Motivi aggiunti e perenzione
Il problema relativo agli effetti della perenzione – conseguente all’omessa presentazione nei termini di legge della domanda di fissazione d’udienza relativa al ricorso originario – sui motivi aggiunti cd. impropri, successivamente proposti, ha trovato nell’anno 2013 conclusioni diverse in pronunce del giudice amministrativo di primo grado e di appello, ma in ambedue i casi con un limitato supporto motivazionale. Di qui il tentativo, da parte di chi scrive, di una revisione più ampia della problematica sulla base di un’analisi dei rapporti intercorrenti fra atto introduttivo del giudizio e motivi aggiunti e, in particolare, del grado di autonomia che la giurisprudenza più recente ha ritenuto di dover riconoscere ai secondi, seppure a conclusione di una rinnovata lettura della normativa in materia.
Il TAR Lazio, Roma – chiamato a pronunciare sull’opposizione ad un decreto presidenziale, che aveva dichiarato la perenzione di ricorsi (il primo proposto con l’atto introduttivo del giudizio, il secondo con l’atto di motivi aggiunti) per omessa presentazione dell’istanza di fissazione d’udienza nel termine fissato dall’art. 23, co. 1, l. 6.12.1971, n. 1034 (ed ora art. 71, co. 1, c.p.a.) – si è posto il problema se la perenzione, accertata in effetti con riferimento solo alla data di proposizione del ricorso principale, poteva intendersi legittimamente estesa anche ai ricorsi per motivi aggiunti proposti successivamente. Con ord. n. 635 del 21.1. 2013 la sez. II bis ha dato al problema risposta negativa e l’ha motivata con riferimento alla circostanza che, nel caso al suo esame, i motivi aggiunti non avevano carattere di accessorietà (id est non erano motivi aggiunti cd. propri), ma si concretizzavano in nuove, distinte ed autonome (ancorché connesse) domande, proposte ex art. 43, co. 1, c.p.a. nella forma dei motivi aggiunti cd. impropri solo per esigenze di concentrazione processuale. Il decorso del termine fissato per la presentazione della domanda di fissazione d’udienza andava quindi verificato con riferimento alla data dell’atto introduttivo del giudizio, con la conseguenza che la perenzione poteva travolgere solo questo, e non anche gli autonomi motivi aggiunti successivamente notificati. Il decreto presidenziale, nella parte in cui estendeva la prescrizione anche a questi ultimi, è stato quindi annullato.
A distanza di qualche mese sulla questione ha avuto occasione di intervenire la sez. VI del Consiglio di Stato che, con l’ord. 16.7.2013, n. 3870, è pervenuta a conclusioni opposte. La premessa del suo argomentare è che la perenzione è causa di estinzione del “processo”, non del solo “ricorso”; la motivazione addotta è che il ricorso per motivi aggiunti c.d. impropri, pur proponendosi come domanda nuova rispetto al ricorso originario, inerisce allo stesso processo, atteso che la sua ragion d’essere è consentire alle parti di proporre simultaneamente, nello stesso processo, domande relative ad atti distinti, ma connessi; la conclusione è che la perenzione determina l’estinzione del processo e, quindi, l’inefficacia anche dei ricorsi per motivi aggiunti cd. impropri.
Stante il contrasto fra il giudice di primo grado e quello di appello l’opzione dell’interprete per le conclusioni dell’uno o dell’altro implica la necessità di fare chiarezza su alcune questioni preliminari, prima fra tutte il rapporto fra l’atto introduttivo del giudizio e l’atto di motivi aggiunti.
Per motivi aggiunti devono intendersi, ai sensi dell’art. 43, co. 1, c.p.a., sia censure nuove, dedotte nei confronti del provvedimento già impugnato con l’atto introduttivo del giudizio al fine di denunciare ulteriori suoi vizi conosciuti solo successivamente (cd. motivi aggiunti propri, di matrice pretoria), sia un nuovo ricorso, avente ad oggetto un provvedimento diverso ma connesso con il primo, che avrebbe potuto essere proposto separatamente da questo ma che l’interessato, per ragioni soprattutto di economia processuale, ha preferito incardinare in quello già esistente (cd. motivi aggiunti impropri, di matrice normativa). In questo secondo caso si tratta di facoltà, che consente all’interessato di concentrare in un unico giudizio, inizialmente proposto contro un determinato provvedimento, la cognizione di diversi episodi di un’attività provvedimentale sostanzialmente unitaria, esonerandolo dall’onere di proporre un ulteriore e separato ricorso1.
In effetti i motivi aggiunti cd. propri, come definiti in sede pretoria dalla giurisprudenza e successivamente, sul piano normativo, dal legislatore, non hanno mai ingenerato seri problemi di ordine interpretativo ed applicativo, risultando da sempre incontestato il principio per il quale non sono con essi impugnabili provvedimenti diversi da quello oggetto del ricorso originario e per vizi propri di essi2. In realtà ciò che sul piano teorico aveva originariamente impegnato la dottrina, e solo essa, dando vita a conclusioni inizialmente diverse, è se i motivi aggiunti propri sono configurabili come ricorso autonomo da quello già proposto. Ma era prevalsa la tesi secondo la quale i motivi aggiunti propri, pur costituendo dal punto di vista funzionale manifestazione del diritto d’azione, dal punto di vista strutturale non costituiscono un nuovo ricorso. Data la premessa, da essa era stata fatta discendere la conseguenza che la loro sorte dipende da quella dell’atto introduttivo del giudizio3.
La comparsa nell’ordinamento giuridico dei motivi aggiunti cd. impropri è generalmente attribuita all’art. 1, co. 1, l. 21.7.2000, n. 205, che aveva inserito nel testo dell’art. 21, co. 1, l. n. 1034/1971 la proposizione «tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso fra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti». Ma, in effetti, il cit. art. 1, co. 1, recepiva e faceva proprio un indirizzo giurisprudenziale che, ancorché minoritario4, da tempo sosteneva (ma con il supporto di un’autorevole dottrina5) l’impugnabilità nella via dei motivi aggiunti di provvedimenti connessi con quello già impugnato con il ricorso originario. È stato acutamente osservato6 che ciò che caratterizza i motivi aggiunti cd. impropri è che – contrariamente a quelli cd. propri, che si limitano ad ampliare la causa petendi, lasciando inalterato il petitum – essi agiscono innanzi tutto su questo, estendendo l’istanza annullatoria ad altro provvedimento connesso con quello già oggetto dell’atto introduttivo del giudizio e deducendo contro di esso gli stessi vizi di legittimità (derivata) o vizi diversi (illegittimità autonoma). Un’altra diversità, di non minore importanza, è che i motivi aggiunti cd. impropri danno origine ad un nuovo ricorso7 che l’interessato, sulla base di una scelta personale, potrebbe proporre anche in via autonoma, chiedendo poi al giudice di riunirlo a quello già pendente8.
Nel testo dell’emendato art. 21, co. 1, l. n. 1034/1971 presupposto fondamentale per ritenere ammissibile l’impugnazione nella via dei motivi aggiunti di un atto successivo a quello oggetto di ricorso già pendente è la connessione oggettiva e soggettiva del secondo al primo9. Il caso, al tempo stesso più semplice e ricorrente di connessione oggettiva, è quello “infraprocedimentale”, che si verifica quando, in tempi diversi, vengono impugnati atti del medesimo procedimento, cioè con il ricorso atti preparatori ma autonomamente lesivi e, con l’atto di motivi aggiunti, il successivo provvedimento che lo conclude10.
Altra ipotesi di connessione oggettiva è quella “per reiterazione provvedimentale”11, che si verifica quando l’Amministrazione, notificataria di un ricorso proposto contro un suo provvedimento, l’annulla in autotutela a conclusione di una disamina delle censure dedotte contro di esso e lo sostituisce con altro che il destinatario ritiene peraltro parimente illegittimo e comunque non satisfattivo, reagendo contro di esso nella via dei motivi aggiunti cd. impropri. I casi più ricorrenti sono quelli relativi ad atti successivamente confermati con diversa motivazione e al silenzio-inadempimento, entrambi impugnati con ricorso.
Nella pendenza del primo l’Amministrazione intimata interviene con un provvedimento nuovo e distinto da quello già oggetto di gravame perché frutto di una diversa ed autonoma sua valutazione della materia del contendere12; nella pendenza del secondo, originariamente inteso ad ottenere una declaratoria di illegittimità del comportamento silente tenuto dall’Amministrazione, questa adotta un provvedimento espresso, parimenti impugnato dal suo destinatario, ma nella via dei motivi aggiunti. In entrambi i casi causa petendi e petitum di norma non corrispondono a quelli propri degli atti introduttivi del giudizio, la vicenda contenziosa da essi ingenerata si conclude con una declaratoria d’improcedibilità per sopravvenuto difetto d’interesse che, come meglio si chiarirà in seguito, non ha alcun effetto sull’ammissibilità dei motivi aggiunti.
Un’altra ipotesi di connessione è quella cd. “sostanziale”13, che si verifica quando la connessione è fra gli interessi in gioco, anche se gli atti appartengono a procedimenti amministrativi diversi14. L’esempio ricorrente è il permesso di costruire in area soggetta a vincolo paesaggistico, il cui rilascio implica due distinti procedimenti, il primo relativo alla concessione edilizia, il secondo al nulla osta paesaggistico; l’uno e l’altro oggetto di ricorsi da proporre separatamente ad Autorità diverse ovvero, per il secondo, nella via dei motivi aggiunti al primo.
È affermazione ricorrente in dottrina che, nell’ultimo decennio, l’ambito di operatività, originariamente assegnato dal cit. art. 21, co. 1, l. n. 1034/1971 ai motivi aggiunti cd. impropri, è stato sensibilmente ampliato dalla giurisprudenza, la quale è partita dalla considerazione che essi costituiscono una facoltà per l’interessato, che è libero di proporre un autonomo ricorso del quale chiedere poi la riunione a quello originale, e da essa ha fatto discendere l’irragionevolezza di una interpretazione rigorosa del testo normativo. Esemplificando: la nozione di connessione oggettiva, che originariamente richiedeva un esplicito collegamento fra il primo atto oggetto del ricorso e quello sopravvenuto nella pendenza del relativo giudizio, è stata ampliata fino a comprendere «la proponibilità, con i motivi aggiunti, di atti strutturalmente autonomi, ma che incidano su una medesima situazione di fatto o sulla medesima pretesa del ricorrente»15; la connessione soggettiva, che secondo una lettura severa del dettato normativo (“stesse parti”) comportava l’inutilizzabilità dei motivi aggiunti ove da essi derivasse un’estensione del rapporto processuale ad altri soggetti, è stata progressivamente interpretata nel senso di consentire l’utilizzo degli stessi anche avverso provvedimenti adottati da Amministrazioni diverse da quella alla quale risale la paternità del provvedimento oggetto dell’atto introduttivo del giudizio, ma ad esso connessi16; il vincolo temporale, derivante dalla dizione “provvedimenti adottati in pendenza del ricorso”, è stato riveduto con il riconoscimento dell’impugnabilità, con motivi aggiunti, di provvedimenti emanati prima della proposizione del ricorso ma conosciuti dal ricorrente dopo la litispendenza17; la locuzione “tutti i provvedimenti” ha consentito di utilizzare i motivi aggiunti per inserire in un giudizio di annullamento anche istanze risarcitorie18. La conclusione alla quale conduce il contributo offerto dalla giurisprudenza all’analisi dell’istituto è che i motivi aggiunti c.d. impropri non solo sono alternativi al ricorso, ma si possono convertire essi stessi in ricorso autonomo se ne possiedono i requisiti di forma e di sostanza.
I principi enunciati in materia dalla giurisprudenza del giudice amministrativo sono stati recepiti e fatti propri dall’art. 43 c.p.a., per il quale: a) i motivi aggiunti costituiscono lo strumento processuale che consente all’interessato di introdurre, in un processo già pendente, sia «nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte» (motivi aggiunti cd. propri), sia «domande nuove purchè connesse a quelle già proposte» (motivi aggiunti cd. impropri); b) il ricorrente incidentale è legittimato sia a proporre nella via dei motivi aggiunti doglianze aggiuntive a quelle già dedotte con l’originario ricorso incidentale, sia ad estendere l’impugnazione a provvedimenti diversi a quelli già gravati, ma ad essi connessi19.
A riprova della circostanza che i motivi aggiunti c.d. impropri disciplinati dall’art. 43 c.p.a. costituiscono un nuovo ricorso è che sensi dell’art. 13, co. 6 bis 1, d.lgs. 30.5.2002, n. 115, come modificato dall’art. 3, co. 11, all. 4 al citato d.lgs. n. 104/2010 (e dunque dallo stesso c.p.a.), sui motivi aggiunti che incardinano domande nuove deve essere versato il contributo unificato, alla stessa stregua di quanto disposto dalla medesima norma per il ricorso principale e per quello incidentale.
Ad avviso di chi scrive il quadro giurisprudenziale e normativo fin qui descritto offre elementi sufficienti a disattendere il surrichiamato arresto del Consiglio di Stato (v., supra, § 1), secondo il quale la dichiarata perenzione dell’atto introduttivo del giudizio, per mancata presentazione nei termini della domanda di fissazione d’udienza, comporta l’estinzione anche dei successivi motivi aggiunti cd. impropri. In effetti la ragione addotta dal giudice d’appello a supporto di questa conclusione è che con i motivi aggiunti cd. impropri il legislatore avrebbe messo in condizione le parti di proporre “nello stesso processo” domande relative ad atti anche diversi, ma connessi; in sostanza consentiva ad esse l’utilizzo del simultaneus processus (questo, peraltro, solo sottinteso e non espressamente richiamato nel testo dell’ordinanza), con la conseguenza che la declaratoria di perenzione, ancorché conseguente all’omessa presentazione nei termini della domanda di fissazione dell’udienza relativa al ricorso originario, determina l’estinzione dell’unitario processo, in ambedue le sue componenti (atto introduttivo del giudizio e motivi aggiunti).
Si tratta di conclusione non condivisibile. Giova premettere – anche se è osservazione di poco momento – che il riferimento al simultaneus processus contrasta con la tesi dell’unicità del processo, atteso che il latino simul significa “insieme nello stesso tempo” e sta quindi a indicare fatti e avvenimenti “diversi” (quindi anche “distinti processi”), che si svolgono nello stesso tempo. Aggiungasi che il fatto che i motivi aggiunti siano inseriti nel fascicolo di causa del ricorso originario non comporta ex se l’insorgere di un solo processo, atteso che gli elementi caratterizzanti dello stesso sono i soggetti legittimati, la causa petendi e il petitum, che nel caso di motivi aggiunti impropri non necessariamente coincidono tutti con quelli del ricorso originario.
Ma l’argomento fondamentale è quello offerto dallo stesso Consiglio di Stato20, per il quale «non è ipotizzabile ... che una disposizione volta ad agevolare le parti», offrendo ad essi la libertà di scelta fra ricorso autonomo e motivi aggiunti, «possa essere interpretata nel senso di legare, sempre ed ovunque, alla sorte del ricorso iniziale quella dei gravami posteriori, incardinati nel medesimo giudizio a soli scopi di economia processuale». La premessa da cui è partito il giudice di appello nel suo argomentare è che l’art. 1, l. n. 205/2000 (ma il riferimento è naturalmente estensibile al co. 1 dell’art. 43 c.p.a.) «ha inteso perseguire esclusivamente il fine della concentrazione del processo, ma non ha inciso ontologicamente sull’eventuale autonomia delle successive impugnazioni».
Va aggiunto che anche la giurisprudenza successiva ha dichiarato insostenibile la ricostruzione di un fenomeno che vedrebbe il legislatore offrire all’interessato una duplice alternativa palesemente finalizzata ad una celere definizione della vicenda contenziosa nella quale è coinvolto, gli lascerebbe ampia libertà di scelta fra due strumenti di eguale efficacia giuridica (il ricorso autonomo e i motivi aggiunti), ma al tempo stesso penalizzerebbe il secondo, condizionandone la sorte ad un comportamento (la mancata presentazione della domanda di fissazione dell’udienza relativamente al ricorso originario) al quale è completamente estraneo. E ciò non solo senza alcuna giustificazione logica, ma anche con probabile violazione degli artt. 24 e 113 Cost. e conseguenti questioni di legittimità costituzionale21, e tutto ciò pur trattandosi di strumento considerato elitario dal legislatore, al punto da dichiararlo obbligatorio nelle controversie afferenti determinate materie (gli appalti pubblici: art. 120, co. 7, c.p.a.)22.
Un contributo fondamentale alla soluzione del problema in esame è stato offerto anche dalla dottrina, con osservazioni meritevoli di particolare attenzione.
È stato osservato23 che i motivi aggiunti cd. impropri sono dotati di “autonomia sostanziale” sicchè, pur non essendo rivestiti delle sembianze dell’atto di ricorso a sé stante, ne possiedono l’intima natura, «dando vita ad un nuovo rapporto processuale, e non ad un mero svolgimento interno al rapporto già in essere». Si è aggiunto che l’autonomia dei motivi aggiunti impropri rispetto all’atto introduttivo del giudizio comporta che essi «ben possono sopravvivere, proprio come se si trattasse di un ricorso autonomo (ed in effetti di questo sostanzialmente si tratta), ad un ricorso originario che incappa in qualche invalicabile ostacolo in rito» purché facciano valere illegittimità autonome, anziché derivate da quelle che affliggono l’atto impugnato con il ricorso originario. È questa l’unica condizione posta, non essendo raffigurate eccezioni al principio per cui la definizione in rito dell’atto introduttivo del giudizio non travolge anche i motivi aggiunti impropri. E dunque anche la perenzione dell’atto introduttivo del giudizio non travolge i motivi aggiunti cd. impropri. E che la perenzione sia una “definizione in rito” del ricorso non può essere posto in dubbio, essendo previsto dall’art. 35, co. 2, lett. b), c.p.a.24.
È doveroso aggiungere che le conclusioni alle quali si è fin qui pervenuti, assumendo come termine di riferimento il rapporto intercorrente fra l’atto introduttivo del giudizio e i motivi aggiunti cd. impropri e il grado di autonomia di questi rispetto al primo, risultano confermate anche se le problematiche sollevate dalle due pronunce di cui al § 1 vengono affrontate partendo dalla “istanza di fissazione d’udienza”, analizzata nella sua funzione e nel suo ambito di operatività. Si tratta di uno strumento processuale che, ex art. 81 c.p.a., non solo condiziona la procedibilità del ricorso, atteso che la mera pendenza del giudizio non è condizione sufficiente per la definizione della causa, ma ne determina anche la perenzione ove nel termine di un anno dall’instaurazione del rapporto processuale (id est dal deposito del ricorso: art. 71, co. 1, c.p.a.) l’istanza non sia stata presentata. Ai sensi dell’art. 87, co. 3, c.p.a., ed in coerenza con la denominazione assegnata all’istanza di fissazione, questa è richiesta solo per i ricorsi da trattare in udienza; il presupposto dell’istanza è che sia stato depositato un ricorso; ai sensi dell’art. 81 c.p.a., e contrariamente a quanto affermato da Cons. St., sez. VI, ord. n. 3870/2013, è “il ricorso” (e non il “processo”) che deve considerarsi “perento” se nel corso dell’anno non sia stata presentata l’istanza o compiuto alcun atto di procedura (ma la questione è di poco momento, potendosi richiamare in senso contrario l’art. 35, co. 2, lett. b), c.p.a., che fa riferimento al “giudizio”); si è già detto e documentato (v., supra, § 2, note 5 ss.) che ex art. 43, co. 1, c.p.a all’atto di motivi aggiunti impropri «si applica la disciplina prevista per il ricorso»”; di qui la necessità che al suo deposito faccia seguito la presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza e l’ininfluenza sul contenzioso da esso introdotto della presentazione o mancata presentazione di quella relativa all’atto introduttivo del giudizio.
Non è quindi condivisibile l’affermazione25, secondo cui «il Codice nulla dispone con riferimento all’ipotesi (art. 43, co. 1) in cui i motivi aggiunti siano stati proposti per l’impugnazione di provvedimenti connessi a quelli oggetto dell’atto introduttivo del giudizio», atteso che la smentita è proprio nel testo della norma innanzi richiamata. Aggiungasi che è priva di supporto documentale anche l’ulteriore affermazione dello stesso autore secondo cui «nel regime previgente era indiscusso che la domanda di fissazione dovesse essere presentata unicamente con riferimento all’atto introduttivo, e non per gli atti di aggiudicazione aventi ad oggetto provvedimenti ulteriori». Ed invero, se con il richiamo al “regime previgente” ci si è inteso riferire a quello antecedente la riforma del 2000, alla quale si deve il riconoscimento formale dei motivi aggiunti impropri, è indubbio che l’unico rimedio contro i “provvedimenti ulteriori” non poteva essere che il ricorso autonomamente proposto; ma per il periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore dell’art. 1, co. 1, l. n. 205/2000 i dati offerti dalla giurisprudenza sono tutt’altro che univoci (v. nota 22).
Ed è proprio nella domanda di fissazione di udienza che si rinviene il profilo di maggiore opinabilità della conclusione alla quale è pervenuto Cons. St., sez. VI, n. 3870/2013.
Ed invero, se sull’atto di motivi aggiunti è necessario presentare l’istanza di fissazione di udienza perché lo stesso possa essere definito nella fase cautelare e nel merito, ne consegue, come corollario obbligato, che della stessa istanza non può non tenersi conto per escludere la perenzione del medesimo ricorso per motivi aggiunti.
1 Ma per le controversie con riti abbreviati in materia di appalti pubblici l’impugnazione di nuovi atti attinenti la medesima procedura è riservata, ex art. 120, co. 7, c.p.a., al “ricorso per motivi aggiunti”. In questo senso ha concluso da ultimo Cons. St., sez. III, 18.4.2013, n. 2198 che – qualificando “onere” l’impugnazione mediante motivi aggiunti nella suddetta materia – ha superato il precedente suo indirizzo (Cons. St., 20.6.2012, n. 3597), per il quale dall’uso del ricorso autonomo non sarebbe comunque derivata la sua inammissibilità.
2 Per un’attenta ricostruzione del processo formativo dell’istituto v. Mignone, C., I motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984, 253; Caianiello, V., Motivi aggiunti (giudizio amministrativo), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; Tropea, G., Ricorso principale, ricorso incidentale e costituzione delle parti. 4. I motivi aggiunti, in Sassani, B.-Villata, R., a cura di, Il codice del processo amministrativo – Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 451.
3 Nel senso che il rigetto o l’inammissibilità dell’originario ricorso comporta identico esito anche per i motivi aggiunti c.d. propri hanno concluso gli studiosi più attenti all’esame della materia, fra i quali una particolare segnalazione spetta a Tropea, G., Ricorso principale, ricorso incidentale e costituzione delle parti. 4. I motivi aggiunti, cit.; Villata, R.-Bertonazzi, L., Sub art. 43, in Quaranta, A.-Lopilato, V., a cura di, Il processo amministrativo – Commentario al d.lg. n. 104/2010, Milano, 2011, 385, tutti sostanzialmente concordi nell’assegnare ai motivi aggiunti propri un ruolo solo accessorio al ricorso originario. Ma alla stessa conclusone era pervenuta anche la dottrina di più antica data: per Piras, A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, I, 255, l’atto di motivi aggiunti non costituisce un nuovo ricorso; per Sandulli, A.M., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 154, i motivi aggiunti propri comportano solo un allargamento dell’oggetto del giudizio, integrando o modificando domande già proposte. Per una conoscenza più completa delle posizioni assunte nel tempo dalla dottrina v. anche Nigro, M., Processo amministrativo e motivi di ricorso, in Foro it., 1975, IV, 17; Abbamonte, G., Commento all’art.1, l. n. 205/2000, in Cerulli, Irelli, V., a cura di, Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, 205; Mignone, C., Il ricorso integrativo (ovvero falsi motivi aggiunti) nel processo dinanzi ai tribunali amministrativi, in Foro amm. - TAR, 2002, 4174; Andreis, M., Sub art. 19 l. Tar, in Romano, A.-Villata, R., a cura di, Commentario breve delle leggi sul giudizio amministrativo, Padova, 2009, 537; D’Orsogna, M., Lo svolgimento del processo di primo grado: la fase introduttiva, in Scoca, F.G., a cura di, Giustizia amministrativa, Torino, 2009, 280; Trimarchi, F., I motivi aggiunti nel codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 949; Invernizzi, R.. Il ricorso principale e incidentale, in Sandulli, M.A., a cura di, Il nuovo processo amministrativo, 2013, 86; Ferrari, G., Art. 43, in Il nuovo codice del processo amministrativo, III ed., Roma, 2013.
4 Esemplificando, C.g.a., 4.11.1995, n. 343, secondo cui i motivi aggiunti (che dalla giurisprudenza e dalla dottrina saranno successivamente definiti “impropri”) sono quelli proponibili per impugnare nuovi provvedimenti amministrativi successivamente conosciuti, ma collegati a quello impugnato originariamente, «in quanto il reale oggetto del giudizio amministrativo è costituito dalla pretesa azionata e dall’accertamento della sua fondatezza».
5 Sandulli A.M., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, cit., 355.
6 Villata, R.-Bertonazzi, L., Art. 43–Motivi aggiunti, in Quaranta, A.-Lopilato, V., a cura di, Il processo amministrativo, cit., 431.
7 Tale affermazione – di fondamentale importanza per il discorso che segue – trova la sua ratio nella circostanza che i motivi aggiunti impropri, al di là dell’espressa previsione contenuta nell’art. 43, co. 1, ultima alinea, c.p.a., non sono altro che la forma processuale che riveste, in pendenza di un giudizio già instaurato, l’impugnazione di atti connessi, con la conseguenza che ad essa non può che applicarsi la medesima disciplina del ricorso originario (Cons. St., sez. V, 15.2.2013, n. 916) .
8 Si tratta di affermazione risalente a Cons. St., sez. VI, 22.6.2004, n. 4448 e ripreso da TAR Campania, Napoli, sez. VII, 17.2.2006, n. 2131 che, come si chiarirà in seguito, assume un rilievo fondamentale al fine della definizione del contrasto giurisprudenziale di cui si è detto al § 1. È interessante notare che è di antica origine la preoccupazione del giudice amministrativo di definire le finalità affidate ai motivi aggiunti onde trarre da esse puntuali indicazioni in ordine ai loro limiti operativi. È stato osservato (Cons. St., sez. IV, 27.9.1977, n. 781; Cga 26.2.1987 n. 61; Cons. St., sez. V, 23.3.1993, n. 398) che l’istituto dei motivi aggiunti è chiamato a soddisfare esigenze di economia processuale in ragione delle quali l’ordinamento consente di far confluire, nel giudizio instaurato con il ricorso, tutte le censure riconducibili all’originario interesse pratico del ricorrente e tuttavia non proponibili al momento della notificazione del ricorso per difetto d’interesse attuale; data la premessa si è ritenuto legittimo l’ampliamento della materia del contendere anche con l’estensione dell’impugnazione ad atti ulteriori rispetto a quelli originariamente impugnati.
9 Cons. St., sez. IV, 28.4.2012, n. 2289; TAR Lazio, Roma, sez. III quater, 30.3.2012, n. 3048; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 5.5.2011, n. 2459. In argomento v. anche Ramaioli, M., Impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti nel corso del giudizio e connessi con quello già impugnato, in Nuove leggi civili e commerciali, 2001, 567; Ramaioli, M., La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, 103; Cacciavillani, V., Sul ricorso per motivi aggiunti di cui all’art. 21, l. Tar, come modificato dalla l. n. 205 del 2000, in Dir. proc. amm., 2005, 181; Figorilli, F., I motivi aggiunti, in Sassoni, B.-Villata, R., a cura di, Il processo davanti al giudice amministrativo – Commento sistematico alla l .n. 205 del 2000, II ed., Torino, 2004, 188; De Nictolis, R., La connessione come presupposto dei motivi aggiunti, in Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2012, 802; Ferrari, G., Il nuovo codice del processo amministrativo, cit..
10 Esemplificando, nel caso di procedura concorsuale indetta per l’accesso a posti di pubblico impiego il candidato non ammesso alla selezione comparativa reagisce con il ricorso avverso il provvedimento di esclusione e, di norma, con l’atto di motivi aggiunti avverso il successivo provvedimento recante l’approvazione della graduatoria; allo stesso modo, nelle gare indette per l’affidamento di appalti pubblici, il partecipante escluso propone dapprima ricorso avverso il provvedimento della stazione appaltante, che gli ha negato l’ammissione alla procedura comparativa e, successivamente, chiede al giudice, ora adito con i motivi aggiunti, di procedere all’annullamento anche del provvedimento con il quale, a conclusione della procedura, l’appalto è stato aggiudicato ad altro partecipante.
11 La definizione è di De Nictolis, R., La connessione come presupposto dei motivi aggiunti, cit., 802, alla quale si deve anche un’ampia analisi del fenomeno. Per quanto attiene all’impugnativa di atti non appartenenti alla sequela procedimentale di appartenenza degli atti già impugnati ha osservato Cons. St., sez. VI, 5.6.2006, n. 3333 che, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 205/2000, nel processo amministrativo i motivi aggiunti sono ammissibili anche se non connessi agli atti precedentemente impugnati, ad esempio perché non appartenenti alla stessa sequenza procedimentale, purchè riguardanti atti connessi all’oggetto del giudizio già instaurato (nella specie si trattava dell’impugnativa di un nuovo bando di gara, rinnovata dall’Amministrazione dopo l’emanazione di un primo bando, oggetto di precedente gravame, ma relativo a gara andata deserta).
12 C.g.a., sez. giurisd., 30.4.2013, n. 431; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 4.5.2012, n. 770; TAR Campania, Salerno, sez. I, 22.5. 2008, n. 1692.
13 Anche in questo caso la definizione e l’esemplificazione che segue sono di De Nictolis, R., La connessione come presupposto dei motivi aggiunti, cit., 804.
14 Ai sensi dell’art. 2, co 7, l. 24.12.1993, n. 537, la connessione di procedimenti si ha quando diversi procedimenti sono fra loro condizionati o tutti necessari per l’esercizio di un’attività privata o pubblica. Ha chiarito Cons. St., sez. IV, 28.4.2012, n. 2289 che il presupposto necessario e il limite di operatività dell’istituto dei motivi aggiunti cd. impropri è l’accertata sussistenza d’un rapporto di connessione fra i diversi provvedimenti con riguardo all’oggetto del giudizio instaurato, connessione che non ricorre soltanto laddove più atti regolino in tempi diversi la stessa fattispecie.
15 Tropea, G., Ricorso principale, ricorso incidentale e costituzione delle parti. 4. I motivi aggiunti, cit.. In argomento v. Cons. St., sez. V, 19.3.2007, n. 1307, per il quale presupposto necessario e limite di operatività dell’istituto dei motivi aggiunti ex art. 21, l. n.1034/1971 è l’accertata esistenza di un rapporto di connessione fra i diversi provvedimenti, per tale intendendosi non la connessione agli atti già impugnati ma, più in generale, all’oggetto del giudizio instaurato (nella specie la materia del contendere riguardava l’impugnazione, con ricorso, di un provvedimento recate diniego di autorizzazione sanitaria per l’esercizio di un’attività artigianale e successivamente, con atto per motivi aggiunti, un provvedimento che qualificava il laboratorio del ricorrente industria insalubre di II classe); Cons. St., sez. VI, 31.1.2006, n. 333, che ha dichiarato ammissibili i motivi aggiunti proposti per l’annullamento di un nuovo bando di gara pubblica, adottato dalla stazione appaltante a seguito di gara andata deserta, la cui lex specialis era stata a suo tempo impugnata con il ricorso originario.
16 Cons. St., sez. IV, 16.1.2006, n. 94, per il quale è ammissibile l’azione giudiziaria proposta nella forma dei motivi aggiunti avverso un atto distinto da quello anteriore già impugnato, ma con lo stesso connesso, purchè notificata, ai fini della nuova istituzione del contraddittorio, direttamente all’Autorità che tale atto abbia emanato e ai soggetti qualificabili rispetto ad esso “controinteressati”; Cons. St., sez. V, 21.11.2003, n. 7632, per il quale la condizione richiesta dall’art. 21, co. 1, l. n.1034/1971 risulta soddisfatta se l’atto successivamente adottato s’inserisce nella medesima sequenza procedimentale di quello inizialmente impugnato, pregiudica gli interessi della stessa parte lesa da quest’ultimo, e risulti adottato dalla medesima Autorità senza che rilevi, in senso contrario, che il provvedimento emanato in pendenza del ricorso ha come controinteressato un soggetto estraneo al rapporto processuale inizialmente instaurato. Ad avviso del giudice di appello detta interpretazione della norma innanzi richiamata è «l’unica coerente con le sue finalità di concentrazione e di economia dei rimedi processuali, mentre ogni opzione ermeneutica, che escluda la possibilità di proporre motivi aggiunti quando tale iniziativa estenda il novero delle parti necessarie del giudizio risulta inaccettabile in quanto finisce per impedire alla norma di realizzare proprio quegli interessi che è principalmente finalizzata a soddisfare».
17 Cons. St., Ad. plen., 26.3.2003, n. 4, per il quale secondo il «disposto dell’art. 21, co. 1, l. n. 1034/1971, come sostituito dalla l. n. 205/2000, tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso fra le parti, comuni all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnabili mediante proposizione di motivi aggiunti».
18 Cons. St., sez. V, 19.3.2007, n. 1307.
19 Per quanto attiene alla disciplina processuale applicabile il c.p.a. ha risolto molti dei problemi che in precedenza avevano impegnato, con esiti contrastanti, la giurisprudenza e che riguardavano, in particolare, la necessità di un’apposita procura alle liti per la proposizione dei motivi aggiunti c.d. impropri; il termine (intero o dimidiato) per la loro notificazione; il luogo di quest’ultima. Per quanto attiene alla prima questione in effetti, in passato, era prevalente l’orientamento che richiedeva, per la proposizione di motivi aggiunti c.d. impropri, un nuovo mandato al procuratore; alla base di questa conclusione era (Cons. St., sez. VI, 31.7.2003, n. 4440 e 21.6.2005, n. 3214) l’irragionevolezza di una regola processuale che richiedesse una nuova procura nel caso d’impugnazione con ricorso autonomo del nuovo atto e la escludesse nel caso d’impugnazione dello stesso nella via dei motivi aggiunti, risultando anche problematica «la legittimità di una procura destinata a non individuare esattamente gli atti ai quali essa si riferisce» (in effetti la questione in ordine alla necessità o non di una specifica procura alle liti era stata anche rimessa all’Adunanza plenaria, che però non l’aveva esaminata (15.4.2010, n. 2155) per irrilevanza, atteso che in effetti, nella specie, la procura era stata conferita). Altra osservazione di non poco momento era che il mandato – salvo espresse eccezioni – deve ritenersi comprensivo di tutti i poteri processuali finalizzati alla rimozione della lesione subita per effetto del nuovo atto dal ricorrente. Ma, allo stato, trova applicazione l’art. 24, co.1, c.p.a. per il quale la procura s’intende rilasciata anche per i motivi aggiunti, salvo che in essa non sia diversamente disposto, con la conseguenza che il difensore, che abbia ricevuto la procura speciale che lo abilitava a sottoscrivere l’atto introduttivo del giudizio, è autorizzato a sottoscrivere anche i motivi aggiunti (ma sul punto v. Villata, R.-Bertolassi, L., Art.43 – Motivi aggiunti, cit., 433, per i quali, essendo da tutti condivisa la tesi che «i motivi aggiunti impropri integrano sostanzialmente un nuovo ricorso», una «soluzione lineare» sarebbe stata quella che concludesse per la «necessità di una nuova procura alle liti»).
Per quanto attiene al luogo della notifica dei motivi aggiunti impropri la giurisprudenza era prevalentemente orientata nel senso che essi – ai fini della nuova instaurazione del contraddittorio – andavano notificati direttamente all’Autorità che aveva emanato l’atto di cui si chiedeva l’annullamento giurisdizionale e ai soggetti ex novo controinteressati (Cons. St., sez. IV, 16.1.2006, n. 94; ma v. anche sez. V, 19.2.2007, n. 831, per il quale la notifica andava effettuata presso il procuratore già nominato dalla parte resistente e costituito o, comunque, presso il domicilio eletto per il giudizio, e non presso la parte personalmente).
Infine, per quanto attiene al termine per la proposizione dei motivi aggiunti impropri, l’Ad. plen. 15.4.2010, n. 2155 ha chiarito che si tratta di quello “intero” imposto in via generale dalla normativa vigente per l’atto introduttivo del giudizio “di annullamento” (v., su questo specifico punto, Villata, R.-Bertolassi, L., Art.43 – Motivi aggiunti, cit., 436), e non di quello “dimidiato” previsto per gli altri atti processuali, essendo quest’ultimo incompatibile con l’esigenza di garantire il pieno esercizio del diritto di difesa. La premessa dalla quale la Plenaria è partita per giungere a tale conclusione è infatti che «la ratio alla base della scelta normativa di non estendere il dimezzamento al termine di notifica degli atti introduttivi del giudizio riposa nell’esigenza di garantire il pieno esercizio del diritto costituzionalmente garantito di difesa, che sarebbe risultato eccessivamente compresso per effetto dell’abbreviazione anche del termine de quo».
20 Cons. St., sez. VI, 22.6.2004, n. 4448.
21 La violazione di norme costituzionali è stata prospettata da Cons. St., sez. IV, n. 4448/ 2004.
22 Sul punto v. nota 1.
23 Ferrari G., Art. 43, in Il nuovo codice del processo amministrativo, cit.
24 Le acute osservazioni sono di Villata, R.-Bertonazzi, L., Art.43 – Motivi aggiunti, cit., 431. V. anche TAR Lombardia, Brescia, 26.11.2008, n. 1689 il quale, «dall’indipendenza sostanziale e dalla pari dignità» rispetto al gravame già in essere, fa derivare che i motivi aggiunti proposti contro l’atto sopravvenuto non differiscono da un atto di ricorso per cui il giudice, se rileva la possibilità di trattazione disgiunta del ricorso principale, maturo per la definizione, e dei motivi aggiunti in questione, deve esaminare e trattenere solo i primi e rinviare ad una successiva udienza la discussione dei secondi, «ovviamente se non infici la validità delle decisioni da adottare».
25 Montefusco, R., La riunione e la discussione dei ricorsi. 2. L’istanza di fissazione d’udienza, in Sassani, V.-Villata, R., a cura di, Il codice del processo amministrativo - Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1059.