Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La presenza della musica negli spettacoli dei comici, come canto, esecuzione strumentale o sostegno al ballo, è ampiamente attestata a partire dai primi contratti delle compagnie fino alle più tarde rappresentazioni dei comici italiani in Francia, quando la commedia si trova sempre più costretta a competere con la concorrenza del teatro musicale. La musica è di fatto già presente negli elementi costitutivi dello spettacolo dei comici che ne assorbe le tradizioni e il repertorio.
Il primo contratto a noi noto di costituzione di una compagnia comica (Padova, 1545) include tra i socii un musicista, Francesco da la Lira, mentre una ventina di anni più tardi (Genova, 1567) i firmatari di un simile contratto “per recitare insieme commedie” (insimul recitandi comedias), si impegnano a esercitare le proprie abilità, in particolare nel “suonare, cantare e ballare” (sonandi, cantandi, balandi).
L’esecuzione strumentale, il canto, il ballo sono elementi di spettacolo già radicati nella tradizione buffonesca (il celebre buffone veneziano Zuan Polo, è attore, musicista, acrobata, esperto nel “dire a l’improvisa” e nel “canto al previxo”) e fortemente integrati nel teatro rusticale di Ruzante e Andrea Calmo, entrambi abili cantori. Sono queste due delle componenti principali che confluiranno nello spettacolo dei comici dell’arte caratterizzandone soprattutto l’aspetto più propriamente comico, legato alle maschere di servi e vecchi.
L’altra grande componente della commedia, quella colta e letteraria che si manifesta nell’espressività aulica e concettosa delle parti degli innamorati, acquista un peso essenziale nell’economia dello spettacolo comico verso la metà degli anni Sessanta del XVI secolo con l’avvento delle attrici. Queste sono reclutate dalle compagnie più prestigiose nel novero delle cortigiane, delle meretrices honestae, più esperte di cultura amorosa che di vero e proprio meretricio, virtuose nella conversazione, nella recitazione all’improvviso, nel canto e nel ballo. È soprattutto attraverso di loro che la commedia allaccia i contatti più stretti con gli ambienti della cultura “alta”, con le più avanguardistiche esperienze letterarie, spettacolari e musicali.
Il doppio registro espressivo che si instaura tra la componente farsesca, popolare e dialettale delle maschere e quella aulica degli innamorati si riflette dunque anche a livello musicale. Schematizzando potremmo riassumerlo nell’uso di canzoni e arie popolari o buffonesche, villotte, giustiniane o villanelle dialettali, e di strumenti popolareschi quali il chitarrino, il colascione o la chitarra spagnola per le prime; nell’uso di più nobili canzonette, madrigali o arie, accompagnate sul liuto o la tiorba e spesso aggiornate alle tendenze musicali del mondo culturale aristocratico per le seconde.
Come altri elementi legati al carattere “improvvisativo” delle rappresentazioni dei comici, anche l’elemento musicale offre allo studioso una sensibile carenza documentaria. L’indeterminatezza informativa delle fonti drammaturgiche è il riflesso di una pratica teatrale basata sull’adattamento, sulla capacità di dare vita a uno scheletro drammatico grazie all’innesto del repertorio e del talento teatrale degli attori nella situazione concreta della rappresentazione. Pertanto non ha senso che il drammaturgo o il capocomico preveda nello scenario una determinata canzone quando l’attore ne avrà in repertorio altre, che ben padroneggia, che non dovrà perdere tempo a imparare e che possono adattarsi altrettanto bene al contesto drammatico. Saranno allora sufficienti delle indicazioni generiche.
Il repertorio musicale utilizzato nella commedia dell’arte non andrebbe quindi cercato negli scenari, ma piuttosto nel bagaglio musicale degli attori professionisti, se questi non fossero morti senza lasciarci che qualche brandello di memoria scritta a riguardo. Ma la musica non lascia tracce scritte anche per un altro motivo: essa è, il più delle volte, già conosciuta. I comici infatti utilizzano largamente un repertorio musicale di “pubblico dominio”, composto da canzoni popolari o di successo oppure “arie”, cioè schemi melodico-armonici adatti a intonare determinate forme metriche il cui testo poetico viene di volta in volta reinventato, talora improvvisando (questo è il senso del “canto all’improvviso”: non una improvvisazione musicale, ma l’improvvisazione di un testo poetico su un supporto musicale tradizionale).
Quando Angelo Costantini nella sua Vita di Scaramuccia (interpretato dal comico Tiberio Fiorilli) ne narra le donazioni testamentarie a beneficio del cerusico, fa dire al comico morente: “E ci aggiungo le mie canzoni, che in verità non hanno tutte notata la musica; ma voi, che siete un uomo di spirito, riuscirete certo a trovare le arie sulle quali le ho fatte”. In questo caso, non sta necessariamente burlando o fantasticando. Il senso della frase è plausibile: in base alla struttura metrica e ritmica dei testi poetici era possibile capire su quale delle arie utilizzate da Scaramuccia (e che il suo cerusico doveva conoscere davvero bene) essi fossero stati composti.
Vale la pena notare che il procedimento rovescia la prassi compositiva colta: non un’intonazione musicale costruita sulla base del testo, ma un testo formulato sulla struttura metrica di una melodia data. La notazione che Fiorilli poteva avere utilizzato per alcune sue arie è probabilmente una semplice notazione armonico-ritmica per l’accompagnamento sulla chitarra, simile a quella utilizzata nella stampa popolare riportata ne l’Infermità, testamento, e morte di Francesco Gabrielli detto Scappino.... Con l’intavolatura della Chitarriglia Spagnola, sue Lettere e Chiaccona (1638). Anche in questo caso le indicazioni per lo strumento vanno integrate dalla conoscenza mnemonica della melodia vocale e questo significa che, per noi, questi documenti restano purtroppo reticenti.
I primi (e quasi unici) scenari corredati da musiche compaiono in stampa a Parigi alla fine del XVII secolo per opera di Evaristo Gherardi. Essi si riferiscono ad allestimenti ormai sensibilmente francesizzati, quando lo spettacolo dei comici italiani comincia a snaturarsi, a irrigidirsi negli schemi amati dal pubblico francese, a raffinarsi e a comprendere elementi accessori che tendono a essere autonomi rispetto agli attori, mentre sempre più insistente diviene il bisogno di emulazione della scena operistica. Forte impronta operistica mostrano infatti le composizioni (tutte vocali) allegate, notate per voce e basso continuo. Questi scenari, pubblicati negli anni di assenza delle troupe italiane, cacciate da Parigi nel 1697, hanno il carattere di una testimonianza antologica, di tributo a una stagione conclusa.
“Scappino, il miglior zanni de’ nostri tempi, inventor de’ fantastici istrumenti e di canzonette ed arie gustevoli, è stato maestro di chitarra alla spagnuola del Re Cristianissimo, della Reina Regnante, di Madama Regina di Savoia, dell’Imperatrice mentr’era a Mantoa, e di tant’altri Principi e Principesse dellaFrancia, ed è sempre stato accettato tra’ Grandi come virtuoso, e non come buffone”. Con queste parole Nicolò Barbieri ricorda la figura di Francesco Gabrielli, detto Scapino, la cui celebrità è legata, oltre che alle sue qualità di attore, alla capacità di suonare innumerevoli strumenti alcuni dei quali sono ricordati nel citato Testamento di Scappino: violino, viola da gamba, viola, chitarra, arpa, bonaccordo, trombone, mandola, tiorba, liuto.
Una stampa di Carlo Biffi, certo con intenzione più celebrativa che documentaria, ritrae Francesco contornato da un numero ancora maggiore di strumenti. Purtroppo non sappiamo con esattezza come l’attore utilizzasse la sua abilità di polistrumentista sulla scena. Un anonimo sonetto ricorda come i “bei detti, arguti scherzi, e modi astuti” del suo repertorio da zanni “ temprò sovente in musico concento”. Sappiamo inoltre dell’esistenza di una commedia intitolata Gli strumenti di Scapino, evidentemente congeniata in modo da consentire all’attore lo sfoggio di questa sua straordinaria abilità.
Sebbene quello di Scapino sia il caso più eclatante, la capacità di cantare, come di ballare e a volte di suonare strumenti risulta parte integrante del bagaglio professionale di molti comici. Basta affidarsi alle testimonianze iconografiche per scoprire una numerosa teoria di attori secenteschi, tra cui i celebri Carlo Cantù (Buffetto), il già ricordato Tiberio Fiorilli (Scaramuccia), Giovanni Gherardi (Flautino) e Angelo Costantini (Mezzettino), tutti ritratti nell’atto di suonare la chitarra alla spagnola, il popolare strumento, usato soprattutto per accompagnare il canto. Il personaggio di questi zanni sembra in effetti caratterizzato dalla simbiosi con questo strumento.
Il termine “comico” designa nel lessico secentesco l’attore professionista il quale, peraltro, non rappresenta solo commedie (e non recita solo “all’improvvisa”), ma anche pastorali, tragedie e tragicommedie, o altrimenti dette “opere regie”. Ed è probabile che proprio per la tragedia e per la pastorale la maggiore contiguità rispetto all’opera in musica spinga i comici ad arricchire la presenza di inserti musicali.
Francesco Andreini, nelle Bravure del Capitan Spavento ricorda come egli medesimo rappresentasse la parte “di un pastore nominato Corinto nelle pastorali, suonando vari e diversi stromenti da fiato, composti di molti flauti, cantando sopra versi boscarecci e sdruccioli ad imitazione del Sannazaro”.
Adriano Valerini, ricordando la figura di Vincenza Armani, di cui vanta le doti di cantrice, suonatrice e perfino compositrice, racconta come a conclusione delle rappresentazioni tragiche: “Si vestia (...) in abito lugubre e nero, rappresentando la istessa Tragedia, e cantava alcune stanze che succintamente del Poema tutto conteneano il soggetto, ed era come di quello un Argomento”.
La vicinanza dei comici delle compagnie più prestigiose con gli ambienti della nascente opera musicale è in qualche caso sorprendente. Giovan Battista Andreini, figlio di Francesco, è autore di testi drammatici che prevedono esplicitamente numerosi inserti musicali e coreutici, nonché di una vera e propria “commedietta musicale”, La Ferinda. La sua Maddalena, sacra rappresentazione recitata dai Fedeli a Mantova, viene rappresentata con musiche originali di celebri compositori tra cui Claudio Monteverdi.
Ed è lo stesso Monteverdi a scegliere quale interprete canora per la parte di Arianna nell’omonima opera, Virginia Ramponi, moglie di Giovan Battista Andreini, la quale si esibirà anche nel Ballo delle Ingrate. L’abilità musicale, la cultura letteraria di queste attrici e “cortigiane oneste”, tra cui rifulge la celebre Isabella Andreini, saggia tra ‘l suon, saggia tra i canti, come la ricorda Gabriello Chiabrera, comica e accademica, autrice di un canzoniere musicato cui attinsero i maggiori musicisti del tempo, costituirà per molto tempo il principale trait d’union tra la commedia e l’aristocrazia culturale cortese.
Ci limitiamo solo a citare il delicato problema dei rapporti che intercorsero tra la commedia dell’arte e l’opera per ricordare l’esistenza di compagnie “miste” in grado di rappresentare (grazie all’apporto di strumentisti ingaggiati dall’esterno) entrambi i generi o di fornire spettacoli che si pongono a metà strada, come nel celebre caso della Finta Pazza di Francesco Paolo Sacrati e Giulio Strozzi, rappresentata nel 1645 prima a Firenze quindi a Parigi col concorso di numerosi comici, tra cui i già citati Fiorilli, Cantù, Giovan Battista Andreini, che sostengono certamente anche parti canore.
In questo periodo, in virtù della concorrenza che le compagnie comiche devono sostenere nei confronti di quelle dei cosiddetti “Febiarmonici”, la figura delle comiche cantatrici comincia ad assumere un ruolo autonomo accanto alle parti tradizionali.
La musica nell’attività dei comici dell’arte occupa diversi livelli. Con suoni di trombe e tamburi i comici si annunciano pubblicamente alla cittadinanza invitando alla rappresentazione. Le stesse trombe e tamburi li ritroviamo poi sulla scena delle cosiddette “opere regie” ad annunciare battaglie o il sopraggiungere di re e imperatori.
Non diversamente che nella commedia erudita, la musica svolge funzione di contorno e di articolazione della rappresentazione: “(...) per dare inefabile piacere all’udito, inanzi che si cominci e nel fine d’ogni atto, vole che si canti e suoni per alettare e dilettare, essendo che molti vogliono che maggiore diletto non si trovi ch’il suono e ’l canto”. Così Domenico Bruni nel suo prologo di commedia intitolato “in laude della musica” (1623). Brani strumentali o vocali sono utilizzati come intermezzi, qualificati “apparenti” o “inapparenti” a seconda che si accompagnino o meno a una breve azione scenica o coreografica, come diversivo nelle rappresentazioni più seriose o semplicemente “per placare gli animi de gl’impazienti”. Un balletto era solito chiudere la rappresentazione.
Dato il loro carattere accessorio rispetto al dramma, l’ideazione o la scelta degli intermezzi è lasciata totalmente nelle mani degli attori, per cui gli scenari dell’arte non ne fanno menzione. Esempi di intermezzi (descrizioni o trascrizione dei testi intonati) si ricavano piuttosto da resoconti di rappresentazioni o da qualche commedia mimica. Il più antico resoconto noto di una rappresentazione comica lo dobbiamo a Massimo Troiano dalla corte bavarese, nel 1568. In realtà non si tratta di una “commedia dell’arte” bensì di una esibizione di dilettanti a imitazione dei comici “dell’arte”. La commedia è concertata, guarda caso, da un musicista, Orlando di Lasso mentre altri musicisti (italiani) al servizio della corte si prestano a recitare.
Dopo il prologo “messere Orlando fe’ cantare un dolce madricale a cinque”, dopo il primo atto “si fece una musica di cinque viole da gamba et altre tante voci”, dopo il secondo “fu fatta una musica di quattro voci, con due liuti, un strumento da penna, un fiffaro e un basso di viola da gamba” mentre nel finale “fecero un ballo alla italiana”. Troiano annota inoltre come Lasso, nella parte di Pantalone, faccia il suo ingresso in scena “con un liuto alle mani, sonando e cantando” una canzone assai nota al tempo e ricorrente in diverse intonazioni polifoniche.
Dobbiamo però ammettere che la testimonianza offerta da Troiano, e per il carattere dilettantesco della rappresentazione, e per l’ambiente cortese in cui questa si svolge, e per la presenza di diversi musicisti professionisti, solo limitatamente può essere considerata rappresentativa del teatro dei comici professionisti in particolare per il carattere raffinato delle musiche e per la ricchezza dell’organico strumentale impegnato negli intermezzi.
La reticenza degli scenari si estende anche all’indicazione di esecuzioni musicali all’interno della commedia, in funzione diegetica. Lo scenario diventa eloquente quando il numero musicale, sia esso l’introduzione di un personaggio, una serenata, un ballo, un festeggiamento, è funzionale allo svolgimento drammatico. Ma, indipendentemente da quest’ultimo, sappiamo che i comici erano soliti introdurre elementi d’effetto, tra cui esecuzioni musicali, per arricchire lo scheletro di una vicenda spesso ripetitiva e pretestuosa, o per sfruttare particolari doti e abilità dei singoli attori.
Da questo punto di vista l’inserto musicale ha lo stesso valore di un lazzo: è un numero chiuso, intercambiabile, che l’attore sceglie tra quelli presenti nel suo repertorio, adattandolo alla situazione scenica. Va ricordato inoltre che tra i lazzi che ci sono pervenuti alcuni consistono in (o comprendono) una esecuzione canora.
Lo scenario della commedia de Il vecchio geloso è pubblicato da Flaminio Scala come sesta giornata del suo Teatro delle favole rappresentative (1611), antologia di scenari rappresentati dalla celebre compagnia dei Gelosi. Tra i personaggi compaiono tre musici mentre le “robbe per la Comedia” includono tra l’altro “corni (da cacciatori) (...) (abiti) da travestire i sonatori musici da guidoni, Leuto, overo tiorba”.
I “sonatori” cui si fa riferimento non sono personaggi che durante la commedia cambiano momentaneamente ruolo travestendosi da guidoni. L’espressione “sonatori” non si riferisce a un ruolo scenico, ma a una figura professionale. Si tratta in sostanza di strumentisti assoldati appositamente per sostenere la parte di suonatori girovaghi, o “guidoni”, in questa commedia.
L’assunzione di suonatori esterni non avviene di rado nelle recite dell’arte, e non tanto perché tra gli attori manchi chi sia in grado di suonare strumenti, ma perché, come in questo caso, gli strumentisti richiesti sono numerosi ed è necessario che si trovino in scena contemporaneamente agli altri attori. Indubbiamente la commedia, di ambientazione agreste, punta sull’elemento musicale per definire il suo registro generale.
Flaminio Scala
Ecco come vengono indicati gli interventi musicali nello scenario della commedia
Il teatro delle favole rappresentative
Ecco come vengono indicati gli interventi musicali nello scenario della commedia
Il veccchio geloso:
Atto I
(...) in quello sentono cantar di dentro Cavicchio villano, cantando alla norcina; dapoi canta sopra il martìre che sente un marito vecchio geloso della moglie;
Atto II
GUIDONI malamente vestiti, con i loro instromenti da sonare, quali vanno per le ville sonando e cantando per campar la loro vita; fanno sentire i loro instromenti; in quello PASQUELLA fuora. GUIDONI domandano qualche cosa da mangiare, offrendosi di sonare e cantare... mandano OLIVETTA a convitare delle fanciulle della villa, che vengono al ballo (...). PEDROLINO ordina ai suonatori che suonino, e ch’egli li farà pagar benissimo. Guidoni suonano (...). e quivi cominciano a ballare tutti (...), facendo il ballo del piantone (...).
Atto III
(...) ISABELLA prega ORAZIO a pigliare il suo chitarone, o tiorba, e cantare alcuna delle sue cose musicali alla romana, per trattenimento della compagnia. ORAZIO, contento, manda PEDROLINO per lo stromento (...).
PEDROLINO con il chitarone, lo presenta a ORAZIO (...). ORAZIO si pone a cantare e, cantando, canta tanto soavemente che PANTALONE s’addormenta profondamente; in quello ORAZIO, cantando, conduce via ISABELLA.
F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative, Venezia, 1611
Nel primo atto gli interventi canori di Cavicchio servono a introdurre il personaggio (una funzione tipica che abbiamo già visto per il Pantalone di Lasso e che l’opera farà propria) e soprattutto a caratterizzare l’ambiente della villa e ad ammiccare al motivo drammaturgico di fondo: la gelosia del vecchio Pantalone che, impotente, “usurpa”, nella morale comica, il posto di un giovane accanto alla bella Isabella, tenuta rigidamente segregata.
Nell’atto secondo il ballo funge da copertura per il consumarsi dell’amplesso tra Isabella e il giovane amante Orazio, mentre nell’atto conclusivo l’“orfeica” esecuzione di Orazio serve a mostrare la debolezza di Pantalone e a consentire un nuovo “ratto” di Isabella, in conseguenza del quale Pantalone si troverà costretto ad ammettere la propria inabilità coniugale e a concedere la giovane moglie a Orazio.
Un canto “alla norcina” e una canzone sulla gelosia dei mariti vecchi per Cavicchio, alcune danze tra cui un “ballo del piantone” per i suonatori, “alcuna delle sue cose musicali alla romana” per l’esecuzione canora di Orazio accompagnandosi sulla tiorba. Queste le indicazioni musicali fornite dallo scenario. La prescrizione del “ballo del piantone”, forse più riferita alla coreografia che alla musica, appare in effetti precisa, e questo lo dobbiamo al fatto che il ballo è un numero collettivo che non può basarsi sul repertorio di un singolo attore, ma richiede, comunque, una concertazione collettiva.
Al contrario l’attore che impersona Cavicchio è libero di attingere dal proprio repertorio di canti popolari o a imitazione popolare (il cliché del canto “alla norcina” ha una certa fortuna anche nella musica polifonica), mentre nella figura del colto Orazio che canta le proprie composizioni accompagnandosi sulla tiorba sembra riflettersi la fama di cui in quegli anni godono, nelle corti romane e fiorentine, i nuovi cultori della monodia d’arte come Giulio Caccini.
Mentre il repertorio vocale delle parti auliche degli innamorati riflette i gusti e gli stili della musica colta più in voga, maggiore peculiarità sembrano mostrare le parti comiche, e in particolare quelle degli zanni e dei loro eredi, sia per quanto riguarda il repertorio di canzoni intonate, sia per ciò che in generale concerne l’espressività e il virtuosismo sonoro e vocale esibito.
Condividendo o allineando il proprio comportamento espressivo con quello della cultura alta le parti degli innamorati accedono anche alla possibilità di fissazione scritta del proprio repertorio. Diversamente quello degli zanni, che attinge alla dimensione del popolare e del buffonesco, resta spesso sepolto nel limbo della tradizione orale, del non scritto perché (al tempo) già noto, del non scrivibile (tuttalpiù descrivibile). Quando Andrea Perrucci, parlando dell’uso della musica negli intermezzi al modo spagnolo cita l’inserimento di “un canto ordinario del volgo non figurato” esprime proprio questa refrattarietà del repertorio musicale buffonesco alla fissazione scritta, e per il suo normale avvalersi di una tradizione orale (“del volgo”) e per la consueta notorietà (“ordinario”) e per la sua irriducibilità al sistema ritmico della musica colta (“non figurato”) su cui si basa l’unico sistema di notazione musicale conosciuto.
Per quello che possiamo sapere il ridicolo (e l’osceno) nelle canzoni degli zanni era affidato soprattutto al testo poetico, intonato su un’aria che forniva un supporto neutro. Spesso il ridicolo è frutto di parodia per cui si storpiano le parole di arie famose, anzi illustri, come nel caso dell’Arlequin Mercure galant (dai citati scenari del Gherardi) dove si deride la personalità di spettacolo più potente di Francia, con un gusto per la satira che sarà poi cagione della cacciata dei comici italiani nel 1697 da parte di Luigi XIV.
A differenza degli altri brani vocali dello scenario la musica non è notata, andando verosimilmente eseguita secondo la lezione originale, magari improvvisando qualche storpiatura interpretativa. La vocalità contraffatta degli zanni, e in generale delle maschere comiche, nella recitazione doveva ripercuotersi anche sulle interpretazioni musicali.
Perrucci descrive lo zanni “ridicolo nel tuono della voce soverchio stridola, o stonata, o rauca” utilizzando dunque anche un attributo musicale. Caratteristica delle parti comiche è poi la ricorrente metamorfosi animale, retaggio della più antica tradizione buffonesca, che dalla recitazione si diffonde a un repertorio di canzoni che prevedono l’inserimento di versi animali.
Il “lazzo” della musica animale poteva poi venire rovesciato introducendo sulla scena qualche povera bestiola, più o meno addestrata a “cantare” o a dare inverosimili prove di sensibilità musicale.
Gli scritti di religiosi e moralisti contro i pretesi abusi della commedia costituiscono una delle fonti più cospicue di informazioni sugli spettacoli degli attori dell’arte. La loro importanza è legata anche al fatto che, quando non si mostrino astrattamente cattedratici, gettano una luce significativa sull’impatto sociale e culturale della commedia.
Come componente delle rappresentazioni anche la musica si trova coinvolta nelle accuse di oscenità e corruzione di costumi e anime, con un ruolo tutt’altro che secondario. Tuttavia raramente l’attacco è rivolto alla musica di per sé: essa viene piuttosto denunciata in quanto veicolatrice di testi osceni, e sostegno a balli disonesti in cui si scoprono parti del corpo e si esibiscono toccamenti lascivi.
Il principale movente dello zelo, per non dire del furore, della censura religiosa è da ricercare nella presenza della donna in scena. Sulla bocca delle attrici il canto diviene strumento di lusinga per il contenuto erotico dei testi mentre quella “dolcezza di soavissima voce” è mezzo di esibizione sensuale, il cui effetto sembra poter essere comparato all’ostentazione del corpo scoperto. A ciò s’aggiunge l’oscenità che sprigiona dalla promiscuità dei balli.
L’accusa trova toni apocalittici nel quadro teologico in cui il predicatore Paolo Segneri colloca la commedia e il suo sistema di mitizzazione dell’attrice e cantatrice, sottoposti all’occulta regia del demonio che ispira alle comiche sia i testi che le musiche che li intonano. Di fronte a questa massiccia offensiva lo stesso Nicolò Barbieri, nel tentativo di salvare la legittimità della professione distinguendo le recite delle compagnie onorate da quelle dei cosiddetti “buffoni”, conviene che “un ballo di gesti scostumati, una canzone di cose scandalose, ancor che non siano annessi alla commedia di precetto ma per dar gusto al popolaccio” siano riprovevoli.
Si noti però che Barbieri giustifica il numero musicale o coreografico organicamente inserito nello sviluppo drammatico biasimando solo quello arbitrariamente aggiunto per accontentare i gusti di un pubblico che da parte sua non si faceva scrupolo di richiedere “a’ comici che dicano motti viziosi” e “canzoni disoneste”.
Paolo Segneri
Un’altra razza di diavoli
Il cristiano istruito nella sua legge
San Girolamo ci fa sapere, che si trova tra gli altri una razza di Diavoli, i quali hanno per uffizio di fomentare gl’innamoramenti, gli invaghimenti e le canzonette di amore (...). e questi diavoli conviene che sieno i primi ad assistere a quei teatri dove cantano queste sirene loro discepole affin di dettare ad esse non meno le note che le parole: essi fan sì che vi sieno chiamate fin da lontani paesi, salariate, spesate, ed essi che vi sieno ascoltate da somma calca di gente con più attenzione di quella che nelle chiese mai porgasi agli evangeli (...). sbandite non dalla città, ma dal mondo, quelle femmine audaci che su i pubblici palchi, con uno stromento in mano, si fingono spasimare e svenire per l’ansia che hanno del loro giovane sposo (...).
P. Segneri, Il cristiano istruito nella sua legge, Venezia, 1686
Più acuta e concreta di altre, l’analisi del gesuita Giovan Domenico Ottonelli rileva la specifica proprietà del canto di “far penetrare con una certa insensibilità al cuore il veleno, e la forza delle rappresentate bruttezze”, per cui “i canti... se contengono cosa alcuna di vizio facilmente la spargono et efficacemente la imprimono per mezzo del diletto ne gli animi degli uditori” i quali “quanto negligenti sono ne’ canti virtuosi e spirituali, tanto diligenti si mostrano nell’udire volentieri et imparare le canzone viziose e carnali”.
Al di là di considerazioni moralistiche quello che emerge con chiarezza è l’immagine del palcoscenico dei comici come centro di trasmissione culturale, quindi anche musicale, di grande impatto sociale e antagonista rispetto al pulpito ecclesiastico.
La necessità di incontrare i gusti del pubblico pagante, un pubblico in grado di imparare le canzoni ascoltate e di influenzare la scelta delle canzoni intonate dall’attore, fa della scena un fulcro di circolazione musicale, tra attore e piazza, tra cultura aristocratica e tradizione popolare e buffonesca.
Nel repertorio musicale colto tra Cinque e Settecento incontriamo una quantità di composizioni ispirate ai personaggi, ai linguaggi e perfino alla drammaturgia della commedia dell’arte. Non si tratta tuttavia di musiche composte per la scena comica che appare spesso come un mondo distante, solo evocato oppure artificialmente ricreato nell’alterità della dimensione polifonica.
Il punto di contatto tra il teatro e il repertorio musicale nel quadro concreto della rappresentazione tende a sfuggirci, anche da questa diversa prospettiva.
Esiste probabilmente un nesso fra la diffusione della commedia e quella delle forme minori della polifonia profana cinquecentesca, villotte, villanelle, giustiniane, todesche ecc., con il loro plurilinguismo dialettale, il loro carattere popolaresco e il loro occasionale carattere drammatico. Ad esempio, per la giustiniana il rapporto col personaggio del vecchio Veneziano da cui il personaggio di Pantalone, appare quanto mai evidente. D’altra parte, come già osservato, le parti degli innamorati trovano corrispondenza espressiva nella civiltà aulica del madrigale cui Isabella Andreini consegna testi poetici per l’intonazione.
Questa omologia di stratificazione “culturale” tra musica e commedia appare molto suggestiva, tanto più che tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo nella produzione musicale i due livelli vengono a ricongiungersi proprio nel segno della commedia, appunto nelle commedie armoniche di Orazio Vecchi e Adriano Banchieri, mimesi polifonica della commedia delle maschere destinata a un puro “teatro dell’udito”.
Ciò non toglie che da queste opere, e soprattutto dalle versioni banchieriane a tre voci più vicine alle intonazioni popolareggianti della villanella non si possa ricavare una idea sonora dello spettacolo dei comici, negli intermezzi e balletti, nei brani musicali in funzione realistica, come le note “tramutazioni” grazianesche di madrigali famosi, nel ritmo dei dialoghi, nei registri vocali attribuiti ai diversi personaggi e così via.
Sebbene non manchino attestazioni di esecuzioni di musica polifonica, è comunque certo, anche per un ovvio principio drammaturgico, che gli attori in scena cantassero a solo, limitando eventuali esecuzioni corali agli intermezzi o a scene di ballo o di festeggiamento. Non tragga in inganno la considerazione che fino ai primi anni del Seicento la musica pervenutaci sia di natura polifonica. Il canto a solo, accompagnato o meno, esisteva ben prima del 1600 anche se il suo affiorare nella musica scritta è incerto e snaturante. Basti ricordare la figura di Orlando di Lasso, “principe” della polifonia, presentarsi sulla scena in veste di Pantalone cantando a solo accompagnato dal liuto.
Questo significa che è rovistando nel repertorio di ariette secentesche, in particolare tra quelle congegnate per essere accompagnate sulla chitarra spagnola così amata dai comici dell’arte, che abbiamo maggiore probabilità di avvicinarci ai modelli della musica vocale utilizzati sulla scena comica.
In tal senso particolare interesse suscita il lamento di “Madama Lucia”, con le risposte di Cola (Coviello), entrambi personaggi della commedia dell’arte, nelle due diverse intonazioni musicali di Francesco Manelli (1628 e 1636) che sembrano attingere a un repertorio di canti comici attestato nelle raffigurazioni dei celebri Balli di Sfessania di Callot (1622 ca.).
L’accompagnamento per la chitarra spagnola, e l’uso di una “Ciaccona” come basso ostinato, un semplice tetracordo discendente, che sorregge la parte vocale, sono elementi che avvicinano non solo tematicamente ma anche tecnicamente queste composizioni al mondo della commedia. Non ultimo elemento di interesse il rapporto tra le due versioni musicali che condividono il testo, l’uso dell’ostinato tetracordale e mostrano notevoli analogie, soprattutto ritmiche, tanto che si direbbero la diversa realizzazione di uno stesso schema vocal-musicale, in modo analogo a come, nella poetica dei comici, uno stesso scenario può dar luogo a rappresentazioni diverse.
Tuttavia il carattere chiuso e compiuto delle composizioni, la loro struttura generale, con la parte conclusiva intonata polifonicamente escludono un loro utilizzo drammaturgico se non, forse, come intermezzo buffo, magari in sede operistica. Non a caso Manelli lo troviamo a capo della compagnia di musicisti, o Febiarmonici, che nel 1637 inaugura a Venezia la stagione dell’opera impresariale invadendo spazi architettonici e di mercato tradizionalmente occupati dalla commedia.