Motti e Facezie del Piovano Arlotto: Prefazione
Le cose che a fanciulli e ad ignoranti
vanno per man, soglion perder sua forma
e mutar spesse volte soi sembianti.
Vien poi chi per pietà quelle reforma
reducendole a quel ch'erano innanti:
ond'io corretto son sotto tal norma.
DAL PROLOGO ALLE FAVOLE D'ESOPO
(VERONA 1478)
Ritorna, con questi Motti e facezie del Piovano Arlotto, un personaggio famoso per secoli nella tradizione popolare; e insieme con lui un cordiale e vivace narratore anonimo della fine del Quattrocento, che, come avviene, la straordinaria popolarità del suo eroe e le vicende del testo[1], dalla prima stampa fiorentina del secondo decennio del Cinquecento alle lontane quasi irriconoscibili discendenze ottocentesche volte ad allietare ormai soltanto le piacevoli veglie di un pubblico contadino, avevano fatto del tutto dimenticare. Scaduta ora da tempo quella fortuna, il narratore e il suo eroe faceto e motteggiatore ritornano nella veste che ha preceduto tanti successivi camuffamenti e ricuciture: per la prima volta nel colore e nell'aria del loro tempo, ché l'unica e incompleta edizione ottocentesca[2], ormai difficilmente accessibile al comune lettore, pur fondandosi sulla nostra stessa fonte manoscritta, fu in realtà anch'essa un raffazzonamento del testo, una vera e propria traduzione, e con quanti errori di traduzione, di quel fiorentino quattrocentesco in un approssimativo e scolorito fiorentino dell'Ottocento; tanto che, traduzione per traduzione, meglio era rivolgersi a quella che uno studioso benemerito di tradizioni popolari ne fece in un agile tedesco[3]: e traducendo da un testo corrotto riuscì pure a migliorarlo con l'aiuto di stampe antiche e tutto commentò con sterminata anche se non sempre misurata dottrina. Questa sorte, per un testo popolare, potrà sembrare per lo meno curiosa; ma tanto strana non è, se si pensa che i folcloristi che si sono di solito occupati di libri come questo, dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, non avevano vero interesse per il testo, ma solo per contenuti narrativi da confrontare e da collocare entro schemi spesso generici di svolgimento[4]. Si dovrà se mai aggiungere che per un testo di fortuna popolare la storia delle sue metamorfosi (che anche nel nostro caso non furono soltanto formali e cancellarono progressivamente la fisionomia originaria del personaggio e ne videro la trasformazione da «Uomo piacevole» in «celebre buffone») presenta talora interesse autonomo: il che non vuoi dire che il richiamare il testo ai suoi princìpi, come io qui ho voluto fare, non sia poi l'unico modo per restituire anche a un'opera modesta e non elaborata come questa quel po' di vita e di freschezza che può avere ancora per noi. Se queste facezie quattrocentesche hanno avuto negli ultimi settant'anni (che sono quelli della sistemazione critica della nostra letteratura anche minore) scarsissima fortuna, quasi solo in opere d'erudizione[5] e ancora minore in Italia che all'estero[6] credo sia dipeso in buona parte dallo stato infido e malcerto del testo: del resto, salvo poche eccezioni, la prosa non solo narrativa del '400 anche fiorentino è tuttora male e poco edita e non ha trovato ancora il posto che merita nella prospettiva critica. Nel quadro della narrativa volgare del nostro Quattrocento fiorentino, accanto a quei due piccoli capolavori di stampo popolaresco ma di tono aristocratico che sono la Novella del Grasso legnaiuolo nella sua più ampia ed elaborata stesura e poi la raccolta delle facezie polizianesche conosciuta sotto il nome di Bel libretto (e ci danno il meglio e le più acute novità nel campo della narrativa del tempo umanistico nei due diversi aspetti della «burla» e della «facezia»), questi Motti e facezie del prete burlone rappresentano una traduzione popolare, di sapore certo meno moderno, degli stessi motivi della burla e della facezia e hanno un loro significato proprio, minore ma originale. Essi sono lontani sia dalla sottigliezza psicologica e dalla sapiente prospettiva tutta scorci della novella, sia dall'agilità scattante e dalla concentrazione intellettuale di quelle facezie ove gusto umanistico e gusto popolaresco sono uniti nell'equilibrio teso e nervoso che anche nella prosa è il segno del Poliziano: ma toccano come vedremo una loro cordialità d'accento nella rappresentazione dell'astuzia e della saggezza popolare entro una società mercantile e artigiana, una rappresentazione che non è né rnitica né realistica, ma tende a portare tutto nel tono piano e discorsivo della cronaca esemplare e ama vestirsi di una istintiva e bonaria moralità, sconfinando spesso felicemente dalla realtà nella favola e nell'apologo. Sicché io credo che, tornando nel tempo da cui si sono mossi, libro e personaggio, e più il libro del personaggio, possano riacquistare in senso diverso almeno una parte di quella vitalità che si è man mano assottigliata e dispersa per molti rivoli nella fortuna popolare; e poi la prosa narrativa non letteraria, di modi popolari, quella che non essendo prosa d'arte non è neppure cattiva prosa, ha da noi tradizione scarsa e testi popolari raggiungono difficilmente quella vivacità e quell'equilibrio che qui talora c'è.
La nostra raccolta è la prima ad articolarsi intorno a un solo personaggio per tracciarne l'aneddotica biografia attraverso il racconto di gesta buffe e singolari, che non possiamo definire burlesche perché burlesco non è il tono, e che non hanno fra loro altro legame che quello di un protagonista d'eccezione. Lo schema di questa biografia per aneddoti si può ritrovare, meglio che nella «Vita» di tipo umanistico[7], nella tradizione medievale delle vite dei santi: quasi Fioretti di materia scherzosa e mondana ma non sempre profana e ridicola, talora, come vedremo, a suo modo edificante e ingenuamente seria. Personaggi ciclici, soprattutto buffoni come nel Trecentonovelle, sono noti nella novellistica popolare particolarmente nel tardo medioevo, ma nel Piovano Adotto cittadino della Firenze quattrocentesca non c'è il buffone di tradizione medievale, legato indissolubilmente alla vita di corte, ma l'uomo piacevole di «sottile ingegno e buono naturale» che sempre «accomodava la novella col ragionamento», legato quindi a una società conversevole e varia. Si dirà che prima di incarnarsi nel nostro personaggio il tipo del prete burlone o astuto, di solito prete popolano o di campagna contrapposto all'alto clero, è vivo nella società medioevale[8] e si veste talora di colori simpatici e di polemica ecclesiastica democratica; e altrettanto vivo è quello del prete ignorante, materiale e corrotto, dipinto con aristocratica ironia o con spirito di polemica antiecclesiastica; di questi spunti sociali del resto tenui non servirebbe tracciare qui la storia (si pensi in ogni modo al Novellino che ha spiriti così laici, p. es. alla risposta del frate al vescovo Aldobrandino, nov. 39, o all'episodio del piovano Porcellino e del vescovo Mangiadore, nov. 44), ma basterà ad essi accennare come a fermenti di fantasia popolare, ché tra fantasia e realtà biografica vive il protagonista di queste facezie. Cercare di sceverare la realtà dalla fantasia sarebbe naturalmente, oltre che molto difficile, del tutto inutile al nostro fine e ne resterebbe ben poco, quel poco che ci dicono i documenti d'archivio e che confermano quasi sempre i ricordi del narratore. Per quello che riguarda motti e battute, burle e spiritose invenzioni, la realtà e l'originalità è sempre relativa, ché certe figure agiscono da calamita: e ancora vivente il faceto piovano, con quel suo nome predestinato, la sua leggenda correva a Firenze sulle bocche di tutti e non solo in cerchie basse e popolane ma anche in alto (c'è del resto ancora nella Firenze medicea della fine del Quattrocento una unità sociale, sia pur relativa), se le prime testimonianze assai vive di quella fortuna ci vengono come vedremo dal Magnifico e dal Pulci e dal Poliziano.
Sul carattere tradizionale di questa materia narrativa, attraverso fonti orali, i comparatisti che di ogni storia sapevano un tempo rintracciare remotissimi precedenti indiani o arabi hanno talora grossolanamente esagerato: si vedrà nelle singole note illustrative che gli elementi tradizionali non sono poi nel complesso molti e che i più sono di fonte prossima, dal Sacchetti a Poggio, e che una fonte scritta sta alla base di tutta l'ultima parte. Ma anche questa materia tradizionale, che risale in parte alla leggenda orale e in parte alla deliberata volontà del narratore d'arricchire il suo ciclo di aneddoti, si inserisce entro un'ossatura reale e cronistica, con quello sfondo del tempo che è il tempo dello scrittore e dei personaggi grandi e minimi che l'autore non si cura quasi mai di introdurre e di descrivere ché presuppone questo mondo come familiare per sé e per quelli per cui scrive: un mondo delimitato ma non chiuso, con la scena che passa dalla vita cittadina di Firenze (logge, strade, taverne, ma anche vita conviviale della cerchia medicea e dell'alto clero) a quella della pieve rustica col suo povero popolo e la miseria dei «lavoratori», l'ignoranza dei villani e l'avidità dei proprietari ricchi; e i viaggi in Corte di Roma e soprattutto la vita mercantile, il va e vieni delle galee tra Firenze e Bruggia, i due poli di questo mondo economico; e insieme una società varia nelle sue classi, ma non rigidamente stratificata, una società aperta all'intraprendenza e all'intelligenza: la cui elementare e sommaria rappresentazione è di tono bonario, cordiale e in definitiva ottimistico, senza nulla di quel realismo fondo e amaro che è nello stile fiorentino dei poeti e letterati di fine Quattrocento, anche nella prosa quotidiana degli epistolari, e che si compiace nella descrizione o nella caricatura di una vita chiusa in se stessa come in un guscio. I documenti d'archivio che si riferiscono all'esistenza d'Arlotto Mainardi e alla cerchia popolana e mercantile in cui visse aggiungono assai poco alle notizie che il narratore raccoglie nella Vita introduttiva o ricorda nel corso della sua opera[9]: confermano anche uno dei tratti più spiccati di quel carattere, un misto di astuzia di mercante e di destrezza economica unite a una natura generosa e socievole, a uno spirito di carità tutta mondana. La famiglia era campagnola, originaria del Mugello in quel di Vaglia, non lontano dai luoghi dove Adotto avrà la sua pieve ancor giovane (era nato, pare, nel 1396), per investitura di Martino V nel 1426; e nella famiglia ci dovevano essere tradizioni notarili, ché l'avo paterno fu un ser Matteo di ser Mainardo (e piccoli notari saranno nelle facezie gli amici prediletti). Ma il padre, Giovanni, fu uno scapestrato e pare avesse dilapidato la piccola fortuna della famiglia: certo è che visitava periodicamente per debiti il carcere fiorentino delle Stinche, dove risulta detenuto nel 1412, nel '26 e ancora nel '32, sicché sembra pienamente giustificato il giudizio impietoso del figlio. Il quale abbandonò il tirocinio di lanaiolo che aveva iniziato, probabilmente per trovare più sicura sistemazione nella carriera ecclesiastica, e non ebbe altra formazione di cultura che l'abbaco mercantile e poi il suo breviario: ottenuta la pieve di S. Cresci a Maciuoli e trovatala in stato di abbandono, chiesa e terre, riuscì ad amministrarla saggiamente, e mercante qual era d'origine e di vocazione, per spirito avventuroso se non avido, s'imbarcò sulle galee fiorentine come cappellano e fece molte volte, commerciando anche di suo, la rotta di Bruggia, che significava talora un'assenza di più d'un anno (i documenti d'archivio confermano queste sue ripetute assenze)[10] Anche in sede non poteva star fermo e divideva il suo tempo fra la città, cui lo legavano affari e amicizie (mercanti, notari, «Compagnoni» di galea) e la cura del suo popolo in campagna, dove il biografo ce lo presenta come piccolo signore di villa ad accrescere le rendite delle sue possessioni «in farle cultivare, seminare, piantare», e di tutto il suo caritatevole e liberale: intorno alla metà del secolo anche la chiesa cadente fu restaurata ed ebbe sobrie linee rinascimentali; le vecchie pitture scomparvero sotto i freschi intonaci spaziosi di gusto moderno. A quel suo beneficio rimase da vecchio tenacemente attaccato e lo difese negli ultimi anni da chi glielo insidiava promettendogli uno scarico di preoccupazioni; ma a Firenze morì vecchissimo nello Spedale dei preti il 26dicembre 1484[11], quando era già da tempo figura popolare e tema di leggenda, più o meno benevola. Un amico di lui più giovane, mercante o forse notaio, che mostra di aver familiare non solo la cerchia popolana di città, ma anche le condizioni di vita della parrocchia contadina, e si dice legato da interessi (cfr. p. es. 124, 4-5) oltre che da amicizia al suo personaggio, cominciò sicuramente a raccogliere la cronaca aneddotica delle sue memorabili imprese quando il Piovano era ancor vivo: un primo gruppo di facezie probabilmente assai sottile (si noti che nella prima parte delle facezie, fino alla nostra So compresa non sono ricordati avvenimenti sicuramente posteriori al 1475 circa: i riferimenti più frequenti sono a personaggi e fatti fra il '60 e il '70, mentre successivamente si aggirano prevalentemente intorno al 1480 senza superare mai la fine del 1484 e la morte del protagonista[12]) doveva esser noto, più o meno nello stesso ordinamento che a noi è giunto, intorno al 1478 quando fu utilizzato in parte dall'autore del Bel libretto; ma dopo la morte d'Adotto l'anonimo scrittore riprese e arricchì largamente la raccolta, fra 1485 e '88 all'incirca, continuando a collocare la leggenda orale nella realtà cronistica ma facendo più larga parte, com'era naturale, al ricordo e alla rievocazione personale; e fece precedere la raccolta da una Vita dedicata a un alto personaggio, forse un ecclesiastico (e forse uno di quelli che nella vicenda avevano parte) che avrà sollecitato da lui la memoria di quelle giocose vicende. E la Vita è interessante anche come spia dell'animo ingenuo e degli intenti dello scrittore, rivolto ora anche a una candida celebrazione del personaggio come uomo caritatevole e sincero se non pio, e non solo piacevole e faceto, e a difenderlo da accuse di immoralità, attribuendo i trascorsi all'età giovanile e le novelle lascive all'ambiente. Nel narrare non seguì poi altro filo che quello dei ricordi e degli aneddoti divulgati, così come venivano, senza prima né poi, sì che manca ogni ordine cronologico, anche se la maggior parte delle testimonianze riguarda gli ultimi anni, quando i riferimenti a cose reali si fanno più precisi; e i fatti vengono spesso riportati a un tempo più recente ed evidentemente più familiare allo scrittore di quello reale. E poiché egli si proponeva di unire l'arguzia con una certa gravità, secondo un modulo caro, su un piano di più alta stilizzazione, alle biografie rinascimentali[13], volle completare la raccolta, a dimostrare che il suo protagonista era «Uno vero e naturale filosofo» (215, 5),con un florilegio di detti sapienti e memorabili; e mancandogli evidentemente la materia, si limitò a estrarli, talora copiando alla lettera e talora adattando più o meno felicemente al suo scopo, da un libretto allora corrente nelle stampe, la Vita dei filosofi, una compilazione popolare, che riuniva con l'autentico Diogene Laerzio volgarizzato elementi di tradizione e di colorito medievale. Nell'insieme dell'opera, quale ci è giunta nella copia dello Stradino, si sente dunque la discontinuità della composizione e il mutare del tono, da una raccolta di burle a un disegno di biografia aneddotica fra divertita e commossa, quale divenne dopo la morte.
Perché in sostanza questo libro di burle ha un fondo ingenuamente serioso: anche quando attribuisce al suo Piovano materia tradizionale di riso, l'autore tiene a testimoniare la realtà o ad assicurare la verosimiglianza di quei fatti, dice di esserne stato spettatore o insiste di averli avuti da fonte sicura[14]. Questo atteggiamento di memorialista, di testimone contemporaneo, con quel suo frequente intervenire nel racconto in prima persona, ma restando sempre spettatore passivo (e senza quel richiamo alla propria esperienza esemplare che è nell'«io» sacchettiano), diviene una caratteristica non accessoria del libretto, dà ad esso di tanto in tanto il tono: ed è il tratto che è stato cancellato, fin dal primo adattamento, dalle stampe che hanno fatto la fortuna popolare del personaggio obliterando ogni traccia dell'oscuro biografo e insieme ogni cenno di contemporaneità. Si inizia così quella spersonalizzazione del testo, della lingua e dei procedimenti narrativi, che accompagna di solito ogni fortuna popolare e che non riuscirà mai nel nostro caso a superare l'ibridismo linguistico e l'anacronistica contaminazione impliciti in questo lavoro di adattamento ai gusti mutevoli dei tempi e di un pubblico sempre meno esigente; ma non si riuscirà a farne un libro tutto da ridere se non tagliandone via la maggior parte e confondendolo con raccolte buffonesche di più bassa lega e provenienza, come quelle del Gonnella e del Barlacchia.
Nel testo primitivo questa presenza del narratore riveste il carattere di voce anonima, quasi pura determinazione sociale (un «piccolo mercante») nella quale si raccolgono le voci spesso contraddittorie di un ambiente (e non soltanto perché l'autore resta anonimo: anche se ricerche più fortunate delle mie potessero dargli un nome credo che questo non aggiungerebbe nulla a quanto possiamo saperne attraverso quel suo modo di vedere e di raccontare, così, appunto, anonimo). E come avviene un po' per tutte le opere d'ispirazione ed elaborazione elementare, alla cui base non sta una personalità complessa, è più facile definire questo libro per quello che non c'è ...: ma si sente subito che ci rimarrà pur qualcosa, un tono uguale di racconto, l'immagine un po' stemperata di una società piccola e lenta in cui personaggi grandi e minori, principi ecclesiastici mercanti popolani, vivono e conversano sullo stesso piano e hanno un po' tutti la stessa misura.
Intanto ci colpisce a prima vista la mancanza di determinazioni reali, che sono così forti e nette nella letteratura maggiore del tempo, ritratti o caricature fisiche e morali, ambiente, paesaggio: solo certe figurine appena schizzate si ricordano qui per un degno che dà loro vita istantanea, come quel frate «gaglioffo, unte e impronto» al quale ride l'occhio avido (fac. 7), oppure quel cancelliere che «era uomo tondo di pelo e aveva le tempie grasse» (fac. 165) o quella femmina del fondaco maggiore «grassa e grossa e corpulenta» (fac. 4). Ma sono appena spunti: persone e cose qui non sono viste, ma raccontate e ridotte alla misura sentenziosa del dialogo; e anche il lessico è povero di determinazioni realistiche.
Così, per un personaggio che occupa tutto un libro, il lettore si aspetterebbe di trovarci un ritratto, che fosse insieme fisico e morale, o almeno gli elementi per comparselo da sé cammin facendo: se lo cerca, resterà deluso. Perché è tanto domestico, tanto noto, che l'autore non si cura di descrivercelo. E gli interessano solo le azioni: sicché la singolare natura del protagonista sospesa tra realtà e leggenda si risolve tutta nelle sue trovate verbali o invenzioni ingegnose o magari nelle «opere di pietà», un po' come, per contrapposto ma anche per affinità, in certe vite di santi, collane di miracoli e di fatti memorabili, dove la santità è un presupposto, come qui l'indole bizzarra e faceta, e la corona delle azioni vale solo come ricordo esemplare della persona, ad gloriam et memoriam ipsius. L'arte del narratore, quando arte c'è, sta in una partecipazione naturale e domestica alle cose che narra, in quell'avvicinarsi senza preamboli e descrizioni, spesso attraverso il dialogo, a una situazione; la definirei un'arte del «presente narrativo», che della sua sintassi è la condizione più felice; e la narrazione riesce più agevole e chiara quanto più si immedesima con un significato morale: apologhi e favole mi sembrano fra le cose più nette del libro, fra le poche veramente belle. Questo per dire ancora che le cose, i gesti, le fisionomie, i particolari concreti sono quasi assenti in questo libro.
E chi cerchi un ritratto contemporaneo autentico non lo troverà qui, ma, seppur deformato nello stile del pittore, nel Simposio ovvero I beoni di Lorenzo dci Medici, quella stramba rassegna di facce accaldate o imbambolate o stravolte dal bere che ci offre in parte la dipintura dello stesso ambiente delle facezie, fra la taverna e il fondaco, l'ambiente chiuso dove fioriscono nelle conversazioni ammiccanti i motti triviali e le «natte»; e vi incontriamo infatti alcuni degli stessi personaggi che si riunivano al «Candiotto», piccoli mercanti, artigiani e notai; e anche qualche spunto comune di lingua di taverna. In quella galleria di caricature, incise con la punta acuta e spesso greve di un realista che ha un fondo un po' torbido di moralista, non manca il ritratto del Piovano Arlotto, un ritratto secco, maligno e di color perso che contrasta con la benevolenza e la simpatia del nostro narratore. Ed è una delle poche caricature riuscite del poemetto (cap. VIII), con quell'altro piovano, quello di Stia in Casentino, grasso bracato e gelatinoso «Come un catin di mal rappreso latte l quando chi 'l porta non misura i passi l triema tutto nel vaso e si dibatte», al quale segue e fa contrasto la figurina di folletto del Piovano Arlotto:
Un che mangiato par dalla mamreggia
soggiunse, e s'egli avesse un fuso in bocca
vedresti il viso proprio di un' acceggia
A questo ritratto fisico di magro beone (ed è curioso che la tradizione popolare lo abbia riformato poi in grasso e rubicondo, secondo l'immaginazione più usuale e tipica del clero e sulla traccia delle caratteristiche psicologiche gioviali delle facezie)[16], così acre e inciso con quel viso appuntito e corroso e quel capino di beccaccia, nel quale s'indovinano occhi piccoli e acuti, corrisponde una altrettanto secca definizione morale, non certo benevola, dove il Piovano è presentato come fedele del vino e poi del sonno, con spunti ironici di parodia religiosa che fecero sopprimere l'episodio nelle edizioni d'epoca controriformistica:
Costui non s'inginocchia al Sacramento
quando si lieva, se non v'è buon vino,
perché non crede che Iddio vi sia drento.
Segue una facezia (vv. 34-48), una delle tante che la tradizione orale avrà attribuito al Piovano e che non ha riscontro nella nostra raccolta (forse per quel suo sapore ambiguo e malevolo che non sarà piaciuto al nostro autore), ma ha avuto larga e indipendente fortuna popolare: con un suo compagno di sonno il Piovano ferma il sole come Giosuè «Contro natura», dormendo due giorni filati, ché levatisi dal letto i due compagnoni scambiarono l'armadio per la finestra e visto buio là dentro tornarono al sonno, un sonno che sarebbe stato eterno se un vicino non li avesse svegliati: «e così il terzo dì risuscitorno». Con queste iperboli della sete e del sonno accompagnate da un contrappunto blasfemo, il ritratto dei Beoni ha un leggero odore di pece e di zolfo: qui il Piovano è parente prossimo di Margutte, ma senza la distaccata simpatia del Pulci e con quel moralismo un po' greve che impedisce alla caricatura di sollevarsi a disinteressata creazione: quell'atmosfera di taverna e di trivio che nel Pulci è animata e lieve nella mimica dei gesti e delle parole, qui è acre e spesso irrespirabile. Anche nel Mor gante (xxv, 217) il Piovano entra con un suo motto non di beone ma di ghiottone, e anche qui c'è parodia della Scrittura, come spesso nel Pulci, ma in tono cordiale e diversamente svagato: a proposito di un piatto di ghiotta cacciagione, dove son «grassi ortolani», il Pulci[17] ricorda la interpretazione «scritturale» che il Piovano aveva dato del nome:
e però disse già il Piovano Arlotto
ch' avea più volte in su questo pensato
perch' e' sapeva c' v'è misterio sotto,
e finalmente or l' avìa ritrovato:
cioè che Cristo a Maddalena apparve
in ortolan, che buon sazio gli parve.
Anche questo scherzo manca nella nostra raccolta; come ne mancano alcuni che al Piovano sono attribuiti dal Poliziano nel Bel libretto[18]: in seguito, pur assottigliandosi, soprattutto per contraccolpo della Controriforma, la tradizione accoglierà elementi spuri, ma nel genere della burla più che in quello del motto[19].
La letteratura fiorentina dell'epoca di Lorenzo aveva dunque familiare, ancora quando Arlotto era in vita, la sua leggenda, che si coloriva soprattutto dei temi conviviali della gola, con una spregiudicata contaminazione di profano e di sacro che dei motti del Piovano doveva apparire fra i tratti più caratteristici, per concordanza di testimonianze, pur nel tono come s'è visto diverso, in Lorenzo de' Medici e nel Pulci. Ma per quanto questo motivo di parodia, cui la cultura ecclesiastica familiare al protagonista offre pretesto di riso divenendo giuoco senza contenuto, si ritrovi talora nel libro dei Motti e facezie (cfr. p. es. Jac. 34), è chiaro che esso qui è solo un accessorio, non incide nella definizione del tipo: ché il nostro narratore, in mezzo a quella varia materia di riso, si propone uno scopo apologetico ed edificante e ci vuol mostrare nel suo personaggio, se non pietà religiosa nel senso tradizionale, una pietà di sapore mondano, una religiosità realistica e popolare che ha interesse solo per la carità nella sua forma sensibile e concreta di «atti di pietà e di carità», e solo di fronte ad essa si commuove. Questo proposito non si fonde certo col tema principale del libro, che sono le ingegnose trovate verbali e le gaie gesta del Piovano, né si unifica con esso nella creazione del personaggio: ma ne costituisce pure parte integrante c oltre a risolversi in episodi che per quanto più monotoni non sono certo i meno sinceri e riusciti nel loro popolaresco candore, ci manifesta più scopertamente le tendenze dell'autore e della cerchia popolana che egli rappresenta. E del resto anche il gusto della burla o del motto spiritoso non è qui di solito fine a se stesso[20], com'è invece nel tono individualistico c intellettuale della facezia e del motto umanistico[21]; manca qui quel gusto spregiudicato dell'intelligenza come puro strumento di superiorità c di vittoria, scompagnato da ogni giudizio morale, che si risolve spesso in quella mordacità senza freno che viene condannata dai trattatisti (come il Pontano nel De Sermone e il Castiglione nel Cortegiano)in nome di una misura umana e sociale[22].Questi motivi di riso sono inseriti nel nostro libretto in una cornice sociale nella quale si definiscono interessi elementari di religione, di economia, di morale, di politica, pur nel loro valore generico di giudizi e di sentimenti collettivi, come fossero l'eco delle discussioni sotto la loggia dei Tornaquinci o sui gradini del duomo. Del protagonista è sempre messa in rilievo la socialità e la generosità e anche molte delle sue burle valgono a ristabilire una giustizia nei rapporti umani e a castigare l'egoismo e l'avidità e lo scarso senso sociale degli altri. C'è naturalmente sempre vivo, come in tutta quella società mercantile fiorentina, il senso dell'interesse privato e particolare, dell'abilità individuale, ma questo vale direi come riflesso, come senso del limite, di fronte al sospetto sempre vigile di passare per ingenuo e di farsi credere «dappoco». La sola forma di religione che qui è sentita, è, come s'è detto, la carità («per tutta la Scrittura santa non dice altro se non carità», 143, 10), e una carità di fondo sociale e mondano. Su questo tema il Piovano può permettersi di dare una solenne lezione, contrapponendosi a «questi frati gonfiati e pomposi» che si beano di parole, proprio alla pia Lucrezia Tornabuoni, che di fronte a lui s'era fatta candidamente vanto delle sue opere di pietà in maritare fanciulle e scarcerare gl'indebitati: «Io ve ne dirò una che è assai migliore, la quale è questa: non tòrre la roba d'altri, né la fatica, né il sudore di persona, massime de' poveri uomini» (47, 40). Qui si pensa all'arcivescovo Antonino, personaggio anche di queste facezie, e ai motivi sociali che circolano nella vita religiosa del Quattrocento anche fiorentino. L'atteggiamento verso i «poveri uomini», i lavoratori che vivono di braccia e di sudore, è di partecipazione e simpatia; e nella rappresentazione della psicologia elementare si possono cogliere alcuni dei tratti più veri e cordiali del libro, in figure appena sbozzate: come quel bracciante, il Cucina da Sesto, uno dei pochi personaggi veramente vivi, che si giustifica davanti al vicario ripetendo, «Son povero uomo, vivo di braccia e vo lavorando ... duro fatica volentieri .. . sono comparito volentieri ...» (fac. 77), e si confessa con brutale candore della sua vita privata che non è sua neppur quella, lui che non possiede nulla; e ne esce una pagina giusta nel tono, un realismo naturale e di mezzi così semplici e spogli, e quella fatica e quel candore animali riscattano la brutalità della situazione e il pretesto triviale del riso, che diviene riso umano e comprensivo come quello del vicario.
Si toccano così in questa parte anche toni di commozione, che restano spesso allo stato grezzo dello sfogo e dell'esclamazione sentimentale (cfr. p. es. 112, 37-48), come in molti di quegli episodi di pietà: di fronte alla miseria il Piovano è sbigottito fino alle lacrime: «Per piatà cominciò il Piovano a lacrimare .. . e lucciolando cogli occhi, ché le lagrime ne venivano giù ...» (124, 34 sgg.). Né c'importa se il narratore, preso dal suo proposito edificante, carica qui le tinte, e se, felice nella piana rappresentazione e nel tono dell'apologo morale, diviene impacciato e cade in una oratoria ingenua quando aggiunge o premette al racconto le sue considerazioni: notevole è intanto il carattere popolare di questa oratoria che non sente il pulpito e la sagrestia e mostra una partecipazione sincera per la vita dei «poveri uomini» e per i «poveri di Dio»; e a tratti ci è dato di cogliere spunti di un sentimento solidale di classe. Quest'atteggiamento di socialità e di etica popolare si rivela anche nelle storie della taverna: così quell'espressione «fare la carità», modo di origine religiosa usualmente scherzoso nel '400 fiorentino, per indicare il mangiare e bere in compagnia, qui non ha solo colore di scherzo, ché alla taverna si va per stare in compagnia con gente semplice e aperta: «Vengono mia amici e compagni marinai; né loro né io abbiamo casa né tetto: menanmi alla taverna per amicizia ed io vi vo per carità ... ; ti voglio accertare che tutti li uomini lieti, tutti quelli che giurono al corpo di Dio, tutti quelli che vanno alla taverna, tutti quelli che non graffiano i santi e che non si picchiano il petto, tutti quelli che ridano e che non pigolano ... sono uomini regali, giusti e buoni. Ma, Bartolommeo mio, guardati da chi ode dua messe per mattina, da chi giura 'per la coscienza mia' ...: tutte queste gente, cioè poveri uomini, che vanno alla taverna, sono ottime persone .. .» (36, 32 sgg. e cfr. fac. 143 ecc.).
Anche gli spunti di polemica religiosa sono ristretti a questo aspetto della morale sociale, lassa per quanto riguarda il peccato della carne o d'istinto (ché «lo abracciarsi l'uno con l'altro non viene se non da carità», 137, 73-80) e tollerante verso la libertà di linguaggio, anche il turpiloquio, ma intransigente verso l'ipocrisia, verso la mancanza di carità e di schiettezza e l'avidità del clero (cfr. p. es.Jac. uo). Soprattutto sull'alto clero, ma in genere sulla società ecclesiastica corrotta, si appunta talora la polemica e la satira: perché la religione non vive più come pratica quotidiana in un mondo corrotto e utilitario, nel quale, quando la forza manchi, bisogna sapersi difendere e destreggiare con le armi dell'astuzia e della prudenza: «e se fusse uno vivere santo, come già fu per il passato, io sarei ito a Roma e messomi a' piè di nostro Signore ... E però che non è più quello buono tempo, né quelli uomini santi, non lo voglio fare ...» (90, 5-15); e altrove a dimostrare perentoriamente che un giovane è «da bene e virtuoso» si ricorda «Che al tempo di questo pontifice mai non poté avere cosa alcuna di degnità o d'alcun bene, e sonei cento gaglioffi ragazzoni ... che sono essaltati insino in cielo» (17, 9-12).
Anche verso i letterati l'atteggiamento non è per lo più benevolo, caratterizzato dalla diffidenza tradizionale in questa piccola borghesia fiorentina di uomini volgari e senza lettere; per ragioni non certo di polemica culturale anche sottintesa, ma di morale «Sociale», che riguarda con occhio sospettoso chi vive appartato, in orgogliosa solitudine: «io ho veduto parecchi a' miei dì, per volere essere più savii delli altri e più litterati, diventare più matti, e mai non tornare in loro essere» (88, p). A questo motivo si collega quel singolare incontro e colloquio del Piovano con l'ombra di Leonardo Bruni ancora in attesa di giudizio: dove spunti antiumanistici di sapore tradizionale sulla vanità della scienza e delle ricchezze[23] e sul «trionfo della morte», sono risolti in senso mondano: dato che «in quello altro paese non ne possiamo portare cosa alcuna» (30, 61), conviene godere e far la carità in questo mondo, secondo un dettame attribuito a fra Iacopone (tanto popolare a Firenze in quel tempo) ma almeno in questa accezione sicuramente spurio: «Tanto è mio /Quanto io godo e do per Dio», che è la conclusione bonaria e ottimistica tanto spesso ripetuta e variata nel nostro libretto. Questo spirito è certo assai diverso da quello carnascialesco, dove c'è un brivido e un'ombra, entro l'impetuoso invito al godimento, che qui manca del tutto (ché il Piovano con tutta la sua bizzarria si presenta come campione del buon senso e il suo turbamento è cosa passeggera c serve solo a dar rilievo all'apologo di quella moralità popolana). Il segreto della felicità per questo che si proclama l'uomo più felice del mondo sta nel consumare moderatamente i beni della vita, senza aumentare troppo il capitale e la proprietà che vuol dire tribolazione, senza passare il «regno de' cento»: «e chi ha da cento in qua salva l'anima e in questo mondo trionfa il corpo» (113, 29). Quel padre sciagurato che era finito in prigione per debiti, aveva almeno lasciato al figlio un aureo comandamento: «mi ammunì che io vivessi con misura: questo boccale è misurato, e questo pane è appunto nove once» (143, 14). E l'esperìmento della felicità, attraverso il conteggio dei giorni lieti e tristi che s'incontrano in un anno, tenuto mettendo e levando fave entro la zucca secca, si conclude naturalmente con un bilancio positivo: «e nella fine dell'anno guardò quante fave erano nella zucca: e tanti buoni giorni gli erano restati d'avanzo» (121,12). La misura di questa saggezza è più economica che morale: l'attività economica, quella dei conti e dei piccoli traffici e guadagni quotidiani (e solo nello sfondo la presenza della società capitalistica dei banchieri e degli speculatori), tiene larga parte di questo mondo, suggerisce spesso temi e particolari narrativi: mentre il narratore è avaro d'altre precisazioni, come abbiamo visto, sempre rende conto preciso dei denari. E c'è anche qui la mentalità cauta e ottimistica dei piccoli mercanti: il mondo non è mai del primo venuto, ma di chi sa farsi un'esperienza delle cose; a un novellino il protagonista, anch'egli mercante (cfr. 57, 3-4), esclama: «non sai iguai che io ho patiti e i pericoli che io ho passati e a che modo io ho fatto i guadagni» (32, 49-50). L'elogio dell'attività mercantile e dell'interesse lecito «per rispetto del tempo» (95, 39) è sempre legato alla condanna morale delle speculazioni (cfr. p. es. 3, 130 sgg.) e dell'usura, e alla diffidenza verso le grosse fortune che si dissolvono in un momento, come quella di Luca Pitti, e sono esposte al giuoco della politica (che era un'esperienza reale e quotidiana nella Firenze della seconda metà del '400 con le sue avventure economiche alle quali non corrispondeva più il favore delle cose).
Un'altra manifestazione di questo spirito sociale e mondano è il senso civico: che non è solo spirito campanilistico e coscienza orgogliosa di superiorità (come quando l'autore osserva, a proposito del palazzo ad Aix del re Renato, che «sarebbe istato a Firenze una casa da uno debile cittadino», 165,33), ma riconoscimento della necessità della «republica»: il Piovano paga più volentieri le tasse straordinarie «per salute della republica» che le decime alla chiesa e si presenta come leale servitore dello stato; dichiara: «venderò ogni mio mobile per aiutare la mia patria» (148, 49), anche se con la sua sincerità riesce infine a pagar meno degli altri religiosi «i quali sinistravano quanto potevano per non pagare» (e si noti che questo lealismo prende un valore particolare, riferito com'è al tempo della guerra tra Firenze e Sisto IV, della quale anche quando l'autore scriveva non era certo spenta l'eco). La partecipazione alla vita del tempo si rivela anche nei motti e giudizi politici, dati alla buona conversando, come commento popolare entro una cerchia estranea ormai all'attività politica ma curiosa d'intendere: «come accade ragionare alli uomini popolari i quali non possono sapere le cose segrete che si trattano per le republiche e per li grandi prìncipi, e niente di meno sono desiderosi di intendere» (93, 2 sgg.). Come al solito il protagonista ha in queste conversazioni l'ultima parola e giudica realisticamente da intenditore che la sa lunga, controbattendo talora certo conformismo volgare («uomini bestiali e sanza alcuna ragione»), come quando «ragionando delle potenzie d'Italia» mette a posto una «presuntuosa cicala», che diceva male, nientemeno, dei Veneziani: altre città, Firenze compresa, hanno un «blasone» un po' derisorio di nobiltà commerciale o gastronomica, ma «li Viniziani si sanno fare signori di Lombardia, e parmi la monarchia d'Italia» (97, 17); un giudizio che non era certo quello corrente nella cerchia medicea[24]. E a chi faceva le lodi della «felicitas» dei Bentivoglio, quasi favore celeste, Adotto risponde portando la cosa nei suoi termini realistici di pura forza e insieme giudicando con scarsa benevolenza, come nei riguardi di tutte quelle città dove vale «la voluntà e l'autorità di uno proprio», cioè un potere personale: «dico che non è per grazia divina, perché loro isforzano ogni persona e le persone non possono isforzare loro ... Se altri potessino isforzare loro, come loro isforzano gli altri, la cosa andrebbe di pari e non vedresti tanta filicità» ( 114, 11 sgg.). E la politica di equilibrio e di pace del Magnifico è giudicata con favore, ma, dopo un preambolo di elogio, senza totale acquiescenza e con una certa incredulità, per il sentimento che quella pace è effimera («pace e mala volontà»): ne nasce la bella parabola della pace del monaco (fac. 93), come un'altra parabola, quella del tagliere (fac. 92), vuole rappresentare l'astuzia e l'energia diplomatica di Lorenzo, e insieme riduce la politica a uno svelto giuoco di mano.
In queste voci del «buon senso» che vuol essere l'opposto del senso «volgare», si sente sempre, dietro il personaggio, l'autore, e insieme con l'autore quella cerchia di minuta borghesia con le sue reazioni e i suoi commenti, talora contraddittòri, ai fatti del giorno; ma tutto questo vuol servire qui a mettere in luce la versatilità e l'acutezza del protagonista, la sua libertà di giudizio e quel suo dir cose serie attraverso scherzi e parabole: insomma tutto il suo mito popolare, che, se non vale di per sé a dar vita al personaggio, anima tuttavia di sé, restando intimamente legato alla cronaca quotidiana, i «motti» e le azioni del nostro libro. E per questo l'esame di tanti elementari interessi positivi, anche se spesso presenti allo stato di spunto e sempre episodici, non unificati entro una coscienza che sappia abbracciare insieme gli aspetti comici e quelli seri della vita, penso possa essere stato utile a caratterizzare la «popolarità» del libretto e il suo fondo ingenuamente serio e documentario. Anche il tema più disinteressato dell'intelligenza «naturale» che alimenta le trovate reali e verbali, sempre estemporanee («parlando con le genti nella mente sua le fabricava»), del protagonista, si inserisce in questo schema popolare: le burle di Adotto non hanno mai o quasi mai quel carattere aristocratico di giuoco intellettuale e fantastico che è nella tradizione di Bruno e Buffalmacco come di Filippo Brunelleschi e dei suoi amici nella lucida e spietata architettura della burla ordita alle spalle del Grasso. Si tratta qui di un dono di natura faceta che si accompagna alle doti «sociali» del personaggio, alla sua «carità» e al suo disinteresse, alla sua moralità che non guarda tanto per il sottile, anche ai suoi trascorsi e ai suoi peccati di lascivia e d'intemperanza verbale. La sua natura gli dà il privilegio di competere a tu per tu coi personaggi più illustri e di stupire tutti con le sue battute pungenti e vittoriose. E spesso nel sottolineare questa sua parità d'elezione coi grandi il narratore sembra candidamente compiaciuto, quasi si trattasse d'una rivincita, e adagia talora il racconto nello schema popolare, tradizionale dall'oriente al mondo medievale (si pensi p. es. a Salomone e Marcolfo), del savio d'umile origine e d'istintiva astuzia e intelligenza che discute alla pari col sovrano, ai piedi del trono.
Ma fra questi due mondi, quello popolano e quello cortigiano, si direbbe che l'autore sia talora diviso e oscillante fra un sentimento di classe con una polemica e una sua moralità spesso sottese e un gusto dell'intelligenza, della trovata ingegnosa che si celebra proprio fuori del quadro delle classi, nell'aristocrazia degli uomini svegli di spirito e pronti di parola. Dei due atteggiamenti il primo è certo il più nuovo, per quanto tracce se ne possano trovare nel moralismo sacchettiano, ed è il più congeniale al narratore; il secondo è coessenziale alla tradizione novellistica fiorentina, ma qui è riecheggiato stancamente, e acquista per riflesso del primo un tono popolare e gnomico che ci fa pensare al Bertoldo. Le battute del Piovano hanno spesso un fare sentenzioso, sono punteggiate di proverbi e di immagini popolari («Capitano, mai mi missi corazza che io non la adoperassi ...», 3, 78; «non è possibile che due persone entrino né possino istare in una camicia», 88, 48; «e' mi pare acqua di fabri», III, 76; «Chi ha capo di vetro non vadia a battaglia di sassi», II I, 89, e tanti altri); che talora trovano felice sviluppo nell'apologo e nella parabola svolti a illustrare una «moralità»: spesso prendendo lo spunto da un detto che ha il carattere d'indovinello e viene così svolto narrativamente (p.es. «la pace del monaco», 93; «il sonaglio», 95, «Il cane di Puglia», 173, e via dicendo). Un gusto simile, ma distaccato e riflesso, per questa gnomica e aneddotica popolare, si trova anche nel Pulci; e soprattutto, come raccolta di materia folclorica, nella sezione finale del Bel libretto, che illustra detti popolari, e in alcune delle ballatine popolaresche del Poliziano («il mal del prete» e simili). Ne risulta che nel protagonista la risposta e la trovata ad hoc prendono spesso questo colorito di saggezza popolare, che si esprime negli schemi della favola, dell'apologo e della novella esemplare[25] narrata a commento d'un fatto e rivolta talora a eludere una risposta diretta e a dare una lezione che sarà intesa solo dal destinatario; oppure sono sfoggi di estemporanea abilità inventiva, come nelle novelle parallele di tipo «amebeo» (p. es. 40-41 e 76-77), o negli indovinelli di tipo popolare, non plus ultra, impossibilia e definizioni ingegnose.
Come ho già accennato, mi pare che l'autore abbia mano più leggera e felice negli apologhi e nelle favole, proprio per quella moralità sottesa e per un'aderenza e una misura che mancano nelle novelle, generalmente prolisse e monotone. Si legga la favola sui topi in «Concilio a Roma», quando fu deciso di attaccare un sonaglio alla coda della gatta, ma nessuno si presentò per l'esecuzione (fac.96); o l'apologo degli astronomi che restano vittime del loro disegno in mezzo al popolo matto e si debbono piegare alla follia generale e fare «tutte le pazzie del popolo» (fac. 94); o quella bizzarra invenzione, che ha sapore di favola, del topo che, «nutricato bene uno mese a topi, uccellava per casa come una gatta» (fac. 166); o la storia delle gatte ammaestrate che dimostrarono alla fine che il «naturale» può più «dell'accidentale» (fac. 134): sono, questi e tanti altri, temi già divulgati, ma con quanta grazia son rivissuti e adattati al caso e al momento; e un tono originale qui c'è, sapido e discorsivo: si pensi, per vicinanza e insieme per contrasto, alle favole del Burchiello o magari a quelle del Pulci, dove ai margini del disegno netto e tanto più inciso c'è sempre un più d'intelligenza compiaciuta e quel sottile umore fantastico e un po' visionario che qui è di solito assente, mentre predomina il modo piano e bonario della gnomica popolaresca.
Ma si dirà: e il riso delle facezie? Non c'è naturalmente quel «Humor» a cui il Wesselski accennava[26] e che esige sempre una disposizione d'arte riflessa e sottile, ma neppure il buffonesco grossolano di certa letteratura popolare (né tanto meno un'epopea caricaturale come quella di Morgante e Margutte): ma c'è un comico quotidiano nutrito di situazioni ridicole, fatto certo per palati di non difficile contentatura e legato alle occasioni della piccola cronaca contemporanea.
E se il tono è uguale, le occasioni del riso sono varie, anche se ridotte al tipico secondo il gusto del narratore: c'è un comico di qualità più facile e scadente, come quello che nasce da un intreccio meccanico con invenzioni spesso monotone amplificate e reduplicate; peggio, direi, quando vi si sente il chiuso mondo parrocchiale, la sacrestia (con qualche eccezione per quei due personaggi, messer Antonio e ser Ventura, che, per quanto genericamente disegnati, hanno una loro funzione tipica, con l'astuzia non generosa dell'uno e la generosa semplicità dell'altro, puro strumento di giuoco, che servono a colorire l'astuzia disinteressata del protagonista): così nei particolari, talora orripilanti (come lo scherzo del teschio) o scatologici, delle variazioni sul tema culinario. Cucina e scatologia sono i terni prediletti di certa aneddotica buffonesca di sagrestia e saranno tollerati anche in tempo di Controriforma, quando si espungerà severamente tutto quello che aveva attinenza al sesso: sicché questa parte, che qui fortunatamente è molto meno larga che nelle facezie del Gmmella o in altre consimili, prende un rilievo maggiore proprio nelle edizioni espurgate.
Ma c'è un riso di natura più cordiale; talora anche di qualità più sottile. Ché, se non si tocca qui se non appena sfiorandolo (e in maniera troppo tenue perché esso contribuisca a dare ai personaggi una maggiore consistenza) quel motivo del «Comico psicologico» o dell'interiorità del riso che è per esempio nella novella del Grasso, soprattutto nella più ampia stesura, («la maggiore parte delle cose da ridere erano state, come si dice, nella mente del Grasso»), ci sono tuttavia situazioni in cui il riso nasce dall'interno, come in quella facezia 48 della «paura che il Piovano ebbe in Santo Romolo in Firenze», quando Arlotto rimane vittima una volta tanto del suo eccesso di fantasia e quell'accorrere improvviso di sbirri e artigiani affacendati crea in lui d'improvviso un ridicolo complesso di colpevolezza; o in quell'altra paura della peste immaginaria di cui fa le spese messer Rosello (fac. 84). Ma anche questo motivo fantasioso della paura immaginaria non è qui suscettibile di svolgimento, com'è per esempio nel Lapaccio sacchettiano.
S'è detto che manca quasi del tutto la caricatura nella rappresentazione dei personaggi, dal protagonista alle figure di primo piano a quelle di sfondo: pure c'è spesso una caricatura nelle situazioni di certi racconti, una deformazione del reale che diviene comica metafora[27]: dall'iperbole, quando essa riesce veramente ad animare la realtà in uno specchio deformante e non è puro pretesto verbale, nascono alcune delle cose migliori.
Fra le più felici direi l'incontro con la femmina nel fondaco maggiore (fac. 4), in cui la materia di trivio è riscattata proprio da quella metafora dell'immensità della carne che diviene «Cosa meravigliosa», oggetto di attonita fantasia, sì che la battuta, anch'essa enorme («questo è uno apparecchio da uno cardidinale»), suona come commento naturale e proporzionato alla cosa e suggella la fantasia con una iperbolica risata. O si guardi a quella risposta (fac. 46) data a chi si faceva meraviglia del gran bere del Piovano: una iperbole della sete tradotta in una immagine assorta e bislacca, ma incisiva («Non ve ne fate maraviglia: io venni questa notte da Pisa in su 'n una iscafa su per Arno, che portava sale, e dormì' in su uno di quelli sacchi di sale, che m'ha tanto risecco dentro che io non mi caverò la sete di questi otto dì ...»). O anche quando di fronte alla minestra lunga lunga d'un ospite avaro Arlotto «cominciasi a scignere e a sfibbiarsi e a mandarsi sùe le maniche», per vedere se almeno a nuoto potrà afferrare gli irraggiungibili ceci (fac. 108). Sono, queste e altre, invenzioni di un riso più raffinato e fantasioso, nelle quali l'anonimo narratore è vicino a quell'umorismo di lega burchiellesca, un po' incantato e lunatico e di fondo lievemente surreale, che tanta fortuna ebbe nel'400 fiorentino e che aveva del resto a Firenze antica tradizione; pure, fra queste «Stramberie», l'autore conserva quella sua Inisura bonaria e cordiale, sì che esse restano sempre scherzi estemporanei e trovate aneddotiche, espiègleries e calembours, non sconfinano mai in immagine fantastica che tocchi in qualche modo e trasfiguri la sostanza del personaggio.
Alla resa dei conti il pregio assai modesto ma genuino di questa prosa mi pare consista proprio nel suo collocarsi fuori di qualunque tradizione letteraria; come il suo interesse documentario sta nel presentare, prima del Bertoldo, spunti e scherni di narrativa «popolare». Se a una tradizione si volesse risalire, si dovrebbe se mai pensare al Sacchetti «minore» e più impersonale di certe novelle[28], sia per una somiglianza vaga di temi e per quel narrare talora in prima persona e riferirsi a una memoria esemplare di fatti sperimentati, sia soprattutto per il linguaggio narrativo, privo di riferimenti letterari e affidato in prevalenza al «parlato»: ma se si va a verificare da vicino resta poco più che una occasionale affinità di contenuti e d'ambiente sociale, mentre il parlato qui non è mai in funzione mimetica e orchestrale e manca ogni varietà di ritmi narrativi, crescendo e diminuendo: la costruzione è lineare ed elementare, senza scorcio.
Il difetto di maturità e di elaborazione letteraria resta certo sensibile: fa si che, non ostante la cordialità d'accento, la affabilità discorsiva e quella elementare chiarezza e naturalezza di linguaggio che talora è raggiunta, questa prosa ci sembri spesso, in confronto di certa prosa contemporanea di tono popolaresco ma di più raffinata fattura, monotona e inarticolata e povera di forza rappresentativa, e insieme puerilmente compiaciuta: una minestra che qualche volta è un po' sciocca e brodosa come quella in cui il protagonista voleva tuffarsi per agguantare qualcosa da mettere sotto i denti. Ma chi sappia mandarla giù troverà insieme qualcosa di nuovo e di saporito e di nutriente: soprattutto una virtù di narratore schietto e divertito che sa rifar sua in modi popolani e gnomici questa popolare leggenda. E mi pare che alla sua voce non del tutto usuale possa toccare un posto minore ma sicuro nella biblioteca dei nostri narratori.
Il commento al testo è stato distribuito in un'appendice di note e glossari: nella nota sul testo e nelle postille il lettore troverà col commento filologico la giustificazione del testo e qualche sobrio riscontro di fonti; negli appunti linguistici e nel glossario saranno illustrati la fisionomia linguistica e il lessico; nell'indice dei nomi propri si troveranno i dati storici e documentari essenziali.
Da questo lavoro, frutto di una fatica non sempre grata anche perché più lunga del previsto, non posso separarmi senza ringraziare quanti lo hanno agevolato: dalla dott. Teresa Lodi che mi ha fra l'altro concesso di poter collazionare il manoscritto laurenziano con la stampa principe alla Nazionale di Firenze, al personale tutto della Nazionale e dell'Archivio di Stato di Firenze; last not least l'editore, attento, paziente, appassionato.
NOTE
[1] Vedi, per tutta questa parte, la Nota sul testo, pp. 287-302.
[2] Le facezie del Piovano Arlotto, precedute dalla sua vita e annotate da Giuseppe Baccini, Firenze, Salani, 1884, completate in parte con Tre facezie del Piovano Arlotto, Ramnete [Firenze] 1884. Nessun valore ha l'unica edizione italiana più recente, Scelta di Facezie e burle del Piovano Arlotto, con pref. di L. Bracaloni, Firenze, Giannini, 1936, che offre una scelta composita da stampe tarde e dall'ed. Baccini.
[3] Die Schwiinke und Schnurren des Pfarrers Arlotto, gesammelt und heraus gegeben von Albert Wesselski, Berlin, Alexander Duncker, 1910, voll. 2, il lavoro più ampio e ricco su questa raccolta e sulla sua tradizione; dati in parte nuovi si trovano in un più tardo lavoro dello stesso Wesselski, Angelo Polizianos Tagebuch (1477-179), zum ersten Male hcrausgegeben von Albert Wesselski, Jena, Eugen Diederichs, 1929, con larghissime e precise illustrazioni del Bel libretto che Ludovico Domcnichi stampò nel 1548 servendosi di un esemplare dello Stradino e che contiene alcune facezie d'Adotto che risalgono in parte alla nostra stessa tradizione.
[4] Cfr. p. es. G. Amalfi, Wer hat die Facetien des Piovano Ariotto kompiliert? in «Zeitschrift des Vereins fiir Volkskunde», VII (1897), p. 261 sgg. E 376 sgg., volto soprattutto a dimostrare con raffronti spesso arbitrari il carattere tradizionale del contenuto.
[5] La trattazione più ampia, ma quasi interamente occupata da ricerca di fonti (che utilizza giudiziosamente i dati dell'Amalfi e del Wesselski), è ancora in Italia quella di L. di Francia, Novellistica, Milano 1924, I, pp. 380-390; il giudizio più equilibrato e sicuro è quello brevissimo di V. Rossi, Il Quattrocento, 2a ed., p. 210.
[6] Oltre la traduzione tedesca va ricordata quella francese di P. Ristelhuber, Les contes et facéties d'Arlotto, Paris, Alphonse Lemerre, 1873, che utilizzò in parte una vecchia traduzione francese, Le Patron de l'honneste raillerie, Paris, Gervais Clouzier, 1650, e in parte tradusse di suo da vecchie stampe italiane e da un'altra traduzione tedesca manoscritta, dando una raccolta composita ma con buone illustrazioni. Carattere puramente divulgativo ha invece G. Peytavi de Faugères, Figures fiorentitles d' autrefois: un Rabelais .fiorentin, in «Nouvelle revue», 15 dic. 1937 – 1 febbr. 1938.
[7] Questa risale nella sua struttura, se non nel suo spirito, soprattutto attraverso Svetonio e Plutarco, alla biografia antica di stampo peripatetico che considera nell'uomo non lo svolgimento ma un carattere già compiuto e tende appunto a una tipologia di caratteri: ove l'aneddoto e la facezia sono il complemento illustrativo di un ritratto morale. Si vedano come esempi tipici, ancor più che le Vite del Bisticci, più tradizionali, la Vita di Castruccio e quella di Cosimo nelle Storie fiorentine (VII, 6), dove il Machiavelli conclude: «Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho imitato quelli che scrivono le vite de' principi, non quelli che scrivono le universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione, perché, essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato necessitato con modo estraordinario lodarlo».
[8] Per una traccia sommaria si veda l'introduzione spesso imprecisa dell'opera cit. di P. Ristelhuber, pp. VII-XVI. Un profilo essenziale per il medioevo tedesco si può trovare in P. Merker-W. Stammler, Reallex der deutschen Literaturgeschichte, Berlin 1928-29, s. v. Schwank, III, 208-213.
I precedenti più interessanti, come termini di un confronto sociologico che non è stato mai tentato (rapporti letterari anche indiretti sono nel nostro caso naturalmente esclusi), sono nella letteratura medio-alto-tedesca, particolarmente in Austria, dove anche la satira religiosa sulla corruzione del clero aveva tradizioni più alte e illustri (si ricordi almeno lo Pfaffenleben del benedettino Heinrich von Melk, ed. R. Heinzel, Berlin 1867) e precedette una letteratura burlesca, di spiriti non polemici ma borghesi e realistici, non distanti da quelli di certi fableaux e soprattutto dell'epopea animalesca di Renardo. ll primo ciclo burlesco tedesco è appunto la storia dei tiri burloni del parroco Amis (Der Pfaffe Amis), composta dallo Stricker (il poeta vagante di origine francone ma fissatosi a Vienna) fra il 1230 e il 1235: si tratta di una specie di favolello in dodici episodi (la fonte è probabilmente inglese, ma giunta allo Stricker per tramite francese), che formano una vera e propria biografia burlesca, fino a quando il protagonista si ritira in convento pentito delle sue gesta (si tratta non solo di burle innocenti, ma di vere ruberie, con spunti che potremmo dire picareschi ante litteram); si veda la buona edizione ancora insostituita di Hans Lambel, in Erziihlungen und Schwiinke, Leipzig 1872 («Deutsche Classiker des Mittelalters», vol. 12). Sulle orme dello Stricker, ma molto meno felicemente e con caratteri più cortigiani e buffoneschi, il viennese Philipp Frankfiirter narrò in un suo poema burlesco Der Pfarrer vom Kalenberg le gesta in parte autentiche di Wigand von Dewin, il popolare parroco vissuto intorno al 1350 a Kahlenbergerdorf presso Vienna e alla corte del duca di Stiria Otto 'der Frohliche' fratello di Alberto Il: oggetto delle sue burle sono i contadini del suo popolo, ma anche il vescovo e i duchi: si veda la prima popolare ediz. ristampata in «Neudrucke deutscher Literaturwerke des 16 und 17 Jahrh», n. 202- 14 (1907). La grande popolarità del personaggio produsse imitazioni e continuazioni, p. es. la Ristori Peter Lewen, des andern Kalenbergers, composta da A. J. Widmarm nel 1550. Gioverà infine ricordare che la prima redazione delle storie di Till Eulenspiegel, senza le caratteristiche che allibro e al personaggio darà la polemica protestante, appartiene all'incirca allo stesso periodo delle facezie arlottiane (una prima ediz., perduta, forse già in alto tedesco, era uscita probabilmente nel 1483: per l'ediz. di Strasburgo del 1515 si veda la ristampa di H. Knust, Halle 1885).
[9] Per la vita i dati più copiosi e precisi, in cui i risultati di accurate ricerche d'archivio sono uniti all'esposizione della materia aneddotica, sono ancora quelli di Domenico M. Manni, Notizie di Arlotto Maillardi in «Le veglie piacevoli», 3a ed. Firenze 1815,III, 73-120 (la prima ed. fiorentina è del 1757, ma la vita era già stata stampata nel livornese «Magazzino toscano d'instruzione e di piacere», 1754 sgg.); G. Lami, Sanctae Ecclesiae Florentirwe Monumenta, Firenze 1758, I, 225-228, dà in parte la traduzione della Vita introduttiva e riporta la bolla di Sisto IV che definisce nel febbraio 1483 l'unione perpetua della Pieve al Capitolo di S. Lorenzo (cfr. D. Moreni, Memorie della basilica di S . Lorenzo, Firenze 1816, pp. 142-143). Sulla storia della Pieve cfr. Mozzi, !storia di S. Cresci, Firenze 1710.
[10] In un catasto del 1438 (Arch. di Stato di Firenze, cat. 603, Firenze e Fiesole), l'inventario delle «Sustançe della pieve di S. Cresci a Maciuole» (fase. 248) è sottoscritto da «mess. Stefano Chalonacho», mentre la portata del1478 (cat. 988, c. 18) agli «offitiales super irnposita presbiterorum» è di mano di «mess. Adotto piovano». Un confronto dei due catasti ci dà a distanza di quarant'anni la misura di un progresso economico degno di nota. Nel primo la pieve risulta carica di debiti, le rendite sono esigue e precarie («... à di decima la detta pieve staia dodici di grano se ssi rischotesse, ma per povertà non si può rischuotere»), l'edificio è cadente («Affare fare di nuovo tucto il tecto della pieva d'ogni fornimento perch' è fracido e piove per tucto ...»); nel secondo è dichiarata per i tre poderi una rendita complessiva in solo grano di 187 staia e tutta la proprietà risulta fiorente.
Un altro autografo (una obbligazione dell'8 marzo 1460, conservata nella sez. notarile dell'Arch. di Stato di Firenze) è riprodotto in Wesselsk.i cit., vol. I, p. XXXIII: ne dava già la trascrizione il Baccini, op.cit. p. 19.
[11] La data del 1483, quale risulta dall'apografo e dalle stampe, è errata, come ha mostrato il Manni, op. cit. p. 117; e la morte va portata alla data del 26 dicembre 1484, confermata dai libri di ricordanze del Capitolo di S. Lorenzo e dai dati dell'archivio di S. Maria Nuova. Nella unione della Pieve al Capitolo di S. Lorenzo, sancita con la bolla del 10 febbraio 1483, si stabili un uffizio perpetuo in S. Lorenzo per suffragio dell'anima del Piovano Adotto, quando fosse morto, e che dopo la morte il Capitolo «ogni anno dovessi dare per limosina staia otto di grano, barili quattro di vino, posto ogni cosa in Firenze, a M. Caterina di Simone, per gratitudine che governa detto Piovano Adotto». Una sorella, suor Candida, risulta monaca nel monastero delle Murate.
[12] Si controlli qualche dato cronologico: facezia I (ante 1459), 2 (post 1470), 13 (a. 1463), 19 (a. 1459). 23-24 (a. 1469), 26 (p. 1474), 50 (1450), 81 (1482), 84 (1450), 89 (1476), 92-93 (1480), 99 (1450), 111 (1475), 115 (p. 1480), 144-145 (1484), 147 (a. 1459), 148 (1478) ecc.
[13] Si veda ancora il ritratto di Cosimo nelle Storie fiorentine (VII, 6)del Machiavelli (ed. Casella, in Tutte le opere, Firenze 1929, p. 566): «Fu sanza dottrina, ma eloquentissimo e ripieno d'una naturale prudenza ...; ne' suoi detti e risposte era arguto e grave»; e segue un florilegio di «detti piacevoli» che risale in parte alla stessa tradizione del Bel libretto. Com'è noto (cfr. F. P. Luisa, I detti memorabili attribuiti a Castruccio Castracani da N. Machiavelli, in «Castruccio Castracani degli Antelminelli. Miscell. di studi stor. e letter. ed. dalla R. Accad. Lucchese», Firenze 1934, pp. 217-260, con riscontri puntuali in appendice) anche il Machiavelli completa il suo ideale ritratto di Castruccio con un excerptum delle Vite dei filosofi, in cui però non si serve della fonte popolare, ma volgarizza liberamente il testo di Diogene Laerzio (vite di Aristippo, Bione e Diogene) tradotto in latino da A. Traversari, conservando anch'egli generalmente l'ordine che i detti hanno nell'originale. È un altro episodio, ben più alto e significativo, della grande fortuna di Diogene Laerzio nel Rinascimento.
Va ricordato che anche G. C. Croce, ristampando nel 1608 il Bertoldo già edito nel 1606, vi aggiunse oltre al Testamento una silloge di Detti sententiosi.
[14] Così, p. es., nella fac. 73, in cui la testimonianza dell'autore («Uno giorno ero col Piovano Adotto e con certi altri suoi amici a sedere in su una panca ...») è solo evidentemente una coloritura narrativa, ché la facezia è ispirata da Poggio (cfr. Post.); lo stesso avviene in qualche altro caso.
[15] Il passo non è stato inteso da nessuno dei molti editori moderni del poemetto che introducendo la punteggiatura hanno tradizionalmente considerato soggiunse come verbo di dire e le parole seguenti come discorso diretto, con la conseguenza di rendere incomprensibile quello che mi sembra a prima vista chiaro: così dall'edizione del Carducci, Lorenzo dei Medici, Poesie, Firenze, Barbera, 1859, a quelle del Simioni, Bari, Laterza, 1914 (vol. II, p. 187), e del Bellorini, Opere scelte, Torino, Utet, 1922. Marmeggia è un parassita delle pelli e della carne secca (per l'etimologia cfr. G. Alessio in «Lingua Nostra», XIV, 1953, p. 20), acceggia la beccaccia; soggiungere 'sopraggiungere' è ben documentato.
Anche il Burckhardt, La civiltà del Rinasc. in Italia, p. V, cap. IV (5' ed. Zippel, Firenze 1944, p. 454) equivoca sul passo, confondendo fra i due personaggi.
[16] Anche il ritratto del Piovano Adotto ha una sua storia, in parte mescolata a quella della tradizione popolare del testo, in parte legata all'immaginazione del tipo. Infatti, mentre nell'originale manca ogni traccia per una definizione fisica, già assai presto alcune stampe veneziane (p. es. quella dello Zappino del 1535, cc. L 5-7) presentano un'interpolazione di facezie braccioliniane tradotte, delle quali la prima è quella del «Piovano de Septimo» che domanda a un villano se poteva entrare in Firenze: «El vilano videndo el Piovano molto corpulento, ne la grassezza sua iocondo, rispose: - Un carro di feno non che tu gli intrarebbe». La facezia si aggregò così a quelle d'Arlotto e favorì la formazione del ritratto tradizionale; e nel rifacimento giuntino del 1565fu inserita con altre nella Vita iniziale (c. A VII r): «Era di viso giocondo e di mediocre statura ma corpulento, alla grassezza del quale alludendo un contadino, a cui il Piovano tornando da Settimo a Firenze domandò ...». Come si vede il ritratto dei Beoni è stato capovolto. Ancora il Di Francia, Novellistica cit., p. 3So, introduce così il personaggio: «Eccolo qui, l'uomo veramente faceto, grassotto, rubicondo, dall'occhio vivo e pieno di malizia, in contrasto con la severità dell'abito talare ...». Si confronti il ritratto di Giovanni da S. Giovanni, pag. XIV, che risale probabilmente a tradizione autentica e rifà manieristicamente un volto scavato e arguto, con le stampe popolari ispirate da un ritratto perduto del Bronzino o con la figurina popolaresca del bel quadro del Volterrano: e si vedrà riflesso nell'iconografia lo stesso contrasto.
[17] II Pulci ricorda come proverbiale la predica d'Adotto (fac. 3) nella frottola seconda, scritta probabilmente dopo il malinconico ritorno dalla Lombardia nel 1480 (L. Pulci, Frottole, ed. G. Volpi, Firenze 1912, II, 82: «Questa sarà la predica - che fé il Piovano Adotto: - chi guarda per un rotto - il tutto mal comprende»). La fortuna proverbiale delle facezie ridotte a paragoni popolari allusivi, in cui si dimentica o si capovolge talora il significato della storia, è piuttosto larga e documentata nelle raccolte di espressioni proverbiali, da quella del Serdonati in poi («come la predica del Piovano Adotto», cfr. fac. 3, cioè 'inteso malamente’; «come il Piovano Adotto», cfr. fac. 28, 26, cioè 'sa per leggere solo nel proprio libro;«come la bandiera del Piovano Adotto», cfr. fac.67, cioè 'composto di pezze rubate'; «come la sepolutura del Piovano Adotto», cfr. Jac. 145, cioè 'largo e accogliente'; «Come il cane d'Adotto», cfr. fac. 135, cioè 'sconttoso'; «Come i pesciduovi di Badia», cfr. fac. 13, cioè 'composito e bastardo', e via dicendo). Riferimenti frequentissimi a detti popolari del Piovano, autentici e spuri, sono nel Doni, p. es. cfr. I marmi, ed. Chiorboli, Bari 1920, I, II,106, 146, 165; Il, 160, 186 : ma talora si tratta di bizzarre invenzioni del Doni (p. es. cfr. I, 11, «se 'l Piovano Adotto non m'inganna, che ne fa memoria nelle sue facezie»: e si tratta di una facezia che non è compresa in nessuna raccolta) che pretendeva d'aver visto un Libro degli errori di mano dello stesso Adotto. Sui «come disse» attribuiti al Piovano si veda ora Ch. Speroni, The Italian Wellerism to the End of the 17th Century, Berkeley and Los Angeles, 1953, pp. 14-16 e 57.
[18] Oltre quelli che risalgono alla nostra stessa tradizione e che verranno riportati nelle Posi. al testo, si vedano i seguenti aneddoti del Bel libretto, ed. Wesselski cit., n. 87: «Il Piovano Adotto dice che non volle mai essere compare, per non avere a dire abremmtio, acciò non fusse chi interpretasse che egli renunziasse la pieve». che si può legare nel nostro libro ai vari aneddoti ispirati dalla lite per la pieve; n. 351: «Invitando uno a desinare il Piovano Adotto disse:-Io ho certi gallettini che si saltano adosso tutto dì l'un l'altro, in modo che io ho tutti condannati al fuoco» (per un motivo simile cfr. la nostrafac. 109); n. 352: «Un certo cicalone si accompagnò col Piovano Adotto che veniva a Firenze, e dimandatolo:-Che date voi a mangiare a cotesta mula?-, e innanzi che 'l Piovano rispondesse, seguitò colui e innestò altri ragionamenti, tanto che giunsero a Firenze. Qui partendosi l'uno da l'altro, disse il Piovano: -Paglia-, ché prima non avea potuto».
[19] Tra queste burle attribuite ad Arlotto dalla tradizione più tarda le più famose sono quella del vino (cfr. Manni cit., p. 109) che fornì il tema al famoso quadro del Volterrano, e quella del porco introdotto in città senza pagar dazio con un burlesco funerale.
[20] Cfr. invece J. Burckhardt, La civiltà del Rin. in Italia, trad. ital. cit., p. 84, «l'arguzia di Adotto e gli scherzi del Gonnella non hanno altro scopo che la vittoria e il trionfo sugli avversari ...»; il B. generalizzando estende a queste raccolte popolari, che hanno in complesso carattere molto diverso, le tendenze della facezia umanistica.
[21] Sulla storia della facezia, motto e burla (facete dieta et facta), manca uno studio complessivo che ne illumini il significato entro la cultura e la società del Rinascimento. Si veda il generico profilo di G. Fabris, Per la storia della facezia (in «Raccolta di studi ... Flamini», Pisa 1918, p. 83 sgg.) che non riesce a cogliere l'individualità della facezia umanistica nei suoi precisi limiti storici e culturali (si veda anche Rossi, Quattr. cit., pp. 208-210). Gli spunti più suggestivi, malgrado gli errori di fatto e di prospettiva, sono ancora nel capitolo già citato dell'opera classica del Burckhardt, La civ . del Rin. in It., ed. it. cit., p. II, cap. IV «Il motto e l'arguzia nel senso moderno» (pp. 180-198). Per riprendere più concretamente la questione si dovrà partire dalle vivaci discussioni teoriche della trattatistica e precettistica rinascimentale: per il De sermone pontaniano si veda E. Walser, Die Theorie des Witzes und der Novelle nach dem uDe sermone» des J. Pontanus: ein gesellschaftliches Ideal vom Ende des XV Jahrhund., Strasburgo 1908 (e la ree. di B. Soldati in «Giorn. stor. lett. it.», 53, 405); per il Cortegiano il commento del Cian nell'ultima ed. del 1947 offre, per l'ampia disquisizione teorica sulla facezia e l'abbondante esemplificazione del secondo libro (II, 42-97), una base preziosa di studio, coi riscontri classici, soprattutto ciceroniani, e con quelli dal De sermone.
Per il mondo tedesco, dove la facezia umanistica trovò terreno preparato e fertile, cfr. K. Vollert, Zur Gesch. d. lat. Facetiensamml. d. 15 u . 16 Jhs., in «Palaestra», XIV (1912), p. 113 sgg., e la voce Facetie nel Reallex. cit. di Merker-Stamrnler.
[22] Anche il Machiavelli condannerà lo stile individualistico delle giovani generazioni quattrocentesche, cfr. St. fior., VII, 27 (in Tutte !e opere, Firenze 1926, p. 583): «Gli studi loro erano apparire con ilvestire splendidi e con il parlare sagaci e astuti; e quello che più destramente mordeva gli altri era più savio e da più stimato». Il nostro narratore, benché giudichi il suo personaggio «istrazievole» (112,16), tiene sempre a far rilevare la sua misura e piacevolezza, p. es. Vita, 30: «mai ingiuriò persona, mai non voleva parlare se non ragio;namenti piacevoli e grati alle genti».
[23] Sull'affermazione del «valore della ricchezza» come importante motivo umanistico si leggano le acute considerazioni di E. Garin, L'Umanesimo italiano, Bari 1952, pp. 59-64.
[24] Si noti che accanto a personaggi della cerchia medicea sono qui rappresentati come a mici del Piovano uomini appartenenti a cerchie ostili ai Medici, come i Neroni o i Pazzi (p. es. Iacopo de' Pazzi, 201): il che può spiegare in parte quella certa acrimonia del ritratto dei Beoni.
[25] È un filone che risale in parte alla letteratura medievale degli exempla, ma assume qui un diverso carattere: per analogie col «bispel» strickeriano cfr. L. Jensen, Ueber den Stricker als Bispei-Dichter, Marburgo 1885.
[26] Cfr. A. Wesselski, Die Schwiinke und Schnurren cit., vol. I, p. XIII.
[27] Cfr. Cast., Cortegiano, II, 46, 1-4 (ed. cit. p. 208): «loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa deformità; perché solamente si ride di quelle cose che hanno in sé disconvenienzia, e parche stian male senza però star male»; che è liberissima traduzione da Cic., De Orat., II, 58.
[28] Cfr. L. Caretti, Saggio sul Sacchetti, Bari 1951, p. 160: «Chi considera certe novelle 'minori' del Sacchetti (brevi scene, piacevoli risposte, arguti motti di grandi personaggi, aneddoti ecc.), riporta quasi sempre l'impressione, in parte giustificata, di una semplicità essenzialmente schematica ...».