Salito al potere dopo l’assassinio di al-Sādāt di cui era il vice, Mubārak - anch’egli militare di carriera come i suoi predecessori - è stato il dominatore indiscusso della scena politica egiziana per quasi un trentennio: dal 1981 fino all’11 febbraio del 2011, giorno in cui è stato costretto a dimettersi a seguito delle diffuse proteste popolari che da settimane stavano insanguinando, negli scontri con gli apparati di sicurezza interna, le strade e le piazze egiziane.
Il ‘Faraone d’Egitto’, questo l’appellativo in voga tra i suoi oppositori, aveva fatto del mantenimento dell’ordine e della sicurezza domestici e della lotta ai movimenti islamici radicali i due obiettivi cardinali della sua politica interna, ricorrendo diffusamente nel lungo trentennio di presidenza a strumenti di repressione e controllo sociale, primo tra tutti quello stato di emergenza, che è stato in vigore dal 1981 fino alla sua caduta.
Sotto la crescente pressione interna e internazionale per l’avvio di un corso politico più liberale, il presidente aveva aperto a tentativi embrionali di riformare il suo regime: la nomina nel 2004 di un nuovo governo, formato in gran parte da tecnocrati e riformatori legati a suo figlio, Gamāl Mubārak, e l’introduzione del suffragio universale per le elezione presidenziali del 2005, le prime con una pluralità di candidati e in cui pure aveva vinto con l’88,6% dei voti.
Oltre che su una stretta cerchia familiare e clientelare, che deteneva le redini degli interessi politici e economici più rilevanti del paese, il potere di Mubārak poteva contare anche sulla forza del suo partito, il Partito nazionale democratico. Questo, infatti, ha sempre esercitato un dominio assoluto all’interno degli organi rappresentativi egiziani, grazie tanto ai suoi rapporti esclusivi con l’esecutivo quanto al controllo esercitato sui processi elettorali.