MURRINI VASI (murrhĭna, myrrhina o murrina vasa)
Sono vasi, per lo più tazze, tagliati in una pietra semipreziosa, la murrha, che da Plinio è classificata tra le gemme, benché tale non fosse considerata, ad es., negl'inventarî patrimoniali, secondo il giudizio del giurista Cassio Longino verso il 50 d. C. (Digesto, XXXIV, 2, 19, 20); in greco essa è detta. μορρίνη λιϑεία e μόρρια, dai testi posteriori a quelli latini.
Conosciamo questo vasellame attraverso la tradizione scritta. La menzione più antica è in Properzio IV, 5, 26), il quale credeva che quei vasi fossero cotti in fornace. L'unico autore che parli della murrha in senso naturalistico è Plinio (Nat. Hist., XXXVII, 21-22), ma la trattazione non è priva d'ambiguità, ed è tanto empirica, rispetto alle proprietà fisiche, da non lasciarci nemmeno intendere approssimativamente il grado di durezza.
Plinio dice che essa proveniva dall'Oriente, soprattutto, si credeva, dal regno dei Parti: gli esemplari più notevoli si sarebbero scavati nella Carmania (oggi Kirmān), regione a est del golfo Persico. Lavorata, era lucida, ma non brillante, con chiazze tondeggianti a zone purpuree e lattee e con passaggi in cui le due tinte si fondevano, dando sfumature diverse secondo il prevalere dell'una o dell'altra. Taluni pregiavano specialmente le macchie a contorni più decisi (oppure: i contrasti più vivi) e a strisce come l'arcobaleno (oppure: con riflessi iridescentil), altri preferivano la chiazzatura più densa di colore. Difetti erano considerati i toni pallidi e le trasparenze, pregi le "ghiacciature" (sales) o certi nuclei eterogenei (verrucae). Che la murrha emanasse un profumo, come Plinio pretende, non è credibile: forse si spalmavano i vasi con qualche aroma, e ciò spiegherebbe l'omonimia con la nota resina odorosa. Nulla ci è detto circa i procedimenti di lavorazione: l'interno delle tazze doveva essere certamente tornito, l'esterno talvolta anche scolpito. La grande fragilità si spiega con la sottigliezza delle pareti, come in tutti i vasi congeneri: tale sottigliezza giunge in alcuni esemplari fino a 3 e 1 mm.
Nel lusso delle mense romane si usavano di preferenza le murrine per le bevande calde (Marziale, XIV, 113), in contrapposto alle coppe tagliate nel quarzo, ritenuto un prodotto del gelo per la somiglianza col ghiaccio, e perciò destinato alle bibite fredde: sembra che un "servizio completo" richiedesse le due materie.
I prezzi erano enormi: 70 mila sesterzî sarebbe stata pagata, pare ai tempi di Claudio, una tazza della capacità di circa un litro e sei decimi; 300 mila sesterzî era il costo di quella spezzata da Tito Petronio Arbitro, poco prima di morire, per sottrarla a Nerone, il quale ne possedeva una di 200 mila lire oro. Può darsi che nelle cifre del periodo neroniano vi sia una sopravalutazione determinata dalla pazzesca gara del lusso: il criterio di stima si può credere dipendesse anche dal lavoro degli artisti.
L'origine delle murrine sembra sia asiatica: erano state in uso presso i monarchi ellenistici, perché le prime giunte a Roma sarebbero state quelle prese da Pompeo con i tesori di Mitridate, e consacrate a Giove Capitolino nel trionfo del 61 a. C. (Plinio, loc. cit., 17). È strano però che non ne fossero pervenute ai Romani dall'eredità di Attalo III, circa 70 anni prima. Non mancavano alla corte dei Tolomei (Svet., Aug., 71).
Ai tempi dell'impero si fecero di murrha anche recipienti per vivande e piccole lastre da tavolini.
Le congetture e le dispute dei dotti moderni per identificare il materiale in parola costituiscono una copiosa bibliografia dal sec. XVI al XIX: in massima si tratta d'ipotesi che non s'appoggiano su alcun oggetto tramandatoci dall'antichità. S'è pensato persino alla porcellana e all'ambra. F. Corsi, verso il 1830, volle dimostrare che la murrha fosse fluorite, e la sua opinione, pur come semplice probabilità, trova eco tuttora nei trattati di mineralogia. Ma in quel materiale, abbastanza comune anche in Occidente, è ben difficile riscontrare le singolarità descritte da Plinio, e la durezza è del 40 grado, uno soltanto più delle calciti: qual fondamento avesse la storiella del vaso rosicchiato dall'amatore fanatico non si può dire, perché l'autore non ha assistito all'operazione, e le storielle non sono rare nell'opera pliniana.
Le pietre da cui son ricavati i vasi pteziosi della civiltà classica, tranne il cristallo di rocca, sono riferibili al gruppo dei calcedonî: e non bisogna dimenticare che gli antichi conoscevano le "gemme" con criterî ben diversi da quelli d'oggi, guardando più che altro a certe singolarità esteriori. Un testo dell'Historia Augusta, che può essere circa del 300, distingue la murrha dall'onice (Vita di Elagabalo, 32), ma il criterio non si può ritenere scientificamente sicuro. La murrha di Plinio potrebbe essere, ad es., un'onice rossa.
Tra i vasi in pietra dura pervenuti a noi, ve ne sono alcuni che possono essere costati veramente delle somme ingenti per l'arte prodigiosa dei rilievi di cui s'adornano: basti citare la tazza Farnese del museo di Napoli, o la coppa detta "dei Tolomei" della Bibliothèque Nationale di Parigi. Ciò sembra confermare l'opinione del Winckelmann, ripresa ai tempi nostri da E. Babelon, che le murrine si debbano cercare tra quelli. Altrimenti bisognerebbe pensare che nessun avanzo se ne conosca.
La tecnica dei vasi murrini sarebbe dunque da collegare a quella dei cammei (v.) che apparvero verso l'epoca d'Alessandro Magno, forse per opera di Pirgotele: questo ci spiega come fossero di moda tra i principi eredi dell'impero macedone.
Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 198) ricorda delle imitazioni eseguite in vetro colorato. V. anche vetro.
Bibl.: Per il testo di Plino, l'ediz. di C. Maghoff, V, Lipsia 1897. Tutte le discussioni anteriori sono riassunte da F. Corsi, Le pietre antiche, 3ª ed., Roma 1845, p. 166 segg. (ivi anche la serie degli scrittori classici); E. Babelon, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant., III, Parigi 1904, p. 2046 segg.