musica e lingua
I rapporti tra lingua e musica sono strettissimi, sia perché gran parte della produzione poetica, non soltanto italiana, è stata concepita in funzione dell’accompagnamento musicale (dall’antica tragedia greca al melodramma, dai canti trobadorici alla canzone popolare; ➔ cantata, voce; ➔ canzone popolare e lingua; ➔ melodramma, lingua del), come mostra la stessa terminologia delle forme metriche e testuali (➔ ballata, cantica, canto, ➔ canzone, ode, ➔ sonetto, ecc.), sia perché l’esigenza di definire con le parole il mondo dei suoni ha prodotto un’ampia letteratura specialistica, dai trattati di composizione e di canto alle recensioni degli spettacoli musicali.
La storia della lingua e della letteratura italiana, in particolare, intrattiene con la storia della musica rapporti secolari. È nota, innanzitutto, la predilezione del nostro Paese per la musica vocale e la poesia per musica: il melodramma nacque in Italia tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento e, fino all’Ottocento inoltrato, ebbe un’influenza imparagonabile rispetto ad altri tipi di musica e di teatro. Ma già nel medioevo i generi di poesia per musica erano in assoluto i più praticati (Gallo 1986). Il culto italiano per la parola scritta e le norme retoriche, infatti, mal si conciliava con forme di musica assoluta, cioè strumentale e svincolata, almeno negli intenti, da esigenze imitative e descrittive (Rossi 2002: 117-118); tant’è che la nostra storia musicale è costellata di dichiarazioni che affermano, da una parte, la consustanzialità di musica e poesia e, dall’altra, l’indiscutibile sudditanza della prima nei confronti della seconda: la musica non può che imitare la lingua, seguirne i concetti, sottolinearne gli affetti (Bianconi 1986). Ancora nel Settecento Ranieri Calzabigi scriveva:
Non si agita, non si commove, non si straccia il core co’ suoni o scuotimenti d’aria variati e sempre insignificanti quando son soli, ma bensì con appropriate note, da un sublime linguaggio poetico accompagnate (Rossi 2002: 110).
Fino al Settecento, l’italiano era tra le lingue più conosciute nelle corti europee, proprio grazie al successo dei musicisti, al punto che anche molti compositori stranieri, da Händel a Mozart, musicarono testi in italiano (➔ immagine dell’italiano). Anche nell’ambito della trattatistica, soltanto a partire dal Settecento il tedesco superò l’italiano come lingua della musicologia, fino al secolo precedente appannaggio quasi esclusivo del latino e dell’italiano (Rossi 1994: 77), quest’ultimo specialmente nell’attività dei trattatisti cinque-seicenteschi, da Pietro Aaron a Vincenzo Galilei, da Giorgio Bartoli a Giovan Battista Doni (Rossi 1996a; Rossi 1996b; Siekiera 2000).
I termini tuttora utilizzati in tutto il mondo per le indicazioni agogiche (ovvero riguardanti la velocità e l’espressività con cui va eseguita una composizione musicale: allegro, largo, presto, rubato, vivace, ecc.) testimoniano il favore goduto dalla nostra lingua.
Musica e lingua sono unite anche da un diverso punto di vista, che va al di là dalla produzione estetica. Il ritmo, infatti, e gli altri valori fonici (timbro, intonazione) hanno da sempre accomunato non soltanto musica e poesia, bensì musica e lingua parlata. Basti pensare all’enorme importanza rappresentata, in quest’ultima, dai cosiddetti tratti soprasegmentali (➔ soprasegmentali, tratti), grazie ai quali chi ascolta un enunciato è in grado di comprendere, oltre alle parole che lo compongono, non soltanto la differenza tra un’asserzione, una domanda e un’esclamazione, ma anche il diverso valore dei sintagmi: per es., Pietro guarda può essere tanto un’esortazione a Pietro a guardare qualcosa, quanto la constatazione che Pietro sta guardando qualcosa, o anche l’esortazione a qualcuno a guardare Pietro e non un altro (per tacere di altre possibili distinzioni più sottili, sempre grazie all’intonazione e al ritmo). Particolari strumenti elettronici (detti spettrografi) per l’analisi dei suoni vocali sono in grado di visualizzare la curva melodico-ritmica (oltreché lo spettro) degli enunciati e di ridurla, dunque, alla stregua di un brano musicale (➔ fonetica).
Il lessico specialistico della musica ha una storia molto diversa rispetto agli altri sottocodici italiani (Nicolodi & Trovato 1994-2000). Da un lato, infatti, esso si afferma precocemente, se si considera che il primo trattato musicale a stampa risale al 1492 (Francesco Caza, Tractato vulgare de canto figurato, Milano, Pachel), senza considerare le fonti manoscritte precedenti, come l’anonimo Trattato musicale di Vercelli (ante 1447) o il trecentesco manuale di Jacopo da Bologna, L’arte del biscanto misurato (Nicolodi et al. 2007: 69). Dall’altro, esso rimase a lungo vincolato ai modelli della trattatistica latina e, soprattutto in virtù del peculiare oggetto di studio, più che come un lessico settoriale vero e proprio (➔ linguaggi settoriali) si configura come un insieme di usi metaforici e prestiti da altri ambiti, dalla matematica alla fisica, dalla retorica all’astronomia.
Fin dalle origini della speculazione occidentale sulla natura della musica (Aristosseno, IV sec. a.C., e ancor prima, sebbene meno specificamente, Platone, Aristotele e altri), quest’ultima è stata inserita in un alone simbolico, trattata metaforicamente e, quindi, messa in relazione con altro da sé. La cosiddetta musica artificiale (vale a dire quella prodotta dalla voce umana o da strumenti) non è che un riflesso della musica celeste, quella cioè prodotta dall’armonico e regolato moto delle sfere che dà vita all’universo. Tali moti vengono spiegati mediante valori matematici. Mentre, tuttavia, le metafore matematiche si cristallizzarono presto e continuano a caratterizzare il lessico musicologico (basti pensare a tutte le frazioni contrassegnanti gli intervalli e i tempi: dapprima sesquialtera o emiolia, sesquiterza, sesquiottava, dupla, tripla, poi quarta, quinta, tre quarti, ecc.), le metafore astronomiche sono dapprima assai rare: bisogna attendere il Novecento, naturalmente con tutt’altro spirito, per incontrare casi come costellazione, nebulosa e simili, che rimandano agli aggregati di suoni e ai confini indistinti di linee melodiche. Non è certo casuale, dunque, nel sistema didattico medievale del quadrivio, la collocazione della musica accanto a discipline come la matematica e la fisica, l’astronomia e la teologia.
Al già citato topos dell’imitazione della musica nei confronti della parola risale il più produttivo ambito metaforico del lessico musicale: quello linguistico-retorico. Se la musica per antonomasia è quella vocale, allora canto significa, genericamente, «musica», conversazione «buon accordo tra le parti vocali e strumentali», dire o parlare o proferire «cantare o suonare, emettere suoni musicali», pensiero «tema musicale», recitare «suonare», voce o sillaba «nota» (e nota, a sua volta, rimanda a un segno scritto e, solo successivamente, per traslato, al suono che ne consegue), fino ai tuttora vivi frase, grammatica, periodo, sintassi, ecc., a indicare le strutturazioni fondamentali del discorso musicale (altra metafora tuttora utilizzata dai musicologi). È addirittura attestato l’uso metaforico del termine metafora, che, se in retorica indica una parola usata in luogo di un’altra, in musica contrassegnava un intervallo dissonante usato in luogo di uno consonante (Giovanni Maria Artusi, Seconda parte dell’Artusi overo delle imperfettioni della moderna musica, Venezia, Vincenti, 1603, p. 35).
Gli strumenti musicali, secondo i trattatisti fino all’Ottocento, hanno ragion d’essere soltanto a imitazione della voce umana, giacché l’imitazione, secondo i dettami aristotelici, è il principio d’ogni arte, in pittura come in musica:
voi havete a sapere come tutti li instrumenti musicali sono rispetto et comparatione a la voce humana mancho degni per tanto noi si afforzeremo da quella imparare et imitarla: [...] così come il degno et perfetto dipintor imita ogni cosa creata a la natura con la variation di colori così con tale instrumento di fiato et corde potrai imitare el proferire che fa la humana voce.
Così sosteneva Silvestro Ganassi nel suo trattato sul flauto intitolato Fontegara (1535). Ancora due secoli dopo gli faceva eco Vincenzo Martinelli, in una lettera del 1758: «Ogni strumento ha per suo fine principale, anzi unico, la imitazione della voce umana» (Rossi 2002: 102).
Bisogna attendere il protoromanticismo tedesco perché mutino gli orizzonti, non soltanto compositivi bensì teorici e, conseguentemente, terminologici, con la nascita di tutta una serie di sinestesie e di metafore basate sulle arti figurative e su altri temi. Ovviamente molti termini connessi con il concetto di colore (colore, coloratura, croma, cromatico) esistevano fin dai secoli precedenti, sebbene esprimessero originariamente non tanto stati d’animo quanto l’abitudine scrittoria di annerire le note di durata inferiore rispetto alle bianche e le differenze di colore dei tasti di semitono in taluni strumenti. Solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo gli accostamenti tra pittura e musica diventano sistematici e si profila a poco a poco la posizione autonoma e originale della musica nell’ambito delle arti e delle tecniche espressive, fino a negarne la funzione imitativa:
la musica, che impropriamente è detta arte imitativa perché non ha modello discernibile nel materiale creato, spaziando in un campo più vasto, e però più difficile, interessa non coll’imitare gli oggetti della natura, ma coll’esprimere con segni, che in sé stessi nulla dicono e meno dipingono, la forza, e l’effetto che sullo spirito, sul cuore, e sulla immaginazione dell’uomo quegli oggetti produssero (Giovan Battista Rinuccini, Sulla musica e sulla poesia melodrammatica italiana del secolo XIX, Lucca, Guidotti 1843, pp. 10-11).
Tra Settecento e Ottocento è dunque tutto un crescendo di metafore visive, incoraggiate dalla riflessione scientifica coeva (Newton, Mersenne, Rameau, Barbieri e altri), che studia lo spettro dei colori come quello dei suoni, ma soprattutto dal mutamento della mentalità e del gusto correnti, che passano da una concezione musicale logocentrica e antropocentrica a una sempre più orientata verso la strumentalità e l’‘assoluto’.
Se, per esprimere i caratteri della musica vocale, il confronto con le arti della parola era quasi obbligato, per descrivere la più sfuggente musica strumentale (o quantomeno una musica vocale sempre meno imitativa) si ricorre all’analogia con altre sfere sensoriali. Di qui il contingente di aggettivi e nomi riguardanti i timbri degli strumenti o delle voci e le peculiarità di una melodia o di un’armonia: chiaroscuro, impasto, nuance, pasta, pastoso, tavolozza, tinta; la musica diventa ora quadro o pittura musicale, ora figura o immagine, i suoni vengono dipinti e il compositore è pittore. A ulteriore conferma dell’epocale cambiamento appena descritto, si sviluppano, nel Settecento, alcune metafore e similitudini che ribaltano l’ottica cinque-seicentesca: è infatti ormai la voce ad essere paragonata a uno strumento e non più solo il contrario.
Per descrivere la tipologia vocale si ricorre a termini come flautato o squillante; ma si considerino anche termini (tutti riferiti alla voce) quali martellato, scordato, arpeggio, arpeggiato, pizzicato e altri, tutti provenienti dall’organologia e dalla prassi esecutiva di vari strumenti. Se fino a pochi decenni prima gli strumenti a fiato venivano descritti sul modello della voce umana, Giovanni Pizzati (La scienza de’ suoni e dell’armonia, Venezia, Gatti, 1782, p. 186) annovera invece questa nel gruppo di quelli:
l’Organo della voce umana può dirsi una specie d’istromento da fiato [...]. Poteva parere, che la glottide dovesse far quel ufficio, che fa la piva dell’oboe, della quale un labbro battendo nell’altro concepisce un moto tremolo, che all’aria si comunica, e che la trachea facesse l’ufficio della canna stessa dell’oboe.
Tra Otto e Novecento, metafore pittoriche e d’altro ambito subiscono nel lessico musicologico un’impennata senza pari, abbracciando praticamente ogni tecnica e corrente: acquaforte, affreschista, affreschistico, astrattismo, astrattista, botticelliano, bulinato, caravaggismo, cubismo, divisionismo, impressionismo, macchiaiolismo, palladiano, peruginesco, puntilismo, puntilista, tiepolesco; e addirittura: acido, acidulo, acquoso, acuminante, agro, asprezza, aspro, levigamento, liquido, molliccio, profumo, soffice, solido (tutte documentate in Nicolodi et al. 2007).
Ma l’ottica antropocentrica del confronto degli strumenti con l’essere umano non scompare, se l’illustre musicologo Pietro Lichtenthal, nel suo Trattato dell’influenza della musica sul corpo umano e del suo uso in certe malattie (Milano, Maspero, 1811), scrive a proposito del clarinetto: «il suo respiro è molle, pieno di forza, tenero e soave. Il suo tono non è quel grido penetrante che è l’anima dell’oboè, ma un sentimento diffuso in amore, il tuono de’ cuori sensibili trasportati» (p. 32); il contrabbasso «parla con arditezza» (p. 36) e le tonalità, secondo un inveterato stereotipo, vengono ancora umanizzate: il do maggiore esprime «innocenza, semplicità, voce di fanciullo»; il do minore «dichiarazione d’amore, lamento, amore infelice, melanconia, desiderio dell’oggetto amato»; il sol bemolle maggiore «trionfo in cose ardue, libero respiro dopo gravi fatiche»; il la maggiore «ingenua dichiarazione d’amore, contento, speranza di rivedersi» (pp. 36-40). Ed ecco anche la riproposizione del solito topos della superiorità della musica vocale sulla strumentale:
la musica senza canto, e fosse il più bel concerto, muove sbadigli e sonno nel fanciullo e nell’uomo senza coltura; ben altro è l’effetto del canto: non vidi mai dormire persona alcuna a una buona musica vocale (p. 21).
Ciò nondimeno, in Lichtenthal abbondano fantasiose metafore pittoriche (dipingere, disegno di contorno, pittura musicale, quadro musicale, smalto, ecc.: la voce di tenore «è la pittrice vera di tutte le passioni: i suoi quadri portano il sigillo della verità», p. 30). Naturalmente il ricorso a metafore non è esclusivo del lessico musicale – sebbene sembri caratterizzare maggiormente questo settore, forse proprio perché quello sonoro pare più sfuggente rispetto ad altri linguaggi e dunque molto più difficile da descrivere con le parole, pur se paradossalmente queste sono comunque fatte di suono –, vista l’intrinseca metaforicità di tutte le lingue verbali, né quelle legate al mondo della retorica e della matematica sono le uniche metafore della musicologia delle origini. Andrebbero citate, almeno, quelle relative alla collocazione degli oggetti nello spazio (alto, basso, salire, scendere, scala, ecc.), nate plausibilmente dallo spostamento sull’asse spaziale di un fenomeno acustico e articolatorio (la frequenza delle vibrazioni delle corde vocali), forse per osservazione del movimento della testa dei cantanti verso l’alto o verso il basso (con solita estensione della musica vocale alla musica tout court), per assecondare il corrispettivo movimento della laringe nell’articolazione di suoni acuti o gravi.
Oltre al frequente ricorso a metafore, il lessico musicale è caratterizzato dall’abuso di polisemia e sinonimia, entrambi indici del tardivo affrancamento della musica da altri ambiti. Molti trattatisti italiani antichi hanno lamentato tale mancanza di specificità del lessico musicale, tentando di far ordine in un ginepraio di usi vecchi e nuovi, di termini ormai invecchiati utilizzati per esprimere nuovi concetti e di neologismi non ancora acclimatati:
la quantità delle cose che si ritrovano essere et convenire sotto un equivoco nome, sforzano spesse volte a distinguere quello di che si parla, da quell’altro che non intende di parlare; accioché sotto d’un nome non s’intenda altro, se non ciò che un vuole che sia inteso: et per questo tutti coloro che hanno cognitione di lettere, overo ch’intendano qualche cosa; sogliano prima ch’essi discendino alle particularità di quel che vogliano dire tutte le equivocationi da i ragionamenti loro torre: perché mentre ragionano chi scolta si potria pensare, che ragionassero di quel che loro non pensano.
Così Ludovico Zacconi (Prattica di musica, Venezia, Polo, 1592, c. 193r) introduce la differenza tra il termine tuono «tono», nel senso di «intervallo di seconda», dall’uso del medesimo termine come sinonimo di modo, nel senso di «particolare formula melodica assunta a prototipo compositivo». Per chiarire gli equivoci, egli propone due locuzioni: tuono di grado per il primo concetto, tuono harmoniale per il secondo. Poco oltre, scarta modo come sinonimo di tono, a causa dell’equivoca polisemia del primo termine, utilizzato anche, tra l’altro, per designare un fenomeno ritmico. Nonostante le buone intenzioni (più che la pratica, in verità confusissima, dei loro scritti) dello Zacconi, dello Zarlino e di altri autori, la polisemia e la sinonimia accentuatissime hanno continuato a caratterizzare la musicologia fino ad anni recenti. Basterebbe, per dimostrarlo, ripercorrere i lemmi principali del lessico della musica nei trattati cinque-seicenteschi (e oltre). Accanto ai già citati casi di tono e modo, sugli equivoci legati al termine armonia (in almeno dieci accezioni, ciascuna con molti sinonimi) si potrebbero scrivere vari volumi di storia delle idee musicali (Luzzi 2002). Agostino Pisa (Battuta della musica, Roma, Zanetti, 1611, pp. 49-50 et passim) si intrattiene sui vari significati e sui dodici sinonimi del termine battuta. Erano denominate canto, tra l’altro, «la parte del soprano, in una composizione polifonica» e «la corda più acuta degli strumenti cordofoni». Sinfonia poteva designare, almeno, un generico «insieme di suoni concordanti», «il tamburo» e anche «la musica corale». Sempre Zacconi (Prattica di musica, cc. 20v-21r) invita alla riduzione della sinonimia (tatto, tempo, misura e battuta) per esprimere il concetto di «battuta», proponendo l’adozione esclusiva di tatto e dissuadendo dall’uso di tempo a causa della sua spiccata polisemia: «potendo mi pare intendere meglio con un nome solo che con tanti, mi contento di quest’uno, lasciando in libertà ogni uno di dirli quel che li pare». Di voce si possono riconoscere almeno otto accezioni musicali, oltreché all’ovvio «voce umana»: da «suono di uno strumento» a «nota musicale», da «linea melodica di una composizione polifonica» a «intervallo». E la lista potrebbe seguitare a lungo (Rossi 1994).
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