stile africano mostra un rapido sviluppo, segnato da ricchi motivi floreali e ornamentali e, almeno dalla fine del II sec., da libere elaborazioni di grandi scene figurate. Il repertorio dei soggetti comprende episodi mitologici, per lo più scelti in una sfera alquanto ristretta, e scene della vita contemporanea, con una preferenza per quelle raffiguranti l'anfiteatro, il circo, la caccia. Queste ultime sono spesso espressamente concepite come richiamo alle attività e agli interessi dei mecenati che le commissionavano, con iscrizioni di identificazione che rendono chiari tali riferimenti: l'esempio migliore è il m. con scene di anfiteatro da Smirat (Beschaouch, 1966). Alcuni centri possono aver subito un declino verso il IV sec., ma in molte città, soprattutto a Cartagine, la produzione di m. continuò la sua fioritura in questo e nel secolo successivo, mentre, per quest'epoca, l'influsso del m. africano è stato individuato in altre regioni dell'impero, come la Sicilia, l'Italia settentrionale e la Spagna; È ancora controverso se la conquista dei Vandali abbia posto fine alla produzione di m. in Africa; alcuni studi recenti indicano come probabile la continuità di produzione in alcuni centri fino al periodo bizantino.
Gli scavi e la pubblicazione di precedenti trovamenti hanno apportato considerevoli aggiunte ai m. noti nell'Africa settentrionale. Tra i più importanti sono quelli della villa di Silin, presso Leptis Magna (Al-Mahjub, 1983). Vi compaiono motivi geometrici strettamente connessi ai m. di Zliten (la cui datazione è ancora oggetto di discussione) e una serie di pregevoli pannelli figurati policromi che comprendono una corsa nel circo, una scena con prigionieri assaliti da un toro, Licurgo in lotta con la vite e le Stagioni che passano attraverso il cerchio dello zodiaco. Per una datazione definitiva è necessario attendere la pubblicazione del materiale archeologico, attualmente in studio, ma è probabile che essa sia da porsi nel tardo II sec. d.C.
In Tunisia è stato rinvenuto un imponente complesso di m. nella «Casa delle Ninfe», a Neapolis, così denominata dall'iscrizione musiva Nympharum domus all'interno del bacino di una fontana; sembra accertato un terminus post quem di periodo costantiniano (Darmon, 1980). Oltre ai numerosi pavimenti geometrici vi sono anche grandi pannelli figurati, con temi prevalentemente mitologici. Tra i soggetti delle raffigurazioni compaiono scene tratte dai miti di Pegaso e di Bellerofonte; l'interpretazione di altre scene e il loro rapporto con la funzione dell'edificio sono oggetto di discussione.
Un'altra serie di m. proviene da un edificio termale privato di Sidi Ghrib, a S di Tunisi, e si data probabilmente alla fine del IV-inizî del V sec. d.C.; è composto da vari soggetti marini e da scene appropriate all'uso delle terme, come una dama alla sua toletta (Ennabli, 1986). Un'altra domus di epoca tarda, forse dell'avanzato V sec., è la «Casa del peristilio figurato» a Pupput che prende il nome dalla proiezione sul m. della reale architettura del peristilio (Ben Abed, 1983). In Algeria un recente, sensazionale rinvenimento è costituito dal m. del Trionfo di Dioniso (la più ricca rappresentazione musiva di questo tema) e della Caccia di Meleagro, a Sétif (Donderer, 1988).
Grecia, Asia Minore e Cipro in epoca romana. - Non esiste ancora un corpus per i m. della Grecia di età imperiale romana, benché le raccolte di m. paleocristiani (Pelekanidis, 1974; Spiro, 1978; Asemakopoulou-Atzaka, 1987) comprendano anche quelli di soggetto profano, dal IV sec. d.C. in poi. Una sintesi è offerta da Bruneau (1981), che rinuncia a qualsiasi tentativo di classificazione cronologica, ritenendo che i m. della Grecia siano contraddistinti da un profondo conservativismo e da un'aderenza alle tradizioni ellenistiche. Le sue conclusioni sono poste in dubbio da G. Hellenkemper Salies (1986), che constata una dipendenza dall'Italia e dalle regioni occidentali dell'impero ben più stretta di quanto ammetta il Bruneau, dimostrando che non è possibile stabilire una continuità tra i m. della Grecia ellenistica e quelli di epoca romana: pochi esempi di quest'ultimo periodo possono ritenersi più antichi del II sec. d.C. L'influsso dell'Italia va chiaramente riconosciuto in alcuni dei pavimenti più antichi, che comprendono disegni in bianco e nero, sia geometrici, sia, talvolta, figurati; questi sono presenti in maniera considerevole nelle terme di Isthmia (Packard, 1980). A questo gruppo succede un gusto crescente per una più ricca policromia e per ornamentazioni complesse; scene figurate sono spesso disposte nei compartimenti di un motivo geometrico, un sistema compositivo tipico delle provincie occidentali dell'impero. I più tradizionali pannelli figurati, composti come pseudo-emblèmata sono spesso d'incerta cronologia; la Hellenkemper Salies ritiene che essi si trovino solo nel III sec. d.C. La comparsa di grandi scene policrome figurate va probabilmente posta nel IV sec. in corrispondenza con il loro uso in altre regioni dell'impero.
Due notevoli complessi sono stati oggetto di importanti pubblicazioni: i m. della «Casa di Menandro» a Mitilene, con una serie di raffigurazioni tratte dalle commedie di Menandro, identificate dal titolo e dal nome dei personaggi (Charitonidis, Kahil, Ginouvès, 1970) e quelli dalla «Villa del Falconiere» ad Argo, che si datano probabilmente intorno al 500 d.C., con rappresentazione di un calendario dei mesi, scene di caccia (compresa la caccia con il falcone) e una sala da banchetto con un giaciglio a sigma tracciato sul pavimento (Åkerström-Hougen, 1974). Nel migliore dei casi altri m. sono solo segnalati in pubblicazioni preliminari di relazioni di scavo. Rinvenimenti significativi sono stati effettuati a Patrasso, a Sparta, a Coo e a Salonicco. Tra i soggetti meno comuni figurano i ritratti di famose personalità della letteratura (Saffo, Alcmane, Anacreonte e Alcibiade) a Sparta e la rappresentazione di Phthonos straziato dalle belve, accompagnata da un'iscrizione apotropaica a Cefalonia (Dunbabin e Dickie, 1983).
Lo stato di edizione dei m. dell'Asia Minore è ancor più lacunoso. Del progettato corpus è apparso un volume, dedicato ai m. dalle «Case delle Pendici» di Efeso (Jobst, 1977) e un altro relativo ai m. di Afrodisiade di Caria (Campbell, 1991). Sebbene ben pochi siano ascritti alla prima età imperiale, la maggior parte si data tra il IV e il V sec. d.C.; in prevalenza presentano disegni ornamentali, spesso in bianco e nero, di repertorio e qualità limitati, e mostrano una maggiore affinità con m. delle provincie occidentali, piuttosto che con qualcuna delle altre provincie orientali. Lo stesso fenomeno sembra verificarsi in altre località dell'Asia Minore occidentale, delle quali è stata data una pubblicazione preliminare, p.es. a lasos (Berti, 1983). D'altro canto i m. di Cilicia, raccolti da Budde (1972), rivelano legami più stretti con le produzioni di Antiochia e della Siria.
Una ricca serie di pavimenti, molti dei quali di altissima qualità, è venuta alla luce a Cipro (Michaelides, 1987). I siti che hanno prodotto il maggior numero di materiali sono Kourion e Nea Paphos; da quest'ultimo provengono i m. della «Casa di Dioniso», con un'ampia gamma di scene mitologiche, e del «Palazzo» di Teseo (Daszewski, 1977). Un esempio fuori del comune, di recente rinvenimento, è il m. della «Casa di Aion» a Nea Paphos, con terminus post quem nel secondo quarto del IV sec. d.C.; vi appaiono scene mitologiche, tra cui l'infanzia di Dioniso, la contesa di Cassiopea e delle Nereidi e il Trionfo di Dioniso, con numerose figure allegoriche contrassegnate con il loro nome (Daszewski, 1985). Mentre i più antichi m. dell'isola mostrano uno stile autonomo con influssi sia da Oriente che da Occidente, qui le ascendenze siriache sembrano preminenti.
Siria e provincie orientali. - Un'eccellente visione d'insieme della produzione dei m. in tutte le regioni del Vicino Oriente, fino al periodo tetrarchico, è offerta da un recente studio di J. Balty (1981), che amplia e corregge il quadro, dedotto in precedenza da una concentrazione quasi esclusiva sui m. di Antiochia. La stessa autrice persegue finalità più limitate, considerando la Siria solo per quanto concerne il V sec. d.C. (1984). Varie pubblicazioni sono state dedicate ai m. di Apamea (Dulière, 1968 e 1974; J. Balty, 1969; J. Ch. Baity, 1972), che si rivela un centro di produzione secondo solo ad Antiochia, soprattutto a partire dalla metà del IV sec. d.C. Un altro sito dove sono stati scoperti m. di alto livello qualitativo è Philippopolis; il repertorio figurativo comprende un'Afrodite marina, Artemide e Atteone, una scena di banchetto e diverse scene allegoriche (riferimenti in J. Balty, 1977 e 1981; molti sono inediti). Eccezionale sia per la qualità che per l'interesse del soggetto è il m. da Maryamin, raffigurante un gruppo di suonatrici chej si esibiscono in un concerto (tardo IV sec.; Zaqzuq e Duchesne-Guillemin, 1970). L'importanza della produzione musiva della Siria è ora attestata da una serie di m. che vanno dagli inizî del II fino al VI sec. d.C. Le tradizioni ellenistiche sono qui tenaci, con un gusto per sorprendenti scene pittoriche figurate, composte in grandi pannelli, che sopravvive per tutto il IV sec.; i soggetti sono prevalentemente mitologici, con una particolare preferenza per i temi e le personificazioni di carattere allegorico che compaiono nel III secolo. I motivi geometrici fanno un uso crescente di ricchi ed esuberanti effetti policromi, specialmente nello «stile arcobaleno», popolare dal IV sec. in poi. Le composizioni bidimensionali predominano a partire dal V sec., determinando ornati sia puramente geometrici, sia di tipo floreale e «tappeti figurati», per lo più con temi animalistici e di caccia. In queste opere più tarde va probabilmente visto un'influsso dell'arte del tessuto e non manca l'impiego di motivi derivati dall'arte sasanide.
In Palestina gli sviluppi della produzione di m. sono generalmente simili a quelli della Siria; una fase più antica è stata documentata dalla scoperta di m. di epoca erodiana nei palazzi di Erode a Masada, a Gerico e a Gerusalemme. Si tratta di semplici ornati aniconici, alcuni nella tradizione ellenistica, altri invece influenzati da Roma nell'uso di motivi geometrici in bianco e nero tipici dell'Italia. Le principali produzioni si collocano a partire dal periodo post-costantiniano, e ci sono note prevalentemente da chiese cristiane; m. dei primi secoli dell'impero si sono conservati in una certa quantità e molti mostrano le tradizionali scene della mitologia greco-romana. Un singolare esempio, scoperto nel 1987 a Sepphoris, probabilmente del III sec. d.C., presenta varie scene dionisiache, con scritte esplicative in greco, all'interno di un ricco bordo di girali di acanto (pubblicazione preliminare: Meyers, Netzer e Meyers, 1987). Diverse sinagoghe, dal IV sec. in poi, hanno pavimenti a m.; gran parte della decorazione ricorda quella di contemporanee chiese cristiane, con pampini di vite e ornati animalistici. Il repertorio più specificamente ebraico comprende simboli quali la menorah e l'edicola della Torah, il circolo zodiacale con le stagioni e il carro del sole, p.es., a Hammath-Tiberiade, e David che suona la lira alla maniera di Orfeo, a Gaza. Un catalogo dei rinvenimenti fino al 1975, con un generale inquadramento degli sviluppi del m. in Israele, è pubblicato da R. e A. Ovadiah (1987). I m. della Giordania sono stati oggetto di uno studio di Piccirillo (1986). La maggioranza di essi proviene da chiese, ma un ridotto numero, presumibilmente da contesti profani, rivela la sopravvivenza del repertorio tradizionale fino al periodo bizantino. Un esempio significativo è il m. da Madaba, della metà del VI sec. d.C., con raffigurazioni di Afrodite e Adone, della storia di Fedra e Ippolito e di personificazioni divinizzate di città come Roma, Gregoria e Madaba. L'ultima fioritura della tradizione del pavimento a m. in queste regioni può ravvisarsi nei palazzi omayyadi del VII e dell'VIII sec., p.es. a Khirbet el-Mafğar.
L'uso del m. si estese fino alle frontiere dell'impero e anche oltre. I m. delle due case palmirene di Achille e Cassiopea, probabilmente della metà del III sec. d.C., sono di pura ascendenza classica nello stile e nella tematica; la scena della contesa tra le Nereidi e Cassiopea segue una versione specificamente siriaca del mito che si ritrova ad Apamea e a Nea Paphos (Stein, 1977; J. Ch. Balty, 1981). A parte i m. funerarî di Edessa, molti di essi, datati per le iscrizioni al III sec., devono ben poco, oltre alla tecnica e a scarsi motivi geometrici, al mondo romano. A eccezione di due m. con Orfeo e le fiere e la fenice, i rimanenti mostrano busti di defunti o scene di banchetto con iscrizioni in siriaco; costumi e attributi sono locali e lo stile è caratteristico dell'arte partica (Parlasca, 1983). Infine il palazzo eretto a Bišāpur da Šābuhr I dopo il 260 d.C. è decorato con mosaici. I motivi ornamentali e alcuni dettagli suggeriscono che questi possano essere opera di artigiani provenienti dalla Siria: ma la maggioranza dei pannelli figurati, che rappresentano danzatrici, arpiste, tessitrici di ghirlande e soggetti simili, sono sostanzialmente iranici nella concezione e nell'effetto (Ghirshman, 1956).
Mosaici parietali e su volte. - Un catalogo dei m. parietali e applicati su coperture a volta che si sono conservati nell'ambito dell'impero romano è stato realizzato da Sear (1977), con un breve esame generale della loro evoluzione e delle loro caratteristiche. Le origini della tecnica sono decisamente differenti da quella dei m. pavimentali; Sear la fa derivare dall'uso di decorare con conchiglie, pomice, scaglie di marmo e pezzi di vetro, le grotte e i ninfei nelle ville della tarda repubblica. Nella prima metà del I sec. d.C., la tecnica, pienamente sviluppata, che si avvale di tessere di vetro, ma anche di altri materiali, viene usata in fontane e ninfei e poi, più diffusamente, su superfici di pareti e di volte. Decorazioni musive su coperture a volta sono frequentemente usate nel II e nel III sec. d.C., soprattutto in edifici associati con l'acqua, come quelli termali, ma anche in tombe e mitrei. Particolarmente comune nell'Africa settentrionale è l'uso di decorare a m. la superficie delle piscinae o dei bacini di fontane; in questi casi la tecnica si avvicina maggiormente a quella dei m. pavimentali. Una tecnica diversa, che prevede la messa in opera su una parete di emblèmata eseguiti a parte, è studiata da Donderer (1983). Fra i rinvenimenti recenti il più notevole è il m. della volta di una delle «Case delle Pendici» di Efeso, datato intorno al 400 d.C. c.a, con busti di Dioniso e Arianna disposti fra tralci di vite e pavoni con ghirlande nella lunette (Jobst, 1977). Altri esempi sono stati rinvenuti nelle Terme del Ginnasio a Salamina di Cipro, con scene mitologiche tra cui, frammentario, un gruppo di Leda con il cigno (Michaelides, 1987); altri frammenti provengono dalle Terme del Ginnasio a Samo e conservano tessere di vetro dorato e argentato (Martini, 1984). In Occidente la scoperta più importante è costituita da un ninfeo messo in luce in Via XX Settembre a Roma (Coarelli, 1984), con un'elaborata decorazione parietale, probabilmente di periodo neroniano, che è ancora in attesa di pubblicazione.
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(K. M. D. Dunbabin)
Mosaico pavimentale paleocristiano. - La conoscenza del m. pavimentale della tarda antichità si va progressivamente ampliando grazie all'intensificarsi, in questi ultimi decenni, dell'attività archeologica nelle varie Provincie dell'impero romano e ad approfonditi studi, anche a carattere regionale, che tuttavia non esauriscono la documentazione. Rimangono ancora molte lacune oltre all'ostacolo insormontabile della casualità delle scoperte, spesso non sistematiche, e problemi di vario genere da affrontare: quello della datazione, la definizione stessa di scuole regionali, l'origine e la trasmissione dei temi, l'organizzazione e lo stato sociale delle maestranze, la committenza. La multiforme fisionomia del m. pavimentale nel vasto ambito geografico dell'impero romano induce di per sè, con le conseguenti difficoltà, a tracciare una storia differenziata dell'evolversi della produzione musiva e anche a tentare di mettere in evidenza, pur con numerosi limiti, le particolarità regionali nelle loro variazioni diacroniche, sottolineando la sostanziale omogeneità nella disposizione e articolazione dei m. all'interno dell'edificio di culto cristiano e il loro carattere decorativo che risponde ai concetti estetici tardoantichi. Si osserva a questo riguardo una decisa indifferenza per la resa tridimensionale, illusionistica, totalmente negata dalla consistenza opaca del piano di fondo sul quale sono poste le figure (iconiche o geometriche) e un prevalere dell'espressione bidimensionale. Questa astrazione, che certo è più evidente nel caso della decorazione di tipo geometrico, caratterizza tuttavia lo pseudo-èmblema del VI sec., una presenza che rispecchia la ripresa «classicizzante» che si manifesta soprattutto in Oriente in epoca giustinianea (Kitzinger) rifluendo anche in Occidente. Per quanto concerne l'articolazione del rivestimento musivo, va sottolineato che essa segue la suddivisione orizzontale dell'ambiente di culto, nel senso cioè che le stesure pavimentali, oltre a rispecchiare la fondamentale ripartizione determinata dall'architettura (navate nell'edificio a sviluppo su asse longitudinale, scandito da colonnati; composizioni a spicchi o a formati più complessi riflettenti l'articolazione delle coperture negli edifici a impianto centrico), tengono conto, mediante la tipologia del m., delle differenziazioni funzionali: lo spazio sacro (abside e presbiterio), separato anche mediante setti divisori (cancella, pérgula) dalla navata ove si raduna il popolo dei fedeli, e lo spazio liturgico che può inoltrarsi nella navata mediana tramite una passerella (solea) talvolta collegata con l'ambone, e che viene definito da un recinto il cui tracciato si riflette sul rivestimento pavimentale. Si osserva inoltre in molti casi la corrispondenza tematica col m. che li decora: nel bèma in cui s'inquadra l'altare si trova frequentemente un tipo di composizione musiva paragonabile a quella di un ambiente conchiuso e nel caso di decorazione figurata, con i punti di vista dai quattro lati; nelle navate la lettura dei soggetti ornamentali ha inizio dall'ingresso. Qui prevalgono decorazioni ripetitive, imperniate su combinazioni di temi geometrici che sottolineano, come nei corridoi delle ville (p.es. Zliten), il senso del passaggio, della corsia, nell'iterarsi all'infinito dell'ornato. L'abside accoglie frequentemente temi vegetali composti in modo da armonizzarsi con la forma semicircolare del pavimento: girali di acanto o di vite, che con le volute digradanti e speculari a un elemento mediano, occupano tutta la superficie, come un riflesso di un pergolato paradisiaco, spesso popolato da uccelli variopinti. Anche in questo caso, come per il pavimento del presbiterio, v'è una corrispondenza tra il formato dello scomparto musivo e il tipo di copertura, qui il semicatino, là la volta impostata su un perimetro quadrato.
Il repertorio geometrico policromo che generalmente s'incontra nelle navate mostra un'ampia circolazione di temi propri del basso impero, con un'accentuazione, a seconda delle località, di motivi e modi peculiari, senza differenze tra ambito ecclesiastico e profano. Possono costituire invece un elemento distintivo i riempitivi della trama geometrica, una caratteristica questa già osservata nel caso delle Aule Teodoriane di Aquileia e di altri mosaici che permane anche nelle composizioni più tarde, segnatamente nel VI secolo. Per quanto riguarda l'articolazione delle figure geometriche, è di grande interesse lo studio metrico e proporzionale delle intelaiature di linee-guida a esse sottese, dal tipo più semplice a combinazioni ortogonali, a quelli più elaborati che implicano, per la realizzazione del complesso tessuto decorativo, l'uso del compasso e la conoscenza delle leggi della geometria. Sembra riguardare proprio le elaborate articolazioni geometriche della decorazione musiva l'interessante avvertimento di Teodorico al Curator Palatii (Cassiod., Var., VII, 5, 3-6) di tenere presenti gli schemi mirabilmente variati di Euclide e Archimede. Su queste basi di ricerca, si riesce agevolmente a individuare l'unità di misura che presiede alla composizione, oltre che i rapporti proporzionali tra le stesse figure geometriche (Farioli).
In Occidente le intrusioni iconiche che, in un certo modo, distraggono dal continuo fluire connaturato alla concatenazione geometrica senza principio né fine, dal «rapporto infinito» (A. Riegl), compaiono più tardi rispetto all'Oriente, in epoca giustinianea. Prevale infatti un severo geometrismo soprattutto nelle provincie e regioni che sono in diretto rapporto con Roma; ad Aquileia invece come in Oriente, si osservano decise presenze iconiche, che, dopo la parentesi teodoriana, sono presto soppiantate nella basilica post-teodoriana Ν dal repertorio totalmente geometrico corrispondente a quell'ondata generale di aniconismo che coinvolge gli edifici sacri d'Occidente e d'Oriente e che si suole riferire agli editti di Teodosio il Grande contro il paganesimo. Questa tendenza perdura in Occidente per tutto il V sec., per attenuarsi, a Ravenna, nel successivo VI secolo. A Grado la basilica di S. Eufemia (579) mostra una stretta derivazione ravennate oltre che nella facies architettonica, anche nella concezione decorativa pavimentale per la presenza, entro le campiture geometriche, di pur pallidi elementi iconici che a Ravenna già si conoscevano in S. Vitale (547). Nella basilica di Grado si riscontra inoltre, come già in quella post-teodoriana Ν di Aquileia, una più decisa tendenza a sviluppare su ampie superfici la decorazione geometrica che occupa tutta la lunghezza delle navate, secondo un uso tipico delle basiliche nordafricane di Dermeš, Wed Ramel, Sidi Habiš e della basilica 2 di Sabratha, di epoca giustinianea. Tali influssi a partire dall'età teodoriciana, a Ravenna, e nei territori dell'alto e medio Adriatico, si fanno più evidenti mediante l'adozione di temi che sono peculiari del fantasioso repertorio geometrico-vegetale delle Provincie dell'Africa Settentrionale (in special modo della Proconsolare e Bizacena), sì da inserire Ravenna stessa e le varie località affacciate sull'Adriatico in quella koinè del Mediterraneo occidentale che comprende la Sicilia, la Sardegna, il litorale tirrenico con i centri più qualificati, la Francia meridionale e le Baleari. Caratteri comuni si rilevano anche nella particolare classe dei m. tombali africani, documentati in Spagna (Tarragona, Barcellona, Maiorca), in Italia (Sicilia, Sardegna, Ancona, Ravenna, Grado) e Croazia (Salona). I ricordati temi propriamente nordafricani (Cartagine, Dermes, Taparura, Wed Ramel, Bulla Regia, Sabratha) s'impongono a Ravenna sul repertorio abituale e appaiono talvolta punteggiati di figure tratte dal mondo animale, che diventano più frequenti e vivaci verso la fine del VI sec. (S. Severo a Classe). Solo in rari casi sono documentati nei punti focali di contesti geometrici a poligoni pseudo-emblèmata (Basilica Probi, Classe) che richiamano i più nobili esempi delle Provincie orientali, ancora sensibili ai valori figurativi della tradizione ellenistica. Qui infatti la presenza iconica a piccolo formato, disseminata nelle campiture geometriche, si afferma già nel V sec. coinvolgendo poi anche alcune isole greche (Lesbo, Coo e soprattutto Cipro), tanto che potrebbe individuarsi in quell'epoca una linea di demarcazione tra l'ambito culturale del Mediterraneo orientale e l'occidentale, che va sfumando nel VI sec., come si rileva dai m. dell'Epiro (basilica A di Nicopolis) e della Macedonia (Eraclea Lincestide), oltre che da quelli delle principali basiliche della Cirenaica (Apollonia, Cirene, Qaṣr el-Lebīya) articolate in riquadri figurati e incorniciate da intrecci, che trovano riscontri nell'area greco-insulare (Coo, basilica di Mastichari).
In Oriente, cessata la fase aniconica che raggiunge il culmine in epoca teodosiana, come mostrano i pavimenti del Martỳrion di Antiochia-Kaussiye (387) della sinagoga di Apamea e di S. Tecla di Meryemlik, decorati da una grande varietà di temi geometrici resi prospetticamente e da ornati «ad arcobaleno», il geometrismo di base diviene gradualmente meno severo per l'affermarsi di varî temi, come gli scuta incrociati con estremità incurvate, che dal primo esempio nel c.d. edificio del triclinio di Apamea (terzo quarto del IV sec.) avranno una grande diffusione nel VI sec. nel Vicino Oriente (Libano, e soprattutto Giordania), ravvivati da motivi iconici, per ritrovarsi ancora in epoca omayyade (Deir al-Adas). Parallelamente si affermano molteplici e complessi motivi a intreccio, includenti figure tratte dal mondo animale ed elementi vegetali (basiliche siriane di Khirbet Muqa, del 394-5, e di Qumane) che diventeranno sempre più frequenti a partire dai primi del V sec., costituendo in seguito composizioni più ricche e varie (chiesa di Hama del 415) fino a svilupparsi in ampi riquadri (chiesa dei martiri di Mopsuhestia, basilica della Natività a Betlemme), preludio all’èmblema (pseudo-èmblema) di epoca giustinianea che accomunerà le varie provincie dell'impero. La tendenza a superare il severo geometrismo si può individuare in Oriente anche nella predilezione per determinati temi a carattere floreale-stilizzato che decorano sontuosi bordi o vasti tappeti: si tratta di grandi corolle costituite da embricature irraggianti in quattro direzioni che si animano di fiorellini collocati in ogni embrice e sono documentati anche a Karpathos e a Cipro, oltre che in Israele, Libano, Giordania e Siria fino a epoca omayyade (Khirbet el-Mafğar).
Ma un tema assai ricorrente, esclusivo delle provincie orientali (Cilicia, Siria, Libano, Palestina, Cipro) sia in ambito profano che religioso, si basa su boccioli di rosa o calici di fiorellini collocati rispettivamente a serie altérne nel tessuto a embrici del fondo o posti in successione a formare i lati di tin leggero reticolato diagonale. Si tratta di un motivo di probabile origine tessile (Lassus, Morey) che nelle due versioni costituisce frequentemente il festoso fondale astratto di grandi figure di animali (m. della Fenice, Leone passante di Antiochia) o di vaste composizioni di animali (Martyrien di Seleucia, chiesa superiore di Ḥuwarte, chiese di Umm Hartayn, di Ḥuwat). Nel tipo a reticolato, alla corolla con petali a crocetta centrata nei rombi, succedono motivi desunti dal mondo animale e vegetale e oggetti varí. Questo tema, svolto secondo cadenze geometriche di base ma che supera il geometrismo, ha un grande successo a partire dalla metà del V sec. come mostra la sua ampia diffusione in particolare nel VI sec., soprattutto in Giordania (Madaba), Libano (chiese di Khalde, Bayt Mery, villa di Awzay), Cipro (Haghios Gheorghios); esso compare, insieme ai motivi a scuta incrociati e a corolle di embrici, nelle ultime testimonianze della produzione musiva delle province orientali.
Questo influsso da modelli tessili sasanidi risulta particolarmente fecondo oltre che nei dettagli iconografici che contrassegnano gli animali - il pativ, simbolo della regalità sasanide, arieti nel bordo del m. della Fenice, il beribboned lion di Antiochia (425/50), volatili disseminati nei pavimenti in Siria, Libano, Giordania - anche in fantasiose composizioni d'insieme caratterizzate dal tema ripetitivo di volatili di profilo (pappagallini) con sciarpa svolazzante al collo. Sono collocati in modo da formare un motivo a spina di pesce (Antiochia) o a due a due affrontati e opposti come nella veste serica di due dame del corteo di Teodora in S. Vitale a Ravenna. Questa decorazione trova reali confronti tessili e documenti in ambito pavimentale soprattutto a Bet Šĕ'an (domus del Kyrios Leontios) e a Madaba, ove i volatili di profilo compongono un reticolato di rombi. Questo fantasioso tema diagonale, arricchito di pianticelle centrate nei rombi, compone il tappeto della chiesa dei Ss. Apostoli di Madaba, che inquadra il clipeo con la personificazione di Thàlassa (578/9). Una sua variante con i pappagalli che campiscono il reticolato di calici di fiorellini, si ritrova ancora nel monastero di Bet Šĕ'an, (V-VI sec.). La varietà nella disposizione dei pappagalli contrassegnati dal pativ è pari alle fantasiose composizioni di boccioli e calici di fiori che ugualmente hanno precisi riscontri tessili ed è significativo che queste peculiarità tematiche siano proprie di quelle regioni d'Oriente, segnate dalla fioritura di noti laboratori di stoffe d'arte. È inoltre verosimile che anche la particolare iconografia del cavaliere al galoppo in scene di caccia (spesso duplicato specularmente) diffusa nei m. orientali, che trova confronti puntuali in note sete bizantine d'iconografia sasanide (la caccia regale), sia da collegarsi a modelli tessili. Il tema della caccia e quello prediletto dell'inseguimento e della lotta di animali, documentati, a partire dalla metà del V sec., sia in ambito profano (Apamea, portico della via colonnata) che religioso (Ḥuwarte I, nartece, Halawe, Umm Hartayn, Khan Khalde, Michaèlion di Ḥuwarte), si articolano variamente in composizioni unitarie, isolate sul fondo astratto disseminato di boccioli. Al repertorio animalistico si uniscono spesso episodi di vita quotidiana anche tipicamente locale (Apamea, m. cit.; Deir al-Adas: carovana di cammelli) che a partire dalla fine del V sec. tendono a collocarsi, ritmati da alberi e piante, in registri sovrapposti per occupare un vasto spazio nel quadratum populì (chiese di Akdeğirmen Hüyük, cattedrale di Korykos, basiliche di Karilik, di Khalder, Madaba, diakonikòn del monte Nebo del 531 e del Deir al-Adas, del 722), ove si accostano animali selvaggi e mansueti con allusione alla pace messianica, talvolta evidenziata da citazioni delle profezie di Isaia (Cilicia).
Questi concetti messianici sono espressi da animali in pace anche riuniti, come in talune sinagoghe, in un pannello trasversale che precede l'abside (Ayas, Memoriale di Mosé sul monte Nebo, chiese di Lot e Procopio, di Umm ar-Rasās) oppure disposti aradicalmente sui lati di uno scomparto quadrato tra alberi da frutta (centrati e sulle diagonali) o ai lati del vaso, fonte della vita. Nel presbiterio della basilica giustinianea di Qaṣr el-Lebīya (Cirenaica), gazzelle si affrontano ai lati della croce gemmata. Figurazioni messianiche sono espresse frequentemente da racemi a girali simmetrici, popolati di uccelli, che si diramano dal vaso dell'acqua salutare: tema usuale ovunque nelle absidi, anche in Africa settentrionale (Sidi Habiš, Uppenna, el-Muwassat, Yunga 3, Skira) ove emerge sul coevo repertorio locale l'elegante e ariosa composizione a racemi di vite della navata della basilica 2 di Sabratha, che fa pensare a un deciso apporto esterno, forse metropolitano. Nelle provincie orientali (specie in Giordania) prevale il tipo regolarizzato da medaglioni sovrapposti e collegati, diffusi per tutta l'ampiezza della navata, includenti episodi che attingono al repertorio della caccia, a quello animalistico e dei lavori agricoli. Temi che riguardano la vita nella molteplicità delle sue manifestazioni, il ciclo della natura che sempre si rinnova, la «vigna del Signore» (A. Grabar), concetti che talora sono ribaditi dalla presenza dei quattro Fiumi del Paradiso o delle Stagioni. In alcuni casi troviamo medaglioni d'acanto, che più spesso in forma di girale svolto, decorano fastosi bordi. Qui è usuale anche il meandro interrotto da riquadri con scene di genere, paesaggi nilotici, oppure un fregio che raffigura edifici e città (S. Giovanni Battista di Gerasa, Khirbet es-Šamra, Ma'in, Haditha, Umm ar-Rasās, S. Stefano, del 756) del tipo della «Mappa» di Madaba, che a volte sono collocati nei pannelli degli intercolumni. Si tratta di un repertorio diffuso fino all'epoca omayyade che, nel contesto della folta e prolungata attività delle botteghe di mosaicisti della Palestina, è stato messo in relazione con lo sviluppo e la prosperità dei siti di Terrasanta, meta di pellegrini e mercanti.
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(R. Farioli Campanati)
Mosaico parietale cristiano. - La decorazione musiva parietale a tema cristiano trova le sue prime espressioni in ambito funerario e, in questo senso, un esempio emblematico può essere considerato il Mausoleo dei Giulii nella necropoli vaticana, conosciuto anche come Mausoleo M, che nella metà del III sec. propone una vivacissima immagine del Cristo-Helios, inteso come Sol salutis o Sol iustitiae, all'interno di un decorativo e simbolico viluppo vitineo. I pochi resti delle sinopie relative alle pareti convincono dell'intenzione cristiana del programma iconografico pensato per il mausoleo, con le immagini metaforiche del pescatore e del pastore e con la storia di Giona, eseguite in un minutissimo tessellato di materiali vitrei e smaltati che danno luogo a un linguaggio figurativo ricco di memorie ellenistiche.
Un'accentuata profusione cromatica, giocata in un disorganico ordito di tessere diseguali nelle dimensioni e dissonanti nelle giustapposizioni dei toni, caratterizzano le decorazioni di alcuni arcosolî catacombali, come per combattere l'oscurità o la penombra degli ambulacri. Così, nella catacomba di Domitilla, la lunetta di un arcosolio mostra la figura di Cristo in trono avvolto in una rarefatta mandorla di luce verde-azzurra, tra i Ss. Pietro e Paolo che si affiancano ai due lati in reduplicazione simmetrica, in una contrazione estrema del collegio apostolico. Nell'intradosso si svolgono invece alcune scene care al repertorio paradigmatico dell'arte paleocristiana, rese secondo schemi abbreviati e iconograficamente definiti: si riconoscono la resurrezione di Lazzaro, i tre fanciulli ebrei di Babilonia condannati al vivicomburium, e presumibilmente il sacrificio di Isacco. La singolare decorazione, commentata dall'iscrizione, anch'essa musiva (qui Filius diceris et Pater inveniris), di alto tenore teologico, denuncia una cronologia di tardo IV sec. e annuncia interventi analoghi nelle catacombe napoletane di S. Gaudioso e di S. Gennaro a Capodimonte.
La cripta storica di quest'ultimo cimitero, che accoglie in un'unica sede molti vescovi napoletani del V e del VI sec., risulta monumentalizzata da un ricchissimo decoro musivo che si puntualizza e si incentra negli ispirati ritratti dei presuli partenopei, a cominciare da Giovanni I (( 432), sul cui ritratto si è individuata nel 1993, a seguito di urgenti e delicati restauri, anche la didascalia che ne prova l'identità. Tra gli altri è rappresentato, nella lunetta di un arcosolio della cripta, un personaggio la cui fisionomia rimanda a un tipo africano, per cui si è proposto di riconoscere nel patetico e tormentato ritratto musivo l'immagine di Quodvultdeus, vescovo cartaginese sfuggito alla persecuzione vandalica scatenata in Africa nel V sec. e approdato esule a Napoli.
Per quanto attiene ai monumenti sopraterra, un esperimento decorativo complesso e ancora sconosciuto nelle varie fasi si consuma, presumibilmente, già dagli anni centrali del IV sec. nel celebre Mausoleo di Costanza (o Costantina) a Roma. L'edificio, che costituisce uno degli esempi più emblematici di sepolcro imperiale e una delle costruzioni meglio conservate relativamente ai centri martiriali del suburbio romano, presenta ancora, nella volta anulare, una decorazione musiva che combina semplici motivi geometrici all’asàroton di tradizione ellenistica e all'ancora più tradizionale repertorio dionisiaco. Per quanto riguarda la cupola, restano solo alcuni disegni rinascimentali che documentano lo sviluppo di un programma decorativo organizzato in dodici settori, per mezzo di complessi candelabri vegetali che assumono la fisionomia di cariatidi al fine di definire scene neo e veterotestamentarie calate in un habitat nilotico. Una tradizione tematica simile interessava a Roma, negli stessi anni, anche il Mausoleo di Elena nel complesso ad duas lauros della Via Labicana, e a Centcelles - in Spagna - il mausoleo, anch'esso decorato a m. e in gran parte conservato, con episodi biblici alternati a una generica materia cinegetica.
È ancora difficile collocare cronologicamente gli interventi decorativi del Mausoleo di Costantina, specialmente se si cercano relazioni tra le figurazioni della copertura e quelle che interessano le due absidiole, estremamente restaurate e corrette in alcuni salienti dettagli iconografici. Le due piccole calotte, come è noto, accolgono i due temi politico-religiosi della traditio legis o pacis (a seconda delle diverse letture dell'iscrizione, che si sviluppa sul rotolo sciolto sostenuto dal Cristo e offerto a Pietro) e dell'ancora più esplicita traditio clavium. La scelta e la polivalenza significativa del programma iconografico, il linguaggio stilistico eclettico, dissonante e peculiare della prima stagione figurativa cristiana di tipo monumentale conducono verso gli anni centrali del IV sec., in perfetta sintonia cronologica e tematica con le prime esperienze decorative degli edifici di culto, prima fra tutte quella che si dovette consumare nel perduto catino absidale dell'antico S. Pietro in Vaticano che, come pare sempre più probabile, doveva svolgere proprio il tema, fortemente simbolico, della traditio legis.
Tra le altre decorazioni musive perdute dei più antichi edifici di culto vanno anche ricordati l'arco trionfale della Basilica di S. Paolo fuori le mura, da riferirsi agli anni centrali del V sec. e, relativamente a un lasso cronologico appena più avanzato, il catino absidale della Basilica di S. Agata dei Goti. Quest'ultimo dispiegava un austero collegio apostolico stante attorno all'immagine di Cristo benedicente e assiso sul globo, secondo un assetto solenne e aulico, che rammenta un altro celebre monumento musivo perduto, quello che decorava, dagli anni '70 del V sec., l'abside di S. Andrea in Catabarbara, la basilica privata del prefetto di Roma Giunio Basso.
Più calate nell'atmosfera paradisiaca della cultura figurativa cristiana delle origini sembrano risultare le decorazioni musive delle absidi delle basiliche di Cimitile e di Fondi, dove secondo quanto si apprende dall'epistolario di Paolino di Nola, si snodava un po' tutto l'alfabetario simbolico oltremondano, complicato e arricchito da inequivocabili accenti apocalittici: dall'Agnello mistico alla croce gemmata, dalla mano divina alla colomba-Spirito Santo.
Tornando a Roma, essendo perduti i m. absidali delle primitive chiese di S. Giovanni in Laterano e di S. Pietro in Vaticano, quello della Ecclesia Pudentiana è il più antico conservato, risalendo alla fine del IV sec., o meglio al pontificato di Innocenzo I (401-417). Al centro della composizione domina un Cristo barbato e nimbato in abiti regali su un trono gemmato, con un codex aperto nella sinistra, attorniato dal collegio apostolico. Le figure femminili, poste alle spalle di S. Pietro e di S. Paolo nell'atto di porre una corona sul loro capo - o di offrire l’aurum coronarium al Redentore, secondo un'altra interpretazione - sono viste più come allegorie delle due Chiese (quella dei Gentili e quella degli Ebrei), che non come le sante Pudenziana e Prassede, secondo quanto si era ipotizzato in passato, anche basandosi su due scomparse immagini della volta della nicchia di fondo del Mausoleo di Costanza e a quelle - tuttora conservate - del m. di controfacciata di S. Sabina.
Il m. - come ha dimostrato il Matthiae - subì nel corso dei secoli profondi restauri (si è calcolato che essi investirono quasi due terzi della composizione) e notevoli mutilazioni nel 1588. Allora il restringimento dell'abside portò alla soppressione dei due Apostoli che si trovavano alle estremità della conca e della fascia inferiore, in cui in un primo tempo fu salvato, al centro, l'Agnello divino, sacrificando gli altri dodici, come mostra un disegno del Ciacconio. Nel 1711, però, la costruzione del nuovo altare maggiore causò la distruzione anche di quest'ultima immagine. Un restauro particolarmente massiccio interessò poi l'abside nel 1831.
Molto efficace è lo sfondo della scena simbolica, con un cielo cosparso di nubi di vari colori, su cui si stagliano architetture classiche, un portico e un'esedra, che costituiscono le ideali quinte della raffigurazione. In questa visione della Gerusalemme celeste si sono volute vedere - raramente, in verità, con argomentazioni del tutto convincenti - riferimenti precisi alla Gerusalemme terrena del IV sec. in cui Costantino aveva già edificato l'articolato complesso dell’Anàstasis, oppure a una visione idealizzata di Roma. Comunque, sembra opportuno rilevare che fanno qui la loro prima apparizione anche i simboli degli evangelisti, simmetricamente disposti nella parte superiore della composizione e tipologicamente desunti dalla visione di Ezechiele e dall'Apocalisse giovannea.
Il centro ideale della rappresentazione è costituito dalla croce gemmata, simbolo di martirio divenuto trionfale, come già nei sarcofagi di passione, posta sul monte allusivo al Golgota.
Il m. di S. Pudenziana, considerato espressione significativa dell'arte teodosiana e onoriana, ma ancora profondamente legato alla tradizione romana, è stato variamente interpretato, accentuando di volta in volta il suo significato storico o metafisico, l'unitarietà della visione di Cristo rex e iudex, o un possibile riferimento alla seconda parusìa.
Si conserva solo la parte inferiore del m. di controfacciata della Basilica di S. Sabina, con la lunga iscrizione dedicatoria, a lettere d'oro su fondo blu, che ricorda papa Celestino I (422-432) e il presbitero Pietro d'Illiria, fautore e committente della costruzione dell'edificio di culto. Il Liber Pontificalis attesta, però, che essa poté essere consacrata solo da Sisto III (432-440). Alle estremità due figure femminili stanti, frontali, ma leggermente volte verso il centro, rappresentano - come con ogni probabilità a S. Pudenziana - la Eclesia ex circumcisione e la Eclesia ex gentibus, come suggeriscono due didascalie site ai loro piedi. La prima, allegoria della Chiesa dei Giudei, vestita nei toni del bruno, reca nelle mani un codex aperto con lettere indicate da tessere separate, per indicare la lingua ebraica, con allusione al Vecchio Testamento; la seconda, immagine della Chiesa dei Gentili, indossa tunica e palla e la grafia del libro, che mostra dischiuso, appare a «zig-zag», a imitazione della corsiva occidentale e per indicare il Nuovo Testamento. Si è notato più volte che esse sono caratterizzate da un marcato realismo, ormai lontano, però, dal naturalismo di matrice classica.
Il pannello rettangolare è contornato da un fregio vegetale di un verde intenso su fondo d'oro ed era un tempo sormontato, negli spazi fra le finestre di facciata, dalle figure di S. Pietro e di S. Paolo - posti in corrispondenza con le due Chiese - e superiormente dai simboli degli evangelisti e dalla mano divina. Lo testimonia un prezioso disegno, eseguito dal Ciampini alla fine del XVII sec., prima delle trasformazioni che portarono alla sua distruzione. La medesima fonte ha trasmesso anche una riproduzione del perduto m. dell'arco absidale, in cui erano raffigurati clipei con il Cristo, apostoli ed evangelisti, con le due simboliche città di Gerusalemme e Betlemme.
Per la prima volta nella basilica romana di S. Maria Maggiore i m., che decorano la navata centrale e quello che era originariamente l'arco absidale, sono strutturati in una composizione ciclica, sui cui prototipi iconografici tuttora si discute. Come è stato evidenziato di recente (M. Andaloro, 1987), si tende ora da parte di alcuni a sfumare il legame che l'opera avrebbe con la politica di papa Sisto III e le risoluzioni del Concilio di Efeso del 431, ponendo maggiormente l'accento su influssi esegetici degli scritti di S. Agostino e di S. Leone Magno (ma, in realtà, le opere di quest'ultimo sono posteriori ai m.). In particolare, un capitolo (il VI) del De Civitate Dei potrebbe essere per alcuni alla base del programma iconografico della navata, con i diversi pannelli - sono superstiti dodici nella parete sinistra e quindici nella destra - che hanno come protagonisti patriarchi e personaggi del Vecchio Testamento (Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè), visti come momenti dell'attuazione di due delle tre promesse fatte dal Signore ad Abramo, concluse con la nascita del Salvatore, tema dominante dell'arco absidale. A proposito di quest'ultimo, si è anche ipotizzato che la celebrazione della Madre di Dio e del ciclo dell'infanzia di Cristo - con episodi desunti dagli scritti apocrifi - possano avere una qualche relazione con la diffusione della festa liturgica di Maria, un tempo coincidente con quelle natalizie.
La perdita del m. del catino absidale (e di quello della controfacciata) rende il discorso interpretativo mutilo, mancando il tassello conclusivo che completava il disegno ispiratore degli spazi decorati. Sembra poco probabile, comunque, che navata e arco appartengano a due momenti diversi, mentre le innegabili differenze stilistiche sono state imputate alla presenza, in fase esecutiva, di diversi musivarì (cinque nell'arco e otto nell'aula).
Fra le scene dell'arco, strutturate in quattro fasce, qualcuna resta forse di non certissima identificazione, come quella - ispirata dagli Apocrifi - di Afrodisio di Sotine, recatosi al Tempio per adorare il Bambino, che aveva distrutto tutti gli idoli pagani. Altre, pur ripetendo schemi noti, contengono significative novità compositive, come l'offerta dei doni da parte dei Magi, con il piccolo Gesù seduto su un trono gemmato e affiancato da due figure femminili (Maria e la sacerdotessa Anna, oppure - per altri - la personificazione della Chiesa). Già nei sarcofagi precedenti era apparso, poi, l'episodio dei Magi al cospetto di Erode, come pure qualche antecedente si può trovare per la strage degli innocenti. Raramente attestate sono anche l'annunciazione a Maria, il sogno di Giuseppe, la presentazione al Tempio e la fuga in Egitto. Al di sotto della raffigurazione dell’Etimasìa, il trono vuoto con la corona e la croce, preannuncio della seconda venuta del Cristo, una sintetica iscrizione specifica che l'opera è stata compiuta da Sisto III per il popolo di Dio.
Come succederà per altri m. romani di cronologia più avanzata, quelli di S. Maria Maggiore da un lato si pongono nell'ambito della tradizione, dall'altro preannunciano tendenze che si svilupperanno soprattutto in ambito bizantino.
Altro monumento iconografico di grande rilievo è il m. absidale della Basilica dei Ss. Cosma e Damiano, sia pure in alcune parti sfigurato da avventati restauri del passato, considerato opera fondamentale ed eccezionale nel panorama artistico romano fra epoca paleocristiana e medievale (M. Andaloro). Essendo molto carente la documentazione conservata sulla decorazione musiva romana del V sec., si può solo ipotizzare che fosse a essa legato e ne fosse, in qualche modo, la conseguenza, mentre appare innegabile la sua influenza nelle manifestazioni artistiche successive, fino al Trecento.
L'opera, risalente all'epoca di papa Felice IV (526-530) anche per quanto concerne il catino dell'arco absidale - quest'ultimo era stato invece datato da alcuni, con scarsa probabilità, all'età di Sergio I (692-701) - colpisce ancora oggi per la sua potenza espressiva, ma bisogna tener conto che originariamente il pavimento era a un livello notevolmente inferiore a quello attuale e quindi tale effetto era sensibilmente attenuato. La figura del Cristo, solenne e barbato, si staglia in un cielo blu intenso con nubi variopinte al centro della composizione, fra Pietro e Paolo, che introducono i Santi Anargiri recanti le corone del martirio, accompagnati da papa Felice (falsato da troppi restauri) con il modellino della chiesa e da S. Teodoro. Quinte ideali della scena sono due alte palme, su una delle quali è posata la fenice. Nella fascia inferiore, secondo uno schema noto, alla figura di Cristo si contrappone l'Agnus Dei nimbato sul monte paradisiaco, contornato dai dodici agnelli che escono dalle due simboliche città.
Nell'arco si ritrovano i simboli degli evangelisti, sette candelabri, il trono gemmato con il mistico agnello, quattro angeli-cavalieri e due schiere di profeti, oggi solo parzialmente conservati. Sono temi che rimandano all'Apocalisse di S. Giovanni. Dal punto di vista stilistico, il m. presenta caratteri apparentemente contrastanti: da un lato è ancora molto legato alla classicità e ai precedenti esemplari romani, dall'altro preannuncia l'arte giustinianea.
Alla seconda metà del VI sec. risale la decorazione musiva absidale della chiesa di S. Teodoro al Palatino, che risente solo marginalmente della composizione dei Ss. Cosma e Damiano, ma fu pesantemente restaurata soprattutto nel XVII secolo. Comunque, una più marcata astrazione, un senso di maggiore trascendenza e l'assenza di qualsiasi cenno paesistico avvicinano maggiormente la composizione a modi più squisitamente bizantini.
Essa mostra, su un fondo d'oro, un Cristo nimbato sul globo stellato, con una croce astile nella sinistra, sormontata dalla mano divina sorreggente una corona. Pietro e Paolo introducono due santi, probabilmente S. Teodoro e S. Giorgio, o un secondo omonimo S. Teodoro. L'abside è contornata da una fascia di girali di acanto, con fiori gialli e rossi.
Appartiene allo stesso periodo la decorazione dell'arco trionfale della basilica pelagiana di S. Lorenzo fuori le mura a Roma (578-590), che accoglie una teoria di figure sante che fanno stuolo attorno all'immagine di Cristo-pantokràtor sul globo. Attorno alla figura del Salvatore si crea come un'area di rispetto, potenziata dal gelido e irreale cielo aureo che suggerisce come una sorta di indugio da parte dei convenuti nel porsi dinanzi all'eccezionale stavroforo che, comunque, sembra emanare la sua tipica cifra, attribuendola a Pietro e a Lorenzo, che, assieme al papa committente Pelagio II, a Stefano, Ippolito a Paolo, compongono lo straordinario santorale figurato.
Passando da Roma a Milano - che dal 286 al 402 fu una delle capitali dell'impero, assumendo una funzione di primo piano dal punto di vista artistico oltre che politico - la Cappella di S. Aquilino, nel complesso monumentale di S. Lorenzo, pare denunciare per la decorazione musiva una cronologia contenuta ancora entro il TV sec., collocandosi perfettamente nel più laborioso momento sperimentale della rinascenza teodosiana. Orientano in tal senso non tanto e non solo la severa rassegna dei patriarchi situata nell'atrio dell'edificio, ma specialmente l'articolato consesso apostolico immerso in un improbabile cielo aureo, ancora declinato nell'antica chiave filosofica, ma come sbalordito, negli sguardi perduti e diversamente diretti, dinanzi a un Cristo fanciullo, issato su un trono elevato, irraggiungibile.
Il programma di quest'abside così preziosa, così eguale nella profusione monocromatica del tessellato aureo, come per rendere l'idea di una mistica visione, e dell'altra, che recupera un episodio biblico assai frequentato in quegli anni, quello dell'ascensione di Elia, mettono a contatto con una realtà iconografica estremamente fluida, di libera circolazione tra classe e classe monumentale, se i temi qui svolti ritornano, nello stesso scorcio di tempo, in due monumenti celebri del periodo: gli affreschi dell'ipogeo di Via Dino Compagni a Roma e i rilievi che decorano il sarcofago c.d. di Stilicone, conservato nella Basilica di S. Ambrogio a Milano.
Contatti continui avvicinano, nel momento paleocristiano, la materia iconografica funeraria, basilicale e battisteriale. Ne è testimonianza un brano musivo ancora in situ nella volta a botte di una delle nicchie del battistero di Albenga, da riferire al pieno V secolo. Nel suggestivo florilegio, il fulcro della figurazione è costituito da un singolare disco di luce azzurrata, entro il quale si triplica simbolicamente il cristogramma apocalittico, di genesi e fortuna presumibilmente funeraria, contornato da dodici colombe-apostoli di ascendenza plastica e cultuale, se ci si riferisce al decoro dei bordi delle mense di altare, e definito da un geometrico cielo stellato, anch'esso già molto diffuso in ambito funerario e battisteriale. Nella lunetta, commentata da una robusta e calligrafica cornice vitinea, si staglia un emblema zoomorfo, composto da una coppia di ovini affrontati alla croce gemmata. È intuitivo l'intreccio semantico, che aggancia una decisa risposta ortodossa alla polemica trinitaria ancora sul tavolo del dibattito teologico, alla fluente e sempre più ricca materia apocalittica, che ritorna, p. es., nella cupola mosaicata della chiesa di S. Maria di Casaranello, nel Leccese, da ascrivere ancora al V secolo. Anche in questo documento, infatti, un disco celeste, trapunto di stelle, del tipo che oscilla al centro del catino del ravennate S. Apollinare in Classe, propone un'elementare, ma saliente scala di toni dell'azzurro, come per commentare l'apparizione della croce aurea, disposta nel mezzo, simile a un prezioso castone, secondo la medesima organizzazione che vede al centro di un cupolone dorato un clipeo vegetale, includente il busto del martire Vittore, nel sacello omonimo annesso alla Basilica di S. Ambrogio a Milano. L'intervento decorativo, che si fa risalire alla fine del V sec., comprende anche le immagini dei più famosi santi milanesi: Ambrogio, Gervasio, Protasio, Nabore, Felice, Materno.
A una medesima cronologia si deve fare riferimento quando si considerano i m. che impreziosiscono e monumentalizzano il sacello di S. Matrona nel Duomo di S. Maria, poi S. Prisco, nella omonima località presso S. Maria Capua Vetere. Il programma iconografico di questa cappella funeraria, dove fu sepolta Matrona (principessa di Lusitania devota al martire locale che l'aveva guarita da una malattia), chiama a raccolta tutti gli elementi caratterizzanti il più antico repertorio cristiano, specialmente nella contestualizzazione paradisiaca, che combina un profondo cielo azzurrato con un'intricata vegetazione nella quale si alternano geometricamente piante altamente simboliche, come la vite e la palma. Ma il sostrato paleocristiano si arricchisce e peculiarizza quando da una delle lunette, coperta da un oscuro tessellato azzurro, emerge in tutta la sua ieraticità l'icona-busto del Cristo barbato e nimbato, incluso in una leggera cornice circolare, tra l'Α e l’Ω che delineano tutto il programma in chiave marcatamente apocalittica, secondo quanto denuncia anche la presenza del megalografico disegno del tetramorfo (il leone è, fra i quattro, il simbolo che ha sofferto maggiori restauri). Significativa, fra il bue e l'aquila, è la presenza del volume dei Vangeli con una colomba sul trono gemmato, allusione alla seconda Parusìa, già ricorrente in altri contesti iconografici, e soprattutto a S. Maria Maggiore a Roma.
Nel settore oggi perduto era invece raffigurata - come attesta un disegno del 1630 - una croce coperta di gemme posta su una roccia, affiancata da dodici colombe disposte in file di tre. Fino al XV sec. - e parzialmente ancora fino al 1759 - erano visibili anche i m. della cupola e dell'abside primitiva della chiesa del VI sec. a cui era annesso il sacello, ma se ne conservano solo descrizioni piuttosto generiche e disegni non sempre fedeli.
Mentre i caratteri stilistici di S. Prisco risentono ancora del naturalismo dell'arte classica, per lo schema decorativo del sacello si sono richiamati diversi monumenti, da S. Vitale a Ravenna all'abside della basilica paoliniana a Cimitile, fino agli affreschi del cubicolo di S. Gaudioso a Napoli. Questi m., in relazione con quelli partenopei e nolani, sono visti come ulteriore prova della presenza di una scuola di mosaicisti in Campania, particolarmente attiva fra V e VI secolo/.
Fra le poche decorazioni musive battisteriali giunte fino a noi un posto di rilievo occupa indubbiamente quella di S. Giovanni in Fonte a Napoli, eseguita fra la fine del IV e l'inizio del V secolo. Un cielo stellato di un azzurro intenso fa da sfondo a una croce monogrammatica a tessere d'oro, su cui la mano divina pone una corona d'alloro. Tutto intorno si snoda una fascia, trattata con notevole cromatismo e ricca di temi zoomorfi e fitomorfi desunti dal repertorio figurativo paleocristiano, fra cui si distinguono pavoni e altri volatili, fiori, kàntharoi, frutta e in alto la fenice, noto simbolo di rigenerazione. Completano il ricco apparato decorativo della cupola otto settori trapezoidali, contenenti scene cristologiche e, negli spazi angolari e in quelli fra le finestre, simboli evangelici, figure di santi locali o di apostoli, episodi neotestamentarî.
Nel m. napoletano, si è vista la mano di una bottega coordinata da un solo maestro; per l'unità stilistica che lo contraddistingue, interventi abbastanza marginali sarebbero individuabili da parte di un secondo artifex solo in qualche pannello.
All'estremo lembo nord-orientale della penisola, di cui artisticamente ancora fa parte, un esempio significativo di decorazione musiva si trova in Istria, laddove si possono avvertire molti punti di contatto con la produzione ravennate. Si tratta della basilica eufrasiana di Parenzo, databile intorno alla metà del VI secolo. Essa copre l'arco e il catino absidale, nonché la zona immediatamente a esso sottostante.
Nella conca completamente dorata con nubi dai colori irreali, in un'atmosfera avulsa da qualsiasi legame spaziale o temporale, fra due angeli è raffigurata la Theotòkos, ossia la Madonna in trono col Bambino in braccio, restaurati in modo parzialmente discutibile alla fine del secolo scorso; a sinistra didascalie identificano S. Mauro, patrono della città ed eponimo della basilica, insieme con la Vergine. Seguono il vescovo Eufrasio, che reca il modellino della chiesa, l'arcidiacono Claudio con un evangeliario nelle mani (evidentemente fu il responsabile dei lavori) e il piccolo Eufrasio, suo figlio. A destra, caratterizzati da un'iconografia maggiormente stereotipata e di maniera compaiono tre santi, privi di iscrizioni, ma riconosciuti come gli altri patroni di Parenzo, S. Eleuterio, S. Proietto e forse l'accolito S. Elpidio. Le figure procedono su un prato cosparso di gigli e rose.
Sotto la composizione corre un'iscrizione in versi, celebrativa dell'opera di Eufrasio che demolì la chiesa precedente, in precarie condizioni, per costruire quella nuova, consacrandola nel nome di Cristo. Altre raffigurazioni occupano gli spazi fra le quattro finestre sottostanti: al centro un arcangelo con un globo crociato in mano, ai lati S. Zaccaria con un incensiere e S. Giovanni Battista (molto restaurato). Negli spazi tra le finestre e l'imposta dell'abside due pannelli mostrano l'Annunciazione con Maria che fila la porpora - come nel m. di S. Maria Maggiore a Roma secondo un'ispirazione dai Vangeli apocrifi - e la Visitazione, in cui una piccola ancella che scosta una tenda dà un tocco di vivacità alla composizione.
Alla sommità dell'arco absidale Cristo, seduto sul globo con un codex aperto e la scritta ego sum lux vera, è attorniato dai dodici Apostoli, provvisti di didascalie e recanti corone, libri o Volumina (solo S. Pietro ha le chiavi). Questi m. subirono interventi decisi di restauro e sensibili integrazioni fra il 1890 e il 1897. Tredici medaglioni con figure di dodici sante e dell'Agnello mistico - oggi completamente rifatto e originariamente non accertato - decorano l'intradosso dell'arco, come nella Cappella Arcivescovile e a S. Vitale a Ravenna.
Altri m., parzialmente conservati ma non falsati da restauri, adornano le due absidiole, site alla fine delle due navatelle: in entrambe Cristo, squarciando le nubi, incorona due santi, a sinistra Cosma e Damiano (restano alcune lettere che li identificavano), a destra Severo e, forse, Ursus, ambedue vescovi ravennati, già effigiati a S. Apollinare in Classe. La composizione richiama, in tutti e due i casi, quella dello scomparso affresco absidale dell'Oratorio di S. Felicita presso le Terme di Tito a Roma.
Altri m. decoravano originariamente la Basilica Eufrasiana nella parte superiore della facciata: sul timpano il Cristo con otto Apostoli, di cui restano solo poche vestigia; ai lati della finestra centrale, invece, sette torce apocalittiche e due coppie di santi, in gran parte ricostituite in occasione di un intervento di ripristino del 1886. Quasi completamente perduta è anche la rarissima decorazione della parte posteriore esterna dell'aula, forse relativa a una scena di Trasfigurazione. In ogni caso, i m. parentini costituiscono uno dei più interessanti complessi nel panorama della cultura figurativa del VI secolo.
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(F. Bisconti - D. Mazzoleni)