Palestinese, movimento
(App. IV, ii, p. 727; V, iv, p. 30)
La scelta compiuta nel settembre 1993 dall'OLP, firmando a Washington la Dichiarazione dei principi sulle disposizioni transitorie d'autonomia con lo Stato d'Israele, trovava le sue premesse nelle deliberazioni adottate dalla xii riunione del Consiglio nazionale palestinese tenutasi al Cairo nel giugno 1974. Il programma allora approvato prevedeva al secondo punto la possibilità per l'OLP di costituire un potere nazionale su ogni parte della terra palestinese che fosse stata liberata. Attraverso lotte e condizionamenti protrattisi per un ventennio si era pervenuti quindi a siglare con il governo israeliano un articolato protocollo d'intesa che, attraverso varie tappe, avrebbe dovuto portare alla convivenza tra i due popoli in base al principio del conferimento di territori alla rappresentanza palestinese in cambio della pace.
Nonostante i ritardi, le incomprensioni e specialmente le resistenze degli estremisti presenti in ambedue i campi, l'Autorità nazionale palestinese, istituita con il compito di gestire i territori gradualmente abbandonati dagli Israeliani, avvalendosi d'un proprio Parlamento, o Consiglio dell'autonomia (eletto per la prima volta il 20 gennaio 1996), e d'una propria polizia, riuscì a portare avanti il processo di autonomia nella direzione prevista con l'assunzione del controllo di varie località, e in primo luogo dei centri urbani. La situazione per i Palestinesi restava comunque oggettivamente complessa per la frammentazione del territorio su cui esercitare il potere, per le difficoltà di spostamento dovute alla presenza dei militari israeliani e soprattutto per le pesanti condizioni economiche in cui versava la popolazione.
Gli oppositori di tale programma, che subito ne denunciarono i limiti rispetto alle aspirazioni originarie, non riuscivano però a esprimere una credibile alternativa, anzitutto per la loro eterogeneità rispetto all'orientamento possibilista seguito dalla maggioranza, la quale, per la sua moderazione, si guadagnava l'appoggio di quasi tutti i paesi membri dell'ONU. L'arco dei contestatori del programma portato avanti da Y. ῾Arafāt andava dai gruppuscoli terroristi all'estremismo islamico, dalle correnti islamiche integraliste quali Hamas (Movimento della resistenza islamica), ai resti dei movimenti di estrema sinistra (il Fronte popolare di liberazione della Palestina di G. Ḥabbāš e il Fronte democratico di liberazione della Palestina di N. Ḥawātma), ad alcuni intellettuali come E. Said e il poeta M. Darwīš.
Di contro, a sostegno delle posizioni 'governative' del movimento di al-Fataḥ, espressione sia di larghe fasce popolari, sia del mondo dei notabili tradizionali, si allineavano alcuni movimenti appartenenti all'area di sinistra, quali l'Unione democratica palestinese, guidata da Y.A. Rabbo e derivata da una scissione del Fronte democratico di liberazione della Palestina, e il Partito del popolo di Palestina (già Partito comunista di Palestina), di piccole dimensioni, ma che svolgeva un'opera di raccordo con il Partito comunista israeliano e con la minoranza palestinese nello Stato d'Israele; infine alcuni intellettuali, tra cui H. ‚Ašrawī e H.A. Šāfī, impegnati nella promozione dei diritti civili, e che avevano avuto una parte di rilievo già nella prima fase del negoziato con Israele.
Nel 1996, con la vittoria alle elezioni israeliane della coalizione di estrema destra di B. Netanyahu, si verificò una generale inversione di tendenza. Molti problemi che si stavano affrontando vennero infatti accantonati: i progetti di sviluppo locale, lo studio di una cooperazione scientifica, economica e culturale tra Palestinesi e Israeliani, i progetti per la cooperazione regionale arabo-israeliana, la definizione dei rapporti politici e giuridici tra l'OLP e l'Autorità nazionale palestinese, le questioni del rimpatrio dei profughi e dello status di Gerusalemme.
Stavano, infatti, emergendo ipotesi palestinesi per fare di Gerusalemme, alla cui sorte era interessata anche la Chiesa, contemporaneamente la capitale della Palestina e di Israele senza ricorrere a barriere o mura, prendendo atto della compresenza di genti di diversa estrazione e fede. Va tenuto presente che sotto l'amministrazione israeliana Gerusalemme non è mai stata unita bensì rigidamente frazionata, sotto la sorveglianza armata degli Israeliani, e poco accessibile, in particolare per i fedeli musulmani.
Tutti questi disegni vennero di fatto accantonati e il m. p. si trovò a fronteggiare un periodo di involuzione contraddistinto da un ritorno a un clima di violenza che portò a espropri e confische di terre, distruzione di case, allargamento degli insediamenti ebraici, costruzione di strade e autostrade delimitanti i territori tenuti dagli Israeliani. In particolare, di fronte alle tattiche dilatorie del governo Netanyahu, si dimostrarono vani i tentativi di riallacciare il dialogo. Il fallimento degli sforzi (maggio 1998) da parte del segretario di Stato statunitense, M. Albright, per riavviare il previsto ritiro israeliano indusse ‚Arafāt a cercare il sostegno dell'Egitto e della Giordania in un incontro al Cairo con Ḥ. Mubārak e re Ḥusayn. D'altra parte la promozione, il 7 luglio, della delegazione della Palestina in rappresentanza diplomatica, nonché il voto del Consiglio di Sicurezza contro i piani di allargamento di Gerusalemme portati avanti dal governo israeliano (14 luglio), furono sia un passo avanti verso il riconoscimento dello Stato palestinese sia una riconferma dell'appoggio dell'ONU.
Una svolta significativa, determinata almeno in parte dall'esigenza della presidenza Clinton di dimostrare la propria efficienza in campo internazionale, si ebbe, nell'ottobre 1998, con l'apertura a Wye Plantation d'una trattativa tra ‚Arafāt, Netanyahu e lo stesso Clinton, e con la partecipazione di re Ḥusayn di Giordania, che si concluse il 23 ottobre alla Casa Bianca con la firma ufficiale di un 'Memorandum'.
Tra i punti principali dell'accordo vi erano: il ritiro israeliano dal 13,1% dei territori della Cisgiordania, il passaggio del 14% dei territori già assegnati ai Palestinesi alla categoria A (cioè al completo controllo palestinese), il consenso alla costruzione dell'aeroporto di Gaza, il rilascio dei detenuti presenti nelle carceri israeliane, l'impegno palestinese nella lotta al terrorismo con l'assistenza tecnica degli Stati Uniti, l'inizio di trattative sul rilancio del porto di Gaza e su altre questioni economico-finanziarie.
Molti dubbi tuttavia permanevano sulle reali intenzioni del governo Netanyahu di tenervi pienamente fede, tanto più che tra oppositori e astenuti solo una minoranza dei ministri si mostrò favorevole all'accordo. Significativa, in ogni caso, la visita di B. Clinton a Gaza il 14 dicembre, quando il Consiglio nazionale palestinese solennemente abrogò dallo statuto dell'OLP i riferimenti alla distruzione di Israele.
Continuava nondimeno a essere portata avanti la battaglia culturale per l'affermazione dell'identità nazionale palestinese: una consapevolezza storico-politica che veniva riconfermata in occasione del cinquantenario delle vicende disastrose del 1947-48 nel progetto di edificare un museo a loro testimonianza e nelle dimostrazioni di massa celebrative dell'anniversario. Dopo una fase di stallo nelle trattative con Israele, la vittoria elettorale del candidato laburista E. Barak nel maggio 1999 sembrò indicare un mutamento di rotta. Nel settembre dello stesso anno, infatti, Arafāt e il nuovo primo ministro israeliano Barak siglarono un accordo in Egitto, a Šarm al-Šayh̠, per rilanciare il processo di pace, impegnandosi a porre fine a questo lunghissimo e travagliato negoziato entro il settembre del 2000, data in cui era previsto il passaggio di circa il 40% dei territori della Cisgiordania sotto il controllo totale o parziale dell'Autorità nazionale palestinese. Il 9 settembre Israele procedeva al rilascio di 199 prigionieri - l'accordo ne prevedeva 350 complessivi - e al primo dei ritiri previsti dai territori occupati.
bibliografia
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