MOTTETTO (o motetto, Motet, Motellus)
Forma di composizione musicale per voci. Il mottetto passò per così varie e persino contrastanti fasi di sviluppo, che non è possibile darne una definizione sola, se non molto vaga. Le più precise varianti di significato debbono seguire di necessità i diversi momenti della sua vita storica.
Apparso in Francia nel corso del sec. XIII, il mottetto appartiene come pratica d'arte tanto ai compositori parigini dell'Ars antiqua quanto ai trovatori, loro contemporanei. In questa sua prima fase esso ha definitori in Johannes de Grocheo, che lo chiama "Canto simultaneo di più voci su più testi" (definizione singolarmente adeguata) in Walter Odington, per il quale esso è "Brevis motus cantilenae" e ancora in Francone da Colonia e nell'Anonimo del Discantus vulgaris positio, dai quali tutti si sa che il mottetto era il canto simultaneo (a 2 o 3 voci) di una melodia gregoriana con una o più frasi profane (mot). Né era d'obbligo che il cantus firmus (tenor) portasse, insieme con la musica, anche il testo sacro; questo poteva essere sostituito - come nelle voci aggiunte - da parole profane.
Infine presso i teorici antichi il termine mottetto ha talvolta anche il significato di "parte vocale opposta al tenor", oltreché quello di una determinata composizione.
La fase originaria del mottetto è quella dell'Ars antiqua (scuola di Parigi, sec. XIII) e contemporaneamente dell'arte trovadorica. In tale periodo il mottetto è a due o tre voci (raramente a quattro), che hanno ognuna un testo diverso dall'altra, a differenza dell'Organum e del Rondellus, che hanno unicità di testo. La voce più grave della composizione è il tenor, a cui è affidata una melodia gregoriana, spesso tolta da un alleluja del Graduale. Al disopra si trovano il motetus, detto anche discantus e infine il triplum, detto anche contratenor. Il tenor è ritmato secondo uno dei sei modi (trocheo, giambo, dattilo, anapesto, molosso, tribraco) elencati dai teorici medievali; e talvolta passa da un modo all'altro. La misura del primo tipo di mottetto è la temaria, l'alternativa delle consonanze e delle dissonanze, date di passaggio, avviene secondo la tecnica polifonica del tempo. È questa la fase prevalentemente mondana del mottetto, tantoché sul tenor si trovano spesso ben due canti amorosi; né sono escluse da esso forme di canzone e di danza (trovatori).
Documenti del Mottetto antico sono nei codici di Montpellier, di Trento, della Nationale di Parigi, di Firenze (cod. Laurenziano e Panciatichiano), della Bibl. Vaticana, del Brit. Mus., ecc. Da questi e dalle pubblicazioni di H. de Coussemaker, C. Adler, J. Wolf sono esemplificati mottetti dei seguenti maestri: Perotino, Petrus de Cruce, Gilon, Ferrant, Adam de la Hale, Jehan de la Fontaine, Moniot de Paris, Moniot d'Arras, Thomas Herriez, Anonimo di Cambrai.
Nello sviluppo che il mottetto prese durante il sec. XIII, e specialmente per l'enorme fioritura di mottetti in onore della Vergine (v. sopra, es. 2), la lirica profana applicata a questa forma decadde sempre più e il genere andò prendendo la fisionomia sacra, che gli rimase poi stabilmente nei secoli seguenti. Questo trapasso avvenne - e forse con commistione ancor più stridente del mondano col religioso - nel periodo noto sotto il nome di Ars Nova.
Sotto l'influsso innovatore dell'arte musicale durante il sec. XIV e di cui fu paladino Philippe de Vitry, mutano molto gli aspetti ritmici del mottetto. Sul tenor, a note ancora più stiracchiate di prima, s'intessono nelle altre parti figure rapide, combinazioni ricercate di valori, e ciò per il diffuso impiego della diminuzione:
Frequente diviene anche il melodizzare interrotto e singhiozzante, come nell'Hoquetus:
nonché, a imitazione di altre forme profane, quali la Ballata e il Rondello, l'aggiunta di parti strumentali.
Contro queste contaminazioni stilistiche e l'uso di mescolare il testo sacro ai testi profani, insorse anche la Chiesa. Infatti nel 1322 il papa Giovanni XXII emanò un apposito decreto contro gli abusi nella pratica del canto sacro in genere e del mottetto in specie.
Fonti documentarie di questo periodo del mottetto sono i codici di Montpellier, di Firenze, i più antichi tra quelli di Trento, il Roman de Fauvel, le opere di Guillaume de Machault (nelle pubblicazioni del Wolf e di F. Ludwig) ritenuto come il più insigne rappresentante dell'Ars nova francese.
Quali aspetti abbia assunto il mottetto nell'Ars nova italiana e più particolarmente fiorentina, non ci è dato sinora di sapere. In questo periodo, che ebbe il suo centro di maggiore attività a Firenze, appare uno speciale culto per le forme profane dette Madrigale, Pastorella, Ballata, Canzone e Caccia - spesso con aggiunta di parti strumentali -, mentre i documenti sinora noti tacciono sulla musica religiosa. Tuttavia, se si tiene conto che i maggiori esponenti dell'Ars nova, come F. Landino, Gherardello, Giovanni da Cascia, Jacopo da Bologna, e più tardi fra Zaccaria, furono organisti e cantori al servizio di corti e di cappelle, si può presumere ch'essi abbiano coltivato anche il mottetto sacro in forma affine alla francese del tempo, ma coi caratteri specifici dell'invenzione italiana.
Si può altresì supporre che al mottetto profano a più testi i medesimi compositori abbiano sostituito completamente le varie e fresche forme mondane in cui essi eccelsero.
Quanto alla lauda di soggetto spirituale, fiorita nel sec. XIII e continuata, ma gia decadente, nel Trecento, essa non si può considerare come una varietà del mottetto, perché appartiene al tipo popolaresco fondato sulla monodia.
Il principio del Quattrocento è l'epoca in cui il mottetto passa dal tipo antico a più testi a uno nuovo con testo unico e con carattere prevalentemente religioso. Da questo tempo comincia a convenire al mottetto il significato attribuitogli dalla Chiesa, cioè quello di "composizione vocale fatta su un testo liturgico, che non abbia il corrispondente canto fermo nei libri corali".
Sembra che l'Inghilterra sia stata culla di questo nuovo stile, che dalle opposte rive penetrò nelle Fiandre, e quindi in Francia e in Italia. Tra i maestri inglesi che segnano il grado di maggiore sviluppo, a cui e'ra giunta questa antica scuola britannica, troviamo John Dunstable (1370-1453), del quale esistono mottetti alla biblioteca estense di Modena, nei codici di Trento, al British Museum, nella raccolta del Collegio cattolico di S. Edmund. Il Dunstable, che fu il maestro dei più antichi compositori fiamminghi, G. Dufay e G. Binchois, recò per primo la ricca sostanza figurativa della canzone mondana nel mottetto e aggiunse a esso gli accompagnamenti strumentali proprî delle forme dell'Ars nova fiorentina e francese. Non è improbabile che in questi scambî abbia avuto parte un Magister Ciconia di Liegi, che visse molto a Padova, a Venezia, a Pisa, tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento.
Così nel genere mottettistico prima ancora che la scuola fiamminga facesse sentire un qualsiasi proprio influsso in Italia, si sarebbe verificata un'immissione di elementi italiani, tratti da vitalissime forme di arte profana. Tutto ciò è documentato specialmente nei mottetti contenuti nei pià tardi tra i codici di Trento, i quali segnano la vera fase di passaggio dallo stile franco-italiano dell'Ars nova a quello neerlandese.
Nel primo periodo fiammingo (rappresentato da Dufay, Binchois, Busnois) il mottetto abbandona come norma la composizione a tre voci per passare a quella a quattro voci. Tolta la molteplicità dei testi, e adottato il testo unico, si raggiunge una maggiore omogeneità di espressione e di stile. L'ornamentazione strumentale propria della canzone italiana del sec. XIV vi compie ancora una parte importante; la tecnica del falso bordone con l'uso della terza e della sesta, opera efficacemente sul suo contesto armonico. In tale periodo si delineano tre aspetti del mottetto: 1. semplice, quasi omofono, a guisa di canzone, con predominio della voce superiore; 2. più complesso nella polifonia, in forma analoga alle variazioni (esempî di Dunstable e di Busnois); 3. del tutto polifonico, ma tuttavia parco nell'uso dell'imitazione canonica.
Per quanto riguarda la scelta del testo, si può aggiungere ai predetti tipi una varietà profana, data dal mottetto di omaggio, di memoria, di ringraziamento a qualche eminente personaggio. Notevole a tale scopo una raccolta di mottetti di Busnois in omaggio a Okeghem. Durante il secondo periodo fiammingo il mottetto afferma decisamente il suo carattere religioso, esclude ogni residuo di accompagnamenti strumentali, accresce il numero delle voci, accoglie tutti gli sviluppi della tecnica polifonica.
Johannes Okeghem (1430-1495) è il maestro più rappresentativo di tale periodo. Nel mottetto egli tiene come norma l'uso delle 4 voci, ma giunge talora a combinazioni straordinariamente ricche di parti. Domina con magistero portentoso ogni dilficoltà dello stile canonico, ma appunto perciò si serve di un'armonia molto limitata. E caratteristica in lui la molteplicità dei temi, come appare dall'inizio del Deo gratias:
Contemporaneo di Okeghem, ma più importante di lui, se non per l'aspetto tecnico, certo per quello espressivo e artistico, è Jakob Obrecht (1430-1505). I quattro fascicoli di mottetti da tre a sei voci di Obrecht, pubblicati da J. Wolff sotto gli auspici della Società per edizioni di musica neerlandese, mostrano in questo maestro un limitato uso dell'imitazione, semplicità d'intreccio polifonico, figurazioni sobrie e sovente, come nell'Ave regina coelorum, prevalenza melodica nella parte più acuta. È caratteristica in questi mottetti la gravità dei registri, in cui sono usate le voci e la frequenza degli episodî a due parti. In complesso l'espressione si mantiene omogenea e pacata, ma non esente da monotonia.
Nei mottetti di Pierre de la Rue, condiscepolo di Josquin presso Okeghem, si avvicendano tratti di complicato lavorio contrappuntistico, con tratti omofoni d' imponente semplicità e si riassumono così le principali tendenze dell'arte fiamminga.
In Heinrich Isaak (1450-1517) noto sotto il soprannome italiano (fu organista alla corte di Lorenzo il Magnifico) di Arrigo il Tedesco, ma fiammingo di nascita, si trova la tecnica neerlandese piegata a una calda espressione mediterranea. Il gruppo più importante delle sue composizioni mottettistiche si trova nel Choralis Costantinus, da cui togliamo questo episodio di bellissima espressività:
Il terzo periodo franco-fiammingo culmina con Josquin Desprès, la cui importanza nel genere del mottetto è grandissima. I suoi meriti in confronto ai predecessori consistono principalmente nella bontà della declamazione, nell'uso di temi ariosamente melodici e spazianti, con libertà, nella gamma vocale. Non è rara in Josquin la struttura strofica, come nell'Ave Verum a tre voci, in cui le riprese della strofa (a imitazione tra soprano e contralto) sono accompagnate da un contrappunto sempre nuovo del baritono.
L'arte canonica di Josquin si può largamente apprezzare nei mottetti a sei voci (pubblicati da Fr. Commuer, in Collectio op. mus. Bat.) e soprattutto nel suo celebre Qui habitat a 24 voci. Alle volte la sua abilità si compiace di variazioni contrappuntistiche sul tema preso a soggetto canonico. L'influsso di Josquin si estende direttamente su Jean Mouton, Nicolas Gombert, Jean Richefort e indirettamente su C. Jannequin, A. de Fevin, J. Arcadelt, A. Willaert: quindi, in riassunto, sul mottetto francese e su quello veneziano. Mottetti di Josquin si trovano nell'Odechaton di O. Petrucci, in raccolte del Pentinger, di P. Attaignant, di T. Susato e d'altri stampatori del sec. XVI, oltreché riprodotti modernamente nei 40 fascicoli delle opere complete di Josquin curati dallo Smijers (1921).
Nel tardo Cinquecento fiammingo il mottetto continua con due maniere distinte: semplice, quasi popolare, l'una, omofona nella struttura con preminenza melodica della parte superiore; artistica l'altra e complicata di polifonici accorgimenti.
Ma ormai, sbocciate nel più fervido rigoglio le scuole romana e veneziana, il solo musicista di nazionalità fiamminga che possa gareggiare in pieno con i grandi campioni di quelle, è Orlando di Lasso.
I mottetti di Lasso (raccolti nel Magnum opus musicum dai figli del maestro nel 1604 presso A. Berg di Monaco) vanno da 2 a 5 voci e rivelano un'altezza d'ispirazione che può misurarsi con quella del Palestrina e dei Gabrieli. I loro temi si snodano su una grande estensione di gamma vocale, liberamente alternando la condotta per grado congiunto a quella per salto, servendosidi fioriture e vocalizzi, opponendo al più fastoso disegno polifonico semplici e possenti omofonie, trovando infine la via dell'effetto, così nel piccolo, come nel grande numero delle parti.
Nello stile del mottetto il Lasso lasciò anche varî canti profani, di cui alcuni di tipo gioioso, quasi goliardico, altri in memoria di personaggi, nuziali, moraleggianti. La massima parte dei mottetti contenuti nel Magnum opus sono a 5 voci e questo gruppo ci porta nel vivo dell'arte di Orlando di Lasso. Il Tristis est anima mea rimane fra le cose più geniali dell'intera letteratura mottettistica.
Tuttavia il secolo d'oro della polifonia, anche per il mottetto, ha i suoi centri solari a Roma e a Venezia.
Il primo libro di mottetti pubblicato da Giovanni Pierluigi da Palestrina è del 1563, forse fu pubblicato presso V. e L. Dorici (è perduta l'edizione principe) e contiene trentasei mottetti a 4 voci, i cui testi sono tratti in maggioranza dalle antifone del Vesperale. Semplici e nobili nella fattura, si fondano su temi di origine gregoriana, elaborati con eleganza e sobrietà. Cominciano qui ad apparire i famosi Alleluja palestriniani, in cui pare attraversino il cielo le grida di giubilo delle angeliche schiere. Nel 1569 veniva alla luce un'altra raccolta di 32 mottetti a 5, 6 e 7 voci, presso gli eredi del Dorici, disposti nell'ordine cronologico delle festività per cui servivano. Tutti ammirevoli per l'accorta alternativa della polifonia e dell'omofonia, per la freschezza del contesto armonico, per la varietà dei ritmi, per i festosi Alleluja con cui molti si chiudono, ma i più celebri sono O admirabile commercium e O beata et gloriosa a 5 voci, O magnum mysterium, a 6 voci, in cui sino dall'inizio l'originale giro degli accordi porta nel vivo senso del testo:
A Guglielmo Gonzaga duca di Mantova il Palestrina dedicava nel 1572 un altro libro di mottetti a 5, 6 e 8 voci, stampato presso lo Scotto di Venezia; quarantaquattro composizioni, il cui contenuto musicale rivela un continuo progresso verso quell'ideale artistico per il quale il sapere è solo il mezzo per sostenere la libera ispirazione e rafforzarne il potere emotivo. Superiore a tutti è il Peccantem me quotidie, ma esempî magistrali della composizione a 8 voci sono i due mottetti Confitebor e Laudate.
Appena tre mesi dopo, il maestro pubblicava, per i tipi dello Scotto, un nuovo libro di mottetti, tra i quali i più pregevoli sono quelli a otto voci. Oltre l'invenzione possente, è quivi ammirevole il gusto e l'originalità con cui sono combinati i varî gruppi di voci per produrre i più svariati effetti. Capolavoro immortale della scrittura a due cori è il mottetto Surge, illuminare Jerusalem, che per secoli fu cantato la mattina dell'Epifania nella Cappella pontificia. Incerta è la data di pubblicazione di un nuovo libro di mottetti a 4 voci dedicato al duca Jacopo Boncompagni. Esso contiene 30 composizioni (parte a voci miste parte a voci pari) in cui il genio del Palestrina rifulge in tutta la sua potenza creativa. È compreso tra di esse il famoso mottetto Super flumina Babylonis, intessuto dei più patetici temi e capace della più aua suggestione descrittiva. Ogni episodio del testo (come avveniva più comunemente nel madrigale) vi ha la sua appropriata melodia tematica:
mentre il tutto si compone nel sentimento di una meravigliosa unità.
Nei mottetti a sole voci bianche, l'Ave Regina, l'Alma Redemptoris e la Salve Regina sono pieni di quella soprannaturale dolcezza, che ha fatto paragonare lo stile del Palestrina a quello del Beato Angelico.
Il sesto e ultimo libro di mottetti del Palestrina uscì stampato da A. Gardano in Roma nel 1584, con dedica al cardinale Andrea Batory, nipote del re Stefano di Polonia. Sono 28 composizioni a 5 voci, in cui ai mottetti di carattere vivace e festoso si alternano quelli patetici, o soavi o atteggiati a severa compunzione. È celebre tra essi il Peccavimus - ricavato dal Salmo 105 - in cui il testo, pieno di dolorosa contrizione, è commentato con eloquenza somma di frasi melodiche fino all'irrompere finale del Domine, miserere, rivolto dai soprani alla superna clemenza:
Nello stesso anno 1584 era apparso per i tipi di A. Gardano di Venezia il mirabile poema mottettistico costituito dal Cantico dei Cantici. La serie di 29 pezzi dedicata al pontefice Gregorio XIII, con lettera in cui il maestro asserisce di aver lavorato con stile alquanto alacriore, e cioè più vigoroso, più insinuante nel sentimento, più rappresentativo del testo. Affetti teneri o ardenti, malinconie, estasi, echi di pugne, evocazioni di pace, esaltazioni di bellezze; ogni varietà di concetti è espressa con magistrale padronanza di mezzi e con una proprietà di accenti inarrivabile.
Nella scuola romana si segnalarono per la ricca produzione mottettistica: Giovanni Animuccia, dall'armonia piena e robusta, dall'ampio giro della frase, dalla studiata aderenza del senso musicale a quello letterario; Costanzo Festa, i cui mottetti stampati dal Petrucci tra i Mottetti della Corona rivelano solennità e semplicità nuove al principio del '500. E, tra gli epigoni del Palestrina, i due Nanino, i due Anerio, Ludovico da Vittoria spagnolo, Francesco Soriano, Ruggero Giovanelli, Paolo Agostini, Gregorio Allegri.
Nei mottetti di questi maestri si scorge un'impronta inconfondibile di stile, per la perizia del trattamento vocale, l'austera grandiosità dell'espressione, la gagliarda compattezza dell'armonia, l'eleganza del contrappunto e il senso strettamente liturgico, sì da poter asserire che la loro musica s'identifica con lo spirito stesso della Chiesa cattolica.
Ma ciò che appare più notevole si è che la scuola romana più di ogni altra, anche quando il nuovo stile monodico accompagnato era penetrato ovunque, ha saputo mantenere alla forma del mottetto la sua purezza fino al sec. XVIII. In tal senso la denominazione "stile a cappella" equivale a stile romano, cioè a voci sole senz'accompagnamento. I continuatori più cospicui di esso nella produzione mottettistica furono Vincenzo Ugolini, Virgilio Mazzocchi, Orazio Benevoli, Pier Francesco Valentini, Ercole Bernabei, Francesco Foggia, Claudio Casciolini nel sec. XVII; Ottavio Pitoni, Pasquale Pisari, Giuseppe Jannaconi, nel XVIII; Pietro Raimondi, Francesco Basili, Domenico Mustafà, che rimasero incorrotti custodi dello stile palestriniano nel XIX. Caratteristica del mottetto romano nel Sei e Settecento fu l'aumento del numero delle voci secondo un ideale di fasto sonoro congeniale al fasto architettonico di quei due secoli. Basterà ricordare come esempî il canone a 96 voci del Valentini, i Salmi e mottetti del Benevoli a 24 voci, quelli del Pitoni a 36 voci. Frequentissima poi era la scrittura a due, tre e quattro cori. Le propaggini della scuola romana giunsero a Napoli con Alessandro Scarlatti, in Lombardia con F. Durante, e nel Veneto, con M. A. Ingegneri, M. A. Cesti, A. Lotti, a Bologna con Paolo Colonna, G. C. Clari, G. A. Perti, G. B. Predieri e infine con G. B. Martini, autori tutti di mottetti in osservato stile a cappella.
Nella scuola veneta, l'altra delle due grandi scuole, che durante il Cinquecento si divisero il primato musicale, il mottetto, pur mantenendo le caratteristiche generali che distinguono l'arte polifonica di quel secolo, ne ebbe delle sue proprie spiccatissime.
È necessario premettere che i recenti studî di Giacomo Benvenuti hanno assodato queste verità: 1. che una tradizione musicale veneziana, facente capo alla cappella Marciana, esisteva sino dal principio del sec. XV; 2. che essa atteggiava così i modi del comporre, come quelli dell'eseguire, ed era in piena conformità coi gusti veneziani in pittura e in architettura; 3. che in tale tradizione si segnalava una predilezione per l'uso degli strumenti in unione alle voci; 4. che i musicisti franco-fiamminghi immigrati in Italia, una volta giunti a Venezia, restavano attratti nell'ambiente artistico della città e a esso si conformavano. Così avvenne per A. Willaert, per Ph. Verdelot, per Cipriano de Rore, i cui mottetti scritti a Venezia sostituiscono all'antico stile fiammingo un profumo di soavità e d'intima poesia (v. Ave Maria del Willaert), un uso smagliante di colori vocali (v. i due mottetti di S. Caterina), il gusto del cromatismo (v. Calami sonum ferentes del De Rore, stampato ad Anversa nel 1555 con l'avvertenza "Fact à la nouvelle composition d'aucun d'Italie").
Ma le sopraddette caratteristiche, a cui si aggiungono la grandiosità, la pompa, il calore dell'espressione, la sapienza nel valersi dei timbri vocali e infine l'antifonia, cioè l'opposizione dei gruppi corali, si ritrovano con più spontaneo rilievo nei mottetti dei grandi maestri veneziani, già dal quattrocentista Francesco D'Ana, a G. Zarlino, a Claudio Merulo, a Vincenzo Ruffo, a Costanzo Porta, fino ai Gabrieli.
È da notare che la scrittura a più cori (cori spezzati, cori battenti) e in genere l'antifonia dei gruppi (tipico esempio nell'Alleluja del mottetto In Deo speravit a 6 voci di C. Merulo) non furono affatto invenzione del Willaert, ma esistevano, sia a Venezia, sia altrove, già dal Quattrocento, come provano parecchi esempî tratti da mottetti di F. Gaffurio.
Le trasformazioni, che il mottetto ebbe nella scuola veneta, si riassumono, si può dire, tutte nell'opera dei due maggiori rappresentanti di essa: Andrea e Giovanni Gabrieli. Se nel primo (seguito anche da maestri di età posteriore, come Giovanni Croce, Matteo Asola, Costanzo Porta, Marc'Antonio Ingegneri) gli austeri ideali dell'arte liturgica ancora prevalgono:
nel nipote di lui, Giovanni, il nuovo stile sboccia in tutta la sua pienezza. Esso consiste principalmente nell'unione degli strumenti al coro. L'innato senso del colore, proprio dei Veneziani, acquista in tale pratica un vasto campo ove spiegarsi, mentre l'antifonia trova in essa nuovi effetti e nuovi contrasti. Gli strumenti infatti sono trattati da G. Gabrieli a guisa di gruppi corali che si rispondono; spesso i timbri acuti si oppongono ai gravi con sorprendenti risultati. Così, ad es., il mottetto Surrexit Dominus per contralto, tenore e basso è accompagnato da due parti di violini, due cornetti e quattro tromboni, con immancabile pomposità di effetto. Nell'In Deo salutari meo a 8 voci il sostegno strumentale è formato da una parte di violini, tre cornetti, due tromboni, adoperati in un insieme reale, e non come raddoppio delle voci. V'è anche una breve Sinfonia d'introduzione.
L'avviamento verso lo stile concertante è ancora più evidente nel mottetto In ecclesiis benedicite Domino che contiene parti di a solo, simili a Introduzioni e intramezzate ai cori a 5 voci e duetti, accompagnati da 2 tromboni, viole e tre cornetti. Il volume Cantus Sacrae Symphoniae di G. Gabrieli, pubblicato dal Gardano nel 1597, contiene 45 mottetti da 6 a 16 voci con 14 Canzoni per sonar e 2 Sonate.
Mottetto in stile concertante. - L'avvento della monodia accompagnata determina un nuovo orientamento anche nel mottetto. Pur riconoscendo che questo ebbe i suoi predecessori in G. Gabrieli e in Adriano Banchieri, è consacrato nella storia come padre dello stile concertante Lodovico Grossi da Viadana. I suoi Cento Concerti Ecclesiastici a 1, 2, 3 e 4 voci, apparsi in due volumi nel 1602 e 1608, sono veri e proprî mottetti ai quali è aggiunta una parte d'accompagnamento, il basso continuo da realizzare sull'organo, e nei quali vi sono pezzi scritti per una voce nello stile recitativo dell'opera fiorentina.
L'indirizzo dato dal Viadana produsse nel sec. XVII una copiosa fioritura di mottetti a una o più voci con basso continuo, e non mancarono maestri dell'antico stile polifonico che si applicarono anche al mottetto monodico. Tali G. F. Anerio, A. Agazzari e soprattutto il fondatore dell'opera veneziana: Claudio Monteverdi, del quale ultimo è assai interessante un Vespro della B. V. Maria, pubblicato nel 1610, contenente tredici pezzi in stile di mottetto concertante (voci con cornetti, viole, tromboni, contrabbasso da gamba, organo), nei quali si ammira una vivace commistione di polifonia, salmodia plurivocale, a soli con basso continuo, ritornelli strumentali, variazioni sul canto fermo. Fa parte di quest'opera la famosa Sonata sopra Sancta Maria.
Seguirono le orme del Viadana: i maestri di scuola veneta Giovanni Rovetta, Massimiliano Neri, Giovanni Legrenzi, Ignazio Donati, Pierandrea Ziani, Antonio Caldara e Antonio Lotti: quelli di scuola romana O. Benevoli, G. Carissimi, F. Foggia, Giovannoni, G. Mazzocchi e altri, i quali però coltivarono contemporaneamente l'antico stile polifonico a sole voci.
Fuori d'Italia il mottetto seguì le stesse già descritte fasi di sviluppo dal 1500 in avanti.
Così il mottetto polifonico vocale in Germania ebbe tra i suoi più cospicui cultori Adam di Fulda, Dietrich, A. Agricola, Finck, L. Senfl, J. Gallus, affini allo stile fiammingo; H. L. Hassler, J. P. Sweelinck e H. Praetorius, di scuola e di tecnica veneziana (furono allievi dei Gabrieli). Ebbe culla nella Sassonia-Turingia il mottetto protestante, simile nel carattere al Lied spirituale, ma meno omofono di quello, rappresentato da J. Walther (il collaboratore di Lutero), Le Maistre, J. Meiland, A. Scandelli (italiano), S. Calvisius, e, maggiore di tutti, l'Eccard. Del mottetto concertante furono cultori: M. Praetorius, C. Schütz, I. H. Schein, S. Scheidt, J. K. Kerll, D. Buxtehude, J. A. Reinken, J. Pachelbel. Si giunge così a J. S. Bach. I sei mottetti lasciati dal maggior compositore tedesco del sec. XVIII non assomigliano per la forma a niente di ciò che ai chiama mottetto, ma piuttosto a una specie di cantata, in cui il corale ha parte importante e nella quale concorrono tutti gli elementi della musica chiesastica.
G. F. Händel ha lasciato un solo mottetto, Silete venti, composto in stile concertante per una voce, orchestra d'archi, oboe e cembalo.
Tra gli Spagnoli il mottetto ebbe insigni cultori durante il secolo XVI in Cristobal Morales, Francisco Guerrero, Ludovico da Vittoria, tutti di scuola romana.
In Francia per oltre tre secoli il centro della musica sacra polifonica fu la Chapelle Royale, specialmente dopo il riordino datole da Francesco I. Quivi fiorirono, come mottettisti dello stile a cappella, Claude Goudimel, Dominique Phinote, Jean Mouton, Claudin de Sermisy, Nicolas Formé. Rappresenta nel sec. XVIII il motetto concertante J.-Ph. Rameau. È però da notare che in questo tempo la parola motet è usata in Francia nel senso generale di composizione chiesastica, circa come anthem in Inghilterra.
Il gusto sempre crescente per il canto monodico e il predominio preso dall'opera teatrale furono causa della decadenza del mottetto, non tanto per l'abbandono del severo stile a cappella, quanto per l'infiltrazione di elementi non del tutto confacenti alla devota espressione dei testi liturgici. Si può dire che la grande maggioranza dei mottetti monodici composti nell'Ottocento poco o nulla differivano dalle romanze e dalle cavatine melodrammatiche. Tuttavia le tradizioni polifoniche non mai spente in alcuni centri d'arte sacra come Roma e Ratisbona, il risveglio di studî ceciliani e gregoriani, verificatosi nell'ultimo quarto del secolo XIX, il risollevarsi a dignità artistica della composizione per organo, infine lo spirito di rivendicazione destato a nobile gara in ogni paese d'Europa per trarre dall'oblio le glorie musicali del passato; tutte queste ragioni insieme determinano un solenne atto, da cui la musica sacra in generale e il mottetto in particolare parvero ricondotti ai loro austeri principî informativi: voglio dire il motu proprio di Pio X. La vitalità e l'avvenire di tali forme dipenderanno dalla capacità nei compositori, di conciliare l'immutabile e solenne spirito religioso col sentimento artistico e con le forme d'oggi.
Bibl.: H. Leichtentritt, Geschichte der M., Lipsia 1908; F. Ludwig, Studien über die Geschichte, d. mehrstimm. Musik, in Sammelb. d. Intern. Musikgesellschaft, 1905-06.