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Mosè

di Lucio Biasiori - Enciclopedia machiavelliana (2014)
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Mosè

Lucio Biasiori

Non si farà torto a un autore che si rivolgeva a «chi legge la Bibbia sensatamente» (Discorsi III xxx 17), se si considerano come parte del suo patrimonio mitico anche i personaggi menzionati nella Bibbia. In effetti, Mosè viene trattato da M. alla stregua di altri mitici fondatori di regni, come Romolo (→ Romolo e i re di Roma) o Teseo (→; Principe vi 7), e come esempio della

regola generale che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo fuora degli ordini vecchi riformato, se non è ordinato da uno; [...] come Moises, Licurgo, Solone ed altri fondatori di regni e di republiche (Discorsi I ix 5-14).

Mosè era una figura centrale nell’immaginario della Firenze di M.: mentre i teologi scolastici lo consideravano il capo di un governo misto, per i filosofi ermetici era una sorta di mago ed esponente della prisca theologia. Se tutto questo rimane sullo sfondo del Mosè machiavelliano, decisivo è il trattamento a lui riservato da Girolamo Savonarola, per il quale «fu il ruolo di Mosè quale legislatore e severo disciplinatore che assunse la più grande importanza» (Brown 1988, p. 60). Savonarola ebbe a paragonare molte volte l’azione di Mosè nei confronti degli Israeliti alla propria nei confronti dei fiorentini, soprattutto nelle prediche su Giobbe e sui Salmi. I passi di alcune di queste prediche presentano indubbie consonanze con le opere di Machiavelli. Un esempio significativo è la predica sui Salmi del 12 luglio 1495, quando Savonarola affermò che

nelli principii della legge bisogna sempre una severa iustizia [...] vedi Moisè nel principio della legge fece morire uno solamente perché coglieva le legne el sabbato [...] voi siate pietosi e non vi accorgete che la vostra è pietà crudele (cit. in Brown 1988, p. 68 nota 23).

In questo caso il pensiero va non solo al già citato passo di Discorsi III xxx 17-18 («E chi legge la Bibbia sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a’ disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola», dove l’immediato riferimento al frate indica una probabile reminiscenza di quella predica), ma anche alla polemica antifiorentina di Principe xvii 2-3 («Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello essere stato molto più piatoso che il populo fiorentino, il quale per fuggire il nome di crudele, lasciò distruggere Pistoia») o alla «pietosa crudeltà» del re di Spagna Ferdinando il Cattolico in Principe xxi 5, esatto rovesciamento della «pietà crudele» dei fiorentini.

Del resto, M. ascoltò direttamente almeno le prediche di Savonarola sull’Esodo, quando egli tornò a paragonarsi a Mosè. Lo sappiamo dalla nota lettera a Ricciardo Becchi del 9 marzo 1498, una delle sue prime e già mature testimonianze epistolari:

L’altra mattina poi esponendo pure lo Esodo et venendo a quella parte, dove dice che Moyses amazò uno egizio, disse che lo egizio erono gli uomini cattivi, et Moyses el predicatore che gli amazava, scoprendo e vizii loro; e disse: O egizio, io ti vo’ dare una coltellata; et qui cominciò a squadernare e libri vostri, o preti, e trattarvi in modo che non n’arebbono mangiato e cani (Lettere, p. 7).

Forse fu proprio anche un tale trattamento fortemente attualizzante del personaggio biblico che suggerì a M., nella stessa lettera, il suo primo giudizio tutto politico sul domenicano ferrarese: «secondo el mio iudicio, viene secondando e tempi, e le sua bugie colorendo» (p. 8).

Mosè e Savonarola si ritroveranno invece contrapposti in Principe vi 7-8, dove gli insistenti paragoni che Savonarola aveva fatto di sé stesso con Mosè venivano implicitamente confutati:

Ma, per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che e’ più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen debbe essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio.

M. trattava il dialogo tra Dio e Mosè «che ebbe sì gran precettore» con evidente ironia. Ciò non toglie che Mosè, tanto per l’occasione («Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e oppresso dalli egizi, acciò che quegli per uscire di servitù si disponessino a seguirlo») quanto per «la eccellente virtù che fece quella occasione esser conosciuta», operò in modo che «la sua patria ne fu nobilitata e diventò felicissima» (vi 15). Il contrario avvenne nel caso di Savonarola: siccome

la natura de’ populi è varia, e è facile a persuadere loro una cosa ma è difficile fermargli in quella persuasione [...] conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono potuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra’ Ieronimo Savonerola; il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi come la moltitudine cominciò a non credergli: e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti (vi 22-23).

La differenza sostanziale tra Mosè e Savonarola era dunque, per M., che il primo era un «profeta armato» e il secondo un «profeta disarmato», destinato fatalmente all’insuccesso e alla «ruina» (vi 22).

Un altro paragone irriverente nei confronti di Mosè si ha in Discorsi II viii 17-19, a proposito delle violente «inondazioni» di popoli verso altri Paesi, dove l’esodo degli ebrei dall’Egitto alla terra promessa viene paragonato alle invasioni barbariche che posero fine all’impero romano:

Con violenza entrano ne’ paesi d’altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono lo Imperio romano.

Mentre «Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di Sorìa occupata da lui», diverso era il caso di Enea, da M. presentato come possibile fondatore di Roma in alternativa a Romolo. A differenza di Mosè, Enea aveva trovato terreno vergine, dimostrando così la «virtù dello edificatore» (Discorsi I i 12).

Il trattamento machiavelliano di Mosè, così come quello del re David (→) affondava, infine, nel ruolo esemplare che l’antico Israele aveva per lui. Ciò traspare dalla lettera ai Dieci del 26 novembre 1509, in cui M. descrive l’attaccamento dei cittadini della terraferma veneta alla madrepatria Venezia dopo la rotta di Agnadello:

Nelli animi di questi contadini è entrato uno desiderio di morire e vendicarsi, che sono diventati più ostinati ed arrabbiati contro a’ nimici de’ Viniziani che non erano e’ Giudei contro a’ Romani. E tutto dì occorre che uno di loro, preso, si lascia ammazzare per non negare el nome viniziano [...] di modo che, considerato tutto, è impossibile che questi Re tenghino questi paesi con questi paesani vivi (LCSG, 6° t., pp. 386-87).

La resistenza degli ebrei ai Romani – probabilmente nota dalla Guerra giudaica di Giuseppe Flavio – non solo serviva a M. da esempio di come i «paesani» della terraferma veneta fossero potuti rimanere «ostinati e arrabbiati», ma esemplificava le capacità di resistenza di un popolo contro i dominatori stranieri, tema, come è noto, al centro del Principe e delle altre sue opere maggiori.

Bibliografia: A. Brown, Savonarola, Machiavelli and Moses: a changing model, in Florence and Italy: Renaissance studies in hon our of Nicolai Rubinstein, ed. P. Denley, C. Elam, London 1988, pp. 57-72.

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