Multiculturalismo
In generale il termine multiculturalismo, ancora di non facile definizione, fa riferimento al riconoscimento della pari dignità delle espressioni culturali di tutti i gruppi e comunità che convivono in una società democratica, nonché al significato, alle giustificazioni e alle conseguenze di tale riconoscimento; fa riferimento, in altri termini, all'idea che ciascun essere umano ha diritto a crescere dentro la propria cultura e non in quella cui una maggioranza intende assimilarlo. In questo orizzonte, diverse sono le possibilità che si aprono e su cui un consenso stabile non è stato ancora acquisito. Di quale riconoscimento si tratti, che cosa voglia dire pari dignità, se all'interno di un quadro liberale siano concepibili diritti sovraindividuali, a quali tipi di gruppi o comunità vadano accordati considerazione, riconoscimento ed eventuali diritti collettivi: sono queste le domande in base alle quali il concetto di m. va gradualmente acquisendo una propria fisionomia.
Prima di affrontare tali questioni va rimarcata una distinzione essenziale: il problema posto dalla prospettiva multiculturalista non è da confondersi con problemi che a essa vengono spesso assimilati nella pubblicistica e nei media, quali per es. il problema del razzismo e il problema dell'integrazione di una società multietnica suo malgrado. Pur importanti ed egualmente complesse, tali questioni si legano all'idea di una repentina accelerazione dei flussi migratori, che sopravanza le capacità di assorbimento e integrazione sociale della società ospite. Il tema del m., invece, esplode in tutte le società industriali avanzate, non solo in quelle che hanno subito l'impennata immigratoria. Inoltre, nella questione del m., a differenza di quanto accade per la questione dell'integrazione e del razzismo, si intrecciano pluralismo culturale, dimensione comunitaria e questioni di giustizia distributiva.
Il formarsi di una mentalità multiculturalista ha a che fare con la convivenza di culture che sono diverse non solo per i loro contenuti morali e di valore, ma anche perché hanno ancoramenti etnici e gradi di riconoscimento (o emarginazione) profondamente differenti (Galeotti 1994). Le ragioni per le quali tale convivenza genera effetti dirompenti e problemi inusitati sembrano legate soprattutto al mutare di certi nostri atteggiamenti di fondo. Nella seconda metà del Novecento sono cambiati alcuni aspetti centrali della nostra cultura, tre dei quali appaiono particolarmente determinanti per il sorgere di una sensibilità multiculturalista. In primo luogo, è profondamente cambiata la concezione filosofica dell'individuo secondo la quale l'identità della persona viene intesa come una sorta di DNA psicologico che spinge l'individuo verso una direzione o verso un'altra. L'identità dell'individuo viene ora vista piuttosto come una rappresentazione che la persona fa di se stessa a partire dalle interazioni con altri con i quali entra in rapporti significativi; si acquista un'identità, da questo punto di vista, quando si impara a vedersi con gli occhi degli altri. Ne consegue che non è possibile proteggere e rispettare veramente l'individualità così concepita se non si proteggono anche quelle condizioni sociali che permettono a tali relazioni significative di esistere, durare nel tempo e riprodursi. Rispettare veramente la dignità dell'individuo vuol dire, da questo punto di vista, rispettare l'individuo preso con tutta la sua zolla, ossia con tutto il contorno di relazioni sociali e presupposti culturali che gli permettono di essere quel dato individuo. In secondo luogo, l'affermarsi di tradizioni etiche che conferiscono valore all'autenticità, alla unicità ovvero alla differenza (oltre che all'autonomia) dell'individuo ha prodotto uno spostamento nella percezione comune di ciò che ha valore all'interno dell'individuo (Comunitarismo e liberalismo, 1992). Questa mutata costellazione etica contribuisce anch'essa a rafforzare il convincimento che rispettare l'individuo vuol dire rispettarlo con tutto ciò che lo fa essere ciò che è - la sua cultura, la sua comunità, la sua storia, la sua lingua - aprendo una nuova fase del nostro modo di intendere la società. Se la società premoderna poteva essere vista come una comunità in grande, se la società moderna è spesso apparsa come una collezione di individui, la società contemporanea appare piuttosto come una unione di comunità, una "unione sociale di unioni sociali" (Rawls 1971). In terzo luogo, nel corso del Novecento è entrata in crisi la fiducia nella possibilità di accedere a fondamenti di carattere universale. Per es., diversamente da quanto accadeva nell'America dei primi decenni del 20° secolo o nella Francia postcoloniale, non sembra più ammissibile rivendicare a una specifica forma di vita lo status di un 'dover essere' vincolante per tutti; nelle società industriali avanzate sembra essere venuta meno la credenza collettiva nel fatto che la propria forma di vita etica possa essere proposta tout-court come una morale universale (MacIntyre 1984).
Da questo punto di vista il m., lungi dall'essere un adattamento confuso e irriflesso a una realtà in troppo rapida mutazione, è stato preparato e anticipato da lunghi esercizi di 'decentramento', di rimessa in questione della centralità di ogni standard. Quando fra i sociolinguisti W. Labov ha contrapposto alla dicotomia discriminatoria, proposta da B. Bernstein, tra 'codice ristretto' (proprio delle classi subalterne) e 'codice elaborato' (tipico delle classi medio-alte) la logica "egualmente valida" del non-standard English, là è stato posto uno dei primi mattoni del m. (Bernstein 1975; Labov 1972); quando R. Laing ha difeso la schizofrenia come discorso di resistenza e M. Foucault come discorso della follia, quando l'antropologia, dopo J.G. Frazer, ha parlato della razionalità inerente alla cosiddetta mentalità primitiva, là si sono poste le premesse del multiculturalismo.
L'idea che lo Stato debba trattare con eguale rispetto non solo il cittadino, ma anche la persona che ciascuno è, equivale a dire che le istituzioni pubbliche debbono valorizzare anche ciò che rende concretamente diversi gli individui. Ciò pone problemi nuovi: l'ideale del rispetto per l'identità di ogni comunità rende più difficile il funzionamento di leggi e istituzioni che debbono valere per tutti, al di là dei confini comunitari. Relativamente a questi problemi sembrano delinearsi diverse prospettive interne alla sensibilità multiculturalista, raggruppabili attorno a tre domande: 1) che cosa si debba intendere per 'diritti culturali'; 2) quale giustificazione possa essere addotta a sostegno della protezione costituzionale dei diritti culturali; 3) quali siano i rischi del m. e quali rimedi sia possibile ipotizzare.
Diritti culturali
Se in linea di massima si intende per 'diritti culturali' la statuizione positiva di attribuire pari dignità, da parte delle istituzioni di uno Stato democratico, alla cultura di appartenenza di ciascun individuo, si pone in primo luogo il problema di identificare il soggetto di tali diritti, in secondo luogo quello di identificare l'oggetto di tali diritti (ovvero che cosa si debba intendere per cultura) e in terzo luogo quello di chiarire i termini in cui la protezione di tali diritti vada intesa, ossia in che cosa consista esattamente il diritto a vedere riconosciuta pari dignità alla propria cultura.
Quanto al primo problema, va chiarito il rapporto tra i cosiddetti diritti culturali e il quadro politico liberale. Sull'ammissibilità di rendere un gruppo o una comunità come tale soggetto di diritto e destinatario della protezione costituzionale esiste un acceso dibattito; una delle soluzioni più interessanti afferma che il diritto alla cultura rimane appannaggio dell'individuo, ma può essere legalmente esercitato solo se esiste un numero minimo di individui che richiedono di goderne (Margalit, Halbertal 1994).
A proposito del concetto di cultura, si confrontano concezioni più ampie, che definiscono la cultura solo per contrasto con altri sistemi di oggettivazioni di raggio più ristretto, per es. gli stili di vita (Margalit, Halbertal 1994), e concezioni più strette, secondo le quali il termine cultura va riservato solo a quei sistemi di mediazioni simboliche che hanno dimostrato di sapere integrare una società per un certo numero di generazioni (Taylor, in Multiculturalism and 'the politics of recognition', 1992). La cultura gay e la cultura femminista potrebbero rientrare sotto la prima definizione, sicuramente non sotto la seconda. Se si definisce la cultura come éthos di un gruppo, non esisterà Stato che non risulti multiculturale, in quanto, come fa notare W. Kymlicka (1995), anche la più etnicamente omogenea delle società, quella islandese, conterrà una diversità di culture legate a gruppi, associazioni, strati sociali e prospettive di valore differenti. Se si definisce la cultura in senso troppo ampio, per es. come civiltà o forma di vita, allora anche una realtà composita e multietnica come la società europea contemporanea risulterà unificata sotto l'egida di un'unica forma di vita: quella di una società industriale avanzata. La proposta di Kymlicka è di utilizzare un concetto di 'cultura societaria' (societal culture), intesa come vocabolario descrittivo e valutativo condiviso da uno stesso gruppo per più generazioni. La cultura diventa sinonimo di nazione come "comunità intergenerazionale, più o meno istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria, e condivide una lingua e una storia distinte" (Kymlicka 1995, p. 18).
Per quanto concerne il terzo problema, relativo a che cosa si deve intendere per 'eguale dignità' e che cosa ne discende, dal diritto al riconoscimento della eguale dignità della propria cultura non discende alcun "diritto a godere di una cultura alta" (Margalit, Habertal 1994), né alcun diritto a una presunzione di "eguale valore" (Wolf, in Multiculturalism and 'the politics of recognition', 1992) - che è cosa ben diversa dalla eguale dignità - né il diritto a conservare il particolare contenuto tradizionale di una cultura (Kymlicka 1995). In positivo, invece, ne discenderebbero: a) il diritto a condurre senza interferenze uno stile di vita, con la sola limitazione del principio del danno ad altri (Margalit, Halbertal 1994); b) il diritto a eque opportunità di rappresentazione di questo stile di vita sui media (per es., i programmi per gay in TV); c) il diritto a un aiuto da parte dello Stato per attività culturali delle comunità etniche.
In questo senso, Kymlicka (1995) distingue tre diverse versioni dei diritti culturali. In alcuni casi (per es. la Catalogna, il Québec), la richiesta di riconoscimento dei diritti culturali equivale alla richiesta che venga riconosciuto il diritto di una minoranza etnico-culturale all'autogoverno - nella forma di un'autonomia giurisdizionale su un territorio in cui il gruppo in questione risulti maggioritario - affinché il gruppo stesso possa adottare tutte le misure necessarie al dispiegarsi ottimale della propria cultura. In altri casi, i diritti culturali prendono la forma di una protezione giuridica della 'libera espressione' di tratti culturali tipici e costitutivi dell'identità di una minoranza culturale: per es. le rivendicazioni sull'abbigliamento (il turbante dei Sikh, il chador ecc.), le rivendicazioni riguardo al rispecchiamento dei valori della minoranza nei curricula scolastici e nei media, il finanziamento pubblico di attività espressive delle comunità etniche. Infine, i diritti culturali possono assumere la forma di diritti a una 'rappresentanza speciale' in seno a istituzioni legislative, amministrative o educative: per es. il caso delle quote riservate a membri di una minoranza all'interno di liste elettorali, liste di ammissione a programmi di istruzione superiore, collegi giudicanti e giurie ecc.
Da un altro punto di vista, è necessario tenere distinti diritti culturali che si esprimono nella forma di restrizioni interne, intracomunitarie, e diritti culturali che prendono la forma di protezioni esterne, da attivarsi nei rapporti con gli altri gruppi e comunità. Fanno parte del primo gruppo quelle norme giuridiche che autorizzano il gruppo etnico o i membri di una certa cultura a esercitare, con o senza l'ausilio di strutture e risorse pubbliche, forme di controllo particolare sui propri correligionari o compartecipanti. Fanno parte della seconda accezione dei diritti culturali, invece, quelle norme e misure volte (attraverso l'autogoverno, la rappresentanza speciale, o altro tipo di implementazione) a evitare che centri decisionali istituzionali o non istituzionali esterni al gruppo o alla comunità vengano a determinarne in modo incontrollato i destini.
Legittimazione dei diritti culturali
Una trattazione a parte merita la vasta gamma di argomentazioni che sono state prodotte a sostegno e giustificazione dei diritti culturali. Qui la domanda non è più in che cosa consistano questi diritti ma che cosa ne giustifichi l'introduzione all'interno del quadro normativo delle società democratiche contemporanee. Importante è a questo proposito rimuovere l'equivoco, ampiamente diffuso, secondo cui le motivazioni adducibili sarebbero esterne al quadro liberale e presupporrebbero l'adozione di una non meglio specificata prospettiva 'comunitarista'. Al contrario, a eccezione dell'argomentazione centrata sui requisiti dell'identità, le più importanti giustificazioni finora addotte a sostegno dei diritti culturali hanno fatto riferimento soprattutto ai valori della libertà e dell'eguaglianza, valori che certamente non possono essere sospettati di 'esternità' al paradigma liberale. A questi tre tipi di argomentazioni ne vanno aggiunti due secondari: le giustificazioni storiche dei diritti culturali, basate sulla necessità di onorare antichi trattati bilaterali tra nazioni che convivono all'interno del medesimo Stato; le giustificazioni che legano i diritti culturali al perseguimento del pluralismo e della diversità come bene in sé (Kymlicka 1995).
Margalit e Halbertal (1994, p. 505) hanno sostenuto che "il diritto individuale alla cultura deriva dal fatto che ogni persona ha un supremo interesse a sviluppare la propria personalità, cioè a preservare il suo modo di vivere e quei tratti che sono componenti centrali della identità per sé e per gli altri membri del gruppo culturale". Il valore in base al quale il diritto alla protezione della cultura è giustificato è interno all'orizzonte del membro della cultura: si tratta della capacità di quella cultura di dare significato alla vita del suo partecipante. Il richiamo giurisprudenziale ai requisiti del dispiegamento ottimale di un'identità individuale non è una novità nell'ordinamento giuridico dei paesi liberaldemocratici; basti pensare che gran parte della legislazione che tutela la privacy dell'individuo è basata su presupposti analoghi. Potrebbe sembrare, a prima vista, che il conferire a delle comunità potere di veto su certe decisioni di politica culturale o speciali diritti in fatto di istruzione, o il diritto di limitare la mobilità sul loro territorio, infranga il principio liberale dell'eguaglianza in quanto distribuisce diritti e prerogative sulla base dell'appartenenza etnica. Questa impressione si rivela ingannevole, però, alla luce della considerazione secondo cui questi diritti e prerogative "sono resi necessari dall'idea, difesa da Rawls e Dworkin, che la giustizia richiede che si rimuovano o si riequilibrino con indennizzi tutti quegli svantaggi 'moralmente arbitrari'", in particolare se tali svantaggi sono "profondi e pervasivi e presenti fin dalla nascita"; se non fosse per questi diritti speciali, i membri delle minoranze culturali "non godrebbero di quelle stesse possibilità di vivere e lavorare nella loro lingua che i membri delle culture maggioritarie danno per scontate" (Kymlicka 1992, p. 146). Il m. può dunque essere difeso a partire dal valore dell'eguaglianza.
Si prendono in considerazione, infine, le giustificazioni dei diritti culturali che fanno perno sul valore della libertà. Secondo alcuni, il diritto alla cultura va visto come parte del più ampio e fondamentale diritto alla libertà, e dunque in perfetto accordo con il quadro teorico liberale. Ogni individuo ha interesse e diritto a scegliere e cambiare i propri fini secondo la visione di ciò che più gli appare in grado di migliorare la sua vita. Questo interesse e diritto alla scelta può essere esercitato effettivamente solo se a) esiste una pluralità di opzioni praticabili e b) l'individuo possiede degli standard per valutare le opzioni. Sia la pluralità di opzioni sia l'esistenza di standard dipendono dal fatto che vi siano più culture societarie, che l'individuo partecipi, faccia propria la prospettiva di almeno una cultura e abbia qualcosa fra cui scegliere. Dunque non c'è libertà senza affiliazione culturale; proteggere il pluralismo delle appartenenze culturali significa proteggere l'autonomia dell'individuo e la libertà di scelta. Questa argomentazione si situa su una linea di maggiore continuità con la tradizione liberale. La libertà si difende difendendo le radici della libertà, ovvero le condizioni che rendono possibile la libertà stessa: in primo luogo l'esistenza di un'autonomia individuale; in secondo luogo la presupposizione di una pluralità di opzioni, di scelte, la quale poggia a sua volta su una pluralità di standard valutativi che, coerentemente con la svolta linguistica e la concezione intersoggettiva dell'individuo, sono concepibili non più come linguaggi privati, bensì come universi di discorso socialmente costruiti (Berger, Luckmann 1966).
Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché le minoranze etniche di un grande paese non potrebbero trovare soddisfatto il requisito della libertà all'interno di una o due grandi opzioni culturali comuni. J. Waldron ha infatti obiettato che "una rutilante vita cosmopolita, vissuta in un caleidoscopio di culture, è sia possibile sia soddisfacente" (Waldron 1992, p. 762). Un'obiezione del genere mostra, secondo i difensori del m., di non tenere conto della specificità del legame che l'affiliazione culturale ha con l'identità individuale. Prescindendo dall'ampiezza temporale del processo di riconversione culturale, che potrebbe avere costi insostenibili da un punto di vista sociale, il grado di ancoramento esistenziale dell'identità fornito dagli oggetti di identificazione della prima infanzia è difficilmente riproducibile nella socializzazione secondaria. Una società che non offre l'opzione di crescere dentro la propria cultura è una società che discrimina due classi di cittadini: da un lato coloro che, essendo già nati in un contesto culturale cosmopolita, beneficiano di una continuità culturale lungo l'intero arco della loro socializzazione, dall'altro coloro che sono condannati a un processo di riacculturazione che non hanno scelto.
Rischi del multiculturalismo
Molti sono i rischi segnalati dai critici del multiculturalismo. Già molti anni prima che il termine venisse coniato, R. Sennett (1977) aveva sviluppato una critica degli effetti distruttivi di quella che allora si chiamava identity politics, o, semplicemente, 'nuovo modo di fare politica'. Caratteristica di questo tipo di politica sarebbe l'intransigenza settaria e moralistica, unita all'inconcludenza che le deriva dalla mancata accentuazione del momento strategico (Maffesoli 1988; Holmes 1994). Al di là di espressioni suggestive come 'comunità distruttiva', 'ritribalizzazione' e 'balcanizzazione', un'approfondita analisi dei rischi inerenti alla istituzionalizzazione di una sensibilità multiculturalista è venuta da G. Kateb (1994, pp. 525-30), il quale ha elencato sei 'vizi dell'appartenenza' che più o meno inesorabilmente troverebbero in essa origine e nutrimento.
Si tratta in primo luogo del 'vizio della confusione compiacente': l'individuo "introietta il gruppo e si sente espandere" e di conseguenza "aliena se stesso a un'astrazione"; in secondo luogo, del 'vizio del cattivo estetismo', ossia dell'idea che il mondo sia fatto anzitutto di gruppi e dei loro conflitti, così da risultare più semplice, più assimilabile e più godibile, "come se la bellezza derivasse solo dai contorni pronunciati e dalle differenze spiccate". Segue poi, in terzo luogo, 'il vizio dell'amore di sé indiretto e inconsapevole': "ci si rispecchia negli altri membri del proprio gruppo", esercitando una forma proiettiva di amore di sé che può addirittura assumere le false sembianze di una virtù. In quarto luogo il 'vizio della disonestà', dove disonestà va intesa come "l'inorgoglirsi per un'identità ereditata o per acquisizioni altrui"; e, quinto, il 'vizio dell'automistificazione', a causa del quale risultano indebolite tanto la capacità di "immaginarsi il simile, ovvero l'equità, quanto l'immaginarsi il dissimile, ovvero l'empatia". Infine, chiude la serie dei vizi sollecitati dal m. 'il vizio del wishful thinking', il peggiore fra tutti: esso consiste nel "soffocare i propri scrupoli e accettare le proprie menzogne" e rende chi ne è vittima "strumento di mendacità". A questa lista va aggiunto anche il rischio, menzionato da Ch. Kukathas (1992), che la protezione giuridica della specificità culturale venga utilizzata ex post facto come legittimazione da parte di un gruppo che si è attivato sulla base di un interesse, e ciò sia al fine di escludere altri sia al fine di meglio perseguire tale interesse. Ma in Kukathas si trova menzione implicita di quello che forse è il rischio più grave insito nella prospettiva multiculturalista: il rischio di congelare ogni gruppo 'protetto' nella sua configurazione attuale, puramente contingente, inibendo ogni processo di revisione interna della sua cultura. Fa notare Kukathas (1992, p.114): "I gruppi culturali non sono insiemi indifferenziati, ma associazioni di individui con interessi che in varia misura divergono. All'interno di tali minoranze si trovano quindi altre minoranze più piccole. Considerare il gruppo nel suo complesso come soggetto di diritti culturali vuol dire dare per scontate le strutture esistenti e quindi favorire le maggioranze esistenti".
Tra i rimedi che sono stati proposti contro questi rischi del m. se ne segnala uno: il garantire all'individuo sempre e in qualunque caso il 'diritto di secessione'. Ciò significa, per es., subordinare ogni misura protettiva nei confronti dell'integrità di una cultura al fatto che la comunità in questione lasci i suoi membri liberi di andarsene senza subire vessazioni.
Senza disconoscere la portata dei rischi connessi alla prospettiva multiculturalista, sembra innegabile che tale prospettiva continuerà a guadagnare terreno all'interno della cultura democratica delle società postindustriali, a causa sia della profondità delle sue radici nella storia della cultura occidentale, sia del perdurare dei motivi che sono alla base del suo sorgere nel tardo Novecento.
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