Museo virtuale
Gli esordi
L’espressione museo virtuale è venuta assumendo nel corso degli ultimi anni una valenza sempre più sfuggente, soprattutto a causa dei notevoli mutamenti di scenario prodotti dalle continue trasformazioni tecnologiche della comunicazione e dell’informazione. Al momento della sua introduzione, nei primi anni Ottanta del 20° sec., con museo virtuale (o digitale) si indicava la rappresentazione digitale delle collezioni di un museo fisicamente esistente. Questo tipo di realizzazione rispondeva a una duplice esigenza. Anzitutto, offriva ai curatori una soluzione eccellente sia per archiviare e consultare la documentazione sulle collezioni sia per gestire le pratiche di natura amministrativa (restauri, prestiti e così via). La prima configurazione assunta dal museo virtuale coincise con il riversamento su supporto digitale dello schedario e dell’inventario tradizionali. Contestualmente, cominciò ad affermarsi l’idea che l’automazione poteva servire anche a potenziare l’efficacia delle strategie di comunicazione, favorendo una più consapevole fruizione dei contenuti del museo.
In questa fase, che si protrasse fino a oltre la metà degli anni Novanta, i principali musei dell’intero pianeta, soprattutto d’arte e di antichità, produssero, quasi sempre con la collaborazione di editori privati, CD-ROM che consentivano la visita virtuale delle loro collezioni. Questi nuovi prodotti si basavano su metodologie e approcci abbastanza omogenei. La finalità centrale era quella di offrire una simulazione digitale il più possibile realistica del museo reale. Oltre alla visita virtuale delle sale del museo, ricostruite fedelmente grazie a modellizzazioni tridimensionali, era possibile attingere notizie relative alle singole opere (di solito nel formato delle tradizionali schede di catalogo), visualizzare informazioni biografiche e bibliografiche e, nel migliore dei casi, compiere un’esplorazione iconografica delle opere più importanti. Ai suoi esordi, il museo virtuale emulava dunque con la massima aderenza le funzioni e le strategie di comunicazione del museo reale. Il valore aggiunto era costituito dalla possibilità di compiere ricerche per titolo delle opere, per nome degli artisti/autori, per soggetto, per data e così via. I musei virtuali su CD-ROM venivano distribuiti come prodotti indipendenti, oppure a corredo dei cataloghi cartacei, delle pubblicazioni periodiche o di opere enciclopediche. La sempre più larga diffusione di computer dotati di lettore CD-ROM rappresentò la condizione per il successo (sempre comunque limitato) di questo tipo di produzione.
Contestualmente, alcuni musei allestirono apposite sale nelle quali i visitatori potevano consultare la simulazione virtuale dell’allestimento. In un numero minore di casi (quasi mai nei musei d’arte) postazioni di computer vennero installate all’interno delle stesse sale espositive, per consentire l’esplorazione virtuale delle opere. In questa fase iniziale, le esperienze più interessanti e avanzate furono compiute non dai musei d’arte classica, bensì da quelli d’arte contemporanea (anche in conseguenza dell’impetuoso sviluppo del nuovo fenomeno dell’arte elettronica) e di archeologia. Le tecnologie digitali e, soprattutto, la modellizzazione tridimensionale consentivano di restituire fedelmente strutture architettoniche la cui fruizione risultava ardua a causa delle rilevanti dimensioni o per ragioni di conservazione (come le volte affrescate, le grandi tombe dell’antichità con importanti cicli pittorici, o ambienti ed edifici monumentali di struttura costruttiva complessa). Le nuove possibilità di rappresentazione virtuale furono accolte con ancora maggiore gradimento dai responsabili dei musei tecnico-scientifici, ai quali prospettavano inedite possibilità di analisi e di comunicazione delle collezioni di macchine e strumenti scientifici: smontare virtualmente dispositivi complessi, mostrarne il ciclo di funzionamento, ricostruirne gli ambienti operativi e così via. Nel contempo, quasi sempre al di fuori del mondo istituzionale dei musei, cominciò a prendere campo la produzione di una diversa tipologia di musei virtuali, che illustravano in maniera organica tematiche o aree disciplinari particolari (il museo virtuale di un determinato artista o movimento artistico, quello della fisica nucleare, dell’astronomia, della fotografia ecc.), prescindendo programmaticamente dai musei reali.
Il processo di riflessione critica
Accanto a un’intensa produzione di musei virtuali concepiti secondo i paradigmi sopra illustrati, i nuovi scenari aperti dalle tecnologie dell’informazione stimolarono l’avvio di un processo di riflessione destinato a mettere in discussione la concezione del museo virtuale fino ad allora dominante: quella di ‘clone digitale’ del museo reale. Le dinamiche di questo processo possono essere colte nello sforzo compiuto in quegli anni di mettere a punto una definizione capace di cogliere le caratteristiche distintive di questa nuova entità. Le prime proposte di definizione di museo virtuale ne sottolineavano l’aderenza speculare al museo reale, rispetto al quale non presentava specifiche caratterizzazioni (eccetto quella della sua dimensione immateriale), né spazi di autonomia. Da questo tipo di visione traeva ispirazione la fortunata definizione di museo virtuale elaborata nel 1996 da Geoffrey Lewis: «Una collezione di immagini digitali, file sonori, documenti testuali e altri dati di interesse storico, scientifico o culturale ai quali si può accedere per mezzo di media elettronici. Un museo virtuale non ospita oggetti reali e quindi è privo della dimensione materiale e delle caratteristiche peculiari di un museo nel senso tradizionale del termine» (http://www.britannica.com/EBcheched/topic/630177/virtual-museum, 9 febbr. 2010).
Quello che colpisce in questa definizione è che non vi si trova alcun riferimento alla molteplicità di ordinamenti diversi che gli oggetti possono assumere nel museo virtuale, prospettando numerose modalità di fruizione ai suoi utenti, rispetto alla fissità dell’allestimento di quello reale. La definizione di Lewis sottolinea, inoltre, il carattere puramente subalterno del museo virtuale: prodotto derivato riproducibile all’infinito e popolato da oggetti volatili, immateriali, privi di persistenza e di unicità. Mette conto ricordare che, contestualmente, il mondo delle biblioteche veniva esibendo un’evoluzione analoga, con il sempre più marcato impegno nella costruzione di biblioteche virtuali (o digitali) consistenti nel riversamento su supporto informatico dei cataloghi delle singole raccolte librarie. La differenza sostanziale tra le applicazioni proposte dalle biblioteche e quelle elaborate dai musei risiedeva nell’adozione, da parte delle prime, di standard di descrizione comuni.
La tendenza diffusa a trasferire direttamente nella dimensione digitale la frammentazione del patrimonio culturale proprio del mondo reale, riproducendone rigorosamente la segmentazione in musei, biblioteche e archivi, ha cominciato ad apparire una soluzione parziale e insoddisfacente a partire dall’inizio degli anni Novanta del 20° secolo. Un numero crescente di studiosi di formazione umanistica, attratti dalle promettenti opportunità di documentazione, di ricerca e di diffusione della cultura offerte dagli strumenti informatici e impegnati nella loro concreta sperimentazione, avviarono un processo di riflessione critica sul modo più proficuo di intendere natura, significato e funzioni del museo e della biblioteca virtuali. Tra le loro maggiori preoccupazioni vi era l’esigenza di rimettere al centro delle attività del museo la funzione educativa, minacciata dalle sempre più forti pressioni ad adeguarsi alle aspettative del turismo di massa e dell’economia della cultura.
Questa riflessione critica traeva inoltre alimento dalla consapevolezza dell’occasionalità dei processi storici che hanno portato alla formazione della frastagliata ‘galassia musei’ del mondo contemporaneo. Si giovava infine dell’analisi attenta delle ragioni che hanno progressivamente determinato e legittimato la compartimentazione del patrimonio culturale in poli di conservazione e fruizione (musei, biblioteche e archivi), rigidamente distinti secondo la natura e la tipologia dei documenti conservati.
I protagonisti di quelle riflessioni sottolinearono come quella ‘galassia’ non rappresentasse una categoria primigenia e immutabile, ma fosse semplicemente il risultato di un processo evolutivo lungo e non ripetitivo. Un processo interrotto quando, dalla metà dell’Ottocento, i musei furono, per così dire, ‘museificati’, assumendo quel carattere di fissità al quale con il tempo ci si è assuefatti, in quanto lo si riconosce istintivamente come inoppugnabile e immodificabile.
Si fa tuttavia molta fatica ad accettare che i musei debbano restare estranei all’evoluzione, soprattutto quando si osserva il continuo mutare delle loro funzioni, in relazione al cambiamento dell’atteggiamento del pubblico, delle trasformazioni culturali e delle aspettative sociali. I musei sono organismi programmaticamente mutevoli, ai quali continue trasformazioni sul piano concettuale impongono riadattamenti e ristrutturazioni materiali: si devono conservare le opere e i documenti, non le strutture murarie, le logiche e i presupposti culturali in base ai quali quelle opere furono a un certo punto inserite in determinate sequenze espositive. La funzione e l’organizzazione dei musei non possono restare vincolati a una determinata fase evolutiva, né possono rispettare per sempre la visione e le motivazioni del progetto originario. Quando ciò avviene si produce inevitabilmente l’estraniazione della collezione dai risultati della ricerca storica più avanzata e, contestualmente, la perdita della capacità di dialogare con il pubblico.
Quando si guarda alla storia dei musei si osserva un processo di continua revisione dei presupposti intellettuali e delle finalità, che impone un ripensamento talvolta radicale degli allestimenti. Basterà ricordare la distanza abissale dell’attuale concezione e configurazione materiale dei musei rispetto alle finalità e all’organizzazione delle collezioni signorili e principesche del Rinascimento. Quelle collezioni, alle quali vengono di solito fatte risalire le origini del museo nel mondo occidentale, erano, com’è noto, espressione di una larghissima varietà di interessi e presentavano, di conseguenza, una notevole promiscuità di reperti: meraviglie dell’arte e della natura, dipinti, disegni, libri e manoscritti, ma anche reliquie, strumenti scientifici, modelli di macchine e di architetture, raccolte di minerali, orti secchi, animali impagliati, resti archeologici e così via. La collezione rispecchiava l’identità e le aspettative del collezionista: era insieme evocativo ‘studiolo’ e camera di risonanza di ambizioni autocontemplate e interessatamente esibite a un pubblico molto selezionato, al di fuori di ogni preoccupazione informativa e didattica.
Questo carattere costitutivo subì progressive modifiche che, soprattutto in seguito a profonde rielaborazioni concettuali proprie dell’età dell’Illuminismo, produssero una radicale ristrutturazione della missione dei musei. L’affacciarsi di nuove esigenze educative sempre più pressanti accelerò la trasformazione del museo, spingendo le collezioni promiscue delle Wunderkammern verso la specializzazione. Ebbero così origine, da un lato, i primi musei della scienza e della tecnica, depositi di reperti storici memorabili, centri di ricerca e di formazione e, insieme, ‘templi’ evocativi della razionalità scientifica, considerata come strumento fondamentale per il riscatto e per il progresso dell’umanità. Dall’altro, vennero formandosi i primi musei d’arte, collezioni di opere ‘belle’, capaci, proprio perché belle, di educare al buongusto e di elevare la qualità morale dei soggetti che le ammiravano.
La nuova separazione tra collezioni d’arte e di scienze costituiva il primo sintomo di un processo di specializzazione che verrà intensificandosi nel corso dell’Ottocento. I musei della scienza finirono per articolarsi in raccolte distinte di reperti afferenti alle scienze fisico-matematiche da un lato, e alle discipline naturalistiche dall’altro, mentre le testimonianze delle tecniche (soprattutto in conseguenza delle Esposizioni universali, avviate dal 1851) reclamarono presto la propria specificità anche sul piano museale. Lo stesso vale per le scienze mediche e per le collezioni etnoantropologiche che vennero successivamente organizzandosi in raccolte museali speciali.
La medesima tendenza si manifestò in tutta Europa nel settore delle collezioni d’arte con la creazione di musei specializzati nella pittura, nella scultura e nelle arti minori. Le grandi istituzioni europee che conservarono un patrimonio artistico promiscuo (ma non più anche tecnico-scientifico e naturalistico) mostrarono comunque di accettare le logiche della specializzazione, organizzandosi in dipartimenti, ognuno responsabile della custodia ed esposizione di un diverso genere artistico (pittura, scultura, disegni e incisioni, arti minori, antichità ecc.).
Il processo di specializzazione dei musei, al quale si è schematicamente accennato, non ha favorito il conseguimento di quella che va considerata – accanto alla conservazione del patrimonio – la missione fondamentale di questo tipo di istituzioni: la produzione e la diffusione della cultura. L’esposizione di una pinacoteca si configura solitamente come una successione di dipinti (per sequenza cronologica e/o per scuole, oppure una combinazione dei due criteri). Per ognuno dei singoli dipinti al visitatore vengono fornite informazioni essenziali, che, in genere, si limitano a registrare il nome dell’autore (con gli estremi di nascita e di morte), il titolo, la tecnica impiegata e la data di esecuzione. Qualche ulteriore informazione sullo stile e sul contesto può inoltre essere attinta – ove sia presente – dal pannello di sala, che si sforza di illustrare e contestualizzare l’attività dell’artista e/o della scuola alla quale appartiene.
È evidente che questo tipo di comunicazione comporta seri limiti non tanto sul piano quantitativo (scarsità di dati), quanto su quello qualitativo. Anzitutto, la pinacoteca in questione possiederà inevitabilmente solo alcuni degli esempi significativi del lavoro di un singolo artista e della scuola alla quale può essere assegnato, registrando lacune talvolta vistose di tendenze o di fasi cronologiche che precludono al visitatore la possibilità di ricognizioni organiche. Inoltre, l’esposizione di una pinacoteca suggerisce l’attività pittorica come un’espressione speciale e assolutamente autonoma della creatività, sostanzialmente impermeabile cioè alle interpolazioni con altri ambiti dell’attività artistica e culturale. Ma la realtà è ben diversa. Ogni prodotto artistico di qualità è infatti collegato a tutta una serie di documenti che illuminano il processo concettuale e grafico dal quale derivano l’invenzione e la composizione; un processo nel quale interferiscono in diversa maniera concezioni filosofiche, religiose, politiche, scientifiche ecc., oltre, naturalmente, ai condizionamenti del contesto storico. Inoltre, il dipinto raffigura spesso oggetti dei quali ci sono pervenuti i manufatti originali, conservati fuori dal perimetro della nostra pinacoteca, allude alle azioni o alle aspettative di un committente, raffigura eventi o personaggi storici, momenti o temi di vita religiosa, miti della classicità oppure visualizza episodi narrati in importanti testi letterari.
Amputato di questo corredo di informazioni e di conoscenze, il dipinto in questione finisce per essere apprezzato solo per l’emozione generata dalla sua qualità estetica, che è certamente un valore aggiunto non riducibile alla somma dei dati informativi sopraelencati, ma che rimane tuttavia estrinseco alla complessità del processo creativo dell’artista.
Non sembra necessario sottolineare ulteriormente i limiti di una fruizione delle collezioni museali fondata sull’ispezione di una serie di oggetti-atomi, ognuno chiuso in sé stesso, invece che letti come ‘nodi’ di reticoli storici e concettuali complessi. Sarà opportuno richiamare, a questo proposito, il perentorio avvertimento di Roberto Longhi contro l’assolutizzazione contemplativa delle opere d’arte: «l’opera d’arte è sempre un lavoro squisitamente relativo [...] l’opera non sta da sola; è sempre un rapporto [...] un’opera sola al mondo non sarebbe neppure intesa come produzione umana, ma guardata con reverenza o con orrore, come magia, come tabù» (Proposta per una critica d’arte, «Paragone», 1950, 1, p. 16). Non è un caso che, negli ultimi decenni, le mostre temporanee, che ricompongono il patrimonio decontestualizzato nei musei, abbiano assunto una frequenza intensa, richiamando l’attenzione di un pubblico sempre più vasto.
Nuovi scenari
Da questo processo di riflessione è scaturita la consapevolezza del fondamentale contributo offerto dalle tecnologie informatiche nel superare quelle logiche che avevano generato la frammentazione del patrimonio culturale e la sua distinzione in strutture di conservazione diverse e irrelate secondo le varie tipologie dei documenti. Un nuovo eccitante scenario si è andato prospettando. Liberati dalle preoccupazioni di tutela che ostacolano le strategie di comunicazione del museo tradizionale (una volta digitalizzato, l’oggetto reale può essere manipolato liberamente senza preoccupazioni per la sua conservazione materiale), è diventato possibile reinserire gli oggetti del museo nei contesti di riferimento. Un’operazione di fondamentale importanza, che permette di restituire evidenza ai legami tra l’oggetto museale e i documenti e gli elementi conoscitivi (indipendentemente dalla loro composizione materiale e dalla loro collocazione) capaci di restituirgli significato: collegarlo alla biografia del suo autore, spiegarne la tecnica esecutiva e la composizione, la storia, le motivazioni del committente, mostrando contestualmente i documenti collegati alla sua genesi e fortuna, i disegni preparatori, i modelli e le derivazioni. D’altra parte, l’utente non è costretto a subire passivamente questa ingente massa di informazioni. Può, viceversa, liberamente selezionare, oltre alla lingua, il livello e la durata della consultazione, seguire i percorsi suggeriti o formarsene di propri, ottenere ingrandimenti delle immagini e così via. Il museo virtuale così concepito offre all’utente molteplici modalità di fruizione, laddove nel museo reale è costretto a ‘subire’ l’organizzazione e la rigida sequenza di visita che i curatori hanno selezionato tra le molte opzioni plausibili che le opere esposte potrebbero consentire. Si potrebbe dire che mentre il museo reale propone al pubblico messaggi lineari e univoci trasmessi da sequenze di oggetti, decontestualizzati, il museo virtuale mette l’utente al centro del processo di apprendimento, trasformando gli oggetti in fulcri di processi narrativi dotati di forte capacità di coinvolgimento grazie all’utilizzo di diversi media. La costruzione di un museo virtuale, popolato dalle rappresentazioni digitali integrate di tutte le tipologie di patrimonio collegate da legami semantici, obbliga, per così dire, a ripercorrere all’inverso il corso degli eventi storici che hanno segnato il processo di progressiva separazione e specializzazione dei beni culturali. I nuovi mezzi, d’altra parte, oltre al pregio della duttilità, prospettano anche quello della compattezza: questo complesso di informazioni, di immagini e di opzioni è infatti contenuto in uno spazio di molto inferiore a quello occupato da un pannello di sala, rispetto al quale presenta anche il vantaggio non trascurabile che i dati possono esservi continuamente integrati e modificati.
Questa fase di riflessione ha prodotto conseguenze importanti nella concezione della natura e dei fini del museo virtuale. L’idea che questa nuova entità dovesse essere intesa come il ‘clone digitale’ dei musei reali (lo stesso vale per la concezione di biblioteche digitali e archivi digitali) è apparsa incapace di far cogliere le nuove grandi opportunità offerte dalle tecnologie informatiche per la valorizzazione del patrimonio. Si è così venuta progressivamente affermando la convinzione che il modo più proficuo e corretto di costruire il museo virtuale sia quello di concepirlo come un prodotto capace di ignorare le barriere architettoniche che isolano questo o quel nucleo di patrimonio da tutti gli elementi in grado di illuminarne il significato, favorendo una fruizione completamente diversa da quella possibile nel contesto del museo reale.
La visione del museo virtuale come ricomposizione di nuclei di patrimonio concettualmente o storicamente inerenti, indipendentemente dal supporto materiale sul quale sono registrati e del luogo nel quale sono conservati, ha tuttavia trovato scarsa applicazione nella concreta produzione di prodotti digitali. Il modello tradizionale del museo virtuale come clone digitale di quello reale ha mostrato forte tenuta, probabilmente anche a causa dell’inerzia derivante dalla divisione delle strutture che gestiscono il patrimonio nel mondo reale in dipartimenti corrispondenti alle varie tipologie dei beni, dalla netta divisione del lavoro e dalla forte specializzazione delle competenze professionali che vi operano (bibliotecari, curatori di musei, archivisti ecc.) e, infine, dalla netta separazione delle responsabilità amministrative (in Italia, per es., il MiBAC – Ministero per i Beni e le Attività Culturali – è articolato in Direzioni generali che si occupano – generalmente senza programmatiche funzioni di coordinamento – rispettivamente dei musei, delle biblioteche e degli archivi). Il sistema di competenze e i modelli organizzativi affermatisi nella gestione del patrimonio nel mondo reale hanno in definitiva esercitato, e tuttora esercitano, una forte resistenza alla transizione del sistema cultura e beni culturali nella dimensione digitale.
La produzione di musei virtuali ha così seguitato a mantenersi rigorosamente aderente alla concezione e alle strategie didattico-espositive tradizionali del museo: ne rispetta l’organizzazione fisica, riproducendone il carattere di tempio-fortezza ‘chiuso’, dove ogni opera appare come microcosmo perfettamente risolto e non come momento dell’esperienza complessiva di un autore, di un periodo storico o di un movimento culturale. Nel nuovo supporto vengono ‘clonati’ i codici tradizionali della comunicazione museale. I percorsi che si invita a compiere sono solo interni. Debordamenti o fuoriuscite dal patrimonio conservato nell’edificio del museo reale non sono consentiti. Lo stesso vale per i legami e per i collegamenti proposti: tutti interni al genere e alla disciplina alla quale l’opera esaminata va riferita. Ulteriori aspetti mostrano il carattere limitato e passivo di questa produzione. Troppo spesso essa si configura infatti come la traduzione su supporto digitale di libri e cataloghi a stampa dei quali si riciclano nel nuovo mezzo la struttura, le immagini e i testi, rinunciando a sfruttare le straordinarie potenzialità offerte dall’ipertestualità e dalla multimedialità.
L’avvento di Internet
Mentre procedeva intensa la sperimentazione degli strumenti informatici per la valorizzazione del patrimonio culturale e si sviluppava la discussione sui metodi più efficaci per sfruttarne appieno il potenziale innovativo, l’affermazione di Internet, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha prodotto un nuovo radicale cambiamento di scenario, costringendo a ripensare i modelli concettuali e la struttura stessa dei prodotti digitali. Affermazione rapidissima, peraltro, se confrontata a quella dei media innovativi del passato più recente. Basti pensare che la radio e la televisione hanno impiegato rispettivamente 38 e 43 anni per raggiungere i 50 milioni di utenti, traguardo che Internet ha superato in meno di cinque anni. Internet ha rappresentato una rivoluzione senza precedenti anche nel campo della cultura e dei beni culturali, in generale, e delle strategie di comunicazione e di accesso ai musei, in particolare.
Il passaggio dall’archiviazione/pubblicazione su nastro o disco rigido a Internet ha rappresentato una trasformazione ancora più epocale di quella dalla carta stampata al CD-ROM. Ha inoltre prospettato una serie di problemi, assolutamente inediti, con i quali stiamo ancora facendo i conti per riuscire a capire fino in fondo con quale logica vada affrontata la rete in modo da sfruttarne al meglio l’enorme potenziale innovativo, soprattutto sul piano della connettività (che diventa adesso plurima e ubiqua) e della cosiddetta interoperabilità dei contenuti (la possibilità, cioè, di compiere ricerche trasversali sulla base di dati prodotti e pubblicati da soggetti diversi). Per quanto attiene a quest’ultimo problema, è diventata cruciale l’adozione di standard condivisi, presupposto essenziale perché risorse generate da soggetti diversi risultino consultabili in maniera integrata dagli utenti della rete. Prima dell’avvento di Internet, infatti, il problema degli standard rivestiva importanza marginale, poiché i singoli prodotti digitali erano chiusi e irrelati.
Internet ha anche posto l’esigenza di una revisione profonda del concetto di copyright e delle norme che ne disciplinano l’attuazione, in modo da trovare un equilibrio accettabile tra la necessità di proteggere la proprietà intellettuale e quella di garantire il diritto di accesso all’informazione. Problemi delicatissimi e inediti sono emersi anche per quanto attiene la conservazione delle memorie digitali pubblicate in rete.
Accanto a queste sfide complesse, altri pilastri solidissimi della produzione e del consumo tradizionale di cultura hanno manifestato improvvisamente lesioni preoccupanti. Assetti e procedure di produzione e diffusione delle conoscenze consolidati da secoli, seriamente scalfiti ma non completamente messi fuori gioco dalla prima rivoluzione digitale (quella dei nastri magnetici e dei CD-ROM), hanno improvvisamente mostrato forte instabilità. Mentre su scala planetaria si veniva compiendo uno sforzo enorme per convertire in formato digitale gli immensi giacimenti di beni e risorse culturali ereditati dal passato, il violento impatto del web ha costretto a intraprendere un’opera di radicale ridefinizione dei metodi e dei paradigmi fondamentali di riferimento per la produzione e per il consumo di cultura. Come si è visto, il processo di conversione digitale delle memorie era stato concepito e attuato come un programma di graduale digitalizzazione delle collezioni nelle quali il patrimonio è articolato nel mondo reale, dando così vita ad archivi chiusi e irrelati, speculari alla stratificazione delle collezioni nelle istituzioni storiche dei beni culturali. L’affermazione del web, con la sua straordinaria flessibilità e con la sua programmatica delocalizzazione e illimitata connettività, ha reso lampanti i limiti di quell’approccio. La pubblicazione in rete di un qualsiasi museo virtuale doveva fare i conti con l’esigenza essenziale della ricercabilità fine dei contenuti e, soprattutto, dell’interoperabilità con tutte le altre informazioni congeneri accessibili via web.
Le implicazioni del nuovo mutamento di scenario prodotto dal web hanno suscitato vivaci discussioni anche sulla natura e sulle finalità del museo virtuale nella sua dimensione on-line. Danno un’idea della partecipazione globale al dibattito sul museo virtuale on-line e della varietà di approcci e di proposte scaturite da queste discussioni i numerosissimi contributi pubblicati, a partire dal 1997, nella serie annuale delle conferenze Museums and the web, gran parte dei quali accessibili on-line (www.archimuse.com). La cadenza annuale e la sequenza decennale di questa importante iniziativa di riflessione e di scambio di esperienze professionali permettono di seguire l’evoluzione non lineare delle molteplici modalità con le quali operatori e studiosi sono venuti misurandosi con l’inedita dimensione del web, sforzandosi di ricalibrare il tiro per rispondere alle esigenze del nuovo significativo segmento di utenza rappresentato dai visitatori remoti.
La biblioteca digitale
Un riscontro eloquente di questo processo è offerto dall’introduzione della nuova etichetta biblioteca digitale, ormai divenuta di uso universale. La riflessione su che cosa si debba intendere con questa espressione ha contribuito a far crescere la consapevolezza che nella rappresentazione e riclassificazione del patrimonio culturale (nella sua più vasta accezione) nella rete assumono ancora maggiore forza le ragioni che suggeriscono di abbandonare le rigide compartimentazioni istituzionali del mondo reale (biblioteche, musei, archivi, parchi archeologici ecc., con le loro molteplici sottoarticolazioni). Attraverso un processo non lineare – peraltro ancora oggi tutt’altro che universalmente assimilato – è venuto infatti faticosamente imponendosi un concetto di biblioteca digitale strutturalmente diverso da quello assegnato all’espressione al momento della sua introduzione negli anni Ottanta del 20° sec.: non più rappresentazione digitale di questa o quella biblioteca reale, ma repository di una varietà di risorse culturali che nel mondo reale sono registrate su diversi supporti materiali, e conservate in contenitori diversi per luogo e tipologia. La nuova concezione della biblioteca digitale on-line come deposito ‘ibrido’, semanticamente strutturato, programmaticamente diverso per risorse e funzioni da ogni istituzione o collezione del mondo reale, rappresenta un cambio di prospettiva epocale che impone notevoli trasformazioni nell’organizzazione del lavoro e nei metodi di produzione e diffusione delle informazioni all’interno del sistema dei beni culturali. Dal nostro punto di vista, è importante sottolineare come essa inglobi interamente i contenuti e le funzioni ai quali faceva riferimento l’etichetta di museo virtuale nel significato più avanzato che aveva assunto prima dell’affermazione del web. Nel nuovo scenario della rete insomma il museo virtuale sembra tendere a dissolversi nella biblioteca digitale.
Quando è finalmente cominciata a emergere la consapevolezza che il rilevante vantaggio specifico offerto dal web era di rendere possibile l’esplorazione trasversale di tutte le risorse pubblicate on-line, si è iniziato ad adottare standard di descrizione comuni, in modo da consentire l’interoperabilità tra i diversi archivi digitali accessibili via Internet. Questa strategia di integrazione ex post ha prodotto risultati solo parzialmente soddisfacenti, di nuovo a causa dell’inerzia delle procedure tradizionali: l’esitazione ad allineare i diversi sistemi di descrizione dei documenti adottati nei vari comparti nei quali si articola il sistema beni culturali.
Se va salutato come un fatto estremamente positivo il processo di integrazione delle risorse sul web che si viene compiendo mediante l’adozione di standard condivisi, è opportuno tuttavia ribadire che la biblioteca digitale on-line non va concepita esclusivamente come il risultato dell’integrazione ex post di nuclei di risorse corrispondenti alle collezioni materialmente esistenti. Esattamente come il museo virtuale on-line, essa può e deve essere progettata ex ante come una struttura programmaticamente diversa dalla configurazione che il patrimonio è venuto assumendo storicamente: un repository di rappresentazioni digitali di oggetti di tipologia, struttura e collocazione materiale diverse, aggregati sulla base delle relazioni che li collegano; un repository il cui valore aggiunto è costituito dalla rete delle relazioni che legano i dati archiviati e dalla possibilità di compiere ricerche non solo per parole, ma anche e soprattutto per concetti. Il carattere distintivo di questo inedito tipo di biblioteca non è la semplice descrizione delle caratteristiche fisiche dei contenuti, ma la loro marcatura semantica, attuata attraverso la costruzione di una fitta trama di link tra le informazioni. Libri, opere d’arte, documenti, reperti archeologici, oggetti nati digitali ecc. cessano di essere entità isolate, trasformandosi in nodi di una rete di significati aperta e continuamente aggiornabile. Nei nuovi repositories digitali infatti gli schemi di classificazione non presentano articolazioni rigide e chiuse, come nei cataloghi delle biblioteche, degli archivi e dei musei reali. Il medesimo oggetto può essere assegnato a molteplici ‘classi’, dall’assetto ‘ibrido’ e continuamente variabile.
In questa nuova dimensione tende a sfumare un’altra delle nette distinzioni professionali che caratterizzano il sistema cultura del mondo reale: quella tra responsabili della descrizione/documentazione, da un lato, e studiosi e ricercatori, dall’altro. Questi ultimi recitano un ruolo fondamentale sia nella progettazione sia nell’implementazione e aggiornamento continuo della biblioteca digitale e del museo virtuale, grazie all’apporto essenziale che recano, evidenziando le connessioni concettuali tra i dati. Correttamente intesi e nella piena espressione delle loro potenzialità, biblioteca digitale e museo virtuale on-line presentano insomma finalità, funzioni e servizi che hanno poco o niente in comune con le attività, l’organizzazione e le prestazioni delle biblioteche, degli archivi e dei musei del mondo reale.
Sono tuttavia ancora rari in rete gli esempi di questo tipo di costruzioni digitali. Per rendersene conto, basta fermare lo sguardo sui musei virtuali che vengono sempre più densamente popolando il web. Essi appaiono quasi sempre parenti stretti dei musei ‘in carne e ossa’ nei cui siti web vengono pubblicati. D’altra parte, l’espressione biblioteca digitale viene ancora prevalentemente usata per indicare risorse digitali formate esclusivamente da libri a stampa o manoscritti. Un’infinità di cantieri sulla scena internazionale sta lavorando all’edificazione di questo modello limitativo di biblioteca digitale on-line. Contemporaneamente, altri numerosi cantieri, in totale estraneità con quelli sopra menzionati, sono impegnati a erigere cloni digitali dei musei reali, ognuno rigorosamente chiuso in sé stesso. Analogo orientamento caratterizza la transizione nel web delle collezioni archivistiche.
Museo virtuale e web interattivo
A rendere ancora più problematica la transizione al digitale, è emersa negli ultimi anni una serie di nuove modalità di utilizzazione e di accesso alla rete che stanno trasmettendo ulteriori scosse destabilizzanti ai metodi tradizionali di produzione e di diffusione della cultura. A partire dai primi anni del 21° sec., lo scenario è cambiato nuovamente in modo radicale con l’affacciarsi sempre più invasivo del cosiddetto web 2.0, il web interattivo. Il web 2.0 – vera rivoluzione nella rivoluzione – ha rovesciato l’impostazione top-down caratteristica della prima fase della rete (con i consumatori costretti a un ruolo puramente passivo), prospettando agli utenti l’inedita possibilità di interagire con i contenuti accessibili in rete. Lo sviluppo e la vasta diffusione di software open-source di interazione e di interscambio a livello di comunità hanno prodotto e stanno tuttora producendo una rilevante serie di trasformazioni, con implicazioni tutt’altro che marginali sul piano culturale, sociale e anche economico, delle quali non si è ancora percepita con chiarezza la misura. I metodi tradizionali di produzione culturale sono stati così chiamati a fronteggiare una nuova sfida, la cui portata rivoluzionaria può essere emblematicamente rappresentata dalla costruzione collettiva ‘dal basso’ di opere culturali on-line di larghissimo consumo e di sistemi collegiali di produzione e valutazione di istituzioni culturali e dei beni culturali, libri, eventi, film, brani musicali ecc., da parte degli utenti della rete. Il web interattivo produce un impatto violento anche sulla concezione, sulle pratiche realizzative e sulle strategie di comunicazione del museo virtuale on-line.
Si sta assistendo a un dibattito vivacissimo sulla valutazione da dare al nuovo fenomeno del web interattivo: una massa sempre più numerosa di utenti interferisce con i contenuti consultati, vi appone commenti, forma nuovi archivi con metodi di bricolage, stabilendo link tra i dati disseminati in rete. Tale dibattito è animato da visioni contrastanti: la preoccupazione per l’‘inquinamento’ della qualità dell’informazione a causa dell’interferenza di soggetti non accreditati, da un lato; l’esaltazione del valore sociale della partecipazione collettiva alla creazione dei contenuti, secondo il fortunato modello delle network communities che alimentano il fenomeno debordante dei blog, dall’altro.
I blog si sono manifestati finora soprattutto come espressione di una nuova forma di aggregazione sociale tra i giovani. Le network communities prospettano, d’altra parte, la visione utopica di una produzione della cultura mediante processi bottom-up, della quale offrono un modello emblematico l’enciclopedia collettiva Wikipedia e il proliferare in rete di iniziative ispirate alla filosofia ‘wiki’. Se ben impiegato, il sistema delle network communities può favorire l’accesso integrato ai contenuti. Può inoltre contribuire a modificare la tradizionale estraniazione tra i produttori e classificatori delle conoscenze, da un lato, e i consumatori di risorse culturali, dall’altro. I link che questi ultimi stabiliscono tra i contenuti disseminati sul web possono infatti contribuire a soddisfare l’essenziale esigenza di integrazione semantica delle informazioni a cui non rispondono in modo soddisfacente gli attuali motori di ricerca. Viene così configurandosi un processo dinamico di marcatura collettiva dei documenti, che prospetta biblioteche digitali e musei virtuali dai confini instabili e soprattutto costituzionalmente diversi dai loro omologhi tradizionali. I link stabiliti dagli utenti tra le informazioni fanno costantemente aumentare l’intelligenza collettiva della rete. D’altra parte, la programmatica destrutturazione dei documenti che si verifica nei blog prefigura entità testuali interamente nuove, caratterizzate da un’autorialità indistintamente collegiale, come di nuovo mostrano eloquentemente le voci di Wikipedia. Gli entusiasti sostenitori del carattere rivoluzionario dell’interazione tra produttori e consumatori sottolineano come essa riesca a generare anche nuove modalità di classificazione dei contenuti. Nel web si assisterebbe al passaggio dalla taxonomy (ordinamento gerarchico stabilito centralmente sulla base dell’autorità scientifica), alla folksonomy (classificazione basata sulle preferenze espresse dagli utenti che interagiscono con i materiali consultati).
Ovviamente, come in ogni accelerato processo di globalizzazione, è difficile evitare il rischio di operazioni condizionate da interessi economici, politici e pubblicitari; peraltro in questi nuovi scenari della comunicazione, aperti a ogni tipo di intervento, manca spesso ogni controllo relativo alla veridicità delle fonti di informazione. Per questo le forme di collaborazione che si stabiliscono all’interno delle communities, solo se formate da utenti competenti o da istituzioni scientifiche e se basate sull’uso di standard condivisi, possono contribuire a contrastare la generale tendenza a trasferire i contenuti culturali sul web in strutture chiuse e irrelate che emulano i diversi contenitori nei quali nel mondo reale sono conservati documenti, libri e manoscritti, reperti naturali, manufatti d’arte e di scienza.
La situazione attuale vede l’universo del web popolato da un numero significativo di esempi di musei virtuali che offrono agli utenti modalità di interazione, a livelli diversi, con i contenuti. Si tratta di una fase di sperimentazione di estremo interesse della quale è difficile cogliere le linee di tendenza prevalenti. Appare comunque evidente che queste nuove modalità di accesso incontrano il gradimento soprattutto del pubblico delle ultime generazioni. Altrettanto chiaro risulta che la possibilità di interagire con i contenuti pubblicati rappresenta una caratteristica alla quale il museo virtuale on-line dell’immediato futuro dovrà necessariamente adeguarsi.
Modalità ancora più spinte e immersive di museo virtuale on-line si stanno contestualmente diffondendo. La più fortunata – di nuovo largamente frequentata soprattutto dal pubblico giovanile – è rappresentata dalla costruzione di esposizioni e/o veri e propri musei virtuali in Second life, la piattaforma per applicazioni di realtà virtuale disponibile dal 2003. Un numero crescente di musei, soprattutto nel continente nordamericano, viene sperimentando applicazioni in questo ambiente. Second life consente di usare il web, tradizionalmente caratterizzato da un accesso individuale all’informazione, per costruire livelli di realtà virtuale nei quali è possibile compiere in diretta esperienze immersive di comunità. Su questa piattaforma si può costruire un museo virtuale che presenta caratteristiche completamente diverse da quelle in precedenza descritte. Il museo virtuale di Second life (che può corrispondere o meno a un’esposizione realmente esistente) consente infatti un tipo di connettività che non ha precedenti: l’interazione simultanea con gli oggetti esposti di un gruppo di avatar (azionati a distanza da persone reali che vivono in parti diverse del mondo) che possono dialogare tra di loro in diretta e interagire liberamente con lo scenario nel quale sono immersi. Gli avatar che visitano il museo virtuale di Second life possono cambiare i sistemi di illuminazione, commentare tra di loro gli allestimenti e decidere di modificarli, cambiare il colore degli oggetti, scrivere nuovi testi esplicativi e così via. A loro volta, i creatori (curatori?) del museo virtuale di Second life hanno la possibilità di osservare in diretta il comportamento della comunità di visitatori, traendone molte indicazioni utili per le strategie di marketing. Possono inoltre decidere a piacimento di unirsi a loro come avatar esperti, assistendoli nella visita, rispondendo alle loro domande e così via.
Occorre prendere atto che il web presenta – non solo per la concezione e per le strategie di comunicazione dei musei – implicazioni di carattere addirittura più rivoluzionario di quelle prodotte dall’invenzione della stampa. Quell’evento epocale ha cambiato radicalmente le tecniche di produzione dei testi scritti e illustrati e, soprattutto, la scala della loro diffusione. Tuttavia non ha alterato strutturalmente i modelli di espressione delle idee e non ha modificato sostanzialmente i sistemi di classificazione delle informazioni, né il rapporto tra autori, lettori e utilizzatori delle conoscenze. Pur avendo prodotto enormi trasformazioni sul piano culturale, economico e sociale, la civiltà del libro può essere considerata come lo sviluppo linearmente evolutivo di quella dei papiri, delle pergamene e dei manoscritti. Il paradigma del cambiamento nella continuità non può essere viceversa applicato per rappresentare il rapporto fra la civiltà del libro e quella del web.
Per quanto riguarda il museo virtuale nell’epoca del web interattivo, esso tende a distinguersi ancora più marcatamente dal fortunato modello del clone digitale di un determinato museo, configurandosi come una federazione di oggetti dislocati nei luoghi più diversi del cyberspazio che viene ricostruito dinamicamente on demand a ogni ricerca di qualsiasi utente. Una configurazione dall’assetto instabile sia per le modalità di accesso sia per gli aggiornamenti introdotti dai responsabili e/o per gli apporti derivanti dall’interazione degli utenti. È in realtà una gigantesca rete di relazioni che abbraccia dati (immagini, testi, suoni, ricostruzioni digitali ecc.) prodotti e pubblicati da un’infinità di soggetti diversi con finalità indipendenti. Un universo in movimento, vagamente inquietante perché immateriale, delocalizzato, promiscuo e sfuggente. È questo il museo virtuale dei nostri giorni: instabile, componibile, interoperabile, ubiquamente accessibile, a volte incerto nei suoi fondamenti e controlli scientifici.
Davanti a questo scenario in continua evoluzione la definizione fornita da Lewis nel 1996 mostra tutta la sua inadeguatezza, consentendoci di percepire la forte mutazione subita in pochissimi anni dal museo virtuale. Se si dovesse tentare di fornire oggi una definizione, necessariamente provvisoria, di questo oggetto continuamente mutante si dovrebbe probabilmente fare fulcro sul concetto multipolare e multidimensionale di connettività. Si potrebbe affermare che il museo virtuale on-line è un insieme strutturato di risorse pubblicate da una molteplicità di soggetti diversi. Queste risorse consistono nelle rappresentazioni digitali, realizzate con media diversi, di una varietà di oggetti, compresi quelli ‘nati digitali’, che nel mondo reale sono nettamente distinti per localizzazione, tipologia e supporto materiale. Questo insieme è integrato e ricercabile nella sua totalità con sistemi di interrogazione testuali e/o semantici. Consente agli utenti di organizzare liberamente i percorsi di visita corrispondenti agli interessi e alle curiosità personali, di scaricare risorse, di ottenere una varietà di servizi (gratuitamente e/o a pagamento), di interagire con i contenuti apponendovi commenti, formulando domande e/o proposte di integrazione. È intrinsecamente connettivo, flessibile, dinamico (in continuo aggiornamento) e risulta programmaticamente diverso dai musei, dalle biblioteche o dagli archivi del mondo reale. I curatori di questo tipo di museo senza sale espositive e senza pareti devono disporre di professionalità tecniche, culturali, giuridiche e di economia dei servizi in grande misura diverse da quelle richieste per la gestione di musei, biblioteche, archivi del mondo reale. L’etica stessa che disciplina le relazioni con il pubblico risulta drammaticamente mutata: l’utente ha accesso diretto, non mediato, ai dati ed è stimolato a lasciare sulle rappresentazioni digitali delle opere l’impronta del suo passaggio e dei percorsi che ha seguito. Le regole stesse che disciplinano nel mondo reale la protezione dei diritti di proprietà intellettuale risultano impraticabili nel museo virtuale on-line. Infine, per quanto attiene alla conservazione nel tempo dei contenuti, il museo virtuale on-line, essendo formato da oggetti dinamici la cui classificazione e marcatura semantica vengono continuamente modificate, pone il problema di ardua soluzione di come garantire la conservazione delle configurazioni continuamente instabili e l’autenticità delle informazioni che questo repository presenta nelle sue diverse fasi evolutive (problema di cruciale importanza non solo per i documentaristi ma anche per gli studiosi, i quali rischiano di non poter più seguire le dinamiche che caratterizzano i processi storico-culturali).
Sarà opportuno sottolineare, in conclusione, che le nuove architetture digitali della conoscenza non tolgono affatto senso né limitano il valore delle attività svolte dalle istituzioni museali tradizionali. I musei che sono stati ereditati dal passato sopravviveranno e seguiteranno a garantire l’essenziale funzione di conservazione delle memorie e di stimolazione del pensiero, della creatività e delle emozioni. I musei virtuali presuppongono il patrimonio materiale e possono offrire, se ben impiegati, un contributo enorme alla sua valorizzazione e al rilancio in grande stile di quelle funzioni educative che i musei tradizionali hanno in larga misura smarrito.
Va dunque affermato con chiarezza che non ha senso alcuno contrapporre il museo virtuale on-line al museo reale, così come non ha senso domandarsi quale di queste due entità finirà per affermarsi. Le due dimensioni devono essere concepite come polarità integrate di un unico disegno. Per sfruttare appieno i benefici straordinari che possono derivare dalla programmatica alleanza tra museo reale e museo virtuale on-line, occorre tuttavia coglierne e accettarne le rispettive specificità e le diverse funzioni. Nell’epoca del web interattivo il museo virtuale on-line non può più essere concepito come un ambiente puramente emulativo, intangibile e chiuso. Il suo valore risiede nell’essere ciò che il museo reale non potrà mai costitutivamente essere: una dimensione di accesso ubiquo e permanente al patrimonio, senza rischi per la conservazione, caratterizzato da modularità e multipolarità della comunicazione e dell’informazione e da infinite possibilità di interazione, integrazione e personalizzazione, con la facoltà di erogare e attingere servizi di straordinario interesse e valore educativo nonché commerciale. Un oggetto ad assetto continuamente variabile, grazie anche all’arricchimento continuo della sua intelligenza collettiva prodotto dagli utenti. Una dimensione che consente di sperimentare sul complesso del patrimonio modalità di esperienze culturali e di interazione sociale impossibili nelle istituzioni del mondo reale.
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