MULUCCI
– Famiglia di Macerata che affermò la propria egemonia sulla città fra la seconda metà del XIII secolo e la metà del secolo XIV.
Capostipite della famiglia fu Mulo, documentato in qualità di testimone nel 1219 in un trattato di alleanza tra i Comuni di Macerata e di Montolmo (oggi Corridonia) e nel 1226 in un atto di procura per una causa civile nella quale era implicato il vescovo di Fermo. Nei due atti Mulo riporta il titolo rispettivamente di dominus e di miles, segno evidente di un ruolo sociale già consolidato.
Probabilmente l’ascesa della famiglia avvenne nelle fila dei funzionari della Chiesa di Fermo. Si può supporre che Mulo si fosse inurbato nel primo Duecento a Poggio San Giuliano (uno dei nuclei costitutivi di Macerata) insieme a molti altri abitanti del piccolo centro di Castel Casale, sito nella media valle del Chienti. Tale centro era sottoposto alla giurisdizione del vescovo di Fermo ed è probabile che Mulo, nel trasferirsi a Macerata, avesse mantenuto la posizione di rilevo già acquisita nei rapporti con l’episcopato fermano.
Probabilmente attorno agli anni Trenta, nella fase di declino del potere dei presuli fermani, l’autorità su Castel Casale passò nelle mani dei Mulucci, dal momento che essi vi esercitarono diritti signorili fino al 1340, allorché il centro fu forzatamente ceduto al Comune di Macerata. Il legame tra la famiglia e i presuli fermani è sicuramente attestato per Ruggero, figlio di Mulo, che si trasferì a Montesecco, nei pressi di Fermo: nel 1227 fece testamento a Sant’Elpidio, disponendo che i suoi beni fondiari ivi ubicati tornassero alla Chiesa fermana.
Muluccio (I), figlio di Mulo, assunse un ruolo politico rilevante a Macerata negli anni successivi alla morte di Federico II. Nell’ambito delle lotte fra gli schieramenti filopapale e filoimperiale, che in quegli anni investirono la Marca di Ancona, egli fu costantemente dalla parte del pontefice. Nel 1251 fu podestà di Montegiorgio. Nel marzo 1252, dopo il ritorno di Macerata all’obbedienza papale, fu risarcito dal Comune di Macerata per i danni patrimoniali subiti al tempo dell’occupazione imperiale della città. Negli stessi anni furono rogati nella sua casa una serie di atti amministrativi, prodotti sia dai magistrati provinciali dello Stato pontificio sia dal Comune di Macerata. Durante il regno di Manfredi i Mulucci furono esiliati per qualche tempo dalla città a causa della loro militanza filopapale; in questo periodo Muluccio (I) guidò un assalto militare a Montolmo, occupata dai sostenitori di Corradino e nel 1269 fu nominato podestà a Castelfidardo. Negli anni seguenti i Mulucci acquisirono un ruolo egemone all’interno del Comune di Macerata, in un periodo in cui vennero approvate importanti riforme amministrative: fra il 1277 e il 285 le assemblee del Consiglio comunale di Macerata si tennero con una certa frequenza nelle loro case e dal 1281 Muluccio fu membro del Consiglio speciale, organo a cui erano delegate le decisioni di governo. Nel 1287 Muluccio (I)ebbe una lite con il pievano di S. Giuliano, probabilmente per motivi di ordine politico, poiché nella casa del nipote del pievano si riuniva pure il Consiglio del Comune.
Muluccio (I) abitava nel quartiere urbano di S. Maria e nell’estimo del Comune di Macerata del 1268 il suo nome registra il secondo imponibile più alto fra tutti i cittadini, oltre a risultare il possessore di terre dai confini più estesi. I patrimoni fondiari e la militanza guelfa appaiono dunque i pilastri su cui si costruì l’egemonia politica dei Mulucci nella seconda metà del Duecento.
Nel primo Trecento, in un periodo attraversato da un endemico ribellismo all’autorità dello Stato della Chiesa, nel quale i pontefici avignonesi cercarono il sostegno di famiglie fedeli alla causa papale per amministrare le città e i territori, la fedeltà politica e militare dei Mulucci al papato si consolidò. Essendo Macerata divenuta in quegli anni sede della residenza del rettore e della curia provinciale della Marca di Ancona ed essendo quindi rilevante per il pontefice garantirsene la fedeltà, tra il papato e i Mulucci si instaurò un legame politico con interessi reciproci: il primo si vedeva garantita l’obbedienza della città appoggiando i Mulucci, mentre questi ultimi potevano consolidare la loro egemonia. Tra il 1320 e il 1340 essi riuscirono a instaurare una signoria, anche se questa non fu mai legittimata formalmente dal papato, né fu affatto orientata a scalfire l’ordinamento comunale.
All’inizio del secolo i Mulucci si divisero in due rami principali: quello di Bonleone e quello di Muluccio (II), entrambi nipoti ex patre di Muluccio (I). Nel 1306 Guarnaccia di Bonleone e suo zio Muluccio furono presenti a una composizione tra il Comune di Camerino e i Comuni di Matelica, S. Severino e Fabriano, avvenuta nel palazzo comunale di Macerata sotto l’egida delle autorità pontificie. Nello stesso anno Guarnaccia fu tra i fideiussori del Comune di Macerata al Parlamento provinciale della Chiesa, tenuto a Montolmo. Gli incarichi funzionariali assunti dai Mulucci nel primo Trecento, all’interno di un circuito guelfo, travalicarono soltanto di rado i confini delle Marche: Guarnaccia rivestì la carica di Capitano del popolo a Siena nel 1309-10; Fredo (o Fedo) di Bonleone fu podestà a Montecchio (oggi Treia) nel 1314, ove promulgò nuovi statuti; Muluccio (II) fu podestà a Tolentino nel 1314, a Montegiorgio nel 1320, quindi, a coronamento della sua carriera, a Siena nel primo semestre del 1323 (come risulta dalla documentazione senese, mentre la totalità degli studi indica erroneamente l’anno 1336); fu infine podestà a Fano nel 1337. Nucciarello di Muluccio fu podestà a Cingoli nel 1333 e nuovamente due anni più tardi.
I Mulucci svolsero anche incarichi militari al servizio del papa: nel 1328 Fredo combatté nell’esercito pontificio nell’assedio di Senigallia, mentre Muluccio (II) e Nucciarello presero le armi a Montefano contro i ghibellini osimani. Funzioni di difesa militare furono loro affidate più volte dal 1331 al 1340 dal rettore della Marca. Il loro ruolo come fiduciari papali traspare inoltre dalla presenza di Fredo, in qualità di testimone del rettore provinciale, ai patti di dedizione alla Chiesa giurati unitamente dalle città di Fermo, Fabriano, Osimo e Urbino a Fermo nel settembre 1329.
Le attestazioni relative alla signoria dei Mulucci su Macerata sono assai laconiche. Il potere fu ripartito fra i due rami della famiglia, non senza attriti interni e frizioni con la cittadinanza. In un’inchiesta politica condotta nel 1341, il tesoriere provinciale della Marca sostenne che la signoria maceratese fu retta da Fredo e da suo zio Muluccio (II), con l’appoggio di Nucciarello, mentre Vanni, fratello di quest’ultimo, non si sarebbe trovato in armonia con il primo. Nel gennaio 1336 il rettore della Marca dovette intervenire per pacificare la città di Macerata, invitando alla composizione il podestà, i Priori delle Arti, i consiglieri, nonché Fredo, Nucciarello e Vanni Mulucci. L’autorità della famiglia si estese anche sui centri di Morrovalle e Montecosaro, ove nell’agosto 1329 il Consiglio del Comune fu convocato su ordine di Nallo, vicario di Fredo.
La divisione in due rami principali della famiglia si riflette anche nell’araldica. Nel 1335 gli stemmi dei Mulucci furono scolpiti e collocati nella facciata della Fontana Maggiore, edificata fuori delle mura urbiche (oggi sono murati nell’atrio della Biblioteca Comunale Mozzi Borgetti). In entrambi gli stemmi campeggia un lambello, ma essi si differenziano per i simboli: mentre l’arme del ramo di Bonleone raffigura un leone rampante con cinque gigli, quello di Muluccio (II) mette in campo una mula rampante bardata con tre gigli.
L’egemonia assunta durante la prima metà del XIV secolo investì anche la sfera religiosa. Pietro, frate minore e fratello di Fredo, fu nominato vescovo di Macerata da Giovanni XXII nel giugno 1323, una designazione delicata, poiché la città era stata elevata a sede di diocesi appena tre anni prima, dopo che Recanati ne era stata privata in quanto focolaio di rivolta al papato.
Un’attestazione documentaria anteriore alla nomina e risalente al marzo 1320 rileva la presenza di frate Pietro nel convento dei minori di Macerata fra i testimoni a un processo inquisitorio celebrato contro alcuni ribelli recanatesi accusati di eresia. Nonostante i pochi atti superstiti dell’episcopato di Pietro non riportino mai espressamente il nome della famiglia Mulucci, non sussistono dubbi sulla sua identificazione con il fratello di Fredo, avvalorata da una esplicita citazione in un atto fermano del 1371. Pietro, in qualità di vescovo della città, fu presente nel 1325 a Macerata, nel convento degli eremitani, al processo di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino: in alcune deposizioni fu, inoltre, accreditato come testimone oculare di un miracolo, avvenuto prima della sua nomina episcopale. Allo stesso processo testimoniò anche Giovanna, figlia di Muluccio (II).
La fama di Pietro nella storiografia ecclesiastica e francescana fu quella di vescovo zelante nella fede e dedito al consolidamento della nuova diocesi. Secondo la tradizione erudita, promosse il culto della Vergine lauretana (Loreto si trovava allora all’interno della neocostituita diocesi di Macerata), facendo erigere un edificio sacro attorno alla Santa Casa. A Pietro fu anche detto autore di un testo sulla traslazione della Santa Casa, la Historica enarratio almae Domus Beatae Virginis Lauretane: si tratta però di un’attribuzione ex post, mossa dal desiderio di dare legittimazione storica alla traslazione della Santa Casa (avvenuta, secondo la tradizione, nel 1294), di cui Pietro sarebbe stato pertanto autorevole testimone oculare.
Nel 1340 la signoria dei Mulucci fu rovesciata da una sollevazione urbana, di cui sono ignote le cause. Probabilmente Macerata fu travolta dall’ondata di restaurazioni popolari che in quello stesso anno investì gran parte delle città delle Marche, spesso con l’avallo delle autorità provinciali dello Stato pontificio. Il declino politico della famiglia fu rapido. Nel luglio dello stesso anno Fredo fu costretto a cedere al Comune i diritti su Casale, mentre nel 1345 Vanni e Leone, figli di Muluccio (II), vendettero le loro case, ubicate nei pressi della chiesa di S. Giovanni. Dei Mulucci, probabilmente esuli da Macerata, si perdono le tracce documentarie fino al marzo 1353, allorché Fredo, insieme a molti altri signori della Marca, comparve fra i testimoni alla pace di Sarzana, stipulata tra Firenze e i Visconti. Assai controverso appare il ruolo che rivestirono durante la prima legazione italiana del cardinale Egidio de Albornoz (1353-57). La tesi secondo la quale i Mulucci avrebbero ristabilito per alcuni anni la signoria su Macerata e avrebbero continuato a governare la città con l’aperto consenso del cardinale castigliano si basa unicamente su un laconico passo della cinquecentesca biografia dell’Albornoz, scritta da Juan Ginés de Sepúlveda, ove si afferma che Fredo consegnò spontaneamente Macerata nelle mani del cardinale e questi, su richiesta dei cittadini, pose Mulucci a capo della città. In realtà, nella documentazione dell’età albornoziana il nome dei Mulucci non compare mai, né nella corrispondenza ufficiale, né nel solenne giuramento di fedeltà alla Chiesa pronunciato dai Maceratesi a Perugia l’8 maggio 1355. È dunque molto probabile che l’autorità dei Mulucci, già fragile nei primi anni della legazione, si sia del tutto eclissata al momento della soggezione della città all’Albornoz.
Nel secondo Trecento i Mulucci, pur scomparendo dalla scena politica, dimostrarono ancora un forte legame con la proprietà fondiaria: nel catasto maceratese redatto verso il 1360 (ma datato al 1378) gli eredi di Fredo e di Vanni si segnalano come i maggiori possessori di terre, ubicate prevalentemente lungo la fertile valle del Chienti. La vocazione fondiaria dei Mulucci li condusse a una rapida marginalizzazione dalla scena urbana: nel 1367, per es., furono vendute le case appartenute a Fredo, riattate a residenza del rettore provinciale dello Stato papale. Alla fine del secolo, il ruolo sociale dei Mulucci venne definitivamente soppiantato da una nuova oligarchia dedita ai servizi per la città, divenuta stabile sede dell’amministrazione pontificia nella Marca.
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