Abstract
Vengono esaminate le funzioni e il contenuto della motivazione delle decisioni civili, facendo particolare riferimento alle modifiche apportate dalla l. 18.6.2009, n. 69 alle norme del codice dedicate alla motivazione della sentenza, e segnalando come dette modifiche si collochino in un più vasto percorso di riforme, volto a semplificare i modelli di decisione in attuazione del principio di ragionevole durata del processo. Inoltre, dopo aver preso in considerazione le prospettive di riforma, che puntano all’introduzione della cd. motivazione a richiesta, si affronta il tema del controllo dei vizi della motivazione nell’ambito del giudizio di cassazione, alla luce della riformulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., recentemente disposta dalla l. 7.8.2012, n. 134. Dai diversi profili considerati emerge come le pressanti esigenze di economia processuale abbiano favorito una progressiva tendenza a sminuire la rilevanza della motivazione, tale da mettere in gioco il suo pieno significato di garanzia costituzionale.
La motivazione della sentenza – e più in generale dei provvedimenti, anche diversi dalla sentenza, con i quali il giudice assolve alla sua funzione decisoria – costituisce uno degli istituti del processo civile su cui si è maggiormente rivolta l’attenzione del legislatore negli ultimi anni.
Al riguardo occorre tener presente che le innovazioni concernenti questa fondamentale garanzia giurisdizionale, e in particolare le sue concrete modalità di attuazione, non si esauriscono nelle modifiche apportate dalla l. 18.6.2009, n. 69 alla scarna disciplina della motivazione della sentenza contenuta nel c.p.c., con le quali si è inteso snellire il contenuto della motivazione stessa. Detto intervento si colloca infatti nel contesto di un più ampio percorso di riforme, essenzialmente volto ad introdurre modalità di decisione (e quindi anche di motivazione) più agili rispetto alla tradizionale conformazione della sentenza.
Ci si riferisce, in primo luogo, alla previsione – introdotta nel 1998 con la riforma del giudice unico – della possibilità che la sentenza sia pronunciata, immediatamente dopo la discussione orale della causa, mediante lettura in udienza del dispositivo e contestualmente della motivazione, così come stabilisce l’art. 281 sexies c.p.c. per il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (tra l’altro ricalcando quanto già in precedenza era stato previsto per giudizi dinanzi al pretore dall’abrogato art. 315 c.p.c.). La possibilità di sentenza a verbale è stata poi più recentemente estesa – per opera della l. 12.11.2011, n. 183 – anche all’ordinario giudizio di appello (mediante l’aggiunta, all’art. 352 c.p.c., di un ultimo comma che fa espresso rinvio all’art. 281 sexies c.p.c.), ma già la motivazione orale era nel frattempo divenuta la regola nel rito del lavoro ai sensi dell’art. 429 c.p.c. (come modificato dalla l. 6.8.2008, n. 133), che riserva il deposito della sentenza ai casi di particolare complessità della controversia.
In secondo luogo, occorre accennare al fatto che gli obiettivi di semplificazione sono stati perseguiti anche per altra via, ossia col ridurre progressivamente le ipotesi in cui il giudice decide pronunziando sentenza. In diversi casi, anziché la classica forma di decisione, si è infatti preferito adottare la forma dell’ordinanza: il principale esempio è quello dell’ordinanza che conclude il procedimento sommario di cognizione di cui agli art. 702 bis ss. c.p.c. (introdotto dalla già ricordata riforma del 2009), che per espressa previsione è idonea ad acquisire autorità di cosa giudicata.
Va da sé che questa evoluzione si è svolta sotto la spinta delle pressanti esigenze di economia processuale cui deve far fronte il nostro sistema di giustizia civile, che ancora stenta – in una situazione di perdurante ristrettezza di risorse – ad uscire da una profonda crisi di efficienza.
In questo contesto, nell’annoso dibattito sui mali che affliggono il processo civile, la motivazione è da tempo divenuta un nodo cruciale, a fronte della diffusa convinzione che i tempi occorrenti per la sua redazione rappresentino – secondo l’immagine ricorrente – il vero e proprio “collo di bottiglia” del processo, ovvero la principale causa della sua irragionevole durata. S’intende, pertanto, come il problema di fondo sia quello, delicatissimo, del contemperamento tra diversi valori costituzionali: segnatamente, in qual modo possa in concreto incidere sulla garanzia della motivazione l’attuazione del principio della ragionevole durata, di cui all’art. 111, co. 2, Cost.
Come ovvio, la primaria importanza che riveste la motivazione delle decisioni giudiziarie si misura anzitutto alla luce della norma costituzionale che ne sancisce l’obbligatorietà. Il principio per cui «Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati», ora riposto al co. 6 (ma originariamente contenuto nel co. 1) dell’art. 111 Cost., va chiaramente letto nel più generale contesto delle garanzie costituzionali inerenti alla funzione giurisdizionale. Posto in correlazione con altri principi dettati in tema di giurisdizione, se ne coglie la valenza strumentale, ossia di principio volto ad assicurare effettività ad altri principi sul piano della concreta amministrazione della giustizia: in questa prospettiva si sono approfondite le sue connessioni, da un lato, con i principi di indipendenza e di soggezione del giudice alla legge, e, dall’altro lato, con la garanzia della difesa (v. Taruffo, M., La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 398 ss.).
Peraltro, poiché la motivazione, nel suo pieno significato che emerge dall’analisi della sua struttura, è la giustificazione razionale della decisione (per l’approfondimento di questa nozione è imprescindibile il richiamo a Taruffo, M., La motivazione, cit., 265 ss.; Taruffo, M., Motivazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 2 ss.), il relativo obbligo può considerarsi già sotteso alla garanzia del «giusto processo regolato dalla legge», con cui esordisce lo stesso art. 111 Cost, dal momento che non potrebbe essere considerato «giusto», bensì esposto al pericolo di arbitrio, un processo a conclusione del quale non venissero spiegate le ragioni di fatto e di diritto della soluzione adottata con il procedimento giudiziario (così Monteleone, G., Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze, in Giusto proc. civ., 2013, 1; nel senso che la motivazione costituisce l’essenza stessa della giurisdizione v. già Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 500).
Né va trascurato che l’obbligo di motivazione trova riconoscimento anche a livello sovranazionale, dovendosi ritenere implicitamente ricompreso nei principi enunciati dall’art. 6 CEDU (in particolare, in quello di pubblicità), secondo quanto affermato in svariate occasioni dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (v. da ultimo la sentenza C. giust. UE, 6.9.2012, C-619/10, nel caso Trade Agency, sulla quale cfr. Marino, S., Obbligo di motivazione delle sentenze e ordine pubblico processuale nello spazio giudiziario europeo, in Riv. dir. proc., 2013, 982 ss.).
Mentre il dettato costituzionale prescrive l’obbligo di motivazione indistintamente per «tutti i provvedimenti giurisdizionali», le norme del codice di rito lo prevedono solo per la sentenza e l’ordinanza, disponendo l’art. 135, co. 4, c.p.c. che il decreto non è motivato, salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge (come ad es. nel caso di accoglimento o rigetto del ricorso per decreto ingiuntivo, ex art. 641, co. 1, e 640, co. 2, c.p.c., o in quello del decreto camerale ex art. 737 c.p.c.). Quest’eccezione all’obbligatorietà si giustificherebbe – secondo la prevalente opinione che in tal modo risolve il problema della sua compatibilità con il precetto costituzionale – in base al presupposto della natura prevalentemente amministrativa, o comunque non decisoria, in genere propria dei decreti.
La necessità della motivazione prevista dalle norme ordinarie si riconduce anzitutto alla funzione che essa tipicamente svolge all’interno del processo, quale strumento di controllo della decisione nelle fasi di impugnazione: non solo a garanzia del diritto di difesa delle parti – giacché queste mediante la motivazione sono poste in grado di effettuare una verifica del fondamento giuridico e fattuale della decisione, al fine della più precisa individuazione di eventuali vizi che possono costituire motivi di impugnazione – ma anche come mezzo conoscitivo che consente allo stesso giudice dell’impugnazione il razionale vaglio critico del provvedimento impugnato.
Sempre in una prospettiva interna al processo, la motivazione riveste inoltre un ruolo non trascurabile sia come strumento interpretativo per determinare l’esatto contenuto della pronuncia, sia come elemento costitutivo del valore del precedente: quest’ultimo profilo è anzi proprio quello che spiega la ratio dell’obbligo di motivazione delle sentenze di Cassazione, da riconnettersi quindi alla funzione nomofilattica di quest’ultima.
Alla luce dell’art. 111, co. 6, Cost., accanto alla funzione endoprocessuale (che comunque emerge dal dettato costituzionale, in relazione al successivo co. 7), deve però riconoscersi alla motivazione e al relativo obbligo anche l’importante e più ampia funzione di consentire la possibilità di un controllo esterno sull’operato dei giudici da parte della generalità dei cittadini, in ossequio ad una concezione democratica dell’esercizio del potere giudiziario. S’intende che questa funzione cd. extraprocessuale della motivazione risponde anche all’esigenza di consentire un controllo esterno da parte di altri organi dello Stato (o, sul piano disciplinare, da parte dello stesso ordine giudiziario). Ma essa esprime soprattutto un’elementare garanzia di trasparenza della giustizia di fronte all’opinione pubblica, posto che – come afferma l’art. 101, co. 1, Cost. - «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (sulla funzione extraprocessuale della motivazione v. ampiamente Taruffo, M., La motivazione, cit., 405 ss., nonché Andolina, I.-Vignera, G., I fondamenti costituzionali della giustizia civile, II ed., Torino, 1997, 191 ss.).
L’art. 132 c.p.c., nel dettare i requisiti di contenuto-forma della sentenza, stabilisce al co. 2, n. 4, che questa deve contenere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione». È poi l’art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c. a specificare che «la motivazione della sentenza» di cui al n. 4 dell’art. 132 «consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi».
Senza dubbio, ad emergere con maggiore evidenza da queste novellate disposizioni – oltre, naturalmente, alla classica summa divisio tra motivazione in fatto e motivazione in diritto – è il canone della concisione espositiva, cui deve (o meglio dovrebbe, trattandosi di una direttiva) attenersi il giudice nell’adempiere all’onere motivazionale; esso ricorre anche nel co. 2 dell’art. 118 disp. att. c.p.c., laddove si prescrive che «debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge ed i principi di diritto applicati». Quest’insistito richiamo alla concisione deriva da una preoccupazione del legislatore non certo ingiustificata, a fronte della ben nota e inveterata tendenza di molti giudici a motivare le decisioni in modo eccessivamente prolisso e sovrabbondante, con gli inconvenienti che ciò può comportare (v. al riguardo Evangelista, S., Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 164, che rileva come l’eccessiva prolissità possa determinare non solo l’aumento dei tempi di redazione e di deposito delle sentenze, ma anche incidere negativamente sulla chiarezza del decisum, in riferimento alla determinazione dei limiti oggettivi del giudicato ed al valore di precedente giurisprudenziale). In effetti appare ancora diffusa, e certo da scoraggiare, l’inclinazione a fare della motivazione una sorta di saggio di taglio dottrinale; ma è pur vero che tutto ciò ha propriamente a che fare con lo stile della motivazione, sul quale difficilmente possono incidere le norme, atteso che esso dipende piuttosto da fattori quali la cultura e la formazione professionale del giudice (v. in arg. Taruffo, M., La fisionomia della sentenza in Italia, in La sentenza in Europa. Metodo, tecnica e stile, Atti del Convegno internazionale per l’inaugurazione della nuova sede della Facoltà, Ferrara 10-12 ottobre 1985, Padova, 1988, 180 ss.).
Sta di fatto, però, che le modifiche apportate dalla l. n. 69/2009 alla disciplina in esame – specie se lette alla luce di ulteriori e più recenti interventi in tema di motivazione – rivelano la volontà del legislatore di affermare, in questa materia, un vero e proprio “primato della brevità”; al punto che – come più avanti si chiarirà – vedere ancor oggi nel dettato normativo soltanto una semplice, per quanto rafforzata, “raccomandazione” in tal senso, pare ormai riduttivo.
Volgendo lo sguardo a dette modifiche, si osserva anzitutto che l’attuale n. 4 dell’art. 132 c.p.c. non richiede più che la sentenza, prima della vera e propria “parte motiva”, rechi anche l’esposizione dello svolgimento del processo (che pure doveva essere «concisa»). Proprio perché la narrazione del processo esula dalla motivazione in senso stretto (talché secondo la giurisprudenza la sua mancanza non integrava un vizio di nullità della sentenza: v. ad es. Cass., 23.1.2001, n. 1170), l’abolizione di tale requisito può giudicarsi opportuna, nell’ottica del risparmio di tempo. Tuttavia essa solleva alcune perplessità, dal momento che mancando l’esposizione dello svolgimento del processo può risultare più difficile, se non impossibile, individuare gli eventuali vizi del procedimento che potrebbero aver giocato un’influenza determinante sulla decisione finale; si è inoltre osservato come talvolta il contenuto di quest’ultima non si spieghi se non alla luce di quanto accaduto nel corso del giudizio (ad es., nel caso in cui il giudice ometta di pronunciare su una domanda in ragione del fatto che essa è stata proposta tardivamente, ciò dovrebbe essere detto esplicitamente, e risultare con chiarezza il motivo per cui quella domanda era tardiva: Taruffo, M., La motivazione della sentenza, in Taruffo, M., a cura di, Il processo civile riformato, Bologna, 2010, 380). È perciò preferibile ritenere che, pur dopo la modifica dell’art. 132, n. 4, c.p.c. la motivazione della sentenza debba comunque contenere riferimenti alla vicenda processuale, qualora si tratti di elementi utili ad accertare la sussistenza di errores in procedendo o siano necessari per la stessa comprensione del contenuto della sentenza: si realizzerebbe altrimenti un vizio della motivazione relativo ad aspetti rilevanti della decisione.
Occorre poi segnalare, sempre a proposito del novellato n. 4 dell’art. 132 c.p.c., che ora in esso non viene più fatto riferimento ai «motivi» – come nella precedente versione – bensì alle «ragioni» di fatto e di diritto della decisione. Invero, non pare possibile attribuire a questa diversa scelta lessicale un qualche significato rilevante, dato che «addurre i motivi di una decisione significa proprio esporre le ragioni che la giustificano, e che esporre queste ragioni significa – appunto – motivare la decisione» (così Taruffo, M., La motivazione della sentenza, cit., 381). È quindi probabile che con questa correzione si sia voluto più semplicemente uniformare, sul piano terminologico, la definizione recata dall’art. 132 c.p.c. con quelle già contenute negli artt. 281 sexies e 429 c.p.c.
Assai più rivelatrici dell’intento del legislatore di semplificare, se non di ridurre, il vero e proprio contenuto motivazionale della sentenza sono invece le modifiche introdotte nel co. 1 dell’art. 118 disp. att. c.p.c., che a dispetto della sua collocazione costituisce norma importantissima, in quanto volta a spiegare in cosa «consiste» la motivazione. Ebbene, come già recitava la precedente formulazione, essa consiste nell’«esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione»: ora però, a seguito della riforma del 2009, la norma precisa altresì, da un lato, che detta esposizione deve essere «succinta», e, dall’altro lato, che la motivazione in diritto (ossia l’esposizione delle ragioni giuridiche) può svolgersi «anche con riferimento a precedenti conformi». Circa la portata attribuibile a quest’ultima precisazione – ossia l’innovazione concernente il riferimento ai «precedenti conformi» – si dirà nel paragrafo seguente, dal momento che l’argomento ricade nel più ampio tema della motivazione per relationem. Quanto invece all’aggiunta dell’aggettivo «succinta», si può facilmente desumere che con esso si sia voluto conferire maggiore incisività al canone della concisione già espresso nel n. 4 dell’art. 132 c.p.c., ponendo in tal modo in risalto soprattutto che la motivazione dev’essere contenuta in un testo breve e sintetico. È peraltro d’immediato riscontro che a dover essere «succintamente motivata», per esplicita previsione dell’art. 134 c.p.c., è sempre stata l’ordinanza: un dato, questo, da cui traspare abbastanza chiaramente la tendenza a ridurre (e non solo a semplificare) il contenuto della motivazione, fino a limitarlo al minimo indispensabile (su questa tendenziale equiparazione tra sentenze e ordinanze, sul piano della dimensione delle relative motivazioni, v. criticamente, tra gli altri, Rordorf, R., Nuove norme in tema di motivazione delle sentenze e di ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc., 2010, 135 s.).
Quanto sin qui osservato porta a formulare un primo, importante rilievo. A fronte di una simile evoluzione normativa, sembra alquanto limitativo ritenere che il requisito della brevitas si risolva in mera esortazione: più propriamente, esso si delinea infatti quale espressione di un più cogente e generale “principio di sinteticità degli atti”, volto ad informare (anche) contenuti e struttura della motivazione: principio, questo, che come noto ha trovato espresso riconoscimento nel processo amministrativo (v. l’art. 3, co. 2, c.p.a.), ma al quale non può ormai essere negata rilevanza anche nel processo civile (v. al riguardo Finocchiaro, G., Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2014, 853 ss.). Occorre perciò che la “cultura della motivazione” sia più fermamente indirizzata verso l’applicazione del canone della sintesi, mediante l’adozione di opportune prassi operative (v. al riguardo il decreto del Primo Presidente della Cassazione del 22.3.2011, n. 27, in Foro it., 2011, V, 183, con il quale sono state dettate regole sulla motivazione semplificata delle decisioni civili).
Al contempo, però, va sottolineato come la “stringatezza” della motivazione non possa giungere a costituire una sorta di alibi per la redazione di motivazioni incomplete o insufficienti. Detto in altri termini, si vuole che la motivazione sia essenziale e chiara (il che chiama in causa soprattutto, ma non solo, la frequente pratica degli obiter dicta: v. al riguardo Santangeli, F., Commento agli art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., in Nuove leggi civ., 2010, 837), non che rinunci ad essere una motivazione. Il problema riguarda in particolare la motivazione in fatto, che rischia di essere limitata alla mera enunciazione del risultato dell’accertamento: già del resto si è osservato come lo stesso art. 118 disp. att. c.p.c., laddove contempla la «succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa», sia norma fortemente criticabile (ed anzi di dubbia costituzionalità, in relazione all’art. 111, co. 6, Cost.), in quanto la mera «esposizione» dei fatti rilevanti non equivale affatto alla giustificazione razionale della decisione con cui questi fatti sono stati considerati come veri sulla base delle prove acquisite al giudizio (v. in tal senso Taruffo, M., La motivazione della sentenza, cit., 381 ss.). Ora, detto problema risulta indubbiamente aggravato a seguito della riformulazione del motivo di ricorso per cassazione di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., se – come hanno recentemente affermato le Sezioni Unite – la verifica in ordine alla sufficienza delle ragioni di fatto (in raffronto alle risultanze probatorie) esula dai nuovi e più ristretti confini che ha assunto il sindacato di legittimità sulla motivazione (v. al riguardo infra, § 6).
Nel complesso, e più in generale, è comunque innegabile che la riforma del 2009 abbia costituito una convalida, da parte del legislatore, del discutibile indirizzo della prevalente giurisprudenza che ammette la validità della cd. motivazione implicita: ovverosia l’orientamento secondo cui non è necessario – perché la motivazione sia adeguata e sufficiente – che il giudice motivi in ordine a tutte le deduzioni e difese delle parti, dovendosi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con le ragioni addotte dal giudice a fondamento del proprio convincimento (v. ad es. Cass., 2.7.2004, n. 12121, e più recentemente Cass., ord. 17.5.2013, n. 12123, precisando che diversamente la motivazione non potrebbe qualificarsi come «succinta» nel senso voluto dall’art. 118 disp. att. c.p.c.; criticamente sulla motivazione implicita v. Taruffo, M., Motivazione, cit., 4).
Una delle tecniche redazionali che maggiormente consentono la semplificazione dell’onere motivazionale del giudice è senza dubbio quella della cd. motivazione per relationem: in generale essa consiste nel motivare rinviando al contenuto di un altro atto, che in virtù di tale richiamo diviene parte integrante della motivazione, pur senza che questa ne rechi una trascrizione testuale. Solitamente l’atto al cui contenuto viene fatto riferimento è un altro provvedimento giurisdizionale, spesso richiamato quale precedente ai fini della motivazione in diritto; ma può essere anche un atto di altra natura (frequente ad es. è il rinvio alla relazione del consulente tecnico, che integra in tal caso la motivazione in fatto).
Il riconoscimento dell’ammissibilità della motivazione per relationem è venuto anzitutto dalla prevalente giurisprudenza, che ha cercato comunque di precisare limiti e condizioni entro cui tale tecnica può essere validamente impiegata. La Cassazione ha così soprattutto sottolineato l’esigenza che il contenuto dell’atto al quale viene fatto rinvio sia chiaramente individuato e conoscibile, giacché la valutazione in ordine alla completezza e logicità della motivazione per relationem va condotta sulla base degli elementi contenuti nell’atto cui si opera il rinvio: a tal proposito, si è anzi affermato che la necessità che il rinvio sia operato in modo tale da rendere possibile ed agevole detto controllo rappresenta un principio generale dell’ordinamento (desumibile dagli artt. 3 l. 7.8.1990, n. 241 e 7, co. 1, l. 27.7.2000, n. 212 per gli atti amministrativi, e a maggior ragione valido per l’attività del giudice: Cass., 25.9.2002, n. 13937; Cass., 16.1.2009, n. 979).
In particolare poi, quanto all’ipotesi della motivazione per relationem della sentenza d’appello, svolta mediante rinvio alla sentenza di primo grado, si è più volte affermato il principio secondo cui essa deve ritenersi legittima a condizione che il giudice del gravame, nel far proprie le argomentazioni del giudice a quo, mostri comunque – sia pure in modo sintetico – di aver esaminato e respinto le censure sollevate dalla parte soccombente attraverso i motivi d’appello e le conclusioni (v. ad es. Cass., 11.6.2008, n. 15483; Cass., 16.2.2007, n. 3636); il rinvio non può insomma risolversi in un mero recepimento acritico della soluzione adottata dal giudice di primo grado, senza che siano esposte le ragioni che hanno determinato il rigetto dell’impugnazione.
Sul piano normativo, una conferma dell’ammissibilità della motivazione per relationem la si ritrova ora nel novellato art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c., laddove, come già ricordato, è espressamente prevista la facoltà di motivare in diritto «anche con riferimento a precedenti conformi» (già in precedenza, peraltro, analoga previsione era contenuta nell’art. 16, co. 5, d.lgs. 17.1.2003, n. 5, per l’ipotesi di motivazione cd. “abbreviata” contemplata dall’abrogato rito societario). È verosimile che con «precedenti conformi» si sia voluto alludere in primo luogo alle pronunce della Corte di cassazione, data la funzione nomofilattica di quest’ultima; la lettera della norma non esclude però che siano richiamate anche decisioni di merito, quali precedenti del medesimo ufficio cui appartiene l’organo giudicante, oppure anche di altri tribunali o corti d’appello (il problema è semmai qui che deve comunque trattarsi di provvedimenti di facile reperibilità; v. in tal senso Cass., 12.2.2013, n. 3340).
Resta fermo che, in considerazione dell’esigenza di render possibile ed agevole il controllo della motivazione, questa dovrà comunque dar conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Cass., 22.5.2012, n. 8053); sono del resto note le distorsioni cui può dar luogo l’impiego, in qualità di precedente, delle massime della Cassazione. Ma certamente preoccupa il fatto che laddove la norma dice «anche con riferimento» a precedenti, si possa (o addirittura si debba) intendere «anche solo con riferimento» (si consideri che l’art. 361, n. 2, c.p.c. del 1865 stabiliva invece esplicitamente che la motivazione avrebbe dovuto considerarsi omessa, qualora si fosse limitata a richiamare i motivi di un’altra sentenza). Questo in effetti è il senso che lo stesso legislatore ha chiarito, con l’ultimo, episodico intervento attuato sull’art. 118 disp. att. c.p.c.: in virtù della modifica disposta dall’art. 79 del d.l. 21.6.2013, n. 69, poi soppresso in sede di conversione, il nuovo testo della norma legittimava un impiego massivo della tecnica per relationem, ossia «anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa» (su questo tentativo di ulteriore semplificazione della motivazione v. Porcelli, F., Le novità in materia di motivazione della sentenza, in Punzi, C., Il processo civile. Sistema e problematiche. Le riforme del quinquennio 2010-2014, Torino, 2015, 101 ss.).
Molto discutibile, infine, è anche la recente presa di posizione delle Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla validità della motivazione consistente nell’integrale trascrizione delle difese delle parti: ipotesi invero non riconducibile alla figura della motivazione per relationem, ma che di fatto ne costituisce un’alternativa, giacché al posto di un rinvio si ricorre alla ben nota tecnica del «copia e incolla», offerta dall’uso degli strumenti informatici. Ebbene, secondo Cass., S.U., 16.1.2015, n. 642 (sulla quale v. Bertillo, E., Sulla motivazione riproduttiva degli atti di parte, in Riv. dir. proc., 2015, 1292 ss.; Capponi, B., La motivazione «laica, funzionalista, disincantata», in Giusto proc. civ., 2015, 121 ss.; Grasso, G., La mera riproduzione di un atto di parte nella sentenza civile: diritto senza letteratura?, in Foro it., 2015, I, 1624 ss.; Marinelli, M., Sentenza con motivazione “copia-incolla” degli atti di parte: il via libera delle Sezioni Unite, in Riv. giur. trib., 2015, 755 ss.) non sussiste alcun vizio di nullità della sentenza qualora la motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza nulla aggiungervi – ovvero anche quando non siano esplicitate le ragioni della condivisione, da parte del giudice, delle tesi riprodotte – dato che «tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive». A quanto pare – ci si limita a rilevare sommessamente – morta e sepolta è l’esigenza che il giudice debba non soltanto essere imparziale, ma anche apparire tale.
Da tempo oggetto di acceso dibattito, la proposta di prevedere che la stesura della motivazione scritta sia subordinata ad una specifica richiesta di parte, allorché si tratti di provvedimento decisorio soggetto ad impugnazione, rappresenta senz’altro la soluzione più drastica per ridurre al massimo l’onere motivazionale del giudice, e conseguire per questa via un sostanzioso contenimento dei tempi di definizione dei giudizi. È del resto opportuno ricordare che l’istituto della motivazione «a richiesta» è adottato in alcuni ordinamenti, né mancano precedenti storici, seppur remoti, della sua applicazione anche in Italia (per effetto della legislazione austro-ungarica della seconda metà del XVIII sec.).
Tuttavia, è evidente come nel nostro ordinamento ogni progetto in tal senso debba previamente risolvere il delicatissimo problema della sua compatibilità con la previsione costituzionale dell’obbligo di motivazione: il chiaro dettato dell’art. 111, co. 6, Cost. non sembra in effetti concedere spazio alcuno ad una motivazione che sia soltanto facoltativa.
Secondo l’orientamento favorevole all’introduzione della motivazione a richiesta, l’ostacolo potrebbe però essere superato attraverso un’interpretazione non letterale delle norme costituzionali, analoga a quella che in tema di attuazione del principio del contraddittorio consente di affermare la legittimità della disciplina del procedimento monitorio. In sostanza – si dice – così come la previsione di un contraddittorio meramente eventuale e differito è ritenuta sufficiente ad assicurare la legittimità costituzionale delle norme in materia di decreto ingiuntivo, allo stesso modo dovrebbe allora ritenersi non incompatibile con la Costituzione una previsione della legge ordinaria che assicuri alla parte la possibilità di ottenere, su richiesta, la motivazione della decisione, in una fase successiva all’emanazione del provvedimento decisorio (v. Chiarloni, S., Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Riv. dir. proc., 2000, 1021 ss.; analogamente Porreca, P., La cosiddetta motivazione a richiesta nei giudizi civili, in Corr. giur., 2011, 705 ss.). Facilmente intuibile è, d’altro canto, la (buona) ragione per la quale l’idea della motivazione a richiesta è decisamente avversata da altra parte della dottrina: il ricollegare l’obbligatorietà della motivazione alla disponibilità delle parti, di fatto elide la funzione extraprocessuale della motivazione, svuotando così, in grande misura, il significato della garanzia costituzionale.
In attesa di più meditate scelte del legislatore, val la pena accennare a come è configurata la motivazione a richiesta (fatalmente divenuta motivazione “a pagamento”) nella sua recente traduzione in progetto di legge delega. Il d.d.l. n. 2092/C/XVII, presentato alla Camera il 12.2.2014, contiene una disposizione (art. 2, lett. b, punto 1) che delega il Governo a prevedere, limitatamente ai giudizi di primo grado, che il giudice possa definire il giudizio «mediante dispositivo corredato dell’indicazione dei fatti e delle norme che fondano la decisione e delimitano l’oggetto dell’accertamento, riconoscendo alle parti il diritto di ottenere la completa motivazione della decisione da impugnare, a richiesta e previo versamento di una quota del contributo unificato dovuto per l’impugnazione» (in argomento, v. Taruffo, M., Addio alla motivazione?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 383 ss.; Tota, G., Motivazione «a richiesta» nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2014, 613 ss.). Corre comunque l’obbligo di segnalare che, per il momento, in sede legislativa la proposta di introdurre la motivazione a richiesta sembra accantonata (non ve n’è infatti traccia nel più recente d.d.l. n. 2953/C/XVII, intitolato «Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile» e presentato alla Camera l’11.3.2015).
Pur in assenza di un’esplicita previsione nel vigente codice di rito, la mancanza di motivazione – che ricorre non solo nell’ipotesi in qui questa sia formalmente del tutto omessa (cd. difetto assoluto di motivazione), ma anche in caso di carenza sostanziale di motivazione, data dall’impossibilità di rinvenire in essa la ratio decidendi (cd. motivazione apparente) – determina la nullità della sentenza: ciò in base al combinato disposto degli artt. 132, n. 4, e 156, co. 2, c.p.c., verificandosi la mancanza di un requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo. Secondo la tesi prevalente, si tratta comunque di nullità che può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie degli ordinari mezzi di impugnazione, ai sensi del co. 1 dell’art. 161 c.p.c., con la conseguenza che essa resta sanata per effetto del giudicato (Evangelista, S., Motivazione, cit., 163 s.). Si è però autorevolmente obiettato che assoggettare a questo regime della nullità tutti i vizi della motivazione risulta adeguato soltanto allorché si faccia esclusivo riferimento alla funzione endoprocessuale della motivazione, rimanendo quindi nell’ottica in cui quest’ultima è regolata dalle norme del codice; diverse sono le conclusioni cui si può pervenire considerando l’importanza che la motivazione assume quale garanzia costituzionale. Alla luce dell’art. 111 Cost., assurgendo la motivazione a requisito indefettibile del corretto esercizio della giurisdizione, essa è infatti configurabile quale essenziale elemento “di struttura” della sentenza, al punto che si può dire che senza motivazione non v’è sentenza. Ne deriva – secondo questa impostazione – che nelle ipotesi in cui manchi il contenuto minimo essenziale della motivazione, la relativa sentenza dovrebbe considerarsi non solo nulla, ma inesistente, ovvero colpita da un vizio (come quello della mancata sottoscrizione, ex art. 161, co. 2, c.p.c.) che sopravvive al giudicato formale ed è sempre rilevabile in ogni successivo momento (Taruffo, M., La motivazione, cit., 462 ss.; cfr. anche Santangeli, F., L’interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996, 161 ss.).
Per quanto riguarda, più specificamente, il controllo della motivazione in sede di legittimità, ci si interroga, in dottrina, su quale sia la portata della recente riformulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., ove dapprima si prevedeva la possibilità di denunciare, mediante il ricorso per cassazione, l’«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». Viceversa, a seguito della riscrittura disposta dall’art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83 (convertito, con modificazioni, dalla l. 7.8.2012, n. 134), nel nuovo testo non compare più alcun esplicito riferimento alla motivazione, bensì la previsione secondo cui il ricorso è proponibile «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Palesemente, detta riscrittura del n. 5 persegue un fine deflazionistico (del resto evidente anche in altri contenuti del medesimo intervento di riforma: basti ricordare che allo stesso d.l. n. 83/2012 si deve l’introduzione del cd. “filtro” di inammissibilità dell’appello, di cui ai nuovi artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.): ad essa si è provveduto nel dichiarato intento (v. la Relazione di accompagnamento al d.d.l. di conversione) di arginare «l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di cassazione quale giudice dello ius costitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris». Il riferimento è qui ovviamente alla ben nota ed antica questione della censurabilità del vizio in discorso quale via impiegata dalle parti per invocare e ottenere surrettiziamente dalla Cassazione una nuova valutazione sul merito della controversia, al di fuori quindi dei limiti istituzionali del ruolo del giudice di legittimità; ed è superfluo avvertire che proprio in ragione delle sue ripercussioni sulla natura e sul ruolo della Suprema Corte, il sindacato da questa compiuto sulla motivazione in base al n. 5 – tradizionalmente riferito al solo giudizio di fatto – costituisce da sempre uno dei nodi problematici più complessi e dibattuti, anche e soprattutto in sede teorica.
Limitandoci al dato normativo e giurisprudenziale, per chiarire il significato e la portata della predetta riformulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. è comunque opportuno ricordare che il controllo sulla motivazione affonda le sue origini nella giurisprudenza della Corte di cassazione formatasi nella vigenza del c.p.c. del 1865, la quale lo enucleò per via interpretativa, estendendolo non solo ai casi di omessa motivazione, ma anche a quelli di motivazione insufficiente o contraddittoria (su questa vicenda v. ampiamente Taruffo, M., La motivazione, cit., 474 ss., nonché da ultimo Monteleone, G., Il controllo della Corte Suprema sulla motivazione delle sentenze. Evoluzione storica, in Riv. dir. proc., 2015, 874 ss.). Il legislatore del 1940 tentò in un primo tempo di limitare la portata del controllo, coniando per il n. 5 dell’art. 360 la formula dell’«omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Fu successivamente la riforma del 1950 a recepire, nella sostanza, la perdurante prassi giurisprudenziale incline ad un ampio e penetrante sindacato sulla motivazione, adottando per la prima volta nel n. 5 – con intenti di razionalizzazione – la formula dell’«omessa, insufficiente, o contraddittoria motivazione …» (poi destinata nel tempo a subire variazioni in senso restrittivo quanto alle sue ulteriori specificazioni).
Ebbene, non può sfuggire come l’odierna versione del n. 5 sia in realtà una replica quasi esatta dell’originaria formulazione della norma contenuta nel codice del 1940; di qui le molte perplessità che ha destato la scelta del legislatore, a motivo sia delle incertezze interpretative che già in passato questo dettato normativo aveva sollevato, sia della sua già sperimentata incapacità, in concreto, a circoscrivere l’ambito del controllo. Sicché, buona parte della dottrina è apparsa concorde nel ritenere che la riforma del 2012 non abbia in realtà eliminato la possibilità di ricorso nei confronti dei vizi di motivazione, non solo nell’ipotesi di omessa e contraddittoria motivazione (che possono agevolmente farsi rifluire nel motivo di cui al n. 4 dell’art. 360, sub specie di nullità della sentenza), ma anche nell’ipotesi di motivazione insufficiente (seppur, in questo caso, argomentando in base a diverse opzioni ricostruttive: per una disamina delle varie opinioni al riguardo v. Poli, R., Le modifiche relative al giudizio di cassazione, in Punzi, C., Il processo civile, cit., 271 ss.).
Tuttavia, a chiudere ogni spiraglio al vizio di insufficiente motivazione è intervenuta la pronuncia di Cass., S.U., 7.4.2014, n. 8053, che ha fornito un’interpretazione accentuatamente restrittiva dell’attuale portata del controllo di legittimità sulla motivazione. Quest’ultimo infatti – secondo le Sezioni Unite – a seguito della riforma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. deve intendersi come ridotto al «minimo costituzionale», nel senso che è limitato ai soli casi in cui il vizio sia talmente grave da tradursi in violazione di legge e determinare la nullità della sentenza: tali sono i casi (che già aveva individuato Cass., S.U., 16.5.1992, n. 5888) di omissione assoluta o mera apparenza di motivazione, e di sua irriducibile contraddittorietà o illogicità manifesta, restando esclusa – come s’è detto – «qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione».
Questa soluzione può apparire eccessivamente rigorosa, anche rispetto alle intenzioni del legislatore (cfr. Passanante, L., Le Sezioni Unite riducono al «minimo costituzionale» il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 195); ma, a ben vedere, neppure è da escludere che l’intento sotteso alla novella del n. 5 dell’art. 360 sia stato «proprio quello di ridurre e semplificare, in funzione deflattiva, non solo (e non tanto) i poteri censori della Cassazione, ma, ancor più e prima, i doveri di motivazione dei giudici di merito» (così Di Iasi, C., Il vizio di motivazione dopo la l. n. 134 del 2012, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 1451).
Art. 111, co. 7, Cost.; artt. 132, 360, co. 1, n. 5, c.p.c.; art. 118 disp. att. c.p.c.
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