MURA e FORTIFICAZIONE
A. Grecia: 1. Generalità. - 2. Mura ciclopiche. - 3. Muratura lesbia. - 4. Opera poligonale. - 5. Opera trapezoidale. - 6. Opera quadrata. B. Italia: 1. Generalità. - 2. Città greche dell'Italia e della Sicilia. - 3. Etruschi e Italici. C. Appendice: L'agger.
Sotto questa voce si prendono in considerazione i sistemi murari usati per le grandi mura di cinta dei luoghi fortificati o delle città. In un successivo articolo, sotto la voce muraria, arte verranno considerate le tecniche murarie degli edifici pubblici e privati e i materiali da costruzione in pietrame diverso dal marmo, per il quale si rimanda alla voce marmo. Per le cinte di fortificazione si vedano anche gli articoli sotto l'esponente delle singole città e la voce nuraghe.
A) Grecia. - 1. - Generalità. La tipologia e la tecnica COstruttiva delle mura di cinta e di fortificazione, influenzate come sono dalle più diverse esigenze pratiche, costituiscono una pagina del tutto distinta nella storia dell'architettura sul suolo greco e, soprattutto, hanno uno sviluppo indipendente da quello dell'architettura templare e monumentale in genere.
Già nell'andamento e nello sviluppo del tracciato le mura sono condizionate dalla natura del terreno, soprattutto in quei sistemi di fortificazione che si limitano ad integrare e rinforzare le difese naturali: è il caso, ad esempio, delle cinte di fortificazione micenee nelle quali bastioni, salienti, tratti rettilinei e varchi sono impostati in rapporto ad una attenta considerazione delle difese naturalmente offerte dal sito e, in modo simile, è quanto accade nella grande maggioranza delle cinte di età arcaica più o meno avanzata. Meno legate a siffatte circostanze sono invece alcune cinte difensive di età classica nelle quali l'interesse per una pianificazione regolare, anche in rapporto con una vera e propria urbanistica interna, supera queste soluzioni di comodo; sono gli esempî canonici che mostrano una distribuzione regolare dei varî elementi strutturali (torri, porte, ecc.) o, comunque, una concezione del complesso di cinta non più come semplice "aggere" difensivo stretto più o meno da presso intorno al centro o a parte di esso ma, più modernamente, come elemento integrativo della stessa struttura urbanistica della città: valgano per questo gli esempî di Mantinea, di Eraclea sul Latmos e, in Occidente, di Selinunte. L'incidenza, però, di svariati altri fattori contingenti (materiali disponibili in varie epoche, costruzione più o meno affrettata della cinta, importanza ed estensione della zona cintata e, infine, come s'è detto, la struttura del terreno prescelto) impediscono di fissare dei validi criterî di classificazione cronologica sulla base dello sviluppo e della tipologia della cinta, almeno fino a che il progresso della poliorcetica non caratterizza tipi e forme strutturali più precisamente databili.
Pur entro certi limiti, invece, va dando risultati sempre più fruttuosi lo studio delle tecniche e delle maniere costruttive nelle quali queste opere si vanno realizzando. Superato il preconcetto d'impronta evoluzionistica che voleva far coincidere il più rozzo col più antico e, soprattutto, valutando più compiutamente fattori particolari quali la persistenza di usi nella prassi artigianale ed il rapporto esistente tra le caratteristiche del materiale impiegato e l'aspetto formale della costruzione, si sono riconosciute alcune "maniere" la cui distribuzione cronologica e topografica si va poco a poco chiarendo. La loro classificazione, che sebbene astratta è per molti aspetti rispondente a reali differenze strutturali, viene condotta soprattutto sulla base del diverso aspetto del paramento esterno del muro, in rapporto alla forma più o meno regolare della faccia visibile dei blocchi impiegati. È possibile riconoscere, anzitutto, due gruppi che comprendono maniere costruttive con paramento a disegno irregolare (mura ciclopiche, muratura lesbia, opera poligonale) e con paramento a disegno regolare (a blocchi trapezoidali, a conci squadrati, in costruzione isodoma o pseudo-isodoma).
La scelta di una delle maniere dei due gruppi ha immediate conseguenze sul piano pratico per i diversi metodi di lavorazione richiesti. Nella costruzione con paramento esterno a disegno irregolare si ha una più semplice lavorazione in cava, dove il singolo blocco, a prescindere dalle proporzioni, viene semplicemente estratto e appena sbozzato; solo nel cantiere di costruzione, poi, venivano scelti ed adattati i singoli giunti, più o meno accuratamente a seconda del grado di finitura richiesto. Nei muri con paramento a disegno regolare, invece, è più complessa la lavorazione iniziale in cava, dove i blocchi - isodomi o no - vengono estratti e quindi portati, più o meno precisamente, ad un modulo standard; ne consegue però una maggior semplicità di posa in opera giacché, soprattutto per l'opera quadrata, si richiedevano al momento della costruzione soltanto adattamenti minori o un'ultima finitura (della facciavista, o dei giunti, o di entrambi). In numerosi casi il grado di finitura dei giunti, la costanza di moduli dei blocchi e, talora, delle vere e proprie stratificazioni di scaglie di lavorazione in prossimità o a ridosso del muro provano chiaramente tale pratica della finitura in situ. Per ambedue i gruppi, poi, le finiture decorative del paramento esterno (solchi, lisciatura dei margini, spianatura a martello, ecc.) venivano anch'esse apportate nel cantiere di costruzione, prima o durante la posa in opera. La preferenza accordata all'una o all'altra maniera non è indipendente, come si comprende, dai materiali disponibili, particolarmente per opere di maggior mole. Si nota assai spesso, per esempio, che le pietre più dure, resistenti al taglio ma facili ad incidersi secondo piani di sfaldamento abbastanza regolari, vengono impiegate in costruzioni a paramento esterno di disegno irregolare, per lo più con la faccia di cava in vista; d'altra parte, le pietre più "tenere" sono preferite, si direbbe, nelle opere a paramento di disegno regolare.
Un altro aspetto formale da notare è la disposizione dei blocchi in corsi ad andamento più o meno uniforme. Se l'aspetto più tipico di un muro in opera poligonale, ad esempio, è nel disegno "a rete" formato delle linee dei giunti tra i blocchi, anche qui si nota, spesso, una tendenza alla regolarizzazione di corsi come immediato riflesso della preferenza per blocchi di altezze e forme generali non eccessivamente dissimili; in tal senso, è ovvio, la forma costruttiva più tipica è quella in conci squadrati isodomi, nella quale alla costanza di modulo dei singoli blocchi si aggiunge anche la perfetta regolarità delle loro linee di posa orizzontali. Questo carattere distintivo, tuttavia, non può offrire più che un altro criterio generale di classificazione. In pratica, anche se influssi reciproci sono sempre presenti o possibili, è precipuamente nell'ambito di ogni singola maniera costruttiva che si può scorgere una più coerente linea evolutiva dalla quale risalire a precisazioni d'ordine cronologico; ciò anche se talora - e va notato - anomalie di esecuzione o preferenze locali possono contaminare due maniere costruttive al punto da renderne assai difficile una obbiettiva discriminazione. A maggior ragione, infine, sfugge ad ogni possibilità di classificazione generale la costruzione "a secco" con pietre di vario formato, raccogliticcie o cavate irregolarmente, accostate e rinzeppate senza particolari accorgimenti di finitura. Laddove indizi di altra natura non forniscano un orientamento, esse sono, per altro, di difficilissima datazione né offrono, come ben s'intende, alcuna possibilità di scorgere un qualsiasi nesso evolutivo della loro tipologia.
2. - Mura ciclopiche. È questo il nome tradizionale dato a mura di cinta e fortificazione realizzate in blocchi solitamente di grandi proporzioni e di forme irregolari. Spesso si è confusa questa maniera con quella poligonale, ma essa è peculiare nel fatto che il combaciamento dei blocchi tra loro è, di solito, assai meno accurato; vi si fa uso, inoltre, di scaglie e ciottoli di rinzeppamento e, spesso, di vere e proprie colate di argilla negli interstizi. Il paramento esterno non mostra solitamente alcuna finitura di superficie, a parte qualche lieve, sporadica rettifica della faccia di cava in vista. Come accadrà più tardi anche per le mura in opera poligonale, in queste mura appaiono talora associati blocchi di taglio e proporzioni irregolari con altri più o meno perfettamente squadrati; valga per tutti l'esempio di Micene dove la torre all'estremità orientale del muro meridionale di cinta, il tratto della postierla di N-E e tutto il sistema di accesso alla Porta dei Leoni sono costruiti con largo uso di questa peculiare forma di opera quadrata, disposta in corsi più o meno regolari. Anche qui l'impiego dei blocchi squadrati si giustifica anzitutto tenendo conto delle loro migliori caratteristiche strutturali ma, certamente, non è estranea ad esso una precisa ragione estetica.
Da un punto di vista cronologico questo tipo costruttivo, anche per l'esiguo numero di esempî a noi conservatisi, non consente di delineare un chiaro schema evolutivo. Esso appare, comunque, lungo il II millennio, in ambiente greco, nelle fortificazioni micenee del continente (particolarmente notevoli gli esempi di Tirinto, Micene e Gla) e, con qualche analogia, in tratti superstiti della cinta di Troia VI.
3. - Muratura Lesbia. Questo tipo costruttivo, sebbene strettamente connesso con l'opera poligonale, viene da essa giustificatamente distinto (Scranton ed altri) per il fatto che i tagli dei singoli blocchi, e quindi i giunti tra essi, hanno un andamento più o meno marcatamente curvilineo, pur incontrandosi a spigolo vivo. Il fatto che non sempre tutti i lati del poligono costituito da ogni singolo blocco sono curvilinei giustifica, tuttavia, come da taluni la muratura lesbia venga semplicemente considerata come forma irregolare dell'opera poligonale. A parte queste anomalie, nella sua forma più tipica essa mostra un perfetto combaciamento dei giunti tanto per taglio quanto per curvatura, il che presuppone un preciso calcolo di questa ultima al momento della posa in opera di ogni blocco e per i singoli lati di esso. Una menzione, sia pur indiretta, di tal pratica potrebbe ricavarsi da un passo di Aristotele (Ethica Nicomachea, 14, 1137 b, 30) dal quale, per altro, è ispirata la nomenclatura dello Scranton. In questa, come nelle altre maniere costruttive, varia molto il grado di finitura, sia dei giunti, sia del paramento esterno del muro; solitamente è in vista la faccia di cava solo raramente regolarizzata a martello ed ornata da file parallele (quasi sempre da tre a cinque) di solchi verticali più o meno numerosi. In generale, comunque, può dirsi che la lavorazione dei blocchi nel cantiere di costruzione tende ad esser limitata al minimo, soprattutto per quanto riguarda le finiture ornamentali.
Complesso ed apertissimo è il problema dell'origine e della provenienza della muratura lesbia. A parte la menzione di Aristotele, è singolare notare come proprio a Lesbo esista un tipo di roccia che tende a fendersi secondo piani di frattura lievemente curvilinei; siffatte circostanze esteriori, però, se possono forse aver contribuito all'invenzione del tipo, rimangono estranee alla diffusione di esso, fondata più logicamente su preferenze locali. Se non ci sono elementi sicuri per confermare l'origine lesbia è in ogni caso da sottolineare che gli esempî pervenutici si trovano, oltre che in Lesbo stessa, in zone sicuramente aperte a rapporti con l'ambiente ionico (Thasos, Samo, Eretria, Delfi, ecc.). Non riesce facile, poi, un completo inquadramento cronologico, soprattutto per il periodo più antico. Se la maggior parte degli esempi pervenuti, infatti, si distribuisce lungo il VI sec. a. C. è da pensare che l'invenzione possa risalire ulteriormente al corso del VII; d'altro canto, se si vorrà avvalorare l'ipotesi dell'origine se non lesbia almeno ionica del tipo, non si potrà dimenticare che è proprio nel VI sec. che la pressione crescente dell'espansionismo persiano incoraggia un potenziamento delle difese militari da parte delle colonie greche. All'altro estremo, la scomparsa totale del tipo sembra contenuta nella prima metà del V sec.; sembra, tuttavia, poco sicuro che le guerre persiane possano offrire un attendibile terminus ante, anche se il prevalere dell'ambiente greco continentale non dovette mancare di far sentire il suo peso anche su alcune tradizioni artigianali. Certo è che l'esperienza costruttiva della muratura lesbia, affine com'è questa con l'opera poligonale, dovette avere persistenze ed influssi che le esigenze di una classificazione schematica possono fare, a torto, svalutare.
4. - Opera poligonale. Distinguibile, come s'è visto, tanto dalla muratura lesbia quanto dalla tecnica costruttiva delle cosiddette mura ciclopiche, l'opera poligonale è, tra le maniere costruttive, una delle più diffuse in ambiente greco. Estremamente varia per tipologia e distribuzione, lo è altrettanto nelle forme e nel grado della sua finitura. I blocchi poligonali, che ne costituiscono il caratteristico disegno in facciavista, sono posti in opera con la faccia di cava non regolarizzata, se si fa eccezione per l'uso piuttosto raro di una sommaria lisciatura a martello. Ancor più rari, poi, sono gli esempî nei quali a tale lisciatura si unisce la presenza di solchi verticali simili, per numero e disposizione, a quelli descritti per la muratura lesbia. Non diversamente da quest'ultima, l'opera poligonale presentò certo notevoli difficoltà di esecuzione ed a questo, forse, potrebbe attribuirsi la tendenza, che in varî ambienti si manifesta, a regolarizzare la linea di posa dei blocchi in corsi più o meno continui e costanti; né fu estranea a tali difficoltà la preferenza, più volte attestata, verso l'impiego dell'opera poligonale per tratti e con funzioni particolari (bastioni, zoccoli, basamenti, ecc.) in associazione con altre tecniche (opera trapezoidale, conci squadrati, mattoni crudi, ecc.). L'aspetto più tipico e varie volte attestato è, comunque, quello nel quale forma e disposizione dei blocchi creano con le linee dei giunti il caratteristico disegno a rete.
Sul piano della cronologia, può dirsi che l'opera poligonale ha il suo floruit nel corso del V sec., ma certamente dura per tutto il IV; nonostante qualche parere discorde, inoltre, le datazioni più recentemente proposte per tratti di restauro nelle cinte di Samotracia, Micene ed Asine farebbero pensare ad attardamenti fino all'inizio del III secolo. Prescindendo dal problema dei rapporti d'origine e quindi di cronologia iniziale con la muratura lesbia, si può osservare che entro i limiti cronologici discussi è possibile scorgere qualche carattere evolutivo. Si data, così, per lo più a cavaliere della metà del V sec. il tipo canonico con disposizione dei blocchi non regolarizzata né in corsi, con la faccia di cava in vista senza lisciature e finiture superficiali; nel corso del IV sec, poi, compaiono i rari esempi di decorazione a solchi e, con una certa maggior frequenza, si incontra la smussatura degli spigoli dei blocchi lungo i giunti, certamente intesa a dar maggior risalto a questi ultimi. Si associa a questa tendenza quella, già ricordata, alla posa in corsi più o meno regolari, nella quale si sarebbe tentati di riconoscere una forma di transizione tra maniere a disegno irregolare e quelle a disegno regolare: e non è casuale, certamente, il fatto che essa si manifesti più ampiamente solo dal pieno corso del IV sec., quando l'opera quadrata aveva raggiunto il massimo della propria diffusione. Topograficamente, l'opera poligonale è ampiamente distribuita in tutta la Grecia continentale ma sopratutto, e con gli esempî più antichi, in Attica, Peloponneso ed Acarnania. Questa circostanza, unita al sincronismo tra la decadenza della muratura lesbia e l'affermarsi della poligonale, sembra il motivo più consistente per attribuire l'invenzione del tipo ad ambiente occidentale. Troppi fattori, tuttavia, sono ignoti perché questa divenga più che una ipotesi.
5. - Opera trapezoidale. Solo di recente (Scranton) è stata fatta una organica discriminazione dell'opera trapezoidale dalle altre maniere costruttive; la quantità degli esempî conservatisi, infatti, insieme alla notevole qualità e coerenza di molti tra questi, rende improbabile l'ipotesi che questa sia soltanto una casuale variante dei due stili cui più s'avvicina - l'opera poligonale e l'opera quadrata. Difficilmente potrebbe negarsi, però, che tanto l'aspetto formale quanto ciò che conosciamo della distribuzione topografica e cronologica di questo tipo costruttivo sottolineano ampiamente i legami effettivamente esistenti tra esso e gli altri due.
Nella sua forma canonica, l'opera trapezoidale è caratterizzata da blocchi dai lati maggiori orizzontali e paralleli, coi due lati minori - invece - obliqui e per solito convergenti a formare, appunto, un trapezio; il paramento esterno del muro resta così segnato dalle forme di trapezi giustapposti in modo che l'inclinazione dei lati obliqui risulti complementare tra ogni blocco e quelli adiacenti. Bisogna dire, tuttavia, che sono numerose le deroghe da questa tipologia standard; assai spesso, infatti, i blocchi, pur quadrilateri, hanno inclinazioni incoerenti dei lati minori, uno dei quali può esser talvolta perpendicolare alla base. Ne risulta un disegno assai vario, caratterizzato anche da differenti altezze e proporzioni dei blocchi; è per questo tipo che lo Scranton ha proposto la definizione di trapezoidale irregolare ed è certamente questa la forma nella quale è più sensibile il contatto con la tradizione tecnica dell'opera poligonale. Il tipo canonico, d'altra parte, si caratterizza per la sua spiccata tendenza all'isodomia, facilitata dai lati di posa rettilinei ed orizzontali e, in un gran numero di casi, da una considerevole costanza di modulo in altezza. La semplificazione del lavoro costruttivo consegnente da ciò è da considerare come il motivo principale per l'introduzione e la diffusione del tipo e rende comprensibile la posizione di esso, intermedia - almeno tipologicamente - tra l'opera poligonale e la costruzione in conci squadrati isodomi. Meno vario, invece, il trattamento superficiale del paramento esterno che, anche qui, è costituito sostanzialmente dalla faccia di cava dei blocchi, lasciata grezza o solo sommariamente regolarizzata a martello. Più raro che nell'opera poligonale è l'uso dei solchi verticali disposti in file parallele orizzontali; il numero di queste ultime, talvolta, è però molto maggiore e la trama dell'incisione, pertanto, risulta assai più stretta.
L'opera trapezoidale è rappresentata ampiamente in tutta la Grecia continentale e particolarmente in Peloponneso ed Attica, dove più volte si affianca all'opera poligonale ed all'opera quadrata; ed è anche per questa ampia diffusione che si rende praticamente impossibile la ricostruzione della provenienza e della prima origine del tipo. È, tuttavia, altamente probabile che, almeno sul piano della tipologia, l'origine debba porsi in relazione con evoluzioni e trasformazioni locali dell'operà poligonale; la connessione con quest'ultima, del resto, sussiste anche sul piano della cronologia assoluta. I primi esempî di opera trapezoidale, infatti, sembrano potersi datare agli inizî del V sec., praticamente in sincronismo con l'introduzione dell'opera poligonale; la prima forma attestata è quella irregolare cui, dopo la metà del secolo, si va sempre più largamente affiancando e via via sostituendo un numero assai consistente di esempî nel tipo canonico, regolare ed isodomo, destinato a durare almeno fino alla fine del IV secolo. La costruzione regolare, ma non isodoma, sembra succedere a quest'ultimo tipo, continuando ad essere largamente impiegata lungo tutto il III sec., dopoché praticamente scompare, almeno per il suo impiego in cinte murarie. In questo schema di sviluppo non è facile inserire in modo pienamente soddisfacente l'introduzione delle finiture ornamentali di superficie; di esse, tuttavia, si potrà dire che godono di maggior favore via via che il tipo costruttivo si va evolvendo e comunque non prima del pieno corso del IV secolo. Come si è osservato per l'opera poligonale, anche per quella trapezoidale è da notare che uno schema tipologico generale non può tener conto dell'incidenza di molti fattori locali, quali la scelta e le caratteristiche del materiale impiegato e la persistenza di particolari tradizioni artigianali; in questi casi (e non son pochi) alla cronologia tipologica deve sostituirsi, con maggior peso, la valutazione di siffatte circostanze speciali.
6. - Opera quadrata. Di superiori qualità strutturali, l'opera quadrata è certamente, tra tutte le maniere costruttive, quella più ampiamente diffusa. Fondata sull'impiego di blocchi parallelepipedi, essa offre, anzitutto, rispetto alle altre tecniche, una maggiore semplicità costruttiva e, soprattutto, reazioni assai meglio controllabili alle spinte gravitazionali. Fatta eccezione per le forme irregolari, nelle quali possono essere impiegati blocchi di proporzioni differenti, il tipo canonico è quello isodomo, con blocchi di un unico modulo, regolarmente ordinati in corsi tra loro eguali. Una variante rispetto a questo schema è costituita dalla disposizione "per testa e per taglio", in modo - cioè - che in alcuni dei corsi appaia in vista solo una delle due facce minori del parallelepipedo, mentre l'asse maggiore di esso risulta perpendicolare al paramento esterno del muro. Varia il numero dei corsi per testa rispetto a quelli impostati per taglio: in alcuni casi, pienamente canonici, essi si alternano regolarmente l'uno all'altro, mentre altrove il rapporto scende ad un corso per testa su due o più per taglio. Non molto frequente, ma attestata, la disposizione alternata di blocchi per testa e per taglio in un medesimo corso. Altra interessante variante nella disposizione del paramento esterno del muro è la costruzione cosiddetta pseudo-isodoma, nella quale, cioè, si alternano in corsi regolari due o più moduli di blocchi, la cui altezza, variando, fa variare anche il disegno e la distanza dei giunti orizzontali che scandiscono il muro.
Nonostante, però, queste numerose peculiarità di impostazione e taglio, ciò che veramente caratterizza la migliore opera quadrata in suolo greco è la considerevole varietà di tecniche di finitura della superficie del blocco destinata ad apparire sul paramento esterno del muro. Messi spesso in opera con la faccia di cava grezza in vista, i blocchi ricevono in molti altri casi una spianatura più o meno sommaria; tale lavorazione, poi, si accentua in alcuni casi in direzione dei margini del blocco che viene così ad assumere una forma convessa destinata a creare effetti chiaroscurali in facciavista. Lo stesso può dirsi dell'uso, ampiamente documentato, della smussatura degli spigoli. Non mancano, però, gli esempi nei quali la faccia visibile del blocco appare perfettamente piana e regolarizzata, per lo più con l'impiego della sbozzatura a martello: in questo caso è frequente l'uso di una lisciatura a fondo limitata ai margini del blocco per una larghezza che in media va da due a sette centimetri, e su almeno due dei quattro lati.
Anche nell'opera quadrata incontriamo, infine, l'uso dei solchi verticali in più file; qui, anzi, esso viene talora particolarmente accentuato, riducendo l'altezza dei solchi ma accostando e moltiplicando contemporaneamente il numero delle file nelle quali essi si distribuiscono.
Topograficamente, l'opera quadrata è attestata senza sostanziali differenze cronologiche in tutto il mondo greco; la sua diffusione, facilitata dall'uso che il tipo aveva avuto, molto prima che non nelle cinte murarie, già nell'architettura monumentale, è tale da impedire la ricostruzione di possibili provenienze o di un soddisfacente schema della sua prima circolazione. Certamente all'inizio del V sec. a. C. comincia ad esser usata in questa destinazione nella forma irregolare non isodoma, cui entro la metà del secolo si affianca, poi sostituendovisi, il tipo canonico isodomo regolare. Quest'ultimo, nel corso del IV sec., sembra progressivamente arricchirsi nelle finiture superficiali (lisciatura dei margini, file di solchi verticali sempre più numerose, ecc.). In età ellenistica tale fenomeno si andrà progressivamente accentuando, con l'uso della smussatura degli spigoli e della curvatura convessa della superficie visibile dei blocchi. Parallelamente, si fa più esteso l'uso della disposizione per testa e per taglio e della costruzione pseudo-isodoma, la cui introduzione non è ancora soddisfacentemente precisata. Gli esempî, sporadici ma evidenti, del suo impiego in età classica (Pireo; in Occidente, Selinunte; ecc.) tendono, però, a far rialzare la cronologia della loro prima apparizione ad età classica, pur senza escludere una diffusione molto più tarda. È nel corso del II sec. che, con il progressivo, generale mutare dell'equilibrio del potere in conseguenza dell'espansione romana, si interrompe la lunga tradizione costruttiva che si è delineata; è ancora da approfondire, tuttavia, fino a che punto essa sia stata realmente interrotta o non si sia, piuttosto, trasferita ad altri tipi e - ancor più - ad altri ambienti costruttivi. L'opera quadrata, comunque, in ambiente greco è l'ultima a scomparire nella costruzione di cinte murarie anzi, per dir meglio, finisce con esse.
Bibl.: Per il problema in generale, tanto relativamente all'impianto dei sistemi difensivi, quanto alle maniere costruttive nelle quali essi sono realizzati, si veda comprensivamente: E. Fabricius, in Pauly-Wissowa, s. 2°, vol. VI, coll. 1982-2016 passim, s. v. Städtebau; W. Wrede, Attische Mauern, Atene 1933, passim; F. Krischen, Die griechische Stadt, Berlino 1938, pp. 4-8, tavv. 1-10; R. L. Scranton, Greek Walls, Cambridge Mass. 1941; R. E. Wycherley, How the Greeks Built Cities, Londra 1949, pp. 36-49, passim; R. L. Scranton, Greek Arts in Greek Defenses,in Archaeology, III, 1950, p. 4-11; R. Martin, L'Urbanisme dans la Grèce antique, Parigi 1856, specialmente pp. 121-122; 190-202; A. Kriesis, Ancient Greek Town-building, in Acta Congressus Madvigiani, vol. IV, -Urbanism and Town-planning, Copenaghen 1958, pp. 27-86 passim; M. Poëte, Introduzione all'Urbanistica: La città antica, Torino 1958, pp. 197-342 passim; F. G. Maier, Griechische Mauerbauinschriften, voll. I-II, Heidelberg 1959-1961.
(G. Scichilone)
B) Italia. - 1. - Generalità. Anche in Italia, l'uso delle fortificazioni nasce nel periodo neo-eneolitico, con concetti elementari, non dissimili a quelli che si osservano presso ogni popolo primitivo. I villaggi sono circondati di solito da una trincea, per lo più a perimetro circolare, o da più trincee concentriche; molti esempî si hanno soprattutto in Puglia; di questo genere è anche il fossato intorno alla stazione di Stentinello (Siracusa). Aggeri di terra circondano talune stazioni palafitticole. Da un larghissimo fossato e da un argine di terra erano circondate le terramare. Notevole è il sistema fortificatorio dei popoli che abitavano l'Istria e il Carso nell'Età del Bronzo e in quella del Ferro: essi stabilirono i loro villaggi (castellieri) sulla cima di una collina e li circondarono di una o più cinte, muraglioni ovvero larghi terrapieni formati da detriti calcarei e terra; il perimetro è in genere circolare (semicircolare se un versante della collina era difeso naturalmente); i castellieri vennero usati fino alla età romana. Fortificazioni su colline simili ai castellieri si trovano, nell'Età del Bronzo e del Ferro, anche in altre parti d'Italia (Veneto, Liguria, Marche, Umbria ecc.; un rozzo muro di pietre non squadrate recingeva il villaggio scavato presso Casa Carletti sul Monte Cetona). Le così dette "specchie" sulle colline delle Murge sono egualmente paragonabili per la loro imponenza ai castellieri; sempre dell'Età del Ferro sono le rozze muraglie di Altamura, Torre Castelluccio presso Taranto, Muro Lucano, Finocchito (Noto) in Sicilia (con grandiosi bastioni semicircolari). Nel retroterra della Sicilia le caratteristiche fortificazioni ad aggere di pietre informi continuano nei villaggi indigeni fino alla penetrazione greca nel VI e V sec. a. C. Oltre a costruzioni difensive si ha, in centri posti su colline aventi un fianco non isolato, un fossato artificiale intagliato in questo unico punto debole (Pantalica e Castelluccio in Sicilia). In Sardegna i nuraghi hanno evidentemente anche uno scopo difensivo, ma vere fortificazioni continue di villaggi, imperniate sui nuraghi stessi e costruite in opera poligonale, sono in genere assai tarde (ad esempio Barùmini, nel VI sec. a. C.).
2. - Città greche dell'Italia e della Sicilia. Tra gli esempî più antichi (VII-VI sec. a. C.) di fortificazioni sono le mura di Naxos, di Lentini (prima fase), di Monte Casale (identificato ora con Casmene), di Locri; si tratta di mura assai semplici, in cui lo spessore è dato dal lato lungo dei blocchi. Una maggiore perfezione si ha nelle mura di Agrigento, databili al VI sec. a. C.; anche in questo caso il circuito è condizionato dalla morfologia del terreno; si segue esattamente il margine superiore delle colline (i cui fianchi sono tagliati artificialmente) e il perimetro include una collina più alta scelta come acropoli: questo fatto determina un andamento molto irregolare ed una grande estensione dell'area urbana. Si hanno nei luoghi più deboli, torri quadrate, rientranti a tenaglia (come anche a Lentini) e anche un secondo muro di sbarramento. Le porte seguono il principio del tipo "Porta Scea", avendo alla destra un lungo saliente obliquo e sulla sinistra, di regola, una torre; si hanno anche postierle e cunicoli sotterranei per sortite, spostamenti, ecc. In questo stesso periodo, ma forse al di fuori dell'influsso greco, vanno collocate anche le poderose mura di Monte Castellaccio presso Termini Imerese, e quelle, meno primitive, di Cefalù (torri quadrangolari, postierle).
Dopo queste fortificazioni, che seguono concetti semplici e già applicati in Grecia, una maggiore perfezione è raggiunta nelle fortificazioni di Siracusa, di Selinunte e di Lentini. La prima, iniziata dopo il 402 a. C., e svolgentesi per 14 km sulla grande terrazza dell'Epipole, era munita di torri quadrate, di fortini, di porte a più sbarramenti, e culminava, nella parte estrema, nel Castello Eurialo che, per l'organicità della concezione e la varietà e la ingegnosità dei varî apprestamenti difensivi, si presenta come la più importante opera dell'ingegneria militare dell'antichità. Esso è costituito da un mastio con cinque torri frontali protetto esternamente da uno sperone e da tre fossati, sormontati da ponti levatoi e collegati da lunghi camminamenti scavati nella roccia, che rendevano possibili gli spostamenti delle truppe da ogni parte del fronte; subito a N del Castello si apre, in un ampio dispositivo a tenaglia, una doppia porta; numerose postierle infine favorivano le sortite. A simili concetti si ispira la fortificazione dell'acropoli di Selinunte rifatta al principio del IV sec. a. C.: mentre tutta la collina è circondata da un grandioso bastione, il lato N, più debole, ha un formidabile dispositivo che si impernia su tre torri semicircolari disposte su tre vertici, gallerie coperte di collegamento, un fossato artificiale. Poderose e variamente articolate anche le mura di Lentini, rifatte a partire dal V sec. (si osserva, come a Selinunte, una leggera scarpata), la prima cinta di Megara Hyblaea, del principio del V sec., le mura di Adernò, degli inizi del IV sec. (torrione, postierle), e di Tindari, del IV secolo.
Probabilmente del IV sec. sono anche le mura delle città puniche di Mozia e di Erice, caratterizzate da numerose torri quadrate, da varie postierle, da porte a più sbarramenti, e costruite con tecnica piuttosto rozza, e le mura di Gela (Capo Soprano), in opus quadratum e, nella parte superiore, in mattoni crudi, come anche quelle coeve di Eraclea Minoa.
Nella Magna Grecia risalgono al V sec. a. C. alcuni tratti dell'acropoli di Cuma, alcune parti delle mura di Velia (con torre quadrata presso una porta), la vasta cinta di Napoli, caratterizzata da una doppia cortina internamente collegata con muri trasversali (molto rifatta nel IV sec. a. C.), ed infine, a Pompei, la prima (poco nota) e la seconda cinta, costituita da un muro di limitata altezza con camminamento protetto da merli.
La cinta di Paestum, per la situazione pianeggiante e il disegno ortogonale del tracciato urbano, presenta, per la prima volta, un perimetro assai regolare; essa ha subìto numerosi rifacimenti nel periodo lucano e romano, e non è facile stabilire le parti della fase originaria; in corrispondenza delle grandi strade (platèiai) si aprono quattro porte (anch'esse rifatte più tardi) e allo sbocco delle vie minori (stenopòi) si hanno numerosissime postierle. Al IV sec. a. C. vengono datate anche le mura di Reggio, le principali fasi delle mura di Ipponio, di Velia (con torri quadrate), forse di Castiglione di Paludi (con torri semicircolari intorno alla porta, collocata entro un dispositivo a tenaglia).
L'età ellenistica portò in tutto il Mediterraneo, per influenza dell'arte militare macedone, un perfezionamento della poliorcetica; in Italia le innovazioni giunsero soprattutto con le guerre di Pirro e ancor più con quella di Annibale. Le mura di Pompei rifatte intorno al 300 a. C. sono costituite da due muri (di minore altezza quello interno) contenenti un terrapieno, che ripete, in proporzioni minori, lo schema dell'aggere serviano del IV sec. a. C. di Roma. Ancora poche torri quadrate nelle mura di Alesa; piuttosto primitiva la prima cerchia delle mura di Manduna (cui seguono più tardi altre due, a breve distanza) con fossato antistante, probabilmente del IV sec. a. C., e quelle di Monte Sannace, della stessa età o poco posteriori; di più difficile datazione le mura di Egnazia. Torri quadrate, circolari e semicircolarî nelle nuove mura di Ipponio; torri quadrate ellenistiche nella fortezza di Megara Hyblaea.
3. - Etruschi e Italici. Poco note le fortificazioni dei più antichi centri etruschi ed italici. La scelta di luoghi già naturalmente difesi (alture circondate da ripide pareti) ridusse certamente al minimo la necessità di opere artificiali, che dovettero consistere soprattutto in muri di terra rafforzati da palizzate e preceduti da fossati. Questo sistema (il cui ricordo appare in Varrone, De ling. Lat., v, 143: terram unde exculpserant fossam vocabant et introrsum iactam murum) è documentato particolarmente a Satrico, Anzio, Ardea, Roma. A Roma, oltre il ricordo del murus terreus Carinarum (Varr., De ling. Lat., v, 48) si hanno (sul Quirinale) avanzi di un terrapieno alto circa 5 m, preceduto da una fossa che potrebbe risalire, nel più antico strato, al VI sec. a. C. e perciò potrebbe essere proprio l'aggere di Servio Tullio ricordato dalla tradizione. Mentre questo aggere di Roma è costituito soltanto di terra battuta, quello di Anzio e, a quanto sembra, anche quelli di Ardea e di Satrico erano rinforzati all'interno da un piccolo muro di contenimento in opera quadrata. Questi terrapieni erano probabilmente completati da palizzate, e una fortificazione di tal genere doveva essere quella esistente ancora in età sillana ad Aeclanum dove Appiano (Bell. civ., i, 51) ricorda "un muro di legno". Altro esempio importante di vasta fortificazione ad aggere si ha ad Arpi (V sec. ?); notevole anche un villaggio ligure sul Monte Bignone presso S. Remo, con doppio aggere di terra (V-II sec. a. C.).
Continua in larga misura anche il tipo di fortificazione, già usato in età preistorica, di muri a secco, con blocchi di maggiori proporzioni, ma non squadrati; il perimetro delle mura corre, quasi circolarmente, intorno alla sommità dei monti. La notevole diffusione di queste fortificazioni, soprattutto nel territorio dei Marsi, Peligni, Vestini, Sanniti, indica che non si tratta sempre di vere città, ma di oppida che servivano, in caso di emergenza, di protezione alle popolazioni di un territorio. Poco studiata ne è la cronologia, ma sembra che non si debba comunque scendere ad una età posteriore alla conquista romana; tra le più notevoli sono quelle di Alfedena, Pallanum, Rapino, Castel di Sangro, Sepino (Torrevecchia), Monte Cila sopra Piedimonte d'Alife.
A Monterado, in territorio falisco, sarebbero state osservate, sui lati N, S ed O di una fortificazione, tre porte, e tale fatto è stato messo in connessione con una testimonianza di Servio (Aen., i, 422) secondo cui nelle città etrusche sarebbero "dedicate" tre porte e col fatto che tre (o quattro) porte avrebbe avuto la città del Palatino (Plin., Nat. hist., iii, 66).
A partire dal VI sec. inizia la costruzione, nelle maggiori città etrusche e italiche, di solide e alte mura in pietra, con cortina regolare: al VI sec. infatti sembra ormai accertato che risalgano le poderose mura di Roselle, che circondano la città con un circuito di oltre 3 km. In parte al VI e in parte al V sec. a. C. sono probabilmente da datarsi, almeno nelle fasi più antiche, le mura di Volterra, Populonia, Veio, Vulci, Cerveteri, Faleri Veteres, Veio e, in territorio laziale, Roma (tratti sul Palatino e sul Campidoglio), Antenne, Tellene, Palestrina, Segni, Cori, Circei, Arpino. La tecnica è sia l'opera quadrata che quella poligonale a seconda dei territori (quest'ultima è usata sia per formare una doppia cortina, riempita in mezzo da blocchi più piccoli, sia soprattutto come sostegno di terrazzamenti). In alcuni casi le mura sono ancora limitate al rafforzamento dei soli tratti più esposti all'offesa (Faleri Veteres, Veio, Roma ecc.), e il circuito si adegua sempre alla situazione del terreno, sfruttandone le pendenze e spesso includendo una altura dominante, anche se assai lontana dal centro abitato (Palestrina). Le porte sono in genere coperte in piano con un enorme blocco monolitico, talora hanno invece un profilo ogivale (Faleri Veteres, Arpino).
Nel IV sec. a. C., anche per influenza degli insegnamenti greci, si ha uno sviluppo nell'arte delle fortificazioni; si costruiscono cinte di perimetro assai sviluppato (mura così dette serviane di Roma, costruite dopo il 378 a. C., lunghe quasi 11 km; mura di Tarquinia, lunghe oltre 8 km); si perfeziona la tecnica muraria sia dell'opera quadrata (Roma, Ostia, Cerveteri, Nepi, Tarquinia, Pitigliano, Bolsena con due cortine racchiudenti un terrapieno e collegate con muri trasversali) che di quella poligonale (Norba, Sezze, Terracina, Alatri, Anagni, Ferentino, qui insieme con l'opera quadrata); si usa la porta, di ispirazione greca, a due sbarramenti (pròpylon), probabilmente senza copertura (Roma sul Quirinale presso Magnanapoli); non si hanno però vere torri ma solo alcuni bastioni (Roma, Norba), o torrette di osservazione (Tarquinia), o grandi salienti a fianco della porta (Norba). Un'opera eccezionale è l'aggere così detto serviano a Roma, che riprende con nuovi criterî il vecchio sistema del terrapieno, contenuto ora da due muri, l'esterno dei quali alto fino a 10 m. Si continuano a includere nelle cinte alture con funzione di acropoli (Cortona, Fiesole, dove però le mura sono per la maggior parte rifatte in età posteriore; a Norba è invece da osservare che la così detta acropoli maggiore è soltanto un terrazzamento di carattere urbanistico e che anche l'acropoli minore non risponde a un vero concetto difensivo, ma piuttosto, come poi si osserverà a Cosa, ad un concetto monumentale).
4. - Italia romana. Nelle colonie fondate da Roma a partire dalla fine del IV sec. a. C. le fortificazioni seguono una linea di crescente sviluppo dal punto di vista tecnico e strategico. Sempre più perfezionata l'opera poligonale (spesso su due cortine); in alcuni tertitori dove prima si usava l'opera poligonale, che non consente una mobilità di tracciato, si diffonde ora l'opera quadrata (Narni, Terni, Spoleto, Todi, Assisi); il tracciato si adegua ancora alla situazione geografica in modo anche da includere una sommità che può costituire l'acropoli, fornita di una sua speciale cinta, ma senza dubbio con significato solo monumetale (Cosa); le principali innovazioni sono la cataracta, cioè la saracinesca di chiusura (Alba Fucente, Cosa, Faleri Novi); Livio (xxvii, 28, 10) ne parla per il 208 a Salapia; poi diviene sempre adottata: Fondi, Pompei ecc., e le torri quadrate disposte in serie sempre più regolari, spesso a distanza di 100 o 120 piedi (Cosa e specialmente Faleri Novi). Le città in pianura hanno invece pianta quadrangolare e porte al centro dei lati (Ostia, della metà del IV sec. a. C.; Pirgi, forse del III). La porta ha ormai la copertura ad arco, e comincia ad acquistare un aspetto ornamentale, con una cornice sporgente sopra la ghiera dell'arco (Porta Furia a Sutri e specialmente Porta di Giove a Faleri Novi) e con l'inserimento di protomi di divinità o di animali ai fianchi o nella chiave dell'arco (già nella porta di Volterra e in porte raffigurate su urne etrusche, poi a Faleri Novi, e più tardi ancora a Perugia e a Paestum). L'altezza si sviluppa, evidentemente in rapporto all'invenzione delle torri di assalto (50 piedi a Faleri Novi e nei rifacimenti delle mura serviane); la larghezza dei camminamenti si amplia in determinati punti bisognosi di maggior difesa, probabilmente per collocarvi macchine.
Rifacimenti, spesso di notevole entità, si ebbero durante e dopo la guerra annibalica: a questo periodo sono attribuiti la IV fase delle mura di Pompei (con sopraelevazione dell'aggere mediante la costruzione di due nuovi muri di contenimento), i restauri in opera incerta alle mura di Crotone, le mura e le torri in serie di Caulonia nella stessa tecnica, alcuni restauri alle mura serviane di Roma sull'Aventino, la cinta maggiore delle mura di Manduria.
Al II sec. a. C. vengono attribuite le mura di Perugia; alla fine di questo secolo, e alla metà del seguente rispettivamente la porta di Augusto fiancheggiata da grandi bastioni a scarpata e la porta Marzia, entrambe finemente decorate. Questo gusto decorativo trova riscontro a Paestum e a Pompei, negli ornamenti delle torri prevalentemente ispirati all'ordine dorico.
Un nuovo importante periodo è quello delle guerre sociali e civili, quando si dovette provvedere a urgenti necessità di difesa e alla ricostruzione delle mura abbattute (Roma, tratti dell'Aventino e del Quirinale, con grandi archi per macchine belliche; terrazzamento ad Alba Fucente; nuova cinta di Ostia; acropoli di Terracina, secondo alcuni però dell'età annibalica; acropoli di Ardea, secondo alcuni poco più antica; rifacimenti delle mura di Fondi e di Formia; acropoli di Ferentino; Cori, Alife ecc.). Di questo periodo è caratteristica la tecnica ad opera incerta che facilita al massimo la mobilità del tracciato e la pianta circolare delle torri (Terracina, Cori, Fondi). Maggiore sviluppo delle porte, che sono talora a tre fornici, di cui quello centrale carrozzabile (Porta Ercolanese a Pompei).
Nel periodo triumvirale la frequente deduzione di colonie portò alla costruzione e al restauro di mura (Telesia, Aeclanum, Peltuinum, Ascoli Piceno, Urbisaglia, Todi, Bevagna, Spello, Verona ecc.), e lo stesso avvenne sotto Augusto (Sepino, Fano, Rimini, Torino, Aosta ecc.). Nelle porte si accentua ancora di più il carattere decorativo e monumentale, con realizzazioni del tutto simili a quelle dell'arco di trionfo (talora anche nella qualità del materiale, il marmo: Fano, Rimini ecc.). Già la Porta Romana di Ascoli, a due fornici, presenta una elaborata lavorazione dell'archivolto, e la porta di S. Ventura a Spello ha l'archivolto inquadrato in una partitura di lesene sormontate da trabeazione e timpano. Questi elementi, più sviluppati, si trovano nella porta augustea di Rimini (semicolonne, sculture architettoniche e, inoltre, clipei con divinità secondo la tradizione già documentata nella porta di Volterra), nella Porta Esquilina a Roma, parimenti augustea, nella porta di Trieste e specialmente nella Porta Aurea di Ravenna, del 43 d. C. Una ricercata cura decorativa (semicolonne, fregio dorico ecc.) si ha nella prima porta dei Leoni a Verona, ancora di età repubblicana. A Sepino la porta di Boiano, del principio del I sec. d. C., è ornata addirittura con statue poste su alti basamenti irrazionalmente inseriti all'imposta dell'arco. Si hanno porte gemine (Ravenna), o più frequentemente a tre fornici, i due laterali di proporzioni assai minori per il passaggio pedonale (la ricordata Porta Esquilina, la Porta Pretoria di Aosta, l'arco di Augusto a Fano, la Porta Consolare e Porta Venere a Spello ecc.); il tipo ispirò forse l'arco trionfale a tre fornici. Due fornici maggiori e due minori ha invece la Porta Palatina di Torino, di età augustea o flavia. La parte superiore delle porte è occupata da una o due gallerie con finestre ad arco (spesso decorate con lesene o semicolonne): così le porte di Verona, la Porta Venere di Spello, quelle di Aosta, Torino, Fano (con restauro costantiniano nella parte superiore); il tipo è documentato anche da modellini in pietra frequenti nella Campania. Queste porte molto spesso danno accesso ad un cortile a pianta quadrangolare con controporta interna. La tecnica è in genere l'opera quadrata (laterizia a Torino). Le porte sono fiancheggiate da torri (in alcuni casi rifatte in età successive) quadrate (Aosta), semicircolari (Fano, Sepino ecc.), ottagone (Como), dodecagone (Spello), a 16 lati (Torino, Asti), 24 (Milano).
Una importante opera militare fu, sotto Tiberio, quella dei Castra Praetoria alla periferia orientale di Roma: a pianta quadrangolare, angoli arrotondati, di mediocre altezza (10 piedi), con quattro porte sui quattro lati, con torri a leggerissimo risalto.
Nei primi secoli dell'Impero si registrano restauri e rifacimenti, particolarmente alle porte, con ulteriore sviluppo del carattere decorativo, come nella seconda Porta dei Leoni e nella Porta dei Borsari, probabilmente di età flavia, a Verona, o con un ritorno a forme più sobrie, come nella Porta Gemina di Pola, dell'età antoniniana. Un carattere non monumentale ebbero invece le porte in laterizio, erette nel II sec. a Roma indipendentemente dalle mura, lungo un circuito più largo (a scopo prevalentemente daziario). Degno di menzione l'accampamento della seconda legione parthica eretto da Settimio Severo presso la villa albana di Domiziano, à pianta rettangolare, con torri e porte monumentali sui quattro lati.
Un nuovo importante periodo nella storia delle fortificazioni inizia nella seconda metà del III sec., con restauri o costruzioni di nuovi tracciati sul perimetro ingrandito delle città (Verona, Aquileia ecc.). Sotto il regno di Aureliano, di fronte alle prime minacce di invasioni, si provvide a costruire a Roma una nuova cinta, lunga quasi 19 km, di opera laterizia, alta soltanto m 7,80, con camminamento scoperto protetto con merlature, torri quadrate ogni cento piedi, porte a uno o due fornici circondate da torri per lo più semicircolari. Dello stesso tipo doveva essere la cinta, solo in parte conservata, di Porto, di età costantiniana. Un grande sviluppo in altezza, con inclusione di gallerie coperte, provviste di feritoie, e con sempre maggior riguardo alla funzione difensiva delle torri contenenti vaste camere per la manovra di macchine belliche, si ebbe nel grande rifacimento onoriano delle mura di Roma: a questa epoca risalgono quasi tutte le porte oggi esistenti, a una o due aperture, con saracinesca, gallerie con piccole finestre ad arco, cortile con controporta. Queste ultime opere dell'architettura militare in Italia, riflettono, sia dal punto di vista tecnico sia nello stile strettamente funzionale, l'esperienza delle città periferiche dell'Impero.
Bibl.: In generale v. M. E. Blake, Ancient Roman Construction in Italy from the Prehistoric Period to Augustus, Washington 1947; G. Lugli, La tecnica edilizia romana, Roma 1957; L. Crema, L'architettura romana, Torino 1959. Per l'età preistorica, v. bibl. s. v. terramare; castellieri. Per sistemi di tradizione indigena: B. Pace, Arte e civiltà dalla Sicilia antica, Milano-Genova, I, 1935, pp. 345, 350 ss.; II, 1938, p. 404 ss.; D. Adamesteanu, Le fortificazioni ad agere nella Sicilia centro-meridionale, in Rend. Linc., s. VIII, XI, 1956, p. 358 s. Per l'Italia greca: S. Whitaker, Motya, Londra 1921, p. 137 ss.; A. von Gerkan, Griechische Städteanlagen, Berlino-Lipsia 1924, passim; L. Mauceri, Il Castello Eurialo, Roma 1928; E. Gabrici, in Mon. Lincei, XXXIII, 1929, c. 61 ss. (Selinunte); A. Maiuri, ibid., 1929, c. 113 ss. (Pompei); P. Marconi, Agrigento, Firenze 1929, p. 32 ss.; G. Säflund, The Dating of Ancient Fortifications, in Acta Inst. Rom, Reg. Sueciae, IV, 1935, p. 87 ss.; F. Krischen, Stadtmauern von Pompeji, Berlino 1941; E. Gabrici, in Mon. Lincei, XLI, 1951, c. 553 ss.; G. Rizza, in Boll. d'Arte, XXXIX, 1954, p. 71 ss. (Lentini); G. Vallet-G. Villard, in Boll. d'Arte, XLV, 1960, p. 263 ss. (Megara Hyblaea); Not. Scavi, 1915, p. 227 ss. (Adernò); 1936, p. 469 ss. (Monte Castellaccio); 1943, p. 275 ss. (Pompei); 1955, p. 346 ss. (Lentini); 1959, p. 293 ss. (Alesa); Fasti Arch., VIII, 1699; IX, 2163 (Naxos); X, 308 (Mozia); X, 2634 (Serra Orlando); Arch. Anz., 1956, c. 307 ss. (Castiglione di Paludi).
Per gli Etruschi e gli Italici: R. Fonte-Nive, Sui monumenti ed altre costruzioni poligonie..., Roma 1887; F. Bernabei, in Mon. Lincei, IV, 1894, c. i ss. (territorio falisco); G. B. Giovenale, I monumenti preromani del Lazio, Roma 1900; A. Sogliano, Intorno alle antichissime cinte murali etrusche e italiche, in St. Etr., III, 1929, p. 73 ss.; Not. Sc., 1882, p. 415; ibid., dal 1886 al 1906, passim (articoli di A. De Nino per il territorio dei Peligni, Marrucini, Marsi, Vestini); ibid., dal 1896 al 1919, passim (articoli di V. Di Ciccio e G. Patroni per la Lucania e il Bruzio); ibid., 1887, pp. 524 e 1898, p. 81 ss. (Vetulonia); ibid., 1914, p. 411 s. (Populonia); ibid., 1920, p. 167 ss. (Arezzo); ibid., 1925, p. 165 ss. e 1928, p. 366 (Teano); ibid., 1926, p. 250 ss. e 1927, p. 450 ss.; 1929, p. 207 ss.; 1930, p. 218 ss. (territorio sannita); ibid., 1931, p. 33 ss. (Cortona); ibid., 1934, p. 438 ss. (Tarquinia); J. Bradford, in Antiquity, XXXI, 1957, p. 167 ss. (Arpi); M. W. Frederiksen-J. B. Ward-Perkins, in Papers Brit. Sch. Rome, XXV, 1957, p. 134 ss. (Faleri Veteres); R. Naumann-F. Hiller, Rusellae, in Röm. Mitt., LXVI, 1959, p. 3 ss.; G. Verrecchia, in Samnium, XXXI, 1959, p. 213 ss. (territorio sannita). Per Roma regia e repubblicana: G. Säflund, Le mura di Roma repubblicana, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, I, 1932; G. Lugli, Monumenti di Roma e suburbio, II, Roma 1934, p. 99 ss.; E. Gjerstad, Early Rome, III, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, XVII, 3, 1960. Per l'Italia romana: Not. Scavi, 1901, p. 514 ss., e 1903, p. 229 ss. (Norba); I. A. Richmond, The City Wall of Imperial Rome, Oxford 1930; id., in Papers Brit. Sch. Rome, XII, 1932, p. 52 ss. (Torino e Spello); F. Frigerio, Antiche porte di città italiche e romane, in Riv. Arch. Como, CVIII-CX, 1934, p. 179 ss.; H. Kähler, in Röm. Mitt., L, 1935, p. 172 ss. (Ravenna); id., in Jahrbuch, L, 1935, p. 138 ss. (Verona); id., Die römischen Torburgen der frühen Kaiserzeit, ibid., LVII, 1942, p. i ss.; G. Säflund, Ancient Latin Cities, in Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, IV, 1935, p. 64 ss.; G. Lugli, Le fortificazioni delle antiche città italiche, in Rend. Lincei, s. VIII, II, 1947, p. 294 ss.; P. Barocelli, Augusta Praetoria, Roma 1948, c. 85 ss.; G. Lugli, Porte di città antiche ad ordini di archi sovrapposti, in Arch. Class., I, 1949, p. 153 ss.; Not. Scavi, 1951, p. 273 ss. (Alba Fucente); F. E. Brown, Cosa I, in Mem. Am. Acad. Rome, XX, 1951, pp. 28 ss.; 105 ss.; G. Calza e altri, in Scavi di Ostia, I, Roma 1953, p. 63 ss.; C. Pietrangeli, Osservazioni sulle mura delle città umbre, in Atti V Congr. Naz. Storia Architet., Firenze 1956, p. i ss.
(F. Castagnoli)
C) Appendice: l'agger. - Il termine latino agger (da ad e gerere), italiano argine dalla forma arger, indica genericamente qualunque ammasso di terra, e quindi la strada rialzata sul piano (d'onde i toponomi come Vigodarzere, presso Padova, vicus aggeris), l'argine di un fiume, ecc. Militarmente, a. è in generale il vallo che recinge un'area che si vuol proteggere, sia essa una città o un accampamento.
Il materiale è di solito ricavato scavando esternamente al recinto una fossa, che rinforza il vallo (Varro, De re rustica, i, 14, 2: militare saepimentum est fossa et terreus agger). Uno di questi a. era il murus terreus Carinarum, avanzo di una antichissima cinta sulle Carine, una delle alture dell'Esquilino (Varro, De lingua Latina, v, 48). Aggeres dei quali si conservano notevoli avanzi, costituivano la difesa avanzata di città latine come Ardea e Anzio. Ma il più celebre a. era quello che rinforzava le mura così dette serviane di Roma nel tratto pianeggiante N-orientale in corrispondenza ai Colli Viminale e Cispio (Cic., De rep., ii, 11): (unus) aditus qui esset inter Esquilinum Quirinalemque montem maximo aggere obiecto fossa cingeretur vastissima; v. anche Plin., Nat. hist., iii, 67.
Ma nel suo significato militare più specifico, a. indica un'opera d'assedio in forma di argine, di altezza crescente, perpendicolare alla linea di difesa da una fortezza, con la quale l'assediante cerca di avvicinarsi ad un punto delle mura per potere spazzare con il tiro il coronamento delle mura stesse e sgombrarle dai difensori, e far avanzare su di esso torri o altre macchine d'assedio.
Noi vediamo largamente usato l'a. dagli Assiri, specialmente nell'età della loro massima potenza, nell'VIII e VII sec. a. C. I rilievi dei palazzi dei re assiri ci mostrano con ricchezza di particolari l'apparato bellico dell'esercito assiro all'assalto di fortezze. Accanto agli arieti e alle torri mobili si vedono uno o più aggeres, sui quali le colonne d'assalto, composte di lancieri e di arcieri, avanzano precedute da carri bellici. I libri biblici ricordano gli aggeres degli Assiri e dei Neobabilonesi spinti contro le mura delle città della Palestina; nel libro di Ezechiele, secondo la Vulgata, le visioni degli aggeres sono frequenti (iv, 2): Et ordinabis adversus eam obsidionem et aedificabis munitiones et comportabis aggerem et dabis contra eam castra et pones arietes in agro. Cfr. xvii, 17; xxi, 22; xxvi, 8; v. anche Daniele, xi, 15; Habacuc, i, 10: comportabit aggerem: dei χώματα costruiti da Nabucodonosor all'assedio di Gerusalemme parla anche Giuseppe Flavio, Antiq. Iud., x, 131 (8, 1). La versione dei Settanta usa il termine χῶμα o πρόσχωμα, con il quale i Greci indicavano l'a. che essi conobbero dai popoli dell'Asia Anteriore, specialmente dai Babilonesi e dai Persiani. Erodoto (1, 168) ricorda l'a. (χῶμα), con il quale il medo Arpago, generale di Ciro, superò le mura di Teo (545 circa a. C.). Nel 429 gli Spartani costruirono un argine contro le mura di Platea: Tucidide (ii, 75-77) dà una particolareggiata descrizione della costruzione dell'argine e degli accorgimenti con i quali i Plateesi riuscirono a tenere testa alle operazioni dell'assediante, sinché furono ridotti per fame alla resa. Abbiamo esempî di impiego dell'a. nell'età ellenistica: memorabile, ad esempio, l'a. che Dionisio di Siracusa spinse attraverso il braccio di mare, che la separava dal continente, contro la fortezza insulare di Mozia in Sicilia (Diod., xiv, 48-52) e quello con cui Alessandro raggiunse dalla costa l'isola sulla quale sorgeva Tiro (Arrian., Anabasis, ii, 18-19). Ma i grandi progressi dell'arte ossidionale nel IV e nel III sec. furono conseguiti con l'adozione di più potenti macchine da tiro e di torri mobili d'approccio. Perseo nel 169 attaccò con un a. la fortezza di Oeneo.
Un'idea più precisa sugli aggeres usati negli assedi dagli orientali si ebbe in seguito agli scavi di Dura-Europos (v.), città sull'Eufrate, nella quale nel 256 d. C. i Romani furono assediati dai Persiani del re Cosroe. Oltre alle mine e contromine delle due parti, trincee e gallerie, i Persiani costruirono un argine contro la cortina compresa fra due torri. L'a. era sostenuto ai lati da grossi muri in mattoni crudi di 45° di inclinazione, e due muri di mattoni crudi di m 1-1,20 di spessore rinforzavano gli orli della rampa, larga 8-9 m e lunga 40. La rampa era lastricata di mattoni per sostenere le macchine. I Persiani scavarono gallerie sotterranee ai lati della rampa: i Romani le controbatterono con altre mine. Mine e a. sono ricordati nel 502 all'assedio di Amida (Diarbekir) in Mesopotamia: l'a. fu minato e crollò travolgendo gli assalitori (Procop., De bello Pers., i, 7) e così a Edessa (ib., ii, 26-27).
I Romani per lungo tempo preferirono ridurre le città nemiche in loro potere, quando non era possibile un assalto improvviso, con il blocco e la fame. Ma quando era necessario un attacco vero e proprio a uno o più punti della cinta nemica, si ricorreva ai mezzi appresi dai Greci e dai Cartaginesi. Cesare, che non poteva condurre assedî e blocchi di lunga durata, soleva bloccare con una linea continua la fortezza nemica, ma impiegava poi largamente le macchine d'assedio e specialmente gli aggeres. Da Cesare abbiamo molti particolari sulla loro costruzione e il loro uso.
Il più noto esempio di a. romano descrittoci è quello fatto costruire da Cesare sotto Avaricum nel 52 a. C. (De bello Galì., vii, 24). Cesare afferma che i suoi soldati costruirono in 25 giorni aggerem latum pedes CCCXXX, altum pedes LXXX, cioè m 97,58 e m 26,65.
Ma poiché sembrò che un argine di quasi 100 m di larghezza fosse eccessivo, il gen. Reffye, collaboratore di Napoleone III per la storia di Cesare, propose di intendere che l'a. constava di due argini a rampa perpendicolari al muro gallico (a. viaduc), sui quali si sarebbero spinte innanzi le torri, e un a. cavalier, parallelo al muro gallico e alto 24 m dal quale sarebbero partite all'assalto le truppe. La ricostruzione del Reffye fu divulgata dall'opera di Napoleone e generalmente accettata (v. fig. 5 e Duruy, Hist. des Romains, iii, p. 199). Ma dopo gli scavi di Dura, il conte Du Mesnil sostenne che l'a. di Avarico era un argine semplice, per volume doppio di quello di Dura e con la stessa pendenza. Egli però è costretto a intendere latum come "lungo", e ciò persuade meno circa la possibilità che l'esercito di Cesare abbia potuto compiere un lavoro che sarebbe stato il doppio di quello eseguito dai Persiani a Dura. Un altro a. Cesare fece costruire ad Uxellodunum (De bello Gall., viii, 41).
Dinanzi a Marsiglia (De bello Gall., ii, 1, 4) Cesare fece costruire un a. di 80 piedi (25 m circa) e, pare, di 6o piedi di larghezza (Cesare dice che quella era la lunghezza della testudo di protezione, ma non dà, come non la dà per Uxellodunum, la larghezza). Il primo a. costruito con grande fatica sotto l'intenso tiro delle macchine marsigliesi (De bello civ., ii, 2, 4), fu incendiato dal nemico (ibid., c. 14): esso aveva richiesto l'abbattimento di tutti gli alberi intorno alla città e allora i Cesariani ne costruirono un secondo retto da due muri laterizi. Largo impiego di a. fece Tito all'assedio di lotapata (Ios. Flav., De bello Iud., iii, 7, 33, 316 Niese) e all'assedio di Gerusalemme (ibid., v, 9, 2, 356 Niese); (ii, 1, 446 Niese).
Bibl.: Per l'a. serviano v. G. Säflund, Le mura di Roma repubblicana, Lund 1932, passim; G. Lugli, I monumenti antichi di Roma, II, Roma 1934, p. 211. Per gli Assiri: B. Meissner, Babylonien und Assyrien, Heidelberg 1920, I, p. 110; E. Unger, in Reallexicon der Assyriologie, I, p. 471 s. v. Belagerungsmaschinen; A. Paterson, Assyrian Sculptures, L'Aia, s. d., tav. 39 a e 69-70. Per la civiltà classica v.: E. Saglio, in Dict. Ant., I, p. 140; H. Droysen, in K. F. Hermann, Lehrbuch der griech. Antiquitäten, II, 2, Friburgo 1889, p. 205 s.; W. Liebenam, in Pauly-Wissowa, VI, cc. 2224-255, s. v. Festungskrieg; J. Kromayer-G. Veith, Heerwesen und Kriegsführung der Griechen und Römer, Monaco 1928, pp. 443 e 365. Per Dura: The Excavations at Dura Europos, Report of the VI Season e succ.; Du Mesnil du Buisson, Les ouvrages du siège à Doura-Europos, in Mém. de la Soc. des Antiq. de France, 9a Ser., I, 1944, p. 5 s. Per l'a. di Cesare: T. Rice Holmes, Caesar Conquest of Gaul2, Oxford 1911, p. 599; Du Mesnil du Buisson, in Revue Arch., 6a. Ser. XIII, 1939, p. 60.
(P. Fraccaro)