Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel processo di rinnovamento che caratterizza il secolo XII, la cultura femminile acquisisce centralità rispetto ai secoli passati. Il culto mariano ha un enorme impulso, la lirica cortese offre l’immagine di una donna aristocratica algida e mitizzata. Alla nuova rappresentazione si affianca l’esperienza di donne reali, che fanno sentire la propria voce nell’ambito della cultura monastica, nel contesto della vita cittadina e nella società cortese. In questi esempi, che la scarsezza di testimonianze ci induce forse erroneamente a considerare eccezionali, la musica costituisce una sorta di elemento comune. La badessa renana Ildegarda di Bingen è un’originale compositrice di liriche sacre. La badessa Herrade di Landsberg tratteggia una visione della musica come arte liberale perfettamente in linea con la nuova sensibilità del tempo. Eloisa, sventurata allieva e amante del maggiore maestro del tempo, Pietro Abelardo, è stata riconosciuta ispiratrice e co-autrice della riforma liturgica del suo monastero. Le liriche della Contessa di Dia, di Maria di Francia e delle altre trobaritz rendono palpabili la preparazione e la grande sensibilità poetico-musicale delle nobildonne provenzali.
Per inquadrare la concezione della musica nel contesto del monachesimo femminile, ricordiamo un’interessante enciclopedia del secolo XII, l’ Hortus deliciarum della badessa Herrade di Landsberg. Del manoscritto che ha trasmesso l’opera, purtroppo perduto, si conservano riproduzioni, dalle quali sono stati ricostruiti i testi e soprattutto le splendide miniature. Queste non sono semplici decorazioni, ma un coerente materiale esemplificativo dei contenuti dottrinali dell’opera, nell’ottica del “sapere visivo” che è fondamento essenziale della cultura medievale, soprattutto al di fuori delle scuole. La raffigurazione delle sette arti, molto nota, mette in relazione la loro “signora”, Filosofia, con i saperi dottrinali e scientifici: “Dominando sull’arte sul quale fondamento esse [le arti] sono ciò che sono, io, Filosofia, le arti a me soggette le divido in sette parti”. Fra le arti, la musica è personificata da una giovane fanciulla, attrezzata con il suo ormai caratteristico strumentario: un’arpa, che tiene fra le mani, e la ghironda, la lira e la viella, che la circondano. La didascalia che la accompagna afferma: “Io sono la musica e insegno un’arte vasta e varia”. Anche nell’immaginario della cultura monastica femminile l’arte liberale della musica è un sapere teorico trasmesso attraverso l’insegnamento, ma indirizzato non alla mera speculazione, quanto alla prassi, “vasta e varia”, del cantare e del suonare.
La monaca renana Ildegarda di Bingen, badessa del monastero di Rupertsberg, è una delle figure femminili più eminenti del secolo XII. Mistica e visionaria, profetessa e naturalista, ha lasciato un patrimonio considerevole di scritti tra i quali una raccolta di un’ottantina di liriche, conosciute col nome di Symphonia harmoniae caelestium revelationum, e un dramma liturgico (Ordo virtutum), giunte a noi in due manoscritti completi di testo e musica provenienti dallo stesso monastero ildegardiano e risalenti agli ultimi anni di vita della monaca. Coerentemente col suo insegnamento, in base al quale l’attività del canto è un’esigenza imprescindibile dell’esistenza umana, le liriche di Ildegarda testimoniano come la prassi musicale potesse fondarsi su una giustificazione teorica svincolata dalla trattatistica e dalle speculazioni matematico-scientifiche delle scuole, ed essere invece ricondotta a una matrice culturale diversa, quella mistica e visionaria, che è un tratto distintivo del mondo medievale.
Ildegarda infatti sottolinea che le sue visioni mistiche e le sue liriche, messe per iscritto e fatte circolare grazie all’approvazione papale, non sono frutto di allucinazione o di sogno, ma hanno un’origine divina, che oggi gli studiosi della badessa interpretano come esito della sua sofferenza fisica, atroci emicranie di cui la monaca soffriva fin da bambina. Nel suo primo libro profetico, il Liber Scivias, Ildegarda introduce i testi dei suoi canti riconducendone l’origine alla sua “visione” della musica celeste. In queste liriche è tema di grande rilievo l’esaltazione della figura di Maria, vertice e compimento dell’opera divina della creazione.
Ildegarda di Bingen
Sinfonia di Santa Maria
Liber scivias, III, 13
E poi vidi un’aria luminosissima, nella quale ascoltai, in tutti i significati che abbiamo detto e in modo meraviglioso, generi diversi di musiche nelle lodi gaudiose dei cittadini celesti, che perseverano tenacemente nella via della verità […]. E quel suono, come voce di una moltitudine che sinfonizza nelle lodi in armonia dalle altezze celesti, diceva così:
SINFONIA DI SANTA MARIA. O splendidissima gemma e dolce bellezza del sole, che ti è stato infuso come fonte zampillante dal cuore del Padre e che è il suo unico Verbo per il quale creò la materia prima del mondo che Eva confuse; questo verbo Dio Padre generò da te come uomo, e perciò tu sei quella luminosa materia attraverso la quale il Verbo diffuse tutte le virtù, così come trasse tutte le creature dalla materia prima.
Ildegarda di Bingen, Liber scivias
La musicologia ha da poco avviato lo studio del repertorio monodico ildegardiano, caratterizzato da melodie eccentriche e originali che accompagnano e sottolineano l’eccezionalità dei testi poetici, carichi di immagini vivide e personalissime. Le particolarità più evidenti delle melodie sono l’andamento fiorito e melismatico, la tessitura, che arriva a coprire un’estensione di più di due ottave, e l’insistenza sugli intervalli di quinta, ottava e terza, che dà l’impressione di una tendenza “triadica”, senz’altro lontana dal gusto sobrio e composto delle melodie gregoriane. Ildegarda afferma: “produssi anche parole e musiche di inni in lode di Dio e dei santi senza che nessuno me lo avesse insegnato, e li cantai, pur non avendo mai imparato a leggere la musica né a cantare” (frammento autobiografico citato in Dronke, 1984, p. 232). La riconduzione alla volontà e alla potenza divina della sua capacità di comporre, e addirittura di cantare, è la chiave di lettura che illumina sul significato di questo repertorio, nonché sul suo uso nell’ambito del monastero, che suscitava perplessità anche fra i contemporanei, come ribadisce una nobildonna renana in un’epistola indirizzata alla badessa, in cui vengono descritte curiose e “sconvenienti” cerimonie orchestrate da Ildegarda nel chiuso del suo monastero.
Ildegarda giustifica le sue scelte con chiara lucidità in una veemente lettera alle autorità ecclesiastiche che, nell’ultimo suo anno di vita, le proibiscono di far eseguire i canti liturgici come punizione per un suo atto di ribellione, essendosi rifiutata di disseppellire dal cimitero abbaziale un nobiluomo ritenuto eretico. Con lucida autorevolezza profetica l’anziana badessa ribadisce la necessità del canto sacro, perché solo nell’esercizio del canto l’anima umana, “sinfonica” nella sua originaria natura, riesce a cogliere quella “goccia” dell’armonia celeste che Adamo contemplava e riproduceva nella pienezza delle sue capacità canore.
Prima del peccato […] la voce con cui Adamo cantava le lodi era come quella degli angeli, che la possiedono per la loro natura spirituale […]. E i santi profeti, ispirati dall’insegnamento dello spirito, composero non soltanto salmi e cantici, da cantare per accendere la devozione nei fedeli, ma inventarono anche diversi strumenti musicali […]. In seguito, uomini sapienti e di buona volontà, imitando i santi profeti, con arte umana inventarono diversi generi di melodie per poter cantare assecondando il piacere dell’anima; e cantavano seguendo le note che indicavano coi movimenti delle dita, come per ricordare che Adamo, nella cui voce prima del peccato c’era ogni suono armonioso e tutta l’arte della musica, fu formato dal dito di Dio […]. Riflettete dunque sul fatto che come il corpo di Gesù Cristo dall’integrità della Vergine Maria è nato attraverso lo Spirito Santo, così anche il canto delle lodi secondo l’armonia celeste attraverso lo Spirito Santo è radicato nella Chiesa. Il corpo infatti è l’indumento dell’anima, che ha una voce viva, e dunque è giusto che il corpo con l’anima attraverso la voce canti le lodi di Dio. […] E poiché talvolta nell’ascoltare il canto l’uomo spesso sospira e geme, poiché si ricorda della natura dell’armonia celeste, il profeta, considerando sottilmente la natura profonda dello spirito e comprendendo che l’anima è sinfonica, ci esorta nel salmo a proclamare Dio sulla cetra e a lodarlo sul salterio a dieci corde. Coloro che impongono il silenzio nei canti ecclesiastici di lode a Dio senza un fondato ragionamento, saranno privati della comunione delle lodi angeliche nei cieli.
La piena fioritura della lirica occitanica nel XII secolo non è legata solo all’arte dei trovatori, ma anche al contributo di nobildonne poetesse e musiciste, la cui biografia purtroppo incerta, quando non del tutto oscura, rende difficile delineare come esse avessero acquisito la loro arte, e attraverso quali canali potessero esprimerla.
Le trobairiz erano colte aristocratiche, conoscevano la musica, l’arte della danza e la poesia, e incarnavano con le loro doti l’ideale femminile cortese, da esse cantato come dai loro “colleghi” uomini. Purtroppo ci sono pervenuti solo pochi nomi, spesso tratti dalle autobiografiche vidas, e solo 25 brani poetici, di cui uno soltanto musicato. Fra i nomi più famosi vi sono la Contessa di Dia, Castelloza e Maria di Francia. Quest’ultima si colloca nella seconda metà del XII secolo, probabilmente al seguito di Eleonora di Aquitania, sposa del re inglese Enrico II Plantageneto. Maria, compositrice di 12 lais, offre l’immagine di una donna di grande cultura, profonda conoscitrice della letteratura provenzale e latina. I suoi poemi, di argomento amoroso e ambientazione fiabesca, sono influenzati dalla tradizione delle novelle, anche orientali, e dai racconti biblici e cavallereschi. Tra questi Bisclavret, nel quale viene ripreso il mito dell’uomo lupo, Lanval, un giovane che, amato da una fata, rinuncia alla vita e soprattutto il Lai du Chèvrefeuille, il caprifoglio, sul triste amore di Tristano e Isotta. Infine, è sua una traduzione e versificazione dall’inglese al francese di novelle di Esopo, a epilogo delle quali pone un’affermazione chiara della propria capacità poetica.
Maria di Francia
Epilogo
Favole
Alla fine di quest’opera che io ho composto e scritto in francese, mi menzionerò per farmi ricordare dai posteri: mi chiamo Maria e vengo dalla Francia. È possibile che alcuni chierici, tanti in verità, rivendichino come proprio il mio lavoro. Io non voglio che venga loro attribuito: chi dimentica se stesso agisce in modo insensato.
Di sensibilità assai diversa è l’opera poetico musicale della Contessa di Dia, di cui ci restano cinque componimenti. Vissuta nella seconda metà del XII secolo, la sua Vida offre un ritratto troppo esiguo per poterla identificare con certezza.
Contessa di Dia
Sulla Contessa di Dia
Vida
La Contessa di Dia era la moglie di Guglielmo di Poitiers, una signora bella e buona. E si innamorò di Raimbaud d’Orange, e scrisse molte belle canzoni in suo onore.
Tra le varie ipotesi formulate, la poetessa è stata individuata nella sposa di Guglielmo di Poitiers, conte di Valentinois, o in Isoarda, moglie di Raimon d’Agout e figlia di un conte “di Dia”. Chiunque sia stata, con un linguaggio spregiudicato e insieme dolce, esalta nelle sue opere il suo infelice amore, sensuale e fremente, per Raimbaut d’Aurenga. L’unico canto di cui è conservata la musica è suo, ed è intitolato A chantar m’er de so qu’eu no volria. Nel testo di questo componimento prevale il senso di abbandono e tristezza per l’amore perduto, mentre in quello riprodotto e tradotto qui di seguito è palpabile il linguaggio esplicito del desiderio amoroso, che però non toglie nulla alla nobiltà d’animo della donna, sicura tanto della sua avvenenza quanto della sua intelligenza.
Contessa di Dia
Il cuore mi duole per un grande affanno
Canzoni
Il cuore mi duole per un grande affanno
per un cavaliere che ho perduto,
ma voglio che ben si sappia
che l’ho amato fino alla follia.
Ora io sono tradita da lui,
ché non gli ho donato abbastanza il mio amore,
quando l’ho accontentato giorno e notte,
nel letto e tutta vestita.
Il mio cavaliere, io vorrei
averlo una sera tra le mie braccia nude,
che certo ne sarebbe beato e felice
solo ch’io gli facessi da cuscino,
perché sono folle di lui più di quanto lo era
Florio per Biancofiore:
io gli dono il mio cuore e il mio amore,
il mio senno, i miei occhi, la mia vita.
Bell’amico, gentile e valoroso,
quando sarete in mio potere
e saremo distesi l’uno accanto all’altro,
a portata dei miei baci amorosi,
colma di gran gioia,
io vi considererò come mio marito
così che voi non potrete rifiutarvi
di fare solamente ciò che desidero.