Movimenti politici e sociali
Nello studio dei movimenti politici e sociali, più che in qualsiasi altro ambito della ricerca sociologica, vengono alla luce sia i vantaggi che gli svantaggi di un approccio interdisciplinare. Laddove nello studio dei partiti politici e dei gruppi di interesse i ricercatori possono essere tentati di adottare un approccio strettamente disciplinare, nel caso dei movimenti politici e sociali non possono permettersi di privilegiare gli aspetti politici, trascurando quelli sociali, sociopsicologici ed economici. In realtà, se vi è una distorsione nella letteratura sull'argomento, questa è dovuta al fatto che - soprattutto nell'area angloamericana - i movimenti sono stati considerati quasi esclusivamente in termini sociali e sociopsicologici, trascurando la loro interazione con il conflitto politico e con le istituzioni politiche.Il carattere interdisciplinare della ricerca sui movimenti sociali, tuttavia, ha il suo lato negativo nella varietà dei parametri definitori che hanno accompagnato lo sviluppo di questo campo di studi. Da un lato, seguendo le orme di Michels, alcuni studiosi hanno focalizzato l'attenzione sulle strutture organizzative dei movimenti (v. Zald e McCarthy, 1987); dall'altro, altri studiosi hanno ampliato il campo d'indagine sino a includervi praticamente ogni corrente d'opinione e ogni azione collettiva, dai movimenti letterari sino ai tumulti e agli assembramenti spontanei. Un'altra conseguenza negativa dell'approccio interdisciplinare ai movimenti sociali è rappresentato dalla varietà di metodi con i quali il fenomeno è stato studiato: dall'analisi degli atteggiamenti individuali alle raccolte sistematiche di dati relativi a eventi storici, alle analisi delle strutture organizzative, agli affreschi di largo respiro di determinate correnti di pensiero e ideologie, questo campo d'indagine si presenta oltremodo ricco ed eterogeneo sul piano metodologico. A questa ricchezza nata dal sincretismo metodologico si aggiunge la tendenza di molti attori politici a definire i propri partiti 'movimenti' - anche quando già da tempo questi hanno cominciato a partecipare a normali competizioni elettorali. Ma se questa ricchezza costituisce un aspetto stimolante, l'eterogeneità dei metodi e delle definizioni impedisce di cumulare e replicare i risultati della ricerca.
In questo articolo definiremo i movimenti politici e sociali come sfide collettive avanzate da individui uniti da scopi comuni e da vincoli di solidarietà, capaci di sostenere l'interazione con le élites, gli avversari e le autorità. Questa definizione, che deve la sua ispirazione al lavoro di Charles Tilly (v., 1978 e 1993), si differenzia sia dagli approcci che circoscrivono l'attenzione alle organizzazioni dei movimenti, sia da quelli che pretendono di abbracciare ogni forma di comportamento collettivo; essa contiene inoltre i seguenti elementi chiave: sfida collettiva, scopi comuni, solidarietà, capacità di sostenere le rivendicazioni a nome di soggetti non rappresentati. Esaminiamo brevemente ognuno di questi elementi.
Esistono molte forme di azione collettiva - dal voto e dall'affiliazione a gruppi d'interesse ai giochi di carte e alle partite di calcio. Non sono queste, tuttavia, le forme di azione più caratteristiche dei movimenti sociali. I movimenti avanzano rivendicazioni mediante un'azione di sfida diretta, rivolta contro élites, autorità, altri gruppi o determinati codici culturali. Questa azione di sfida, il più delle volte di carattere pubblico, può anche assumere la forma di una resistenza individuale coordinata, di una mobilitazione cognitiva o di un'affermazione collettiva di nuovi valori.Le sfide collettive nella maggior parte dei casi sono contrassegnate da comportamenti che mirano a interrompere, ostacolare o mettere a repentaglio le attività - e spesso la sicurezza personale -degli altri. Soprattutto nei sistemi autoritari la protesta viene espressa talvolta attraverso slogans, forme simboliche di abbigliamento o di musica, nuove o diverse denominazioni di oggetti familiari. Anche negli Stati democratici gli individui possono identificarsi con un movimento attraverso l'impiego di determinati vocaboli, forme d'espressione e comportamenti privati che denotano i loro scopi collettivi e sono rafforzati da essi.
La sfida collettiva non è l'unica attività dei movimenti sociali. Essi - specialmente quelli organizzati - si impegnano in una varietà di compiti nell'interesse dei propri scopi e dei propri aderenti: fornire 'incentivi selettivi' ai membri, costruire nuove identità collettive tra gli attuali o futuri sostenitori, esercitare pressioni sulle autorità e condurre negoziati con esse, contestare i codici culturali correnti attraverso nuove pratiche religiose o individuali. La sfida collettiva tuttavia costituisce la strategia più caratteristica e ricorrente dei movimenti sociali. E ciò non perché i loro leaders siano psicologicamente inclini alla violenza o al disordine, bensì perché nel cercare di conquistare nuovi sostenitori e nell'avanzare le proprie rivendicazioni, essi non dispongono di quelle risorse stabili - denaro, organizzazione, accesso allo Stato - che i partiti politici e i gruppi di interesse sono invece in grado di mobilitare. Privi di tali risorse, e poiché rappresentano soggetti non rappresentati o nuovi soggetti in via di formazione, i movimenti si servono delle sfide collettive per diventare punti focali del conflitto, per ottenere l'attenzione degli avversari e di terze parti, per individuare soggetti emergenti. Anche il compito della costruzione dell'identità collettiva - a volte contrapposto schematicamente alle attività 'pubbliche' dei movimenti (v. Melucci, 1982 e 1988) - è spesso attuato attraverso l'interazione conflittuale con gli avversari.
Molte ipotesi sono state proposte al fine di spiegare perché gli individui aderiscano a un movimento: dal desiderio tipico dei giovani di sfidare l'autorità sino agli istinti violenti della folla. Se è vero che alcuni movimenti sono contrassegnati dal senso ludico e dallo spirito carnevalesco, mentre in altri viene alla luce la cieca violenza delle folle, esiste un motivo più generale - e più prosaico - che spinge gli individui ad associarsi in un movimento: quello di avanzare rivendicazioni comuni contro avversari, autorità o élites. Ciò non significa che tutti i conflitti di questo tipo scaturiscano da interessi di classe, né che i leaders non godano di alcuna autonomia nel definire gli scopi del movimento, ma solo che alla base delle loro rivendicazioni vi è la collocazione all'interno di una struttura di conflitto.
Sia l'ipotesi dello 'spirito carnevalesco', sia quella degli istinti irrazionali della folla trascurano i rischi e i costi notevoli comportati dall'azione collettiva contro autorità protette dalle forze dell'ordine. Gli schiavi ribelli che sfidarono l'Impero romano rischiavano la morte in caso di sconfitta; i dissidenti religiosi che promossero la Riforma affrontarono rischi analoghi; e gli studenti neri delle università americane del Sud, costretti a sedere a tavoli separati alla mensa, non si aspettavano certo grandi festeggiamenti dai bianchi che li aspettavano fuori, pronti ad aggredirli con bastoni e violenze verbali. Gli attivisti non rischiano la vita né sacrificano il proprio tempo per le attività di un movimento sociale, se non ritengono di avere un buon motivo per farlo. Quando questo scopo comune si traduce fondamentalmente in una sfida alle élites, alle autorità o agli oppositori, si ha la seconda caratteristica dei movimenti sociali.
Il denominatore comune della maggior parte dei movimenti è dunque l'interesse. L'interesse però non è altro che una categoria oggettiva imposta dall'osservatore esterno: è il riconoscimento dei propri interessi comuni da parte degli individui coinvolti che traduce il potenziale per la nascita di un movimento in azione collettiva. Mobilitando il consenso, i promotori di un movimento svolgono un ruolo importante nello stimolare tale consenso. Essi però possono creare un movimento sociale solo qualora esistano sentimenti di solidarietà o di identità profondamente radicati. È questo quasi certamente il motivo per cui il nazionalismo e l'appartenenza etnica - fondati su legami reali o 'immaginari' - oppure la religione - fondata su una fede comune - hanno costituito basi più solide per l'organizzazione di movimenti che non l''obiettiva' classe sociale.Un tumulto o un assembramento di folla di solito non costituiscono un movimento sociale, in quanto i partecipanti sono uniti tipicamente da una solidarietà solo temporanea. A volte però anche le sommosse rivelano l'esistenza o la potenzialità di una solidarietà. I tumulti per il pane negli anni settanta e ottanta del XVIII secolo in Francia non erano ancora un movimento, ma segnalavano che un movimento stava per nascere. I tumulti nei ghetti di varie città americane negli anni sessanta o quelli verificatisi a Los Angeles nel 1992 in sé non costituivano un movimento, ma il fatto che fossero innescati da abusi politici indica che alla loro origine vi era un diffuso senso di ingiustizia. Nel corso della storia gli attacchi istintivi contro altri gruppi - i cattolici in Inghilterra, gli Ebrei in Germania, gli immigrati asiatici a Los Angeles - dimostrano che l'identità collettiva richiede un 'altro' per affermare se stessa. Le folle, i tumulti e gli assembramenti spontanei, più che costituire movimenti in se stessi, indicano che un movimento potrebbe essere in via di formazione.
Ciò che distingue un movimento sociale da un semplice episodio o manifestazione di protesta è la capacità di sostenere l'azione collettiva contro gli antagonisti. Gli scopi comuni, le identità collettive e la capacità di avanzare una sfida sono elementi importanti per la formazione dei movimenti, ma a meno che questi non siano in grado di sostenere tale rivendicazione, sono destinati a dissolversi in quella sorta di risentimento individualistico che James Scott (v., 1986) definisce 'resistenza', a cristallizzarsi nell'opposizione intellettuale o a recedere nel settarismo. I movimenti che hanno inciso più profondamente nella storia sono riusciti a far ciò in quanto erano in grado di sostenere l'azione collettiva contro avversari forti.I leaders si sforzano di sostenere l'azione collettiva, ma se la ricerca degli ultimi due decenni ha dimostrato qualcosa, è che i movimenti raramente sono dominati da un singolo leader o da una singola organizzazione. In che modo essi riescano a sostenere le rivendicazioni collettive a fronte degli egoismi personali, della disorganizzazione sociale e della repressione da parte dello Stato rappresenta il problema che ha animato gran parte della ricerca sui movimenti sociali e che sarà al centro del presente articolo. Prima di occuparci di questo tema però sarà opportuno esaminare i principali indirizzi teorici cui ha dato vita la ricerca sui movimenti sociali in Europa e in America, nonché le loro origini storiche e le variabili utilizzate per spiegarne la comparsa per rivolgere poi l'attenzione ai principali tipi di movimenti sociali e politici nelle società contemporanee.
Così come è accaduto per molti altri fenomeni sociali, lo studio dei movimenti politici e sociali si sviluppò a seguito dei problemi posti dalla società industriale e dalla nascita del proletariato industriale. Di fatto, il movimento sociale del XIX secolo si identificava senz'altro con la classe operaia. È questo il motivo per cui spesso, ancor oggi, il concetto di 'movimento sociale' evoca l'idea del conflitto di classe. Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, i movimenti sociali accompagnarono l'avvento della democrazia liberale e precedettero la rivoluzione industriale. Basandosi su quello che è stato definito il "repertorio-modulo" dell'azione collettiva e utilizzando gli strumenti della stampa e dell'associazione, i primi attivisti della democrazia in Francia, Inghilterra e Nordamerica si consideravano - ed erano ampiamente considerati - gli agenti di un nuovo credo e di una nuova prassi politica (v. Walzer, 1971) e avevano ben poco a che fare con il conflitto di classe. I movimenti politici e sociali moderni si svilupparono intorno - e in reazione - al consolidamento dello Stato moderno nell'Europa occidentale e nel Nordamerica. Tuttavia, forse perché lo studio di questo fenomeno è sorto nel contesto dell'industrializzazione, i principali problemi che hanno animato la ricerca sui movimenti sono stati di ordine sociologico, sociopsicologico o economico, ma non politico-istituzionale. Tradizionalmente, gli studi in questo campo si sono focalizzati su tre problematiche principali.
1. Quali categorie di persone vengono reclutate nei movimenti? In passato gli attivisti dei movimenti erano considerati spesso ideologi fanatici o elementi di una folla anonima in cerca di nuove identità (v. Le Bon, 1895). Gli ultimi due decenni tuttavia hanno dimostrato che gli attivisti possono provenire pressoché da ogni settore della società e che le loro rivendicazioni, anche se formulate in termini espressivi, sono sempre strumentali. La ricerca ha dimostrato inoltre che, lungi dall'essere membri isolati di una folla, gli attivisti nella maggior parte dei casi sono reclutati attraverso reti di relazioni sociali e tendono a restare attivi all'interno di tali reti una volta che abbiano fatto il loro ingresso nella vita pubblica (v. McAdam, 1988).
2. In che modo la nascita di un movimento è legata ai cicli della crescita economica e ai cambiamenti nei rapporti di classe? In passato si era propensi a ritenere che la deprivazione economica fosse la causa principale della nascita dei movimenti. Tuttavia i movimenti degli anni sessanta hanno accreditato l'ipotesi opposta, ossia che i movimenti esprimano atteggiamenti 'post-materiali' scaturiti dal benessere (v. Inglehart, 1977). Marx era uno storico sufficientemente avvertito per rendersi conto che le coalizioni di varie classi erano spesso all'origine della formazione di movimenti sociali, ma il marxismo volgare persistette nella convinzione che i movimenti richiedano un fondamento di classe. Con il declino del marxismo, gli studiosi sono diventati assai più cauti nell'attribuire priorità causale ai fattori macrostrutturali. A partire dal fondamentale lavoro di E. P. Thompson, alcuni hanno cercato di dare alla classe un fondamento culturale (v. Eder, 1993), mentre altri hanno prestato crescente attenzione ai cambiamenti nella struttura delle opportunità politiche che diminuiscono i costi dell'azione collettiva e fungono così da incentivi all'attivismo (v. Eisinger, 1973). I fattori macrosociologici hanno perso in questo modo la centralità che avevano nei precedenti orientamenti della ricerca.
3. In che modo i rapporti tra leaders e seguaci all'interno di un movimento influiscono sulla sua dinamica? Riguardo a questo problema il punto di riferimento principale è stata la classica tesi michelsiana della sostituzione dei fini del gruppo da parte dei leaders burocratici. Per Michels (v., 1911), i leaders arrivano a identificarsi con l'organizzazione e con la sua sopravvivenza, piuttosto che con la realizzazione dei suoi scopi a lungo termine. Ma le organizzazioni esaminate da Michels erano assai più burocratiche della maggior parte dei movimenti, e gli studi condotti a partire dagli anni sessanta indicano che l'istituzionalizzazione e l'oligarchia interna riscontrate da Michels non sono preordinate (v. ad esempio Lipset e altri, 1977). È più comune che i movimenti attuali basino i loro rapporti tra leaders e seguaci su modelli meno rigidi di 'spazi liberi', in cui la partecipazione al processo decisionale diventa uno dei principali incentivi per l'attivismo (v. Evans e Boyte, 1992).
Gli orientamenti teorici tradizionali nell'ambito della ricerca sui movimenti sociali hanno fondamentalmente due origini storiche: la reazione conservatrice alla Rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale da un lato, e la nascita dei movimenti socialisti alla fine del XIX secolo dall'altro. Ma nessuno di questi indirizzi teorici è stato di grande aiuto nel mettere in correlazione i movimenti sociali con la politica: il primo propugnava l'idea che i movimenti fossero veicoli delle folle, ignorando la capacità di sostenere l'azione collettiva che caratterizza gli autentici movimenti; il secondo persisteva nell'associare i movimenti alle singole classi sociali. Entrambi trascuravano il fatto che i movimenti di maggior successo non erano costituiti né da folle violente né da classi sociali organizzate, bensì da coalizioni di differenti attori sociali e politici uniti intorno a un'azione collettiva. Ciò è evidente nei grandi movimenti del passato: le Rivoluzioni francese e americana del XVIII secolo, i fermenti per la riforma elettorale in Gran Bretagna e i moti rivoluzionari del 1848 in varie regioni d'Europa.
Al trascorrere del XIX secolo, il declino dell'anarchismo violento e l'integrazione della classe operaia cominciarono a mettere in crisi sia il pregiudizio che associava i movimenti al comportamento irrazionale delle folle, sia il presupposto che essi siano espressione di singole classi sociali. Ma i grandi cataclismi del XX secolo - il fascismo e la Rivoluzione russa - determinarono una rinascita di entrambe le teorie. Ciò si verificò in particolare negli Stati Uniti, dove una generazione di esuli europei portò con sé le memorie da incubo delle 'folle' e la prevenzione contro l'ideologia. Corroborata da questa nuova fonte di energie intellettuali, e priva della salda tradizione strutturalista dei teorici europei, la sociologia americana arrivò facilmente alla convinzione che i movimenti sono espressione di una disfunzione (v. Smelser, 1962). La guerra fredda, infine, resuscitò la vecchia identificazione tra classe e movimento, sussumendo entrambe sotto la bandiera della Terza Internazionale.
Gli anni sessanta contraddissero queste cupe visioni, contribuendo all'affermarsi dell'idea che i movimenti, pur esprimendo una protesta, possono essere positivamente collegati a uno sviluppo democratico. Allorché il movimento americano per i diritti civili e i movimenti studentesco, pacifista, femminista, gay e ambientalista cominciarono ad avanzare critiche motivate delle élites e delle autorità, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone in azioni prevalentemente pacifiche, i movimenti sociali vennero legittimati come oggetto di studio. Gli sviluppi della teoria e della ricerca a partire dagli anni sessanta hanno dato luogo a tre orientamenti principali: la teoria della 'normalizzazione' dei movimenti, quella dei cosiddetti 'nuovi' movimenti sociali e l'approccio di M. Olson, con le critiche cui ha dato luogo.
La natura strumentale di gran parte dei movimenti degli anni sessanta, il fatto che essi si sovrapponessero ai gruppi di interesse, e la loro capacità di sfruttare le abilità e le energie di ampi gruppi della popolazione contribuirono a mettere in crisi la dicotomia tra azione sociale convenzionale e comportamento collettivo 'irrazionale' che aveva dominato la ricerca sociologica. Gli studenti universitari che protestavano pacificamente contro la guerra in Vietnam, i neri d'America che lottavano pacificamente per i diritti civili, i membri dei ceti medi che partecipavano ai movimenti ambientalista, pacifista, femminista, contrastavano con la vecchia immagine degli estremisti militanti il cui comportamento collettivo era legato alla classe sociale o assimilabile all'azione della folla.
In Gran Bretagna gran parte dell'opera di reinterpretazione cominciò prima del 1968 e fu portata avanti da storici quali E.P. Thompson (nell'imponente The making of the English working class, del 1963), George Rudé (nel suo studio sul ruolo della folla nella Rivoluzione francese del 1964) ed E.J. Hobsbawm (in varie opere, nonché in una eccellente ricostruzione, in collaborazione con Rudé, del movimento Captain Swing: v. Hobsbawn, 1959 e 1974; v. Hobsbawn e Rudé, 1968). Questi studiosi tendevano ad attribuire ai movimenti di massa un carattere strumentale piuttosto che espressivo, e li consideravano fenomeni sociopolitici piuttosto che sociopsicologici. Il più clamoroso movimento degli anni sessanta in Gran Bretagna, quello per il disarmo nucleare, contribuì a consolidare l'immagine di 'normalità' dei movimenti (v. soprattutto Parkin, 1968).
Un diverso genere di 'normalizzazione' si ebbe in Italia, dove i conflitti legati alle relazioni industriali vennero inquadrati in qualcosa di analogo a una struttura di scambio politico. Dati gli elementi espressivi presenti nell''autunno caldo' (v. Pizzorno, 1978) nonché i legami - tenui o forti che fossero - tra gli operai e altri attori sociali nel "maggio strisciante" italiano (v. Reyneri, 1978), gli studiosi del conflitto industriale in Italia erano assai più vicini allo studio dei movimenti sociali di quanto non lo fossero gli studiosi delle relazioni industriali negli altri paesi.
Questo approccio in termini di scambio politico fu sviluppato soprattutto da un gruppo di giovani sociologi sotto l'influenza di Alessandro Pizzorno (v. Pizzorno e altri, 1978, e in particolare i contributi di Regalia, Regini e Reyneri). La loro ricerca influenzò alcuni studiosi stranieri che lavorarono principalmente in Italia (v. ad esempio Lumley, 1990; v. Tarrow, 1989 e i contributi in Crouch e Pizzorno, 1978). Un approccio analogamente improntato in senso politico si poteva comunque riscontrare anche in una serie di analisi più istituzionali del movimento sindacale, ad esempio nei contributi di Aris Accornero (v., 1971 e 1976).La 'normalizzazione' dell'immagine dei movimenti fu particolarmente marcata negli Stati Uniti. Sulla scia degli anni sessanta si affermò la tendenza a vedere nei movimenti, in quanto veicoli per la mobilitazione di risorse e dell'azione collettiva, un elemento - per quanto turbolento e incivile - del processo politico (v. Lipsky, 1968; v. McAdam, 1982; v. Piven e Cloward, 1979). Alcuni studiosi americani applicarono questi modelli sociopolitici all'Europa (v. Tarrow, 1967; v. Tilly, 1986; v. Tilly e altri, 1975).
I ricercatori americani seguirono due orientamenti paralleli: il modello della 'mobilitazione delle risorse' e quello del 'processo politico'; a entrambi gli approcci si devono alcuni fondamentali risultati analitici. In primo luogo, gli attivisti dei movimenti non venivano più considerati estremisti nei fini, violenti nel comportamento e anomali nel reclutamento. In secondo luogo, l'attenzione venne focalizzata sulle strutture organizzative dei movimenti, visti come collettività strumentali piuttosto che come generiche correnti intellettuali o ideologiche. In terzo luogo, i movimenti vennero considerati sempre più come attori strategici in una equazione complessa di interesse, azione e reazione, in interazione con lo Stato, altri attori politici e il pubblico: in breve, come una componente della lotta politica.Con questo approccio sintetico e orientato in senso politico, le strutture delle opportunità politiche venivano ora incluse esplicitamente nell'analisi dell'azione collettiva (v. Garner e Zald, 1985; v. Jenkins e Perrow, 1977; v. McAdam, 1982 e 1983). I movimenti erano considerati non come espressioni eccezionali della rabbia collettiva, ma come attori in complessi cicli di protesta e di riforma (v. Hirschman, 1981; v. Kriesi e altri, 1992; v. Tarrow, 1989 e 1994). Non più paria dello studio della politica istituzionale, i movimenti cominciarono a essere visti come componente di un sistema interattivo incentrato sullo Stato nazionale.
Queste acquisizioni teoriche tuttavia furono spesso ottenute mettendo in ombra alcune caratteristiche peculiari dei movimenti. Laddove i primi approcci avevano visto in essi dei nemici della democrazia, i teorici della mobilitazione delle risorse rischiavano di assimilarli ai gruppi di interesse (v. la critica di Kitschelt e la risposta di Zald in Rucht, 1991). Ciò spiega almeno in parte il grande richiamo esercitato dall'opera dell'economista Mancur Olson (v., 1965) su molti studiosi americani. Inoltre, nel considerare i movimenti come una forma normale di partecipazione politica, i teorici del processo politico mancarono di specificare ciò che li distingue dalle forme convenzionali di partecipazione.Consideriamo ora le controproposte teoriche avanzate nello stesso periodo dagli studiosi europei.
Per molti sociologi europei il rischio maggiore comportato dagli approcci americani era la possibile confusione tra movimenti e gruppi di interesse. Questi indirizzi teorici venivano inoltre criticati in quanto trascuravano il rapporto tra movimenti e mutamento macrosociale, concentrando l'attenzione sul 'come' anziché sul 'perché' dei movimenti (v. Melucci, 1988) e trascurando i legami tra movimenti e classi sociali. Nell'Europa occidentale, dove il neomarxismo era più influente che in America durante gli anni settanta e la ricerca empirica molto meno sviluppata, i movimenti degli anni sessanta e settanta ebbero un impatto assai più 'strutturale' sulla ricerca. Questa si incentrava sulla scuola dei 'nuovi' movimenti sociali - nelle sue varie versioni francese, tedesca e italiana - i cui esponenti di maggior rilievo furono Touraine (v., 1984), Offe (v., 1985 e 1990) e Melucci (v., 1980, 1982 e 1988).
A grandi linee, la teoria dei nuovi movimenti sociali sosteneva che la crescita dello Stato del benessere keynesiano e la centralizzazione delle economie del capitalismo avanzato hanno ridotto gli spazi di vita individuali. Sia le classi in declino che la 'nuova' classe media hanno motivazioni convergenti nel rigettare le precedenti identificazioni nei partiti - esse stesse il risultato del nuovo assetto postbellico - e aderiscono a nuovi movimenti in nome del femminismo, dell'ecologia, del pacifismo e della libertà d'espressione. Tali movimenti si incentrano in larga misura sullo 'spazio di vita' piuttosto che su preoccupazioni materiali. Secondo questi teorici, i nuovi movimenti non sono ideologici nel senso tradizionale e mancano sia di organizzazioni formali sia di una forte leadership. Possiamo vedere la loro apoteosi nei partiti dei Verdi - soprattutto in quello tedesco, che ha influenzato notevolmente le prospettive di molti esponenti della nuova scuola.
Tuttavia la scuola dei 'nuovi' movimenti poneva alcuni problemi, per molti versi opposti a quelli degli approcci americani. In primo luogo, molti studiosi che aderivano a tale scuola erano più interessati alla teoria generale che alla verifica empirica, e sembravano indifferenti alle discrepanze che talora era dato riscontrare tra i loro costrutti teorici e il mondo reale. Ad esempio, per Offe il soggetto principale era la 'nuova' classe media che aderiva ai 'nuovi' movimenti mentre la 'vecchia' classe operaia non vi partecipava. Tuttavia l'attenta indagine di Kriesi (v., 1989) sulla nuova classe media in Olanda dimostrò che erano soprattutto gli operatori dei servizi culturali e sociali a sostenere in maniera preponderante i nuovi movimenti, e non la nuova classe media nella sua globalità. Nello stesso tempo la ricerca empirica sui sindacati - il 'vecchio' movimento per eccellenza agli occhi dei teorici dei nuovi movimenti sociali - dimostrò che le organizzazioni sindacali andavano adottando in misura crescente il comportamento espressivo dei nuovi movimenti (v. Klandermans, 1991; v. Pizzorno, 1978).
La maggior parte degli esponenti di questa scuola aveva come punto di riferimento i mutamenti macrosociali, senza peraltro specificare il processo politico che interviene tra il mutamento strutturale e l'azione collettiva. Di conseguenza essi focalizzarono l'attenzione su cause prime analoghe, facendo raramente ricorso alla comparazione e trascurando le significative variazioni politiche che si riscontrano tra i movimenti nei diversi paesi (un'eccezione è costituita dai lavori di Kitschelt - v., 1986 - e di Kriesi e altri: v., 1992). Così, ad esempio, il carattere moderato del più importante partito della sinistra nella Repubblica Federale Tedesca non venne preso in considerazione quale fattore che contribuì all'affermarsi dei nuovi movimenti in Germania, laddove vennero privilegiate spiegazioni che si basavano sulle caratteristiche generali del capitalismo avanzato. Ancora, venne trascurato il carattere specifico dei movimenti italiani degli anni settanta - altamente ideologici e nello stesso tempo strettamente collegati al processo politico - in quanto essi venivano considerati il prodotto di un paese troppo 'arretrato' per poter esprimere 'nuovi' movimenti sociali in senso proprio.Infine, i teorici dei 'nuovi' movimenti sociali esageravano il carattere pienamente strutturato, settario e burocratico dei movimenti del passato. Una comparazione storica meglio informata avrebbe mostrato che la maggior parte dei nuovi movimenti del passato era simile ai movimenti odierni per la qualità espressiva, per l'organizzazione decentrata e per il rilievo dato ai problemi dello 'spazio di vita' (v. Calhoun, 1993). Il punto essenziale di questa comparazione è che se le forme particolari, indicate dai teorici come specifiche dei 'nuovi' movimenti delle società industriali avanzate, caratterizzavano anche nuovi movimenti in altre epoche storiche, allora il nesso causale istituito tra industrializzazione avanzata e nuovi movimenti non può essere valido. Fu forse in risposta a questo problema che Offe abbandonò la sua prima formulazione della teoria per adottare un modello più familiare di 'stadi di evoluzione', ben noto ai ricercatori americani degli anni cinquanta (v. Offe, 1990).È interessante notare che il contributo più originale all'indirizzo teorico dei nuovi movimenti sociali non venne dalla Germania - dove i nuovi movimenti furono peraltro oggetto della massima attenzione - bensì dall'Italia. Prendendo le mosse dal lavoro di Alain Touraine, il sociologo Alberto Melucci (v., 1980 e 1982) elaborò una versione della teoria dei nuovi movimenti incentrata non tanto sul cambiamento macrosociale quanto sui processi interni di formazione dell'identità, trascurati dai teorici tedeschi più 'strutturalisti'. Melucci affermava che i movimenti sociali rappresentano attori multipolari il cui maggior problema è la costruzione di una identità collettiva. Gran parte dell'attività dei movimenti può essere interpretata non come un agire strumentale, 'rivolto all'esterno', bensì come un tentativo di creare identità di questo tipo. Sebbene le analisi di Melucci fossero focalizzate sulla realtà italiana dal punto di vista empirico, esse concordavano per molti significativi aspetti con i recenti sviluppi teorici americani dovuti a Gamson (v., 1988) e a Snow e i suoi collaboratori (v. Snow e altri, 1986), i quali consideravano i movimenti in termini 'costruttivisti'. Con ciò arriviamo al 'problema' dell'azione collettiva così come venne posto dagli studiosi che utilizzavano un approccio derivato dall'economia politica.
In passato molti studiosi partivano dal presupposto che vi fosse uno stretto legame tra interessi e azione collettiva, e più specificamente tra deprivazione e movimenti dei poveri. Tuttavia gli studi più precisi e articolati condotti negli anni settanta e ottanta dimostrarono che i cittadini più poveri raramente partecipano a movimenti che agiscono nel loro interesse. Di conseguenza, per molti studiosi il problema fu di stabilire in che modo l'azione collettiva in favore di beni comuni sia possibile tra individui guidati da un ristretto interesse personale - specialmente allorché altri sembrano pronti a difendere quegli interessi.
La più autorevole formulazione di tale problema si deve all'economista americano Mancur Olson (v., 1965). Pur riconoscendo l'importanza degli incentivi non materiali all'azione collettiva, la sua teoria ha come punto di partenza e come punto d'arrivo l'individuo. Per Olson il problema degli attori collettivi era di tipo aggregativo: come coinvolgere il maggior numero possibile di membri di un gruppo in attività dirette a promuovere il bene collettivo di quest'ultimo. Solo massimizzando la partecipazione il gruppo può convincere gli antagonisti e le autorità della propria forza e della propria importanza. Il problema consiste nel convincere gli individui a partecipare nell'interesse del loro bene collettivo quando vi sono altri pronti ad assumersi i costi e i rischi che ciò comporta: è il cosiddetto 'problema del free rider'.
Nel suo studio The logic of collective action Olson arriva alla conclusione che solo i membri più importanti di un grande gruppo hanno sufficiente interesse nel perseguire il suo bene collettivo da assumerne la leadership. L'unica eccezione a questa regola è costituita dai gruppi di dimensioni molto ridotte, in cui esiste una stretta connessione tra beni individuali e beni collettivi (v. Olson, 1965, pp. 43 ss.). Quanto più il gruppo è ampio, tanto più gli individui preferiranno beneficiare, senza impegnarsi di persona, degli sforzi di individui il cui interesse per il bene collettivo è abbastanza forte da indurli a perseguirlo. Per superare questo problema, gli aspiranti leaders di un gruppo devono imporre costi ai suoi membri o fornire loro 'incentivi selettivi' per convincerli che vale la pena di partecipare (p. 51).
Il bene collettivo di un sindacato, ad esempio, è ottenere un aumento dei salari e una diminuzione delle ore di lavoro; si tratta però di 'beni comuni' di cui beneficeranno tutti gli operai di una fabbrica, aderiscano o no all'organizzazione sindacale. Analogamente il bene collettivo di un'associazione industriale può essere indurre il governo a imporre tariffe protezionistiche sui beni importati; ma i piccoli produttori che fanno parte dell'associazione staranno a guardare lasciando che siano le unità più grandi a svolgere l'opera di pressione sul governo. Solo offrendo ai propri membri 'incentivi selettivi' o 'ricompense collaterali', oppure costringendoli attraverso contributi obbligatori, il sindacato o l'associazione industriale potranno ottenere la loro partecipazione.
Ci siamo soffermati a lungo sulla teoria di Olson non perché sia corretto applicarla senz'altro ai movimenti politici e sociali, bensì perché analizzando le reazioni che essa ha suscitato tra gli studiosi dei movimenti sociali ci avvicineremo alla formulazione del vero problema dell'azione collettiva, ossia quello della sua coordinazione. Vi sono stati tre tipi di reazione alla teoria di Olson: alcuni hanno cercato di adattarla ai movimenti sociali, altri l'hanno criticata, altri ancora hanno applicato modelli di economia politica alternativi.
Tra gli studiosi che hanno cercato di adattare la teoria di Olson ai movimenti sociali i più autorevoli sono stati due sociologi, John McCarthy e Mayer Zald. Pur riconoscendo la forza dell'argomento del free rider, essi videro una soluzione del problema nella nascita di organizzazioni professionali di movimenti. Zald e McCarthy (v., 1987), assieme ai loro collaboratori, sostennero che il benessere e le diffuse capacità organizzative presenti nella moderna società industriale forniscono agli organizzatori le risorse necessarie per mobilitare gli individui nei movimenti. Tali organizzatori non sono semplicemente coloro che hanno un particolare interesse in un bene collettivo, come sosteneva Olson; si tratta piuttosto di veri e propri 'imprenditori' professionisti di movimenti, che dispongono delle capacità e delle opportunità necessarie a trasformare in azione i potenziali di mobilitazione esistenti, risolvendo in questo modo il problema dell'azione collettiva.
In Europa, dove il contributo di Olson incontrò l'indifferenza generale, vi furono nondimeno due studiosi che si distinsero nel tentativo di adattare la teoria olsoniana ai movimenti sociali. In Germania Karl-Dieter Opp e i suoi collaboratori (v. Opp e altri, 1989) verificarono l'idea secondo cui l'utilità marginale è l'indicatore migliore dell'attivismo nei movimenti. In Olanda Bert Klandermans (v., 1984) arrivò alla conclusione che l'interesse personale deve essere rafforzato dalla conoscenza delle intenzioni degli altri e dalla convinzione che una causa abbia una qualche probabilità di successo per poter superare il problema del free rider. Entrambi gli autori istituirono delle teste di ponte nel contesto europeo per questa teoria 'americana'.
Alcuni studiosi si dimostrarono più scettici nei confronti di una teoria che ai loro occhi riduceva l'azione collettiva a un calcolo di costi e benefici, insistendo sul problema delle identità nuove che sorgono allorché si presentano nuovi movimenti (v. Pizzorno, 1978; v. Melucci, 1988). Altri furono pronti a ribattere che Olson era stato troppo precipitoso nel concludere che l'azione collettiva è problematica, in un periodo storico - gli anni sessanta - in cui si assisteva a una vera e propria esplosione di azioni collettive (v. Hirschman, 1981, p. 78). Altri sostennero che gli individui partecipano ai movimenti non solo spinti dall'interesse personale, ma anche per convinzioni profondamente radicate, per il desiderio di socializzare con altri e perché anch'essi sono consapevoli del dilemma olsoniano (v. Klandermans, 1991, pp. 24-25). Altri ancora rilevarono che la distinzione operata da Olson tra piccoli e grandi gruppi è matematicamente insostenibile, e affermarono che la soluzione del problema dell'azione collettiva risiede nella 'eterogeneità': piccoli gruppi che dispongono di risorse eccezionali o sono profondamente impegnati in una causa possono servire da modello e da incoraggiamento ad altri (v. Marwell e Oliver, 1993).
Il punto di forza di molte di queste critiche era costituito dal fatto che l'azione collettiva ha effettivamente luogo, sia nei piccoli che nei grandi gruppi, in condizioni di rischio sia elevato che basso. Ciò tuttavia può semplicemente significare che i gruppi possono 'risolvere' il problema dell'azione collettiva, non che questo non esiste. Una questione fondamentale è se vi sia una effettiva rispondenza tra la teoria di Olson e la realtà dei movimenti sociali. A nostro avviso la risposta è negativa: come cercheremo ora di dimostrare, il vero problema dei movimenti sociali è di ordine sociale, e va affrontato facendo ricorso a un modello politico-economico alternativo.
Torniamo a Zald e McCarthy, i quali sembrano non aver dato molto peso al fatto che nell'elaborare la sua teoria Olson non si riferiva principalmente ai movimenti sociali, bensì ai gruppi di interesse. Di fatto, Olson generalizzava estendendolo all'azione collettiva un discorso riferito a una categoria ancora più ristretta, quella delle associazioni economiche. In quest'ambito il problema dell'azione collettiva e quello del free rider sembrano del tutto appropriati, e ciò per tre motivi. In primo luogo, nei gruppi economici la misura del profitto è l'utilità marginale, chiaramente definita e intesa in senso generale. In secondo luogo, per le organizzazioni economiche, come affermava giustamente Olson, la proporzione dei membri di un gruppo che si impegna in un'azione collettiva è decisiva per il successo di quest'ultima, in quanto se una quota significativa di membri non sostiene i propri leaders, gli antagonisti non hanno motivo di prenderli sul serio. Infine, le associazioni di questo tipo in genere sono di grandi dimensioni e hanno un'organizzazione formale; esse sono caratterizzate da leaders identificabili, che cercano di mobilitare iscritti formalmente associati in vista di un insieme definito di obiettivi. Le condizioni di validità della teoria di Olson sembrano quindi soddisfatte nell'ambito d'applicazione originario di tale teoria.
Nessuno di questi tre criteri però si applica ai movimenti politici e sociali, fatta eccezione per quelli che sono sulla via di trasformarsi in gruppi di interesse. In primo luogo, la ragione per cui un individuo aderisce a un movimento non è necessariamente l'utilità marginale - anche ampliando questo concetto al di là del suo significato economico (v. Fireman e Gamson, 1979, pp. 19-20). La ricerca ha dimostrato che gli individui partecipano ai movimenti per un'ampia gamma di motivi: dal desiderio di trarre un vantaggio personale alla solidarietà di gruppo, all'impegno di principio nei confronti di una causa, al desiderio di far parte di un gruppo. Questa eterogeneità delle motivazioni individuali rende il problema della coordinazione assai più difficile per i movimenti sociali che non per i gruppi di interesse, ma nello stesso tempo consente loro di fruire di risorse diverse da quelle materiali per coinvolgere potenziali sostenitori nell'azione collettiva.In secondo luogo, mentre in un'associazione economica la quota degli iscritti che partecipano all'azione collettiva costituisce una misura decisiva della sua forza, i movimenti non hanno dimensioni definite né un numero stabile di iscritti, e spesso sono in via di formazione nel momento in cui fanno la loro comparsa. Ciò rende il criterio della partecipazione proporzionale pressoché privo di significato. Laddove la capacità di 'attivare' un numero consistente di persone può costituire in determinati casi una misura importante del potere di un movimento, quante persone debbano partecipare dipende dalla 'struttura del conflitto' in cui esso è coinvolto (ibid., p. 17), e tale quota può essere inversamente proporzionale al potere del movimento: è questo il caso, ad esempio, dei gruppi terroristici italiani, la cui coesione e sicurezza dipendevano dalle loro dimensioni ridotte (v. Della Porta, 1990).
In terzo luogo, la relazione trasparente e bimodale tra il leader e i seguaci che Olson riscontrava nelle associazioni economiche è quasi sempre assente nei movimenti, i cui leaders spesso non conoscono nemmeno i loro seguaci. Nella misura in cui sono organizzati - e anche se spesso non lo sono - i movimenti sono caratterizzati da un insieme di relazioni tra leaders, gruppi intermedi, iscritti, simpatizzanti e seguaci più informale e mediato rispetto a quello che si riscontra nei gruppi di interesse. Come scrive il sociologo Pam Oliver (v., 1989, p. 4), "è fuorviante equiparare un movimento sociale a una qualche sorta di singolo ente che esprime decisioni collettive, per quanto poco rigidamente strutturato".
In che modo allora i movimenti risolvono il problema della coordinazione, visto che dipendono da una varietà di incentivi, non hanno dimensioni definite e non controllano la maggior parte degli individui che mobilitano? E in che modo possono sostenere l'azione collettiva per una durata più o meno lunga in interazione con antagonisti forti e determinati? È questo il problema chiave nello studio dei movimenti sociali. Un punto di partenza per arrivare a una risposta a tale problema può essere fornito da un'analogia tratta dalla teoria dell'organizzazione industriale.
In base alla teoria dell'impresa formulata da Oliver Williamson, le aziende dipendono da fornitori e produttori di componenti esterni, ma riducono tale dipendenza internalizzando le proprie attività. Sulla scia di Coase (v., 1960), Williamson sostiene che quando le imprese temono che quanti controllano le loro attività possano avvantaggiarsi opportunisticamente di questo fatto, decidono di assorbire i processi di offerta di componenti e di informazione, diminuendo in questo modo i loro costi di transazione (v. Williamson, 1975 e 1985). Alcuni di tali costi di transazione - ad esempio quelli di regolamentazione - non possono mai essere assorbiti, ma internalizzando i contratti le aziende minimizzano i costi di scambio. Il risultato è di produrre unità industriali su larga scala, le cui dimensioni e la cui struttura sono determinate dai criteri tecnici del controllo sulle attività.Non tutte le imprese, ovviamente, possono o vogliono internalizzare le proprie attività, ed esistono modi alternativi di risolvere il problema dei costi di transazione. Ad esempio, per le aziende di piccole dimensioni unite in libere associazioni di produttori, un'alternativa all'internalizzazione è quella di cooperare nell'acquisto di forniture e di informazione e nella distribuzione dei loro prodotti. Basandosi sulle intese culturali esistenti e su reti di relazioni sociali locali, tali aziende e i loro concorrenti/colleghi stipulano quelli che Hardin (v., 1982, cap. 11) definisce "contratti per convenzione". In alcuni casi - ad esempio nel settore della produzione su piccola scala giapponese (v. Dore, 1986) o nella "terza Italia" (v. Trigilia, 1986 e 1989) - le piccole imprese superano in efficienza le grandi unità consolidate in quanto possono contare sulla fiducia e sulle reti di relazioni sociali locali che mancano invece ai grandi gruppi industriali.
Sebbene il discorso di Trigilia si riferisca alle organizzazioni industriali, la soluzione al problema dell'azione collettiva che egli riscontra nella "terza Italia" è particolarmente importante per i movimenti sociali, che raramente sono in condizione di risolvere il problema della coordinazione e dell'informazione attraverso l'internalizzazione. E in effetti, quando questa strada fu tentata dai partiti della Seconda Internazionale, ciò ebbe delle conseguenze negative per i partiti e i sindacati del movimento (v. Michels, 1911; v. Tarrow, 1994, cap. 8). I movimenti infatti non esercitano alcun controllo sui propri sostenitori, né hanno espliciti rapporti contrattuali con gli antagonisti e con le autorità. Al pari dei piccoli produttori studiati da Dore e da Trigilia, i movimenti devono basarsi su risorse esterne per coordinare e sostenere l'azione collettiva. Per concludere, il principale problema dei movimenti sociali non è quello della mobilitazione, come riteneva Olson, bensì quello del coordinamento, e per risolverlo si può ricorrere a varie risorse di tipo sia istituzionale che congiunturale, come ci accingiamo a dimostrare.
Arriviamo così all'argomento centrale del nostro discorso: i movimenti, a differenza delle organizzazioni economiche, risolvono il problema dell'azione collettiva appropriandosi temporaneamente di determinati elementi dell'ambiente esterno. I più importanti di questi elementi sono: le opportunità politiche che aiutano i movimenti a risolvere il problema sociale dell'azione collettiva; il 'repertorio' di forme di azione collettiva da essi utilizzato; le reti di relazioni sociali contro cui si svolge l'azione collettiva, nonché i simboli culturali e ideologici che strutturano tale azione. Nel loro insieme opportunità, repertori, schemi culturali e reti di relazioni sociali rappresentano il materiale a partire dal quale si costruiscono i movimenti. Esaminiamo brevemente ciascuno di questi elementi, cominciando con la struttura delle opportunità politiche in cui i movimenti sorgono e cercano sostegno.
A differenza sia della vecchia scuola americana, che considerava la partecipazione ai movimenti come il risultato di fattori sociopsicologici, sia dell'approccio europeo che dava maggiore importanza a strutture sociali più ampie, un gruppo di studiosi contemporanei sostiene che i movimenti sociali e politici sembrano fare la loro comparsa allorché si creano determinate opportunità politiche. Secondo questa teoria, i movimenti si formano quando i cittadini, a volte incoraggiati da un leader, reagiscono a determinati cambiamenti nella struttura delle opportunità che diminuiscono i costi dell'azione collettiva, rivelano potenziali alleati e mostrano i punti deboli delle élites e delle autorità.
I cambiamenti più salienti presi in esame dalla maggior parte di questi autori sono legati all'aprirsi di canali di partecipazione, a cambiamenti negli schieramenti di governo, alla presenza di alleati influenti nonché alle divisioni tra le élites e all'interno di esse. Questa teoria ci aiuta a capire perché la nascita dei movimenti non sia direttamente collegata al livello di deprivazione dei loro sostenitori. Se infatti essi possono appropriarsi di opportunità esterne per tradurre in azione il potenziale di mobilitazione, allora anche gruppi che dispongono di risorse scarse possono trarne vantaggio. I mutamenti nella struttura delle opportunità politiche contribuiscono inoltre a spiegare in che modo i movimenti si propagano allorché vengono sfruttate e create nuove opportunità politiche, e in che modo nuovi movimenti e contromovimenti possono avvantaggiarsi di opportunità create da altri.
Alcuni studiosi hanno focalizzato l'attenzione principalmente sulle opportunità stabili offerte da differenti strutture statali e sistemi partitici (v. Katzenstein e Mueller, 1987; v. Kitschelt, 1986). Altri, come ad esempio Peter Eisinger (v., 1973), Doug McAdam (v., 1982 e 1983) nonché chi scrive (v. Tarrow, 1989 e 1994), hanno preso in considerazione opportunità mutevoli nonché quelle opportunità che variano per diversi sottogruppi della popolazione. Un terzo gruppo di studiosi - segnatamente Hanspeter Kriesi e i suoi collaboratori (v. Kriesi e altri, 1992) - ha analizzato entrambi i tipi di opportunità, facendo riferimento a un insieme di nuovi movimenti sociali nell'Europa occidentale. Per molti di questi autori la struttura delle opportunità politiche costituisce il legame più importante tra i movimenti sociali e le caratteristiche del conflitto politico.
Ogni gruppo particolare ha una sua storia - e una memoria storica - particolare di azione collettiva. Gli operai sanno come scioperare perché generazioni di operai hanno scioperato prima di loro; i parigini costruivano barricate perché esse sono iscritte nella storia della protesta parigina; i contadini si appropriavano della terra portando i simboli che i loro padri e i padri dei loro padri avevano usato in passato (v. Hill e Rothchild, 1992, p. 192). Con queste routines incise nella memoria collettiva, i gruppi sociali hanno una disponibilità allargata quando i movimenti cercano di coinvolgerli in un tipo particolare di azione collettiva. È questo il motivo per cui i leaders raramente pretendono un'azione collettiva in quanto tale, ma richiedono piuttosto un tipo particolare d'azione tratto dall'esperienza di un determinato soggetto storico.
Esistono inoltre forme convenzionali più generali di azione collettiva, come afferma Tilly (v., 1978), il quale ha formulato in proposito il concetto di 'repertorio' della protesta. Ogni società ha uno stock di forme familiari di azione, che sono note tanto ai potenziali contestatori quanto ai loro antagonisti, e che diventano elementi abituali della loro interazione. Se si parte dal presupposto che gli individui hanno a disposizione le forme di azione collettiva depositate nella storia della loro società, si può vedere come i leaders propongano, e i seguaci recepiscano, non tanto l''azione collettiva' in astratto, bensì piuttosto un repertorio storicamente appreso di forme di azione collettiva.Nel passato, la maggior parte delle forme di azione collettiva era legata a particolari gruppi e situazioni di conflitto: i tumulti per il pane, lo scherno rituale o charivari, la rivolta antisignorile. Ma a un certo punto nel corso del XIX secolo si verificò una trasformazione radicale. Grazie alla diffusione dell'informazione attraverso la stampa e alle cognizioni conservate da associazioni e reti di movimenti, le medesime forme di azione collettiva cominciarono a essere impiegate oltre i confini locali, in settori sociali più ampi e in nome di cause diverse, dando luogo a quello che è stato definito "repertorio-modulo" (v. Tarrow, 1994, cap. 2).
Tuttavia nel corso di un ciclo di protesta il repertorio dell'azione collettiva cambia non appena le persone si stancano delle forme consuete o le forze dell'ordine imparano a controllarle. È questa l'origine delle innovazioni che i leaders introducono nell'azione collettiva per aggirare gli avversari e stimolare l'immaginazione di sostenitori il cui entusiasmo si è logorato (v. McAdam, 1983). Nel corso del tempo queste innovazioni vengono sperimentate, diventano oggetto di improvvisazione e a volte si cristallizzano in forme di azione interamente nuove. Così ad esempio la petizione di massa in Inghilterra si sviluppò dalla petizione di gruppo, e dalla tattica di ostruire il passaggio nella via di una città derivò la prassi oggi ben nota del sit in.I leaders inventano, adattano e combinano varie forme di azione collettiva per conquistare il sostegno di individui che altrimenti resterebbero a casa (v. Hirschman, 1981, pp. 82-91). Essi offrono loro forme di azione collettiva tradizionali o rare, abituali o insolite, isolatamente o come parte di campagne concertate, e associano queste forme di azione a tematiche iscritte nella cultura o inventate sul momento, oppure ancora, più di frequente, mescolano elementi convenzionali con nuove strutture di significato. La protesta è una risorsa, secondo il politologo Michael Lipsky (v., 1968), e le forme di azione collettiva scelte dai movimenti costituiscono un incentivo collettivo alla mobilitazione.
Chi sono i soggetti dei movimenti sociali? Senza dubbio sono i singoli individui che decidono di impegnarsi in un'azione collettiva, come sosteneva Olson. Tuttavia gli individui da soli hanno poche probabilità di superare gli ostacoli che incontra l'azione collettiva o di sostenerla una volta iniziata. Sebbene siano gli individui che decidono se prender parte o meno all'azione collettiva, è all'interno dei loro gruppi faccia a faccia, delle loro reti di relazioni sociali e delle loro istituzioni che l'azione collettiva il più delle volte viene attivata.Gran parte dei primi studi stimolati dai movimenti degli anni sessanta restavano ancorati al livello individuale (v. Barnes e Kaase, 1979; v. Inglehart, 1977). Agli inizi degli anni ottanta però gli studiosi si convinsero sempre più che sono i processi di gruppo a trasformare il potenziale per l'azione collettiva in partecipazione a un movimento. Ad esempio, lo studio del sociologo Doug McAdam (v., 1988) sul movimento Freedom summer dimostrò che, assai più del retroterra sociale e delle ideologie personali, le reti di relazioni sociali in cui erano coinvolti i volontari di Freedom summer svolgevano un ruolo fondamentale nel determinare chi avrebbe partecipato e chi si sarebbe astenuto. Nello stesso periodo alcuni studiosi europei, tra cui Hanspeter Kriesi (v., 1988), arrivarono alla conclusione che le sottoculture dei movimenti costituivano delle 'riserve' entro cui prendeva forma l'azione collettiva. Ciò concordava con quanto Alberto Melucci (v., 1988) andava scoprendo circa il ruolo delle reti di relazioni sociali nel definire l'identità collettiva dei movimenti da lui studiati in Italia.Il ruolo chiave delle reti di relazioni sociali nello stimolare la partecipazione ai movimenti ci aiuta a correggere la conclusione pessimistica di Olson secondo cui i grandi gruppi non sosterranno l'azione collettiva per beni comuni senza l'impiego di incentivi selettivi. Se infatti consideriamo la morfologia dei movimenti, risulta chiaro che essi sono 'grandi' solo nominalmente: in realtà i movimenti sono assai più simili a un intreccio di piccoli gruppi, reti di relazioni sociali e loro interconnessioni. L'azione collettiva nasce dapprima tra i più dotati o più coraggiosi di questi gruppi, ma le connessioni tra loro aumentano le probabilità che l'azione di un gruppo inciti gli altri a seguirne l'esempio. Come osservano in proposito Gerald Marwell e Pam Oliver (v., 1993, p. 54), "il problema dei 'grandi gruppi' posto da Olson spesso viene risolto con una soluzione di 'piccolo gruppo"'. Le istituzioni rappresentano ambienti 'ospiti' particolarmente idonei allo sviluppo dei nuovi movimenti. In America il sociologo Aldon Morris (v., 1984) ha dimostrato che le origini del movimento per i diritti civili erano strettamente legate al ruolo delle chiese nere. In America Latina e in Italia le strutture e le norme della Chiesa cattolica la resero complice involontaria nella formazione delle reti di 'comunità di base' (v. Levine, 1990; v. Tarrow, 1988). La mobilitazione di reti di relazioni sociali preesistenti diminuisce i costi sociali di transazione dell'azione collettiva e rende possibile il passaggio da azioni collettive episodiche a movimenti sociali in grado di sostenere l'interazione conflittuale con gli antagonisti.
La coordinazione dell'azione collettiva non dipende solo da determinate caratteristiche strutturali della società, come ad esempio l'esistenza di reti di relazioni sociali e istituzioni, ma anche dalla fiducia e dalla cooperazione originate da convinzioni comuni oppure, per usare una categoria più ampia, dalle strutture dell'azione collettiva che la giustificano, nobilitano e animano (v. Snow e altri, 1986). Il consenso all'interno di gruppi e istituzioni non si forma solo involontariamente; spesso è attivamente mobilitato da movimenti, partiti, chiese e governi (v. Klandermans, 1988).
In anni recenti alcuni studiosi dei movimenti hanno cominciato a impiegare formule tecniche quali strutture cognitive, 'pacchetti' ideologici e discorsi culturali per descrivere le idee e le finalità condivise che spingono gli individui all'azione collettiva (v. Eyerman e Jamison, 1991; v. Morris e Mueller, 1992). Qualunque sia la terminologia usata, l'innovazione importante introdotta da questo orientamento della ricerca è costituita dall'abbandono del precedente formalismo che induceva a considerare gli interessi come 'dati', nonché dalla premessa teorica secondo cui i movimenti strutturano i motivi di scontento in rivendicazioni più ampie, in un processo di 'strutturazione' finalizzata (v. Klandermans, 1992) o di costruzione sociale (v. Melucci, 1988).
Tuttavia, se gli organizzatori dei movimenti sono attivamente impegnati nella strutturazione di messaggi, non possono però monopolizzarla. Essi devono competere con l'attività in questo senso dello Stato e dei media, i quali trasmettono messaggi che i movimenti devono cercare di rielaborare, contrastare e influenzare (v. Kielbowicz e Scherer, 1986). Come ha riscontrato il sociologo americano Todd Gitlin (v., 1980), la diffusione di informazione che contribuì allo sviluppo della Nuova Sinistra americana fu in gran parte veicolata dai media e rimpiazzò quelli che in epoche precedenti sarebbero stati sforzi organizzativi. In Italia, nel 1994, un intero movimento - Forza Italia - è stato alimentato attraverso i mass media.Ricapitolando il discorso sulle risorse esterne di cui i movimenti si appropriano per stimolare e sostenere l'azione collettiva, si può affermare che i movimenti si formano in presenza di opportunità politiche che diminuiscono i costi dell'azione collettiva, rivelando nel contempo eventuali alleati e i punti deboli degli avversari. La soluzione del problema sociale dell'azione collettiva dipende dalla capacità dei movimenti di sfruttare a proprio vantaggio queste opportunità, di utilizzare repertori di protesta sia innovativi che convenzionali, di basarsi su reti di relazioni sociali preesistenti e di definire strutture di azione collettiva capaci di mediare tra le esigenze culturali e le richieste di cambiamento. I movimenti che hanno successo trasformano queste opportunità, convenzioni e risorse in azione collettiva contro avversari, autorità ed élites.
Il potere di innescare sequenze di azione collettiva non equivale al potere di controllarle o sostenerle. Se è vero infatti che i movimenti si sviluppano appropriandosi di opportunità, convenzioni e risorse esterne, nello stesso tempo sono privi delle risorse interne necessarie a controllare tali elementi esterni e di conseguenza possono essere sorpassati dallo slancio che essi stessi generano oppure possono essere sconfitti da attori più istituzionali che possiedono tali risorse. Questo problema ha due dimensioni, una interna e una esterna. Internamente, una buona parte del potere dei movimenti deriva loro dal fatto che essi attivano individui su cui non esercitano alcun controllo. Come abbiamo visto, ciò consente ai movimenti di condurre azioni collettive senza le risorse che sarebbero necessarie per internalizzare le proprie basi di sostegno o distribuire a esse risorse. L'autonomia dei sostenitori però disperde il potere dei movimenti, incoraggia la creazione di correnti e dà adito alla defezione, alla competizione e alla repressione.
Esternamente, i movimenti risentono del fatto che le stesse opportunità politiche che li hanno creati e che diffondono la loro influenza nella società producono anche altri movimenti che possono essere complementari, concorrenti oppure ostili. Soprattutto se l'azione collettiva ha successo, queste opportunità danno luogo a un settore di movimento più ampio, che si allarga dagli attivisti del movimento a gruppi di interesse e partiti istituzionali nonché a contromovimenti, provocando inevitabilmente le reazioni dello Stato (v. Garner e Zald, 1985). Come conseguenza di questa dinamica di diffusione e creazione, il successo o il fallimento dei movimenti finiscono per dipendere da forze al di fuori del loro controllo. Arriviamo così al concetto di ciclo della protesta.
Da tempo i sociologi hanno maturato la convinzione che i cambiamenti culturali si verificano a ondate e che queste sono grosso modo collegate all'ascesa e al declino dei movimenti sociali (v. Brand, 1990). Tuttavia lo studio di queste ondate di cambiamenti è rimasto di solito al livello culturale e non è stato ricollegato alle concrete attività strategiche dei movimenti. Il concetto di struttura delle opportunità politiche ci aiuta a individuare i meccanismi attraverso i quali questi cambiamenti culturali si manifestano nell'azione collettiva.
Man mano che si ampliano le opportunità di mettere in crisi un sistema politico e si diffonde l'informazione relativa alle sue vulnerabilità, non solo gli attivisti ma anche i cittadini e i gruppi istituzionali cominciano a saggiare i limiti del controllo sociale. Gli scontri tra i primi contestatori e le autorità rivelano i punti deboli di queste ultime e la forza dei primi, consentendo anche agli attori sociali più timidi di schierarsi con l'una o con l'altra parte. Una volta innescata da una situazione di ampliamento generalizzato delle opportunità, l'informazione si propaga all'esterno e si accelera il processo di apprendimento politico (v. Hill e Rothchild, 1992).
Nel corso di tali periodi le opportunità create dalla prima ondata forniscono incentivi per la formazione di nuove organizzazioni di movimenti. In un ambiente aperto di questo tipo, anche i gruppi di interesse convenzionali prestano attenzione a forme d'azione collettiva non convenzionali. Si formano alleanze che spesso travalicano i confini tra contestatori e membri del sistema politico (v. Tilly, 1978, cap. 2), e si sperimentano e si diffondono nuove forme di azione collettiva. Compare un 'settore di movimento sociale' denso e interattivo, in cui le organizzazioni competono e cooperano tra loro. Le organizzazioni dei movimenti competono per il sostegno, e come risultato di questa competizione si ha una radicalizzazione e una concorrenza tra fazioni che danno luogo a defezioni e a un aumento della repressione. Via via che il ciclo si allarga, i movimenti possono annullarsi a vicenda dirigendo le proprie sfide gli uni contro gli altri, e creano così opportunità favorevoli alle élites e ai partiti di opposizione, come successe in Italia nel ciclo degli anni sessanta e settanta. Si formano alleanze tra gruppi istituzionali e contestatori; le élites all'opposizione possono avanzare richieste di cambiamenti radicali che prima sarebbero sembrate avventate; le forze governative rispondono con la repressione o con le riforme, o con una combinazione delle due cose. L'estendersi della logica dell'azione collettiva conduce a soluzioni nella sfera politica, dove i movimenti che hanno dato l'avvio al ciclo e quelli che sono apparsi nel suo corso hanno un'influenza sempre minore sui suoi esiti.I cicli della protesta possono culminare in casi estremi in rivoluzioni. Queste non sono una forma a sé stante di azione collettiva, né si esauriscono interamente nell'azione collettiva popolare. Nelle rivoluzioni, così come nei cicli della protesta ai quali sono collegate, l'azione collettiva induce altri gruppi e istituzioni a partecipare, fornendo le basi e le strutture per la nascita di nuovi movimenti sociali, scardinando le vecchie istituzioni e le reti di relazioni sociali che le circondano e creandone di nuove a partire dalle forme di azione collettiva con le quali i gruppi ribelli hanno iniziato il processo. La principale differenza tra i cicli della protesta e le rivoluzioni è che in queste ultime viene creata una pluralità di centri di sovranità, cosicché il conflitto tra i contestatori e i membri del sistema politico si trasforma in una lotta per il potere (v. Tilly, 1978 e 1993).
Le considerazioni fatte in precedenza indicano che sarebbe del tutto infruttuoso esaminare i risultati dei movimenti sociali facendo esclusivamente riferimento agli individui o alle strutture organizzative dei movimenti stessi. Se è vero infatti che le decisioni iniziali di intraprendere un'azione collettiva sono individuali, tali decisioni hanno luogo di solito all'interno di reti di relazioni sociali e in risposta a determinate opportunità politiche, e creano incentivi e opportunità per altri. Tanto la sfida collettiva quanto le reazioni che essa suscita sono inserite in un complesso sistema politico e sociale nel quale entrano in gioco gli interessi e le azioni di altri partecipanti, e in cui le tradizioni e le esperienze storiche di protesta e di conflitto diventano risorse e segnali sia per i contestatori che per i loro avversari.
Per quel che riguarda gli esiti dei movimenti sociali, il punto importante è che sebbene questi si considerino al di fuori delle reti istituzionali esistenti e in contrasto con esse, l'azione collettiva li inserisce in complesse reti di rapporti politici e di conseguenza li colloca nel raggio d'azione dello Stato. Se non altro, i movimenti formulano richieste in termini di strutture di senso comprensibili alla società più ampia (il 'senso comune' di cui parla Gramsci), utilizzano forme di azione collettiva attinte da un repertorio preesistente, e sviluppano forme di organizzazione che spesso imitano quelle dei loro antagonisti. Anche i movimenti che insorgono contro lo Stato sono in un senso basilare prigionieri dello Stato (v. Tilly, 1993).
Si può dunque cominciare ad analizzare l'azione collettiva come un insieme di decisioni individuali oppure dal punto di vista delle strutture organizzative, ma ben presto si arriva inevitabilmente alla sfera più complessa e ardua della politica; e ciò vale anche per movimenti che mirano allo sviluppo di una identità collettiva. È attraverso le opportunità politiche appropriate create da contestatori, movimenti e alleati che scaturiscono i cicli della protesta e le rivoluzioni. Essi a loro volta creano opportunità per élites ed élites di opposizione, e l'azione che era cominciata nelle strade viene risolta nelle stanze di governo o dalle baionette dell'esercito. I movimenti, e in particolare le ondate di movimenti che sono i principali catalizzatori del mutamento sociale, vanno visti come una componente delle lotte nazionali per il potere.
Definire una tipologia dei movimenti sociali è senz'altro più difficile che fornire una classificazione dei partiti politici o dei gruppi di interesse. Nella storia del mondo moderno i movimenti sociali hanno avuto una grande varietà di basi sociali (classe, religione, etnia), di ideologie (liberalismo, nazionalismo, socialismo, democratizzazione), di forme di azione collettiva (dalle assemblee pacifiche alla lotta armata), nonché di tipi e livelli di organizzazione (dalle formazioni quasi spontanee ai movimenti di massa organizzati). Inoltre, alcuni movimenti hanno una chiara natura strumentale, altri mirano alla costruzione o alla difesa di una identità collettiva, mentre la maggior parte presenta entrambe le componenti.
Forse l'elemento più generale che può essere utilizzato quale criterio per distinguere i vari movimenti è il tipo di rapporto che essi hanno con le istituzioni. Alcuni studiosi hanno operato una distinzione tra i movimenti e le istituzioni, e hanno visto una evidente progressione dalla fase di emergenza di un movimento all'istituzionalizzazione (v. Alberoni, 1977). Mentre alcuni movimenti sorgono all'interno delle istituzioni, altri hanno origini extra-istituzionali. Certuni si pongono obiettivi compatibili con le istituzioni cui si rivolgono, altri mirano alla loro distruzione e altri ancora cercano di costruire comunità che si sottraggano alla loro influenza.
Da questo elemento generale rappresentato dal rapporto con le istituzioni si possono ricavare due variabili atte a identificare quattro tipi fondamentali di movimenti, distinti a seconda dell'opposizione totale o parziale alle istituzioni, e delle modalità di confronto, pacifiche oppure violente e distruttive, con esse. Avremo così il seguente schema:
Parziale Totale
Conflittuale Movimenti Movimenti
espressivi integralisti
Pacifico Movimenti Movimenti
di riforma comunitari
Ovviamente, ciascuna delle forme di movimento sociale che ne risultano costituisce un tipo ideale. Ciò significa che all'interno di uno stesso tipo di movimento possono coesistere diverse tendenze, e che l'interazione di un movimento con le istituzioni nel corso del tempo può cambiarne la natura rendendo necessaria una sua riclassificazione. Per fini espositivi, focalizzeremo l'attenzione sulla principale tendenza storica nell'ambito di ciascun tipo di movimento, illustrandone l'evoluzione a partire dalla storia moderna dell'Occidente e accennando solo di passaggio alla sua interazione con le istituzioni e con i movimenti rivali.
Poiché i movimenti sociali rappresentano tipicamente attori non rappresentati, essi sono tutti connotati da forti elementi espressivi - nuove forme di abbigliamento e di linguaggio, nuovi stili di vita e di lotta. Solo attraverso una presentazione drammatica di sé, infatti, un movimento può costruire una nuova identità e ottenerne il riconoscimento da parte sia dei soggetti che degli interlocutori. Useremo la locuzione 'movimenti espressivi' per designare quei movimenti il cui rapporto con le istituzioni è in fase emergente e improntato all'opposizione. Si tratta di movimenti instabili nella forma e spesso effimeri. Poiché le loro rivendicazioni il più delle volte sono circoscritte a un singolo tema o a una singola campagna, spesso i movimenti come tali scompaiono dopo che le tematiche attorno alle quali si sono organizzati diventano superate. Ancora più spesso, però, dopo la fase di emergenza iniziale, essi mutano il loro carattere passando a una forma più stabile di interazione con le autorità o con le élites.
I primi movimenti operai erano espressivi nel senso sopra definito, e mutuavano spesso le forme ritualizzate di movimenti precedenti per esprimere le proprie richieste, il più delle volte assai modeste. L'adozione di usanze popolari quale quella del charivari in Francia o della cosiddetta 'rough music' in Inghilterra dimostrava la natura essenzialmente transizionale di tali movimenti. Una volta scoperto il proprio repertorio caratteristico di azione collettiva - lo sciopero, le assemblee pubbliche, le manifestazioni - essi si trasformarono in movimenti essenzialmente riformisti (vedi sotto), pur conservando forti elementi espressivi.
La presenza di spiccati elementi espressivi caratterizzò anche i movimenti contadini. Nati spesso sull'onda delle opportunità createsi all'interno di un sistema politico più ampio (si pensi ad esempio ai moti contadini dell'Italia meridionale, innescati dagli avvenimenti rivoluzionari del 1848), tali movimenti raramente perseguivano obiettivi più ambiziosi della restituzione delle terre comuni abusivamente recintate o della riforma di contratti improntati allo sfruttamento. Tuttavia alla testa delle loro processioni spesso alla statua della Vergine si affiancava la bandiera nera o quella rossa. Solo di rado i movimenti contadini avevano un'ideologia ben definita che andasse al di là delle loro rivendicazioni immediate, come nel caso degli anarchici andalusi o del movimento zapatista nel corso della Rivoluzione messicana.
In tempi più recenti i 'nuovi' movimenti sociali sorti nell'Europa occidentale sono stati a volte qualificati come 'espressivi' per la loro organizzazione informale, per la mancanza di un'ideologia ben definita, per il privilegiamento di problematiche concernenti quello che Habermas ha definito 'spazio di vita', e per l'opposizione alle autorità. Secondo alcuni autori, tali rivendicazioni incentrate sullo spazio di vita, originate dai processi di cambiamento nel capitalismo avanzato, erano legate alla costruzione di nuove identità collettive e di conseguenza erano viste come una sfida permanente all'assetto politico del dopoguerra (v. Offe, 1985). In retrospettiva, è agevole constatare come queste caratteristiche fossero una conseguenza della 'giovinezza' di tali movimenti, la maggior parte dei quali negli anni novanta si è evoluta verso forme più stabili o ha assunto i connotati di partiti politici.
Il termine 'riforma', impiegato originariamente in molti paesi per designare la Riforma protestante, ha assunto il suo significato attuale solo dopo il consolidamento del moderno Stato nazionale. Non è un caso pertanto che il primo movimento moderno di riforma affermatosi con successo sia stato quello per l'abolizione del commercio e dello sfruttamento degli schiavi in Gran Bretagna e nelle sue colonie (v. Drescher, 1987). Nato tra i gruppi protestanti evangelici, tale movimento fu alimentato dalle ribellioni degli schiavi nel Nuovo Mondo e fu propagato nel continente europeo dai moti del 1848. In un primo tempo contrastato dalle lobbies di proprietari di schiavi, il movimento antischiavista alla fine trionfò in Gran Bretagna, diventando una politica ufficiale portata avanti dalla diplomazia e dalla Marina britanniche.
Negli Stati Uniti - paese in cui lo schiavismo era stato sin dal XVII secolo un'istituzione nazionale da cui dipendevano settori chiave della classe dei proprietari terrieri - il movimento per l'abolizione della schiavitù scatenò un conflitto sociale più profondo, dando luogo a un movimento abolizionista a base religiosa e fondendosi con politiche elettorali e con la colonizzazione delle frontiere. La lotta contro lo schiavismo mise le une contro le altre intere regioni e coalizioni di interessi politici ed economici del paese, sfociando in una sanguinosa guerra civile che terminò nel 1865 con la distruzione del sistema di vita basato sulle piantagioni del Sud. È degno di nota il fatto che dal movimento in favore dell'affrancamento degli schiavi non si sviluppò alcun movimento permanente, laddove dai sentimenti di ostilità nei confronti dei neri all'indomani della guerra civile nacque il Ku Klux Klan, un'organizzazione semiclandestina tuttora esistente che afferma la supremazia della razza bianca. Solo negli anni cinquanta e sessanta un movimento nazionale per i diritti civili si è battuto con successo per estendere la riforma fino al riconoscimento dei diritti politici, sociali ed economici alle minoranze nere.
La tendenza insita nei movimenti di riforma a scatenare conflitti politici e sociali profondamente radicati si può riscontrare anche nel classico movimento di riforma del XIX secolo, il movimento operaio socialdemocratico. Nati all'inizio dell'Ottocento tra gli operai qualificati - con il carattere di confraternite quasi religiose - e connotati da forti elementi espressivi (vedi sopra), i movimenti operai chiedevano una riforma dei salari e dell'orario di lavoro, l'estensione del suffragio alle classi dei lavoratori in paesi come la Gran Bretagna e la Germania, e soprattutto il diritto di formare organizzazioni sindacali.
Se l'antischiavismo era stato alimentato da determinate organizzazioni religiose, il movimento operaio poté contare su due tipi di risorse: quelle create dalla disciplina del lavoro in fabbrica, che produssero il sindacalismo, e quelle del riformismo della classe media, da cui si svilupparono i partiti socialdemocratici e laburisti. In alcuni paesi, come in Germania, i sindacati si svilupparono sotto l'egida del partito, in altri, come in Italia e in Francia, partiti e sindacati mantennero rapporti non facili, e in altri ancora, come negli Stati Uniti, partiti e sindacati rimasero completamente separati.
Al pari del movimento antischiavista, il movimento operaio si fuse con altri movimenti contemporanei e ne fu alimentato: movimenti di riforma religiosa, movimenti libertari e movimenti che sostenevano l'estensione dei diritti politici alle classi inferiori (v. Bendix, 1964). E come nel caso dell'antischiavismo - perlomeno nella sua forma americana - le rivendicazioni operaie fecero nascere aspri conflitti giuridici, politici e sociali che andavano ben al di là del programma originario di riduzione dell'orario di lavoro, aumento dei salari e miglioramento delle condizioni di lavoro. La resistenza opposta dagli imprenditori a queste rivendicazioni e le differenze ideologiche all'interno del movimento operaio portarono alla nascita di varie correnti: il sindacalismo e l'anarcosindacalismo - forti soprattutto nell'Europa latina -, il riformismo in Francia, il fabianismo e il laburismo in Inghilterra, e la versione socialdemocratica del marxismo, che si radicò soprattutto nei paesi dell'Europa centrale.
Nel XX secolo, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, si è assistito a una fioritura di movimenti di riforma per i diritti delle donne, delle minoranze, dei disabili e dei non nati, nonché per la regolamentazione dell'ambiente e del luogo di lavoro. In concomitanza con il declino del movimento operaio si sono sviluppati nuovi movimenti di cittadini, organizzati attorno agli obiettivi più svariati: dal 'movimento delle madri contro la guida in stato di ubriachezza' negli Stati Uniti, al movimento degli automobilisti in Svizzera sino al potente movimento anti-immigrati in Francia (Front national). Particolare successo ha avuto il movimento ambientalista, nato con forti connotazioni espressive ma dotato di un programma di riforme che in molti punti è stato recepito dai partiti riformisti e persino da quelli moderati.
Quali sono le ragioni del proliferare dei movimenti di riforma negli ultimi vent'anni? In primo luogo, i movimenti studenteschi e quelli della 'nuova sinistra' degli anni sessanta hanno creato una riserva di attivismo al di fuori dei partiti politici cui hanno potuto attingere i movimenti degli anni settanta e ottanta - in particolare quelli pacifisti, ambientalisti e femministi. In secondo luogo, nuovi strumenti di organizzazione e di diffusione - e specialmente i mass media - hanno messo a disposizione dei cittadini ingenti risorse, conferendo loro un potere di influenzare le scelte politiche che in passato avrebbe richiesto organizzazioni burocratiche di tipo formale. In terzo luogo, per ragioni diverse, i partiti politici hanno perso le potenti subculture politiche che erano riusciti a creare in passato, a seguito dell'accresciuta prosperità, della mobilità della popolazione e della creazione di subculture popolari veicolate dai media.
I due tipi di movimenti illustrati in precedenza sono critici nei confronti delle istituzioni. Esistono però molti altri movimenti che le rifiutano globalmente; alcuni di essi, sui quali ci soffermeremo in seguito, mirano a sovvertire le istituzioni, mentre altri, rifiutandone del pari l'autorità, cercano di costruire comunità alternative sottratte alla loro influenza.
L'impulso a costruire comunità alternative può nascere all'interno delle istituzioni, come dimostra l'esempio delle comunità monastiche medievali. Di fatto, i primi movimenti monastici si organizzarono attorno ai valori spirituali rappresentati dagli insegnamenti della Chiesa - e così raramente messi in pratica. La Chiesa fornì loro un modello di struttura normativa e di organizzazione economica di cui sarebbero stati privi se avessero scelto di separarsi totalmente dai suoi insegnamenti e dalla sua autorità. Le comunità alternative sembrano richiedere peraltro l'isolamento fisico, e per questa ragione molti di essi si insediarono in aree isolate o nelle campagne.
Tra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento l'idea delle comunità alternative incontrò un particolare successo, e molte di esse vennero fondate sia in Europa che negli Stati Uniti. Si trattava spesso di comunità di ispirazione religiosa - come quelle dei mormoni e degli shakers, o 'scotitori', negli Stati Uniti - che cercavano l'isolamento fisico per sfuggire ai mali spirituali della città. Altre però ebbero un'impronta laica e nacquero come reazione alle conseguenze negative della prima industrializzazione; ne sono un esempio le comunità owenite create in Gran Bretagna e nell'America del Nord e quelle dei primi populisti russi, che sognavano di fare del mir, l'antica comunità contadina, la base di una futura società socialista. Sebbene molti dei primi utopisti fossero europei - come Cabet, Fourier, lo stesso Owen - l'America divenne il locus classicus per la fondazione di comunità alternative, in parte perché la vastità di questo paese incoraggiava nuovi insediamenti, ma soprattutto perché l'assenza di una Chiesa istituzionale lasciava maggior spazio a una sperimentazione spirituale di quanto non accadesse in Europa. Tuttavia anche negli Stati Uniti sperimentatori quali i mormoni furono allontanati dai loro insediamenti originari nello Stato di New York verso i deserti dell'Ovest, dove poterono coltivare le loro pratiche esotiche e dedicarsi indisturbati al perfezionamento della loro spiritualità.
La costruzione di comunità alternative sembra seguire ondate di entusiasmo religioso o politico, come dimostrano i movimenti revivalisti degli anni trenta dell'Ottocento negli Stati Uniti e i più recenti esperimenti comunitari realizzati sia in Europa che negli Stati Uniti dagli ex attivisti degli anni sessanta. Promotori di tali comunità sono fondamentalmente gli elementi dei movimenti di massa disillusi dai movimenti espressivi e riformisti, che ripongono le proprie speranze di autorigenerazione nella vita in comune con altre persone simili a loro, lontano dalle tentazioni della società capitalistica.
Tuttavia queste comunità alternative spesso falliscono o, quando ciò non accade, sopravvivono a patto di scendere a compromessi con la società che li circonda adeguandosi alle forme di comportamento dominanti. Questo paradosso non deriva da un'intrinseca debolezza di fibra morale nei membri di tali comunità, bensì dal fatto che la volontà di creare comunità pienamente autosufficienti li induce a intraprendere attività economiche in settori dominati da attori la cui unica motivazione è il profitto. Lo stesso discorso vale per la cosiddetta 'scena alternativa', sviluppatasi nei paesi dell'Europa occidentale dai movimenti degli anni sessanta: là dove essa è sopravvissuta, ha potuto farlo in larga misura in quanto ha accettato le regole del mercato.
L'espansione dell'industrializzazione nell'Europa meridionale e orientale alla fine del XIX secolo mise in crisi la tendenza riformista che si era imposta nei movimenti operai occidentali negli anni ottanta del secolo. Non si trattava solo dell'interazione tra governi autocratici e masse di ex contadini sfruttati nelle fabbriche e ammassati in sordidi slums; come ha messo in luce Gerschenkron, la necessità di competere con i paesi già industrializzati, ad alti livelli di tecnologia e di capitalizzazione, portò i governi dei paesi arretrati a sostenere e a finanziare lo sviluppo industriale. Ciò significava che le lotte per l'aumento dei salari, per la riduzione dell'orario di lavoro e per i diritti sindacali erano viste come minacce agli Stati autocratici e come conflitti per la sovranità. Più si procedeva verso oriente, più gli Stati consideravano le riforme come una minaccia e i riformatori come rivoluzionari. Ciò portò infine all'affermarsi del movimento socialdemocratico russo, che abbandonò le posizioni riformiste per abbracciare l'integralismo leninista.
All'inizio il leninismo non fu che un'esigua corrente all'interno della sinistra nel vasto Impero russo. Tuttavia il fatto di propugnare una nuova teoria organizzativa (la teoria leninista dell'avanguardia), il suo progetto utopico di trasformazione globale della vita politica ed economica della Russia, e infine l'opposizione alla prima guerra mondiale misero tale movimento nella singolare condizione di acquistare potere in nome di un'ideologia proletaria in un paese dominato da una maggioranza contadina che era appena uscita dal feudalesimo. Da ciò derivarono molte delle distorsioni della via sovietica al socialismo, ma derivò anche la convinzione di molti socialisti in tutto il mondo che quanto il leninismo aveva realizzato in Russia avrebbe potuto essere attuato anche nel loro paese.
L'integralismo comunque - il rifiuto totale delle istituzioni associato al ricorso a forme di azione collettiva improntate alla lotta - non era limitato al movimento operaio. Via via che l'industrializzazione investì i paesi dell'Est, fecero la loro comparsa nuove forme di nazionalismo - dottrina associata originariamente al liberalismo e al riformismo. Il nazionalismo integralista asseriva, con eguale infondatezza, l'assoluta unicità di ogni gruppo etnico e il suo legame storico con un particolare territorio. Per i movimenti più radicali ciò si traduceva sul piano pratico nel rifiuto totale di ogni compromesso territoriale e in un odio viscerale nei confronti dei vicini: è quanto si è visto recentemente nella guerra nell'ex Iugoslavia.
L'integralismo non è peraltro limitato a queste forme estreme del movimento operaio e del nazionalismo etnico. La sua manifestazione più recente è data dalle varie forme di fondamentalismo religioso che si sono affermate nel mondo islamico, nonché in quelli cristiano ed ebraico. Il fatto che da tutte e tre le grandi religioni monoteiste siano scaturiti nello stesso momento storico movimenti improntati al proselitismo e all'intransigenza è un fenomeno che non può essere analizzato in questa sede; ci limiteremo a osservare che la sua coincidenza con il crollo dell'ideologia marxista-leninista potrebbe non essere casuale, e che la comparsa di questi movimenti su scala transnazionale potrebbe essere una dimostrazione del fatto che la globalizzazione sta trasformando le dimensioni dei movimenti sociali.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, gran parte della nostra esperienza di politiche conflittuali deriva dalla storia dell'Occidente industrializzato nel corso degli ultimi due secoli, e ha come perno il consolidamento dello Stato nazionale. Gli studiosi hanno appena cominciato a indagare gli effetti del cosiddetto processo di 'globalizzazione' sui movimenti politici e sociali. In questa sede non possiamo analizzare in dettaglio le varie versioni e le caratteristiche della tesi della globalizzazione. Ci limiteremo a enunciare i cinque assunti fondamentali della sua versione 'forte':
1. Alla fine del XX secolo si riscontra una tendenza dominante verso l'interdipendenza economica internazionale.
2. La crescita economica degli anni settanta e ottanta ha ravvicinato i popoli del Nord e dell'Ovest a quelli del Sud e dell'Est, rendendo questi ultimi maggiormente consapevoli della propria ineguaglianza.
3. L'interdipendenza economica a livello mondiale e la povertà di alcuni paesi rispetto ad altri hanno contribuito ad alimentare massicci spostamenti di popolazione dal Sud e dall'Est verso il Nord e l'Ovest del mondo. Poiché però gli immigrati non perdono più i contatti con la propria terra d'origine, né d'altro canto possono aspirare a ottenere la cittadinanza del paese ospite, essi rimangono perennemente stranieri.
4. Si vanno affermando strutture di comunicazione globali che creano legami più stretti tra il centro e la periferia del sistema-mondo. Certe tecnologie della comunicazione decentralizzate e private, come ad esempio i networks informatici, hanno accelerato lo sviluppo di strutture di comunicazione globali interdipendenti.
5. A questi cambiamenti strutturali fa riscontro un mutamento culturale, ossia una crescente unificazione del mondo in cui viviamo, in virtù della quale ciò che accade in una parte del globo ha una risonanza immediata altrove.Siffatti cambiamenti potrebbero favorire lo sviluppo di movimenti sociali transnazionali. Le strutture politiche nazionali, che in passato erano le uniche a modellare, e a vincolare, l'azione collettiva, potrebbero essere sulla via di scomparire. Lo Stato nazionale - incubatrice e nello stesso tempo fulcro dei movimenti sociali del passato - potrebbe non essere più l'unico stimolo, o l'unico terreno di lotta, per i movimenti. Ciò vale in modo particolare là dove i sistemi politici nazionali hanno consentito a condividere la sovranità con nuovi organismi politici ed economici transnazionali (è questo il caso, ad esempio, dell'Unione Europea).
Anche la capacità dei cittadini di organizzare nuove forme di azione collettiva probabilmente si è accresciuta con la globalizzazione dei mezzi di comunicazione. Quando la comunicazione elettronica diventa uno strumento di propagazione dell'informazione per il movimento, aumenta la possibilità di conferire potere a basso rischio ai cittadini di tutti i paesi del mondo. A questa trasformazione si sono accompagnate forme pacifiche e praticamente istituzionalizzate di azione collettiva a livello transnazionale: dal movimento studentesco degli anni sessanta alle campagne pacifiste degli anni ottanta in Europa e in America, al movimento ambientalista mondiale, che unisce i movimenti e i partiti dei Verdi di tutti i paesi, fino alle organizzazioni non governative (le cosiddette ONG), attive nella tutela dei diritti delle popolazioni indigene in tutto il mondo - dall'America Latina all'Australia - e nella denuncia dei soprusi e delle ingiustizie di cui sono vittime. Questi movimenti transnazionali vanno acquistando un'importanza crescente sul piano della politica sia nazionale che internazionale.E tuttavia l'aumento dell'immigrazione e la rapida diffusione dell'informazione e persino della militanza potrebbero non essere sufficienti a far nascere movimenti globali. Sia la storia che la teoria dei movimenti sociali suggeriscono una certa prudenza. Le ragioni per cui si impone cautela nei confronti della versione forte della tesi della globalizzazione possono essere sintetizzate in due punti: in primo luogo, l'integrazione dell'economia mondiale non è un fenomeno interamente nuovo; in secondo luogo, l'espansione del capitalismo e dei mezzi di comunicazione e le ondate di immigrazione che ne sono state la conseguenza determinarono già nel XIX secolo la diffusione a livello mondiale di movimenti simili nella forma e con obiettivi analoghi (basti pensare alla III Internazionale creata da Lenin, o alla diffusione di forme analoghe di nazionalismo in tutto il mondo).
La teoria dei movimenti sociali dal canto suo, come abbiamo visto in precedenza, insegna che i movimenti sociali e politici non dipendono solo dagli interessi o dalle opportunità, ma devono basarsi su reti sociali locali e sulle opportunità politiche offerte dalla società all'interno della quale operano. Quanti ritengono che la globalizzazione porterà alla nascita di movimenti sociali transnazionali dovranno dimostrare che le reti di attivisti internazionali (e inevitabilmente distanti) hanno gli stessi effetti di quelle faccia a-faccia, e sono in grado di creare identità collettive analoghe a quelle che sono state alla base dei movimenti sociali nazionali. (V. anche Comportamenti collettivi; Consenso; Partiti politici e sistemi di partito; Riformismo; Rivoluzione).
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