Il dibattito filosofico-politico degli ultimi decenni sui concetti di dialogo interculturale, di differenza e riconoscimento, come quello sul problema della cittadinanza (europea e nazionale) o i dibattiti sul tema dell’identità (culturale, religiosa, politica, di genere, ecc.) rimandano tutti a ciò che si potrebbe rubricare sotto il termine di ‘multiculturalismo’ e alla relativa dottrina politica che intorno a questo termine è stata coniata a partire dagli anni Settanta del 20° secolo in Nord America.
In Europa si è iniziato a discutere di multiculturalismo più tardi, a partire dalla fine della Guerra fredda, alla luce delle urgenze poste dalle nuove sfide che interrogavano le società europee, quali la novità politica dell’Unione Europea e il processo di allargamento, i nuovi flussi migratori e i legami che questi mostravano con il passato coloniale europeo, i cambiamenti della politica e dell’economia mondiale nell’epoca della globalizzazione, il ritorno della guerra sul continente (la dissoluzione della ex Iugoslavia). Il contesto in cui si è sviluppata la discussione permette di comprendere perché in Europa il multiculturalismo è stato per lo più argomentato come nuova declinazione della tolleranza, pratica politica che era servita tra il 17° e il 18° secolo agli stati europei per frenare le sanguinose guerre civili di religione, e che ora, di fronte a una crisi che per certi versi sembra avere caratteristiche simili a quelle dell’epoca moderna (la religione insieme alla cultura nuovamente fonte di guerre e di scontro nello spazio pubblico), viene rispolverata come strumento di possibile pacificazione politica.
In questo quadro, diversi sono i modelli di politiche multiculturali implementate dagli stati europei: il modello francese di integrazione-assimilazione delle differenti culture nella cittadinanza repubblicana; la politica multiculturale adottata dal Regno Unito dopo la perdita dell’Impero; la ‘pillarisation’ olandese (o tolleranza ‘autoritaria’, vale a dire la segmentazione della società in alcuni segmenti in base alle diverse ideologie o religioni); il sistema di regolazione statale dell’identità del Belgio; le politiche di ‘istituzionalizzazione della precarietà’ e del ‘lavoratore ospite’, che trattano gli immigrati di cultura diversa da quella nazionale come ospiti, strategie proprie delle politiche sull’immigrazione tedesche e, per certi versi, italiane.
Tutti esperimenti politici, che, alla stregua dei modelli teorici che li ispirano, negli ultimi anni sempre di più si sono rivelati in difficoltà e in crisi, come dimostrano, per esempio, l’affaire del velo e la rivolta nelle banlieues in Francia, gli omicidi di Theo Van Gogh e Pym Fortuyn nei Paesi Bassi, l’attentato alla metropolitana di Londra, la questione del crocifisso in Italia, le dichiarazioni di Angela Merkel sul fallimento del multiculturalismo.
Fatti che dimostrano che governare il cambiamento in atto con politiche multiculturali o di tolleranza significa rimanere all’interno di logiche di inclusione-esclusione, che affrontano la questione delle nuove soggettività ghettizzandole come persone che non sono ‘come noi’.
D’altra parte, anche sul versante della riflessione teorico-politica le diverse dottrine del multiculturalismo e la loro pretesa normativa sono state sottoposte a duri attacchi e ne è stata denunciata la visione essenzialista della cultura che veicolano, nel momento in cui dipingono un’immagine della cultura quasi fosse una seconda ‘natura’ degli individui, e dunque immodificabile e reificata. Da qui l’accusa nei confronti delle dottrine ‘classiche’ del multiculturalismo di razzismo, sessismo o conservatorismo, poiché promotrici di una visione ‘museale’ della società multiculturale, come se fosse composta di gruppi monolitici e indifferenziati al proprio interno, incapaci di dialogare con gli altri perché gelosi custodi dei propri valori, che al più possono coesistere gli uni accanto agli altri, a patto che i confini che li separano (simbolici e materiali al tempo stesso) siano ben definiti (anche per legge, come dimostrano le rivendicazioni di diritti culturali o di diritti differenziati), in difesa di una presunta purezza e originarietà e contro qualsiasi ipotesi di dialogo, incontro, convivenza.
Sia il dibattito intellettuale sia le sconfitte che le politiche pubbliche improntate al multiculturalismo hanno subito nel corso degli ultimi anni dimostrano il deficit ermeneutico e politico della proposta veicolata dal multiculturalismo tradizionale, incapace di rispondere efficacemente ai problemi di integrazione e riconoscimento che attraversano le nostre società e di comprenderne le dinamiche politiche e sociali in atto. Da qui deriva l’urgenza di affrontare la questione della società multiculturale, dei processi di riconoscimento, della ridefinizione del concetto di cittadinanza, della convivenza (ancora più che della coesistenza) di gruppi e individui che affermano sia la propria identità sia la propria differenza, da un diverso e più produttivo punto di vista, se non vogliamo un futuro o di ghettizzazione/securizzazione di ogni gruppo o di ‘guerra di tutti contro tutti’ in un rinnovato stato di natura.
Interessanti apporti in questa direzione provengono da quegli studi (antropologici, etnografici, culturali) che hanno dimostrato come la cultura, che la maggior parte dei contributi sul multiculturalismo ritiene essere l’origine immodificabile dell’identità degli individui, non sia il principio, ma il prodotto di un processo storico e politico. Ciò significa che la cultura è una costruzione storico-politico-sociale in divenire sulla base delle relazioni linguistiche, sociali, economiche, culturali, che gli individui stabiliscono con i loro simili e l’ambiente in cui vivono, anche grazie a pratiche dialogiche che, più che mono- o multi-culturali, sono soprattutto inter-culturali. I processi identitari sono sempre processi dinamici, processi di negoziazione costante tra il sé e gli altri, mentre la rappresentazione di tali processi come cristallizzati dentro determinati confini (la cultura del gruppo o dell’individuo) è determinata da rapporti di forza, da esigenze materiali e da situazioni storiche. Dunque, non esiste una cultura originaria, ma ogni cultura è già il prodotto di interazioni e di incroci, dimenticati o negati, come ci ricorda la figura del migrante.
Per comprendere e affrontare seriamente le sfide che provengono dalla società multiculturale che l’Europa già è - come dimostrano tutte le statistiche demografiche, ma anche la nostra esperienza quotidiana - emerge oggi la necessità di produrre una nuova definizione di spazio politico, realmente democratico e capace di comprendere tutti, non perché tutti indifferentemente uguali, ma tutti ugualmente differenti. Ciò significa pensare allo spazio politico quale luogo di incontro interculturale, dove sia la differenza propria di ogni soggettività, sia il bisogno di maggior uguaglianza e giustizia sociale siano riconosciuti e assicurati a tutti.