Teatro, musica e stagione teatrale
Quando mancano pochi mesi alla fine dell’autonomia politica della Serenissima, mentre le truppe francesi guidate da Napoleone Bonaparte sconfinano nei suoi territori e, ormai, sempre più scopertamente minacciano la sua integrità, l’attività teatrale sembra seguire la consueta scansione stagionale. L’impressione di una pigra, ma sostenuta, continuità si ricava dal resoconto che il commediografo Antonio Piazza pubblica sulla «Gazzetta Urbana Veneta».
Lo spettacolo di otto teatri aperti in un tempo istesso, e di quattro in una stessa sera con delle azioni mai più rappresentate, come fu mercoledì prossimo passato, è particolare di questa metropoli ove in proporzion di popolazione v’ha più gente che frequenti il teatro che in qualunque altra. Qui c’è tutto per tutti. Gli amatori di drammi serii, della musica grave, quelli delle opere giocose, quelli della tragica maestà o della comica famigliarità, quelli delle decorazioni pompose e degli apparati sorprendenti hanno di che soddisfarsi(1).
La constatazione che i teatri di Venezia richiamino un numero ampio di spettatori per la varietà delle produzioni, e per l’abitudine a porre in campo un repertorio originale, conferma la peculiarità della loro conduzione. L’impegno a realizzare una gran quantità di eventi per andare incontro alle attese di un pubblico composito, che comprende i nobili proprietari dei palchi, gli appassionati, i letterati, i viaggiatori, i numerosi ospiti della città, è giustificato anche dalla propensione ad agire, spesso rischiando, sul versante dell’investimento economico; è un fattore che fa emergere ancor più i tratti di un professionismo artistico, attento ai mutamenti di gusto e aperto alle innovazioni formali. La fisionomia di un tale ‘mercato delle meraviglie’, affidato ad un incredibile numero di addetti, fra maestranze, protagonisti e creatori, restituisce un fitto intreccio di motivazioni plausibili, che chiamano in causa la sfera della politica, sia interna sia internazionale, l’organizzazione sociale, il consumo culturale, oltre al meccanismo stesso della rappresentazione. Influiscono sul fenomeno la diffusione dei libri e l’accentuarsi della passione per la lettura, che tocca sempre più gli strati sociali intermedi e soprattutto la popolazione femminile; conta, inoltre, l’elaborazione della conoscenza sotto forma di notizie, di curiosità e di resoconti diffusi attraverso i periodici.
Nonostante l’evoluzione degli stili e la metamorfosi delle scelte espressive, i palcoscenici si presentano già da tempo come l’ambito in cui si scrive un’inedita «drammaturgia di Venezia»(2), il luogo in cui è possibile sviluppare una verifica immediata intorno alle problematiche civili, accendere una discussione sul costume sociale; e ciò che vi si rappresenta non può essere ridotto ad un’astrazione, circoscritta entro la sfera dell’illusione e dell’artificio. Non è un caso che buona parte del dibattito estetico di fine Settecento formalizzi l’adesione al principio del ‘naturale’, oppure il suo rifiuto, un concetto che attraversa la creatività europea, come tentativo di affermare un’adesione più prossima dei principi dell’arte all’idea di contemporaneità. La discriminante fra un teatro di conservazione e una scena rinnovata non passa esclusivamente dalla scelta dei modelli di riferimento, che derivano, da un lato, dalle teorie degli enciclopedisti francesi, anzitutto da Diderot, dall’altro, dalla nostalgia per le formule del passato, spesso ripensato in modo indistinto. La sfida si attua, prevalentemente, lungo la linea del confronto diretto con i casi reali della vita, al punto da affermare come il momento della rappresentazione sia connesso alla consapevolezza del prima e del dopo spettacolo; pertanto, i tratti peculiari del ‘personaggio’ — meglio ancora, del ‘carattere’ — si definiscono sul versante dell’identità e dell’originalità, piuttosto che su quello dell’omologazione e della tipizzazione, a dispetto dell’esaltazione simbolica o della significazione allegorica.
Un fenomeno, in apparenza marginale, qual è la farsa musicale veneziana, che si diffonde alla fine del XVIII secolo, dimostra come un genere composito, persino ‘indefinibile’, in cui confluiscono spunti tematici e trattamenti di varia estrazione, prenda piede fino a conquistare l’attenzione degli spettatori utilizzando l’interazione di forme differenti, musica, canto, recitazione, pantomima, ballo, racchiuse entro lo schema della commedia «breve» e «piacevole», con l’obiettivo di agevolare, attraverso la semplificazione dei gesti e degli effetti, l’immediatezza della relazione fra palcoscenico e sala(3).
L’avvenimento più rilevante per la vita teatrale veneziana di fine Settecento è la costruzione, in soli diciotto mesi, e l’inaugurazione del Gran Teatro la Fenice, per l’impegno della «Nobile Società» che nel 1787 era stata estromessa dalla gestione del Teatro di S. Benedetto: il 16 maggio 1792, durante la fiera della Sensa, si apre il sipario del nuovo edificio con I giuochi d’Agrigento, opera musicata da Giovanni Paisiello su libretto di Alessandro Pepoli(4). Il teatro sorge in contrapposizione agli altri, non solo perché diviene ben presto il luogo di rappresentanza della città, ma anche per la propensione a modificare la prassi produttiva e organizzativa, mediante un sistema di concertazione fra la presidenza della Società e gli impresari, ai quali viene demandata la gestione delle singole stagioni. Contestualmente al progetto di edificazione, i societari chiedono e ottengono dal senato che siano modificate le norme stabilite per l’assegnazione dei palchi, soprattutto per quanto concerne le ospitalità diplomatiche(5).
Gli altri sette teatri attivi alla fine del XVIII secolo presentano una storia differente. La maggior parte di essi sono segnati dal mutamento di proprietà: il S. Benedetto, o S. Benetto, aperto nel 1755, è riscattato dai fratelli Nicolò e Alvise Venier, ma nel 1792 è affidato ad una «Nobile Società». Anche il S. Samuele è ceduto dai Grimani ad una «Eccellentissima e Nobilissima» impresa societaria. Il Teatro di S. Giovanni Grisostomo è retto da Maria Virginia Chigi Grimani, vedova di Zuan Carlo. Il Teatro di S. Salvador, o S. Luca, è ancora nelle mani della famiglia Vendramin. Il Teatro di S. Angelo presenta, invece, una costellazione di partecipazioni proprietarie(6). Il Teatro di S. Cassiano, proprietà dei discendenti Tron, ha una conduzione impresariale. Infine, il Teatro di S. Moisè, appartenente a Lorenzo Giustinian, agisce tra mille difficoltà con l’intervento di gestori esterni.
La vita ordinaria degli otto teatri veneziani, dunque, non pare ancora intaccata dalla crisi politica che sospinge la Repubblica di Venezia verso l’epilogo. La preoccupazione prevalente non riguarda il confronto fra i generi di spettacolo; sebbene proprio negli anni Settanta del Settecento si registri un certo equilibrio tra l’offerta di teatro recitato e quella di rappresentazioni musicali e di ballo, la questione centrale continua a essere, piuttosto, la necessità di garantire un’esistenza accettabile alle forme tradizionali senza rinunciare a compiere scelte innovative. Lo conferma la lettura dei singoli cartelloni: nella sala del S. Giovanni Grisostomo recita da tempo la compagnia di Carlo e Maddalena Battaglia, che ha scritturato il «poeta comico» Camillo Federici e l’attore-autore Gaetano Fiorio; il 4 gennaio, alla riapertura dei teatri dopo la pausa di fine anno, propone Donna Caritea regina di Spagna, «rappresentazione spettacolosa» di Luigi Millo, tratta da Giraldi Cinzio, replicata per quattordici sere. Al Teatro di S. Luca si esibisce la compagnia di Luigi Perelli; il 4 gennaio 1797 viene presentata la «rappresentazione spettacolosa» I giochi di Corinto ideata dal tenente Antonio Valle. Nel Teatro di S. Angelo agisce la compagnia di Giuseppe Pellandi, con la splendida prima attrice Anna Fiorilli, il celebre Tartaglia Agostino Fiorilli e il poeta Antonio Simeone Sografi; il 4 gennaio s’inscena Tieste, tragedia di Ugo Foscolo, le cui repliche si protraggono per nove serate consecutive; in chiusura di stagione, il 28 febbraio si rappresenta la commedia Nina, pazza per amore, tradotta dal francese da Pietro Andolfati, che riscuote un vasto successo, anche se è stata già realizzata con la musica di Giovanni Paisiello al S. Moisè nel 1792 e nel 1796. Il S. Cassiano ospita la compagnia di Francesco Meneghelli, che il 4 gennaio offre al pubblico Quanto ingannano gli indizi! Ossia il fortunato e lo sfortunato non fortunato facchino, commedia del conte Perelada; il 6 gennaio la commedia dell’arte Truffaldino sotto cuoco; il 7 gennaio la «rappresentazione spettacolosa» La navigazione d’Enea di Pietro Chiari.
Per quanto riguarda le realizzazioni della scena musicale, invece, la stagione del Teatro la Fenice si apre all’inizio del 1797 con la tragedia per musica Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, su libretto di Antonio Simeone Sografi; l’opera, interpretata da Giuseppina Grassini, Girolamo Crescentini e Matteo Babini, ottiene un tale apprezzamento da essere riproposta durante la festa della Sensa. Al S. Benedetto il 14 gennaio si mette in scena Bianca de Rossi, dramma nuovo per musica di Vittorio Trento, poesia di Mattia Butturini. Il S. Moisè ospita la commedia per musica L’amante servitore di Ferdinando Paer, poesia di Sografi(7).
Sul versante del teatro recitato, proprio in ambito veneziano, si risolve positivamente la trasformazione della struttura della compagine comica, sottoposta alla pressione del dramma serio-borghese, come si sta definendo in ambito europeo, a partire dal pensiero di Diderot(8). Esaminando la suddivisione dei ruoli si nota come rimanga ancora in auge la tendenza a sdoppiare le mansioni serie, quelle abbinate per lo più alle figure degli innamorati e dei vecchi, adeguandole alle esigenze dei nuovi testi; invece, si duplicano i ruoli convenzionali, a cominciare dalle maschere che continuano a proporre, spesso in chiave esageratamente farsesca, i consueti scenari dell’arte, oppure le commedie goldoniane(9). Il repertorio mette in luce le variabili specifiche della teatralità veneziana, che dimostra una predilezione per le opere scritte da autori legati da un rapporto di collaborazione continuativa.
L’arrivo delle truppe francesi e l’esperienza della Municipalità coinvolgono subito la zona del teatro; la svolta giacobina dà fiato ad un ciclo di produzioni ben visibili, decisamente orientate all’esaltazione dei principi di «libertà, virtù, eguaglianza». La riforma dell’ordinamento sociale prevede la creazione di un teatro civico all’insegna del sublime, in grado di educare la coscienza democratica dei cittadini; il relativo manifesto invita alla collaborazione gli scrittori, e viene firmato, tra gli altri, da Ugo Foscolo. Intanto Antonio Piazza spiega con autorevolezza, sulle pagine della «Gazzetta Urbana Veneta», quale debba essere la fisionomia di un «teatro morale», da cui siano escluse non solo le «maledette commedie dell’arte», ma anche le fiabe sceniche e quelle rappresentazioni allegoriche che intontiscono gli ignoranti, invece di istruirli(10). E si discute accanitamente su ogni tema, non ultimo quello dei diritti delle donne a partecipare al rinnovamento culturale e teatrale. L’età delle metamorfosi non si rinchiude certo nelle sale teatrali, seppure la prima festa pubblica a Venezia si tenga nella splendida sala del Teatro la Fenice il 28 maggio 1797: qui, sotto il tricolore francese, danzano una dama e un soldato. La rivoluzione ama mostrare il suo volto celebrativo soprattutto nei campi, all’aperto; nelle stampe dell’epoca si può osservare come piazza S. Marco, rinominata piazza Maggiore, sia divenuta il centro della festa civile. La grande cerimonia d’insediamento del governo provvisorio e dei sessanta «costituenti» della Municipalità ha luogo il 4 giugno 1797, quando nella Gran Piazza si glorifica «solennemente la festa della libertà riacquistata colla erezione dell’Albero che n’era l’emblema», come dichiara un proclama. In tale occasione s’innalzano tre magnifiche logge, riservate rispettivamente ai governatori, agli ufficiali francesi e ai diplomatici stranieri; in segno d’allegria si sparano salve di cannone, quattro orchestre eseguono la Carmagnola e altre sinfonie, i ballerini danzano con viva partecipazione. Per rendere ben visibile la fine degli antichi privilegi del patriziato si bruciano con ostentazione il corno dogale e il Libro d’Oro dell’aristocrazia veneta. Ma, nonostante le sollecitazioni, la folla di curiosi si mantiene fredda, distaccata e «riluttante» a intervenire, come lamenta il notista del «Monitore Veneto».
Momenti di esaltazione collettiva si ripetono nei mesi successivi; il 19 messidoro (7 luglio) vengono abbattute le porte del Ghetto, in segno di parità fra tutti i cittadini. La festa diventa l’espressione più evidente di una rivoluzione che chiama a partecipare tutti gli individui; al rito teatrale spetta, comunque, il compito di diffondere il credo democratico: al S. Cassiano, già il 28 giugno, si svolge il primo spettacolo patriottico con l’allestimento della farsa intitolata La fiera della libertà; in essa si offrono, allegoricamente, ai cittadini merci preziose e senza prezzo, quali la virtù, il coraggio, l’eguaglianza e l’amor di patria. Il 23 maggio, appena dieci giorni dopo la fine della Repubblica di Venezia, Sografi, autore di teatro e librettista in auge, progetta in linea con la svolta patriottica la composizione di una «rappresentazione democratica» in grado di esaltare due episodi eroici della storia veneta, vale a dire la Serrata del maggior consiglio, nel 1296, e la congiura di Baiamonte Tiepolo, avvenuta nel 1310. La stesura del dramma La Giornata di San Michele si presenta, però, come una faccenda molto laboriosa, tanto da essere completata quando ormai l’esperienza della Municipalità veneziana si è già conclusa. Sografi riesce, invece, a mettere in scena Il matrimonio democratico, ossia il flagello de’ feudatari, che elabora in chiave giacobina La bottega del caffè di Goldoni(11). La commedia si rappresenta a partire dal 18 luglio 1797, per tredici volte, nel Teatro di S. Giovanni Grisostomo, divenuto la sede teatrale del governo democratico. Ma lo spettacolo inaugurale del Teatro civico ha luogo il 10 luglio con Bruto primo, tragedia di Vittorio Alfieri, seppure con alcuni interventi di correzione testuale; il 16 luglio è la volta della Locandiera goldoniana. I pochi mesi del governo patriottico sono scanditi dalle recite di testi ben selezionati: si mettono in scena il dramma L’amore irritato dalle difficoltà di Giovanni Greppi, la farsa Il matrimonio improvvisato di Francesco Albergati Capacelli; fra le proposte tragiche si ricordano La morte di Cesare di Voltaire e, soprattutto, Orso Ipato di Giovanni Pindemonte(12).
L’età delle Municipalità dà una spallata decisiva all’idea di teatralità che ha caratterizzato l’evolversi del confronto fra Venezia e lo spettacolo. La città lagunare, priva del suo dominio, diviene una piazza al pari degli altri centri del Veneto, mentre l’articolazione delle manifestazioni pubbliche s’interseca sempre più con le forme popolari d’intrattenimento: cambia, gradualmente, la mappa delle relazioni interne alla struttura urbana e muta la corrispondenza con l’attività dei territori di terraferma, luoghi in cui, frattanto, s’accentuano i contrasti sulle supremazie, anche nel settore dell’invenzione scenica(13). La tendenza a riformulare una mentalità operativa, che nella seconda metà del Settecento ha già provocato sussulti nel sistema di governo dei teatri, a vantaggio di una crescente presenza degli impresari, mette in luce contraddizioni e limiti di un modello che ha funzionato fino a quando la vita culturale europea ha interessato una costellazione di città cosmopolite, fra le quali Venezia aveva mantenuto a lungo un ruolo di riferimento obbligato.
Mentre si alternano le fasi di governo tra i francesi (1797 e 1806-1814) e gli austriaci (1798-1806 e 1814-1848) la fisionomia della scena ufficiale si adegua per obbligo, dopo molti secoli d’immobilità, alle regole dettate dalle diverse amministrazioni. Dopo l’ingresso dell’esercito imperiale, il 18 gennaio 1798, alla Fenice, che diviene ben presto il luogo dei cerimoniali di Stato, si appronta una festa da ballo con luminarie e, il 30 febbraio, si esegue la cantata L’eroe, musicata da Cattarino Cavos. Di riflesso, all’esterno si predispone un apparato celebrativo adeguato, a partire dalla Piazza. Di lì a poco, però, vengono promulgate disposizioni di censura, che riguardano anche il settore del divertimento e dei giochi d’azzardo: si proibisce l’uso della maschera, salvo negli ultimi tre giorni di Carnevale entro le sale del S. Benedetto e della stessa Fenice. Quando ritornano a Venezia le truppe francesi, lungo il tragitto che va dalla piazza S. Marco al Gran Teatro, e soprattutto lungo le sponde e le fondamenta del Canal Grande e dentro i palazzi patrizi, vengono allestite le macchine adatte a sancire il trionfo dei nuovi dominatori. Esaltante sarà l’accoglienza fatta a Napoleone Bonaparte il 29 novembre 1807, con un alto numero di feste e con l’esecuzione alla Fenice, il 1° dicembre, della cantata Il giudizio di Giove.
La scena rappresenta l’Olimpo con tutti gli Dei indicati dai rispettivi attributi. Giove siede nel mezzo sopra maestoso Trono. Egli è coperto da una nuvola risplendente, che mentre si canta il Coro va diradandosi. Porta nella destra i fulmini, e la corona in capo. Gli soprastà l’Aquila del Regno d’Italia librata sull’Ali.
Coro de’ Numi
Della tua gloria in seno
Mostrati, eccelso Nume.
Col vivido tuo lume
Rendi più bello il ciel.
Giove
Numi, di questo regno
Ornamento e splendor. Sorto è il gran giorno
Scritto ne’ fati, in cui termine alfine
La lite avrà [...].
Avvi tal Grande. Un tempo ei mosse il piede
Della Grecia e di Roma
Sugli esempi famosi. [...]
Ogni Eroe sorpassò. Minor di lui
Ogni esempio divenne. E la Vittoria
Per man lo prese, e suo Campion l’elesse.
Egli volò, non corse,
Dietro di sé lasciando
E con spazj infiniti
Temistocli, Alessandri, Augusti e Titi.
Valore
Ma il suo Nome qual è?
Giove
Va’, vola, scorri
L’Europa, il mondo, e il Nome augusto udrai.
E se tutti in quel volto
Del sommo i pregi rimirar tu vuoi,
Movi all’Adriaco lido i passi tuoi. [...]
La tenera vedrai
Gara tra il padre, e i figli... e là... ma il nome,
Che l’alto grido d’ogni intorno spande,
Sai tu qual è?... NAPOLEONE IL GRANDE.
(Esce dal Tempio della Gloria la Fama. S’aprono le Volte dell’Olimpo. Compariscono varj gruppi di Genj festeggianti) [...].
Tutti
Viva il Gran Duce, viva,
Viva il maggior dei Re.
(Fine)(14).
Sul versante legislativo, intanto, il provvedimento più eclatante è il decreto del 6 aprile 1807: una disposizione del ministro degli Interni, il marchese Lodovico Giuseppe Arborio di Breme, impone al prefetto di Venezia la «soppressione» di quattro teatri su otto, motivando la scelta in base alla loro produttività e alla necessità di razionalizzare il rapporto fra il numero dei teatri e la densità della popolazione; vengono chiusi, pertanto, il S. Cassiano, il S. Angelo, il S. Luca, il S. Samuele; gli ultimi due verranno riaperti con decreto del 21 aprile 1815 dalle autorità austriache(15). Ma, al di là delle disposizioni governative, l’andamento delle stagioni teatrali risente dell’impossibilità di modellare la struttura e la gestione dei teatri della città lagunare in sintonia con il ricambio degli spettatori e la logica impresariale.
La crisi coglie i proprietari e le società senza badare ai decreti, come accade al S. Moisè, che gode il vantaggio di trovarsi nei pressi di piazza S. Marco. Mentre si dibatte nella crisi, il Teatro vive alcuni episodi fortunati, legati all’avvio della carriera musicale di Gioacchino Rossini, che vi esordisce il 3 novembre 1803 con La cambiale di matrimonio, farsa di Gaetano Rossi; il compositore agisce in questo Teatro fino alla sua chiusura, avvenuta nel 1818(16). Di stagione in stagione si fa convulso l’impegno per vendere i posti disponibili e per risparmiare sulle spese artistiche e di conduzione. Tale necessità giustifica l’affermarsi del fenomeno delle farse per musica, come indica Giuseppe Carpani, il capo censore e regio ispettore dei teatri di Venezia, sostenendo che è «la mira di alcuni impresari di fare spesso delle serate piene con delle prime recite, e la speranza di riempire successivamente i teatri a minor spesa che li mosse ad introdurre le farse»(17). Si modifica, pure, il tradizionale meccanismo dell’«affittanza» a lunga scadenza dei palchi, per la necessità di riscuotere il canone in apertura di stagione; si ricorre al supporto economico del gioco, al punto da trasformare la tombola in uno spettacolo popolare da tenersi sul palcoscenico, come è documentato proprio al S. Moisè; si accolgono forme d’intrattenimento coreografico; nello stesso tempo, si presta meno attenzione alle decorazioni, alla pulizia e alla funzionalità degli edifici.
Sono anni segnati, comunque, dall’evolversi rapido delle forme drammatiche e musicali, ma ancor più dall’affermarsi di un divertimento dapprima coreografico, poi acrobatico che attraverso gli intermezzi s’insinua nel tessuto delle rappresentazioni da cartellone, anche per l’influenza dei modelli francesi. Nella stagione 1809-1810 il Teatro di S. Luca riapre per mostrare le esibizioni equestri della prestigiosa compagnia circense Guillaume; poi, nel 1812 hanno luogo le recite della troupe di Madame Raucourt, l’artista che Napoleone ha incaricato di diffondere il teatro francese nei territori del Regno d’Italia. L’attività degli altri teatri veneziani prosegue all’insegna della contraddizione, divisa tra la permanenza delle compagnie legate al circuito di Lombardia, quella che aveva al suo centro la Repubblica, e lo slancio verso l’innovazione tecnico-drammatica di complessi che agiscono nelle altre città della penisola. Il S. Samuele, ad esempio, registra nel periodo 1802-1806 la presenza degli attori di Giuseppe Pellandi, un capocomico che agisce sulla linea di confine con la grande tradizione settecentesca, e di quelli di Salvatore Fabbrichesi, l’artefice nel 1807 della Compagnia Vicereale, che nei primi anni del XIX secolo è presente spesso sui palcoscenici della sua città nativa(18). Il S. Giovanni Grisostomo continua ad esistere, soprattutto, per la cura amministrativa delle discendenti femminili della famiglia Grimani, in particolare di Virginia Chigi, insieme a Caterina e Anna; ma la fama di cui aveva goduto un secolo prima resta, ormai, un lontano ricordo. Il repertorio si piega alla necessità di rivolgersi ad un pubblico eterogeneo, proponendo farse, opere giocose, commedie lacrimose, affidate a compagnie di buon livello, come quelle di Andrea Bianchi, Venier-Modena-Aspucci, Rastopulo, Fabbrichesi.
Il progetto imperiale di Napoleone stravolge l’antico impianto civile della Serenissima, deprimendo l’esistenza delle istituzioni non statali; in questo periodo aumentano le feste, i divertimenti e le occasioni celebrative, che esaltano la centralità di alcuni luoghi deputati, a partire dal Gran Teatro la Fenice, divenuto il luogo preferito dei cerimoniali governativi. È interessante, in tal senso, verificare gli interventi architettonici e decorativi, che nel 1808 culminano nella costruzione del «palco del Governo», in linea con quanto era avvenuto alla Scala di Milano(19). Lo sfarzo dei teatri e dei salotti, le solennità in onore della famiglia imperiale, i tributi pubblici ai trionfi napoleonici, fra spari di cannoni e tripudi di popolo, si contrappongono ad un’immagine di una città svuotata e in rovina. Il genere che meglio esemplifica un’età d’incertezza e di confusione è proprio la farsa musicale veneziana, che per la sua ‘eterogeneità’ costituisce un sistema di passaggio da una mentalità teatrale cosmopolita alla forma-spettacolo ‘popolare’, destinata ad un pubblico indifferenziato, facilmente riproducibile e replicabile; inoltre, garantisce un’attenzione interpretativa trasversale, chiama in causa una teatralità mista, che va dalla commedia di stampo francese alla pantomima, da un’ascendenza favolistica e classicheggiante all’influenza letteraria europea, e punta a contaminare i tratti seri e quelli decisamente comici, confidando sulle abilità recitative(20). Attraverso il linguaggio innovativo della farsa l’ambito teatrale veneziano esce dalle secche di una lunga mutazione delle forme, per entrare nelle dinamiche di un sistema produttivo sempre più di stampo imprenditoriale, omologo a quello delle altre città capoluogo della grande provincia italiana dell’Ottocento.
Tutto cadde, sparì. Su le ruine
Di quel Mondo sì lucido, ov’entrai
Fanciullo, e crebbi, un nuovo Mondo s’alza,
S’apre un nuovo teatro, attori nuovi
Vengono e vanno; ed io straniero, e quasi
Fra tanti spettator solo mi trovo.
Sono le parole amare di Ippolito Pindemonte (La mia apologia, 1819), che esprimono lo stato d’animo incerto dei più nel constatare che Venezia passa da un dominatore ad un altro; così, dopo la caduta di Napoleone, il 23 aprile 1814 torna sotto l’egida imperiale dell’Austria-Ungheria; una volta proclamato il Lombardo-Veneto, un anno appresso la visita ufficiale del sovrano Francesco I sancisce la regalità della città, capitale del territorio veneto. È un soggiorno che manifesta un intenso impegno nel restaurare i luoghi deputati della memoria storica e che si rinnova nel corso del tempo, ogni volta che se ne offre l’occasione. Ne è segno tangibile il decreto del 21 aprile 1815, con cui è concessa la riapertura dei teatri di S. Luca e di S. Samuele. Anche il nuovo ordine imperiale rilancia la necessità di ripristinare una idealità perduta, che oramai appare impossibile. Basta seguire il processo di riorganizzazione proprietaria dei teatri di Venezia per comprenderlo: s’affaccia in laguna un gruppo di impresari-imprenditori, quali Giovanni Gallo e suo figlio Antonio, Luigi Facchini e Giuseppe Camploy. Costoro, che prendono il posto delle famiglie patrizie nella proprietà, non sempre riescono a riqualificare l’impianto organizzativo dello spettacolo in direzione di un rilancio della qualità artistica e del consumo, limitandosi spesso ad inseguire l’occasionalità, a praticare un’amministrazione ordinaria, a fidarsi di un predeterminato gusto del pubblico. È un segno ulteriore del degrado economico della città, in ogni settore d’attività, una situazione critica che s’accentua sotto la gestione austriaca, un’emarginazione culturale che abbassa la piazza veneziana ad un livello secondario. Non è certo per la mancanza di creatività, e neppure per carenze d’investimenti, quanto piuttosto per le incongruenze di un modello che rimpiange la grandezza perduta, non accorgendosi che i tempi sono mutati: perciò, meraviglia come, nonostante tali limiti, nei teatri veneziani siano accaduti episodi centrali per la storia dello spettacolo ottocentesco.
Mentre è concessa la riapertura di alcuni degli edifici chiusi nel 1807 dal governo napoleonico, un’ordinanza del 28 settembre 1820 impedisce la costruzione di nuovi edifici(21). Nello stesso tempo si accentua, col passare degli anni, l’azione censoria sulla produzione drammatica, secondo quanto stabilito già nel 1804, durante la prima dominazione, con la promulgazione delle Massime colle quali provvisoriamente si regola la R. Censura di Venezia nella esclusione delle pezze teatrali; con la scusa di tutelare la moralità e il «rispetto all’Auttorità Sovrana, e l’onore dei Nobili», si proibiscono i testi francesi e le commedie di Kotzebue, considerati pericolosi, si depurano le uniche quattro tragedie di Alfieri permesse e, persino, le opere di Goldoni. Anche i provvedimenti fiscali si accaniscono sull’attività scenica lagunare, con l’imposizione della tassazione sui biglietti(22); insomma, si continua ad esercitare sulle faccende teatrali un attento controllo.
Per effetto della confusione gestionale è inevitabile che la produzione di spettacoli, lungo tutto il XIX secolo, risulti in calo, nonostante il prolungamento delle stagioni oltre il limite del Carnevale. La chiusura intermittente degli spazi rappresentativi determina fratture nella continuità operativa delle compagini artistiche, che nel recente passato facevano a gara per essere presenti stagione dopo stagione in un teatro, quasi volessero costruire un legame solido e prolungato con la specificità dei luoghi scenici. Inoltre, si ha la sensazione che intervenga nella modificazione del rapporto fra teatralità e pubblico la fisionomia degli scrittori di teatro, divenuti oramai una componente decisiva per la riuscita dei cartelloni. Basta un esame complessivo del repertorio apparso nel periodo che va dalla caduta della Serenissima agli anni Trenta dell’Ottocento per capire come esista una cerchia di ‘poeti’, in grado di sopperire alle crescenti esigenze del teatro musicale, del teatro recitato e di quello coreografico, oltre che di una miriade di sottogeneri, legati sempre più ai cerimoniali e al calendario delle ricorrenze civili(23).
Se l’immagine della Venezia città-teatro e città del teatro si eclissa progressivamente, scivolando verso una dimensione artistica provinciale, dipende forse dal fatto che le amministrazioni civili non agiscono più in un’ottica di apertura internazionale, ma s’invischiano nella prassi delle piccole rivalità cittadine, e si limitano a governare la quotidianità; non serve, perciò, insistere sul confronto fra l’era della Repubblica e il dopo-caduta, visto che oltretutto il mutamento di gusto nell’immaginario collettivo si evolve verso forme di partecipazione diffusa. Si oscilla, d’ora in poi, fra l’incerta identità della borghesia, costretta a destreggiarsi entro le strettoie dell’occupazione straniera e i propri limiti culturali, e l’insidia di un populismo che non si può paragonare all’interclassismo di facciata esistente al tempo della Dominante. Anche il sistema teatrale subisce i contraccolpi di una tendenza policentrica, che cerca con fatica la via verso l’unità nazionale; al di là degli aneddoti, con il teatro, nonostante le contraddizioni, si tenta di definire un’inedita e necessaria coesione civile.
Sul versante dell’acquisizione proprietaria degli edifici la presenza più rilevante è quella di Giovanni Gallo, un imprenditore spregiudicato, che nel 1810 compra il Teatro di S. Benedetto, nel 1815 apre il Teatro Arena Gallo, a S. Maria del Giglio, e nel 1819 acquista dai Grimani, insieme al socio Luigi Facchini, il S. Giovanni Grisostomo. L’idea di rinnovare il fasto del teatro più prestigioso dei secoli precedenti spinge Gallo a rimodernare la struttura, il palcoscenico e la sala, introducendo, tra l’altro, il loggione al posto dell’ultima fila di palchi: in tale scelta è riconoscibile l’intento di rendere accessibili gli spettacoli ad un pubblico popolare. La riapertura del teatro avviene il 31 ottobre 1819 con un successo esaltante, dovuto alla ripresa de La gazza ladra di Rossini; ben presto, però, in linea con il disegno di attirare spettatori popolani, Gallo e Facchini decidono di ospitare, già l’anno successivo, la compagnia equestre viennese di Cristoforo Bach. È solo l’inizio, perché gradualmente le esibizioni acrobatiche, l’intrattenimento leggero, la produzione farsesca tendono a diventare la norma. Dopo aver rilevato la quota di Facchini, nel 1834 Gallo ammoderna la platea per rendere possibile l’uso diurno, attraverso l’apertura di grandi finestre. L’episodio è da segnalare in relazione alla mutata sistemazione dell’interno, all’estensione del loggione e delle gradinate (introdotte nella zona del prepiano, nel primo ordine dei palchi), all’ampliamento della visibilità della scena, al raddoppio degli accessi, anche in direzione del sestiere di Castello, densamente abitato dai ceti più modesti.
Nel 1835, poi, il Teatro Emeronittio, come viene chiamato subito dopo l’inaugurazione, accoglie, sia pure per una serata soltanto, la grande soprano Maria Malibran; infatti, in accordo con la Fenice, dove la cantante si esibisce il 2 aprile in una recita straordinaria de Il barbiere di Siviglia, nel ruolo di Rosina, l’8 aprile Maria viene qui acclamata, al di sopra d’ogni attesa, ne La sonnambula di Vincenzo Bellini. In segno di gratitudine Gallo le intitola il teatro; ciò non impedisce che rimanga lo spazio deputato del meraviglioso, e che vi si ospitino i complessi equestri di Alessandro Guerra e del francese Guillaume. Con la stessa logica il proprietario-impresario regge le sorti dell’Arena anfiteatro, in cui si propongono lavori di prosa dal 1815 al 1820, e del S. Benedetto che, ribattezzato Teatro Gallo, prosegue con un repertorio operistico, degno d’attenzione perché annovera le prime rossiniane de L’italiana in Algeri (22 maggio 1813) e di Eduardo e Carolina (24 aprile 1819). Ben presto, però, si appiattisce nella ripetizione delle proposte musicali della Fenice, seppure di tanto in tanto con qualche guizzo di esaltazione artistica. Una scelta migliore, invece, si ha nella programmazione del teatro recitato, che registra l’avvicendarsi delle compagnie più prestigiose del primo Ottocento(24). Lo slancio che Giovanni Gallo dimostra nel combinare l’idea di teatro aperto ad un pubblico eterogeneo e la passione per le forme raffinate lo spinge a commissionare allo scenografo Francesco Bagnara le decorazioni del S. Benedetto.
La gestione abbinata dei due teatri sembra seguire una logica d’impresa simile a quella dei Grimani, una delle famiglie patrizie più impegnata a guidare senza intermediari dapprima tre, poi due prestigiosi teatri della Serenissima; eppure, nonostante il fervore riformistico, che si traduce nel decidere continui ammodernamenti strutturali, nel curare lo splendore delle decorazioni, nell’alternare produzioni di buon livello e di prestigio a programmi d’intrattenimento popolaresco, l’attivismo di Gallo s’infrange dinanzi alle contraddizioni della società veneziana. È una città invischiata ormai in un’ottica interna, conchiusa nell’ambito lagunare, che guarda il resto del mondo con distacco, che non dimostra più alcun interesse per l’andamento delle faccende della terraferma. Mentre si dissolve il patriziato, si fa strada un nucleo composito di professionisti e di commercianti: il popolo vive in ristrettezze, fra mille problemi quotidiani, con poca speranza di trovare occupazioni stabili. Colpiscono le parole amare e graffianti di Silvio Pellico, scritte nel settembre 1820, dirette al suo amico fraterno Pietro Maroncelli e pubblicate da Cesare Cantù ne Il Conciliatore e i Carbonari:
I veneziani sono troppo chiaccheroni. La loro vita di piazza e di caffè è molto svaporata, non pensano, non sentono; io erro le intere giornate nelle Gallerie di quadri, nelle chiese, nei palazzi crollanti: dappertutto mi colpì lo spettacolo della passata forza e ricchezza veneziana e della presente miseria. Come mai non vedo io in ciascun volto il dignitoso sentimento del dolore? Ad ogni sghignazzare pantalonesco che giunge a l’orecchio, io fremo(25).
Al di là dell’ardore rivoluzionario, il giudizio di Pellico sottolinea l’ambiguità dell’atteggiamento dei cittadini veneziani, critici e, qualche volta, dissidenti nei confronti dell’amministrazione austriaca, mai oppositori convinti. Non meraviglia, dunque, se la zona dell’edonismo teatrale finisce per avere un ruolo rivelatore di un’inerzia sociale, che intacca la solidità dell’antico sistema-mercato dello spettacolo. Le cronache e i commenti dei giornali sull’attività scenica e festiva di Venezia segnalano la crescente enfasi che nutre l’immaginario collettivo. La maniera stessa di recensire gli eventi risulta una sorta di prolungamento delle rappresentazioni, perché fissa le coordinate del gusto in un’epoca di contaminazioni e di esperimenti, perché sollecita interventi e correzioni di stile, perché si propone come specchio non indifferente della cultura di una città. Tommaso Locatelli, che si può considerare l’osservatore per eccellenza della Venezia teatrale dell’Ottocento, è un critico attivo, un editorialista ascoltato in ogni ambiente, sottile al punto da smontare con abilità retorica il valore dei suoi interventi: «Dio mio, quante sono le cose inutili nel mondo! Quante fatiche gettate, quante opere perdute! A noverarle tutte ci sarebbe d’empierne i fogli; ma fra le cose più inutili v’ha egli maggiore inutilità di un articolo di teatro?»(26).
Una vicenda differente è quella del Teatro di S. Luca, chiuso nel 1807; la sua crisi finanziaria è legata anche alla questione della proprietà quando, dopo la morte di Antonio Vendramin nel 1809, per l’abolizione del maggiorasco risulta difficile stabilire le quote di possesso dei nipoti Francesco, Domenico Antonio e Chiara, figli di Zuane. Nel 1815 il decreto imperiale restituisce alla città l’uso del teatro, che per la rinuncia degli altri eredi è governato da Domenico Antonio. Dopo un intervento di adeguamento, il 28 novembre si riapre con l’opera buffa Le gelosie villane di Giuseppe Sarti, su libretto di Terenzio Grandi, rappresentazione che viene riproposta il giorno successivo in onore di Francesco I e di Maria Ludovica(27). Il discendente dei Vendramin riversa una cura particolare alla conservazione dell’edificio, operando continui lavori di restauro e di abbellimento: il primo è compiuto nel 1818 dall’architetto Giuseppe Borsato e dal pittore Bernardino Bisson. La riapertura, in tale occasione, propone il debutto di un compositore sconosciuto, Gaetano Donizetti, con il melodramma Enrico di Borgogna, su libretto di Bartolomeo Merelli; l’impegno maggiore di Domenico è volto a riguadagnare un ruolo di prestigio nell’ambito della città, entrando perciò in concorrenza con gli altri teatri.
La storia ottocentesca del glorioso S. Luca si sviluppa all’insegna di una mentalità direttiva pronta a misurarsi con le tante anime dello spettacolo, prestando attenzione alle predilezioni del pubblico. Lo segnala in modo diretto un intervento fra la cronaca e la critica, che esalta la propensione tutta veneziana per gli esiti dello spettacolo musicale, a discapito delle altre forme sceniche. Intanto, anno dopo anno, transitano su questo palcoscenico i più quotati complessi e i migliori protagonisti del teatro recitato, da Carlotta Marchionni a Romualdo Mascherpa e Alamanno Morelli, da Gustavo Modena a Luigi Duse e Francesco Augusto Bon, offrendo un repertorio che coniuga esaltazione e reminiscenza, le tragedie di Alfieri e le commedie di Goldoni: un autentico successo, collegato alla matrice popolaresca dialettale, si registra nel Carnevale del 1822 con La regata di Venezia, commedia di Alessandro Zanchi che, posta in scena dalla compagnia Marchionni, colleziona ben diciotto recite consecutive; sarà riproposta nel dicembre dello stesso anno alla Fenice, dalla compagnia Goldoni, in una sintesi di due tempi, per onorare i sovrani d’Austria. Un secondo rifacimento di rilievo, ad opera di Borsato e Sebastiano Santi, coincide nel 1833 con il cambiamento di nome in Teatro Apollo. In tale cornice, l’anno seguente, il pubblico accorre numerosissimo alle esecuzioni dell’opera nuova di Vincenzo Bellini, Norma, con protagonista la «immensa, sublime» Giuditta Pasta(28).
Quando il 12 dicembre 1836 brucia la Fenice, viene stilato un protocollo con la Società del Gran Teatro per trasferire la stagione all’Apollo. In occasione della realizzazione di Pia de’ Tolomei di Donizetti, su libretto di Salvatore Cammarano, con la soprano Fanny Tacchinardi-Persiani, le scene di Francesco Bagnara, si approntano un pontile per l’approdo delle gondole in riva del Carbon nuovo, un corridoio coperto fino alle porte del teatro e due nuovi ingressi laterali, a dimostrazione della flessibilità degli edifici. Un altro episodio, collegato alla presenza della «compagnia drammatica francese del sig. Doligny», a partire dal teatro dei Vendramin, attesta l’emergere di una logica trasversale nel sistema produttivo e, ancor più, in quello degli ingaggi; nello stesso tempo, rileva quanto sia mutato l’atteggiamento verso la scena straniera, esaminata più per i riflessi che può avere sulle procedure sceniche locali. Due anni dopo la medesima compagine è ospitata dal Teatro Gallo di S. Benedetto: pur elogiando il buon tenore comico delle esecuzioni, filtrano i distinguo sia sulla scarsa partecipazione del pubblico, sia in merito allo squilibrio qualitativo dei singoli attori(29).
Nel vagliare il susseguirsi delle singole stagioni si ha la sensazione che il mercato dello spettacolo proceda anzitutto sull’onda del consenso che un musicista, un interprete, un attore, un danzatore riescono ad ottenere presso i pubblici dei grandi teatri italiani, a cominciare da quelli di Milano, la capitale del Lombardo-Veneto; all’interno di un circuito articolato, le realizzazioni viaggiano recando con sé, spesso, anche i trionfi e le tensioni iniziali. Anche in questo caso la mediazione dei critici tende ad amplificare un giudizio prestabilito, sebbene non manchino le sottolineature dei riscontri ambientali. Nell’autunno del 1840 il Teatro Apollo ospita l’«ideale, fantastica» danzatrice Fanny Cerrito, della quale Locatelli sottolinea il «continuo svolgere e atteggiar la persona a’ più variati disegni di portamento e di membra», la «grazia e leggiadria», in grado di sublimare un’arte «sovrana» fino a farla apparire «nuova» e seducente(30).
Nello stesso tempo, a dispetto dell’incrociarsi dei generi d’intrattenimento, filtra nelle osservazioni della cronaca un oscillare del gusto verso le zone della nostalgia per il tempo perduto; basta che la compagnia di Luigi Duse si fermi una stagione nel teatro che fu di Goldoni per giustificare un consuntivo sul filo della memoria(31). In maniera scoperta si rinsalda la tendenza a riappropriarsi di un modello riconoscibile, in grado di mostrare alle generazioni del primo Ottocento fino a che punto sia possibile intessere un’idea del mondo con la visione della città, esaltandone il tessuto linguistico e il volto collettivo. Il microcosmo veneziano ha infranto il suo legame con le altre contrade, nel momento in cui si è eclissata l’abilità dei suoi politici, quando ha finito di proporsi come un modello.
Nel 1844, dopo la scomparsa di Domenico Antonio Vendramin, la direzione passa alla moglie, la nobildonna Regina De Marchi, che s’impegna a completarne la ristrutturazione. Nel giugno dello stesso anno si esibisce Gustavo Modena che conduce una compagnia di giovani attori con l’intento di dare loro una dignità nazionale; nel maggio del 1845 Modena riscuote un ampio successo con Il fornaretto di Francesco Dall’Ongaro. In autunno va in scena Attila, opera prima di Francesco Malipiero, compositore di Rovigo; nel dicembre 1847 si ha la ripresa dell’Alzira di Giuseppe Verdi(32).
Sul terreno della gestione, dunque, la fisionomia delle imprese teatrali appare simile, sebbene per alcuni teatri la continuità dell’amministrazione societaria non sempre coincida con la bontà delle soluzioni. Seppure talvolta scattino meccanismi di mutuo sostegno, in caso di difficoltà e d’incidente, subito dopo si fanno sentire le ragioni della concorrenza. Il caso del S. Samuele segue la medesima via; beneficiando della possibilità di riavviare la propria attività, sotto la dominazione dell’Austria, i responsabili della «Nobile Società», da cui dipende, tentano in vario modo di sanare il bilancio, di recuperare le insolvenze degli associati e dei palchettisti, di sistemare la fabbrica. Nella seduta del 23 gennaio 1819 si decide di affidarsi alla proposta di cartellone dell’impresario Agazzi: il 4 marzo va in scena Lodoiska di Johann Simon Mayr, su libretto di Francesco Gonella; l’anno successivo, si allestisce tra crescenti difficoltà economiche Pietro il Grande di Gaetano Donizetti, su libretto di Gherardo Bevilacqua Aldrovandini. Dopo non resta che prendere atto del fallimento dell’intermediazione impresariale; pertanto, il consiglio di presidenza, di cui fanno parte Giuseppe Boldù, Angelo Facci Gradenigo e Carlo Michiel, con la mozione del 13 maggio 1821, determina l’ammontare del canone ordinario e straordinario, nel tentativo di arginare il debito crescente. Visto che i propri soci restano inadempienti, nel maggio 1822 si procede all’asta dei beni del Teatro e al pignoramento del fondo e dell’edificio. La situazione si trascina per parecchi anni; invano, nel 1830, il Comune di Venezia, mentre è sindaco Domenico Morosini, dispone una sanatoria per i palchettisti. Inizia un lungo periodo d’incertezza, segnato da numerosi passaggi di proprietà, mentre il palcoscenico ospita spettacoli di vario genere, pressoché in silenzio(33).
Dopo la morte, avvenuta nel 1844, dell’intraprendente Giovanni Gallo, la proprietà dei teatri Malibran e S. Benedetto passa ai figli, seppure se ne occupi fattivamente Antonio, musicista e direttore d’orchestra: la sua conduzione segue le orme paterne, anche nella cura prestata all’efficienza delle strutture. Un anno dopo l’inaugurazione del ponte translagunare, avvenuta nel 1846, che contribuisce ad attirare un numero crescente di visitatori, nell’agosto 1847 il Teatro di S. Benedetto desta meraviglia tra i veneziani, profondamente rinnovato ad opera dell’architetto Giuseppe Jappelli, ornato con un prezioso sipario dipinto dal pittore Giacomelli che illustra «il torneo dato dal Doge Celsi in piazza a S. Marco, in onor del Petrarca»(34).
L’annoso problema del mancato versamento delle quote societarie e del canone d’affitto da parte dei proprietari dei palchi non risparmia neppure il Gran Teatro la Fenice. Nel 1800 il conte Giuseppe Giacomo Albrizzi s’incarica di predisporre un Piano economico, utile per assestare il bilancio e, insieme, di sostenere la produzione artistica attuando un’attenta verifica sulle scelte delle imprese teatrali, oltre che sui criteri di spesa; è un atteggiamento degno di nota, all’interno di una situazione ingarbugliata, spesso per assenza di responsabilità. Sebbene le stagioni del primo Ottocento si susseguano senza grandi slanci e con crescenti preoccupazioni finanziarie, tanto che si autorizzano gli impresari ad introdurre soluzioni per raccogliere fondi sussidiari, la progressiva importanza del teatro è confermata dalla continuità delle collaborazioni con i più illustri musicisti del XIX secolo. Mentre agiscono nella città lagunare, i compositori tendono ad estendere la loro azione creativa verso i teatri del territorio veneto; nello stesso tempo, si diffonde l’abitudine di valorizzare ogni spettacolo, con successive riprese, anche a distanza di tempo(35).
In virtù della destinazione a luogo dell’ufficialità la Fenice è soggetta spesso ad interventi di miglioramento e di ristrutturazione, come sono quelli che si attuano nell’età napoleonica(36). Tale fatto comporta che siano reperiti di continuo sussidi e sovvenzioni; gli stanziamenti si fanno più sostenuti dopo il 1814, quando rientrano in città gli austriaci, che utilizzano a tale scopo il canale delle tassazioni. L’attività produttiva, che si svolge in prevalenza durante la stagione del Carnevale, diviene intensa e pregiata. È questa l’età in cui l’organico artistico del Teatro si arricchisce, in sintonia con la scansione del cartellone che comprende opere serie e balli eroici; nel 1831 l’orchestra diventa stabile, nel 1832 viene aperta la scuola di canto e quella di ballo(37).
La Fenice è uno dei teatri preferiti da Gioacchino Rossini, il compositore che all’inizio del XIX secolo esercita una vera supremazia nell’ambito dello spettacolo operistico italiano ed europeo. Così, nel 1813, accade che si pongano in scena a breve distanza la farsa Il signor Bruschino (fine di gennaio) al S. Moisè, il melodramma eroico Tancredi (6 febbraio) alla Fenice con un esito trionfale, e L’italiana in Algeri (22 maggio) al S. Benedetto; già l’anno successivo Rossini appronta per il Gran Teatro di S. Fantin Il Sigismondo (26 dicembre 1814), che si rivela però un insuccesso. E poi, il 3 febbraio 1823, è la volta di un’impegnativa Semiramide, un dramma interpretato dalla soprano Isabella Colbran, divenuta la moglie del musicista pesarese; la passione rossiniana dilaga nei teatri cittadini in cui, proprio nel 1823, si può assistere alle rappresentazioni de L’inganno felice, Eduardo e Cristina, La gazza ladra, Matilde di Shabran, Aureliano in Palmira, Mosè, La Cenerentola, Il barbiere di Siviglia. L’interesse è confermato nelle stagioni successive con le repliche di queste e di altre opere; anche la Fenice, che è diventata, insieme alla Scala di Milano e al S. Carlo di Napoli, uno dei tre teatri di riferimento per gli artisti più prestigiosi, ripropone innumerevoli allestimenti rossiniani: nella stagione estiva del 1825 vanno in scena La Cenerentola (14 luglio) e Il barbiere di Siviglia (3 agosto); nel Carnevale del 1826 si presenta per ben diciassette sere, dal 10 gennaio al 16 febbraio, Otello ossia l’Africano a Venezia, la cui prima scena mostra «la Piazzetta di S. Marco, in fondo della quale fra le colonne si vede il Popolo, che attende festoso lo sbarco di Otello. Navi in distanza». Il tema, caro alla tradizione veneziana, sarà riproposto sotto forma di ballo tragico, con il titolo Otello ossia il Moro di Venezia; inscenato fra il 5 febbraio e il 17 marzo del 1828, come omaggio a Salvatore Viganò, il coreografo «poeta muto» scomparso nel 1821, è curato dal fratello Giulio, uno degli artefici del ballo alla Fenice(38).
In questa età sul palcoscenico del Gran Teatro s’intrecciano collaborazioni tra musicisti e interpreti eccellenti, che investono anche i programmi degli altri teatri veneziani, ma che includono, come nel caso di Rossini, un modello di osmosi poetico-musicale e di trame politico-culturali di respiro europeo. Se il disegno teatrale della Serenissima, fino ad alcuni decenni prima, dipendeva da un’attitudine a rielaborare in chiave ‘veneziana’ gli spunti più disparati, adesso lo spettacolo cittadino s’affida a proposte di sistema. Accade, anzitutto, con la teatralità francese che s’immette sulle scene lagunari in maniera farraginosa, aspra, spesso assunta come traduzione e adattamento di adattamenti. Sotto il dominio dell’Austria, invece, da una parte si allarga la zona della nostalgia, che equivale al sogno di un impossibile ritorno al passato, dall’altra s’inseguono gli spunti di una creatività soggetta ad equivoci, per l’incertezza del quadro di riferimento.
La stessa via che conduce all’affermazione dell’opera lirica nazionale oscilla fra rimasticature francesi, consapevolmente o meno intrise dai modi del «grand-opéra» e dagli sviluppi del teatro lacrimoso, suggerimenti poetici, condizionati da lirici nostrani non sempre all’altezza del compito, ripensamenti sui prototipi mitologici, adatti per commuoversi sulle disgrazie dell’eroe-vittima, e tentazioni folcloriche, derivate da preesistenze travisate e male assimilate. Un caso palese riguarda proprio il melodramma serio in cui, spesso inconsapevolmente, si scambiano i ritorni per novità, mentre si deprimono gli slanci autonomi dei compositori, talvolta per tutelare gli interpreti, altre volte per rassicurare i pubblici. La Fenice prende parte al gioco con un intenso lavorio di ingressi e di recuperi, tentando di tracciare collaborazioni privilegiate, purché risultino garantite; avviene con musicisti quali Saverio Mercadante, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti(39).
Quando la notte del 12 dicembre 1836 si sviluppa un incendio che avvolge il Teatro di S. Fantin, forse a causa dell’accensione della stufa Meissner appena installata, e che lascia in piedi solo le strutture e le sale più marginali, scatta una sostenuta azione di restauro, che a partire dal consiglio dei presidenti, formato dal conte Giacomo Francesco Benzon, da Giuseppe Berti e Filippo Trois, si propaga in tutta la città. Salvata la stagione già programmata con la collaborazione del Teatro di S. Luca, si dà incarico ai fratelli Tommaso e Giambattista Meduna di predisporre il nuovo progetto dell’edificio e di presentarlo alla commissione coordinata dal podestà Giuseppe Boldù. S’introducono modifiche sostanziali rispetto alla costruzione di Selva, allo scopo di risolvere alcune incongruenze strutturali: si studia l’allineamento dell’uscita con l’asse centrale della platea, si agevola la comunicazione fra i vari livelli di palchi e si dispone, soprattutto, l’ammodernamento e l’ampliamento della zona operativa e del palcoscenico. Il Gran Teatro risorge in fretta: il restauro, iniziato nel febbraio 1837, è ultimato in ottobre; in tal modo si restituisce il Teatro alla città il 26 dicembre con Rosmunda in Ravenna di Giuseppe Lillo, su libretto di Luisa Amalia Paladini(40). Si ha la sensazione che, a partire dalla nuova sistemazione, le rappresentazioni della Fenice aumentino di numero, alternando come al solito lavori musicali a coreografie, e che siano accompagnate da un consenso crescente, di fronte al sonnecchiare delle altre programmazioni teatrali. Il 26 dicembre 1842 si ha il trionfale incontro con Nabucodonosor, dramma lirico di Temistocle Solera, musicato da Giuseppe Verdi, che raggiunge nel corso della stagione le ventitré repliche. Nella stagione seguente viene ospitata la rappresentazione de I Lombardi alla prima crociata, in scena con varie repliche, dal 26 dicembre 1843 al 18 febbraio 1844(41).
In questi anni, la programmazione della Fenice si avvale della mediazione degli impresari; tra essi, la presenza più rilevante è senza dubbio quella di Alessandro Lanari, il «Napoleone degli impresari»; egli è uno dei principali artefici delle collaborazioni fra artisti e musicisti prestigiosi e il Gran Teatro: nel 1831, ad esempio, invia le sue «proposizioni» in merito ad un progetto quinquennale, che definiva, fra gli altri, la partecipazione della grande soprano Giuditta Grisi, del tenore Domenico Reina, del basso Domenico Cosselli e di Vincenzo Bellini, per la composizione di Beatrice di Tenda, rappresentata il 16 marzo 1833. Il piano seguiva le abitudini veneziane, con l’apertura di stagione il giorno di S. Stefano con un’opera nuova per la piazza lagunare, seguita da tre riprese eccellenti e da produzioni di balli; l’impegno finanziario era stabilito in 120.000 lire austriache: la proposta prevedeva nel dettaglio la gestione della caffetteria, del guardaroba, l’uso dell’ex convento dei Carmini come laboratorio di scenografia, guidato da Francesco Bagnara. Un episodio particolarmente doloroso per Lanari sarà l’incendio del Teatro nel 1836, solo pochi mesi dopo che l’impresario ha sottoscritto un nuovo contratto, che include la messa in scena di una novità di Donizetti, Pia de’ Tolomei, opera realizzata, poi, al Teatro di S. Luca(42). Ma la presenza più rilevante nella carriera di Lanari è, senza dubbio, quella del giovane Giuseppe Verdi, con il quale collabora direttamente a partire dal 1843, per la prima de I Lombardi alla Pergola di Firenze.
Intanto, fin dai primi mesi del 1842, la direzione della Fenice s’affretta ad impegnare Verdi in una collaborazione produttiva; sullo sfondo delle trattative, come si può leggere nella preziosa ricostruzione che è stata approntata sulla questione(43), si profila la preoccupazione per la rivalità con il S. Benedetto. Nella primavera del 1843 il conte Alvise Francesco Mocenigo, responsabile degli spettacoli del Gran Teatro, avvia i contatti diretti con Verdi, ottenendo dapprima una disponibilità generica e poi la certezza della composizione di un’opera per musica da realizzarsi nella stagione 1843-1844. Avversità e contestazioni di ogni tipo sembrano accanirsi sulla preparazione della nuova opera verdiana, al punto da chiamare in causa le autorità cittadine, a cominciare dal podestà Giovanni Correr, che svolge un’attenta opera di mediazione per garantire il «decoro» del «Teatro primario». Ernani, che suscita persino l’entusiasmo degli esecutori, nonostante sconti ritardi nell’allestimento delle scenografie, firmate da Pietro Venier con la supervisione di Francesco Bagnara, va in scena il 9 marzo con un esito trionfale, finalmente degno della Fenice(44), e ben presto si diffonderà nei teatri europei: il 16 maggio dello stesso anno si trasferisce al Teatro di S. Benedetto, poi viene rappresentato all’Argentina di Roma, al Teatro di Corte di Vienna, diretto da Gaetano Donizetti; fra giugno e novembre è presente in circa venti teatri, tra cui il Carlo Felice di Genova, la Pergola di Firenze, la Scala di Milano, il Comunale di Bologna, il Grande di Trieste; ma viene richiesto ancora da altre città straniere: all’inizio del 1845 s’inscena a Lisbona, Madrid e Londra. Il dilagare delle esecuzioni dimostra quanto sia elevata la passione operistica fra i pubblici dell’Ottocento, una sensibilità che sorpassa persino l’importanza dei luoghi di produzione e raggiunge, attraverso le vie dell’informazione, le platee più lontane.
Si può affermare che, oramai, le opere del Maestro invadano i teatri lagunari; lo testimoniano le cronache di questi anni, evidenziando il consolidarsi della fama di un musicista che il pubblico sembra prediligere, a dispetto delle alterne considerazioni della critica(45). Il fenomeno verdiano segna, di fatto, una profonda linea di demarcazione nelle modalità della diffusione del melodramma ottocentesco, spostando l’asse della relazione fra palcoscenico e platea, spesso a discapito delle altre mediazioni, a partire da quella della critica e della gestione politico-amministrativa. Eppure, dagli anni Quaranta, per effetto dell’accentuarsi della concorrenza sempre più accesa fra le istituzioni teatrali, i gestori dell’intrattenimento hanno bisogno dell’appoggio della stampa; si cerca la collaborazione dei giornali, anzitutto nella fase della promozione, in modo da predisporre l’interesse degli spettatori sulle novità, sulle partecipazioni artistiche di cantanti più o meno affermati.
Sarà Attila il nuovo lavoro di Verdi, su libretto del bizzarro Temistocle Solera, approntato alla Fenice il 17 marzo 1846(46); la linea di attenzione verso l’arte di Verdi si snoda, nell’anno seguente, attraverso una serie di riprese. I due Foscari (10 febbraio), spettacolo stretto fra un trittico di Donizetti, Lucia di Lammermoor, La Favorita, Maria di Rohan, è giudicato mediocre, mentre si propongono con esito alterno al Teatro Apollo Attila (5 aprile) e Ernani (17 aprile); la ripresa di Giovanna d’Arco (11 settembre) è segnata dalla bravura degli interpreti; ma è atteso, soprattutto, il debutto in laguna del Macbeth (26 dicembre), la cui esecuzione viene accettata con qualche distinguo(47). La passione per la musica verdiana è bilanciata, a partire dal 1845, dalla presenza della danzatrice Fanny Cerrito, ospite frequente del Gran Teatro, che insieme al marito, il ballerino-coreografo Arturo Saint-Léon, attrae la platea con la sua grazia esecutiva; accanto a lei trionfa un’altra ballerina, Fanny Elssler, a conferma di una visione dello spettacolo permeabile e trasversale. Su tale sostrato lirico-melodrammatico s’innesta, in modo diretto, lo slancio patriottico, tanto che per l’inaugurazione della stagione teatrale 1847-1848 l’intervento della polizia impedisce alla ventiduesima replica l’esecuzione del quarto atto del Macbeth, perché l’invocazione di Malcom, «Chi non odia il suol natìo / Prenda l’armi e segua me», e il coro «La patria tradita» suscitano applausi senza fine, e sopprime il ballo La vivandiera e il postiglione, per i rumori avvenuti all’apparire della Cerrito, vestita da veli di colore bianco, rosso e verde; anche Otello di Rossini è cassato per ragioni di ordine pubblico(48). L’esperienza breve ma intensa della Repubblica di S. Marco trova nei teatri l’ambito naturale di raccolta e di esaltazione collettiva.
Venezia 16 novembre. La rappresentazione, con cui straordinariamente s’aperse il teatro della Fenice ier sera, non fu una rappresentazione simile a tutte le altre. La gente non v’era tratta, come altre volte, da un frivol diletto, dal desiderio d’apparire, o cercarvi un piacevol ritrovo; lo stesso severo aspetto del luogo, la semplicità, anzi l’austerità delle fogge, il grave contegno della pur fiorita assemblea, mostravano che diverso e più santo era il fine. Poiché chi penserebbe a passatempi, a feste ed a pompe in questi solenni momenti, quando la patria è nel lutto, e pendono incerte le sorti della intera nazione? [...] Fra’ pezzi più distinti, e che destarono eguale se non maggior entusiasmo, fu il coro del Macbeth del Verdi: ‘La patria tradita / Piangendo ne invita; / Fratelli, gli oppressi / Corriamo a salvar’, che venne pur ripetuto [...]. Co’ frenetici applausi, onde quel canto fu accompagnato ne’ dì infelici dell’oppressione, quando prima s’udì, cominciò a manifestarsi il pensiero della liberazione dalle odiate catene. Fu il primo grido della indipendenza, mandato dalla stanca Venezia [...]. Uguale onor della replica ebbe il coro delle donne nella Maria regina d’Inghilterra del Ferrari [...]. Altri pezzi, quali il finale dell’Enna d’Antochia, la congiura del Guglielmo Tell, l’introduzione de’ Puritani, la preghiera del Mosè, il quintetto dell’Attila, come che sortissero effetto minore, furono però assai peritamente cantati, e fatti gustare [...].
L’impressione lasciata da sì gentile, e quasi dissi pietoso trattenimento, fu delle più care e profonde. Oltre il diletto, [...] mostrò quanto la patria carità dei cittadini sia inesauribile, giacché l’introito non fu minore di 14,618:34 lire correnti. Somma vistosa, ove si consideri a quanti e gravi sagrifizii Venezia da lunghi mesi siasi assoggettata: questa Venezia che vien lasciata pressoché sola a sopportarli, quando la gran causa ch’ella combatte, è pure la causa di tante sorelle città(49).
Anche il Teatro Apollo accoglie il 13 febbraio 1849 la grande Accademia in beneficio della patria, come il Teatro Gallo di S. Benedetto, nel quale il 20 aprile si recita la tragedia in versi I martiri di Cosenza di Angelo Volpe, che rievoca la disfatta dei fratelli Bandiera, mentre al Malibran la compagnia di Giambattista Zoppetti recita il dramma Crudeltà, dispotismo e tirannide di Radetzski. Il palco reale della Fenice, intanto, viene rimpiazzato dalle antiche logge: ma soltanto per poco, perché al ritorno delle autorità austriache è subito ripristinato. Chiuso il capitolo repubblicano, la direzione del Gran Teatro, che vede Carlo Marzari alla presidenza degli spettacoli, mentre l’organizzazione artistica è commissionata all’impresario Giovanni Battista Lasina, nonostante la ristrettezza della dotazione finanziaria, sceglie di aprire la stagione 1849-1850 con I Masnadieri di Verdi, su libretto di Andrea Maffei, a cui seguono il ballo Erta del coreografo Domenico Ronzani con una nuova compagnia di ballo, l’opera I martiri o il Poliuto di Donizetti, il ballo Esmeralda, la tragedia lirica Elisabetta di Valois di Antonio Buzzola, il ballo Zelia, l’opera Medea di Giovanni Pacini. Anche la stagione successiva è inaugurata, il 26 dicembre 1850, da una composizione verdiana, Luisa Miller, su libretto di Salvatore Cammarano, mentre è già fissata per la chiusura di cartellone l’esecuzione di Rigoletto, con la poesia di Piave.
Seguendo l’intensa trattativa della Fenice per ingaggiare Verdi, si può cogliere la trasformazione a metà Ottocento della figura del compositore, che interviene oramai a pieno titolo nella stesura del contratto per garantire direttamente i propri interessi artistici ed economici; invece, nelle fasi preparatorie sembra esasperarsi il contenzioso con gli interpreti e gli esecutori, sia nei rapporti con i teatri, sia in quelli con gli impresari. Rigoletto si rappresenta l’11 marzo 1851: è un trionfo, che si protrae per tredici repliche con una media di 2.000 lire austriache d’incasso a sera(50). Nella stagione 1851-1852 la Fenice si avvale della gestione dei fratelli Lorenzo Donato e Alessandro Corti, che s’affrettano a fare pressione sul Maestro per un’ulteriore opera nuova, ma senza esito; intanto, si ospita lo Stiffelio e si recupera ancora il Rigoletto. Già in primavera subentra l’impresa di Giovanni Battista Lasina, mentre la trattativa con Verdi passa di nuovo nelle mani della direzione; ed è Brenna che il 25 aprile 1852 ottiene un accordo preliminare per un nuovo lavoro da rappresentarsi all’inizio del marzo 1853. Anche stavolta sorgono problemi di ogni tipo, che chiamano in causa molti livelli di decisione, compreso quello delle autorità cittadine e militari.
L’opera promessa è la Traviata, la cui composizione esalta il musicista, nonostante sia rimasto scontento dopo gli insuccessi sulla scena fenicea di Ernani, riproposto il 22 gennaio, e del Corsaro soffocato dalla disparità dei giudizi critici. Tra una selva di polemiche la nuova opera si rappresenta, ancora imperfetta, domenica 6 marzo 1853, facendo ben sperare fino alla chiusura del primo atto, accolto con tanti applausi; poi, muta la sorte: tranne l’orchestra e la soprano Salvini Donatelli, gli altri interpreti fanno precipitare il dramma, accusato di essere senza azione. Le nove recite successive vanno meglio, ma il parere di Giuseppe Verdi è esplicito, come risulta dalle sue parole, trasmesse a caldo ad Emanuele Muzio: «La Traviata ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti?... Il tempo giudicherà»(51). La rivalutazione del capolavoro è ancora una storia tutta veneziana: poco più di un anno appresso, il 6 maggio 1854, infatti, dopo aver subito qualche ritocco dall’autore, la vicenda di Violetta mostra al pubblico della città lagunare il suo volto di autentico capolavoro. «La Traviata [annota Locatelli sulla «Gazzetta di Venezia» dell’8 maggio] vilipesa e calpestata alla Fenice, si levò, meritatamente alle stelle, sabato sera, al teatro Gallo a S. Benedetto»; il critico è fiero di avere compreso fin dall’inizio la preziosità della composizione, che ora finalmente è sostenuta da una «perfetta esecuzione»(52). Nonostante tutto, la Fenice rilancia l’invito al compositore di Busseto a rappresentare un suo nuovo dramma; intanto, la dirigenza sceglie di inaugurare la stagione 1853-1854 con Il Trovatore, che va in scena come al solito il 26 dicembre; seguono Gerusalemme, rifacimento dei Lombardi, l’11 febbraio 1854, e Rigoletto, il 19 marzo: insomma, mentre si tratta per ottenere la collaborazione artistica di Verdi, si ospitano i suoi lavori. La novità tanto attesa è il Simon Boccanegra, rappresentato il 12 marzo 1857(53).
La vicenda delle collaborazioni fra Verdi e il Teatro la Fenice è da leggere nella sua interezza come lo specchio delle contraddizioni proprie di un meccanismo produttivo, esasperato dalla faziosità e dalle trame locali. Peraltro, la scansione delle stagioni degli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento si sviluppa, senza dubbio alcuno, in relazione al fenomeno Verdi, un musicista completo, che sa essere compositore, drammaturgo, uomo di scena e d’impresa, doti necessarie per reggere il confronto con l’immaginario di un pubblico composito, disposto alle sollecitazioni sentimentali e alle esaltazioni collettive. Anche Venezia sperimenta attraverso il rapporto col grande musicista la via verso l’omologazione teatrale con le altre città italiane. Sul versante politico la lunga parentesi della dominazione austriaca si chiude con un gesto esemplare per il Gran Teatro di S. Fantin. Dopo la conclusione della stagione 1858-1859, avvenuta con Il saltimbanco, dramma lirico di Giovanni Pacini, su libretto di Giuseppe Checchetelli, l’assemblea della Società, che si riunisce il 26 aprile, mentre le truppe franco-piemontesi oltrepassano il Ticino, decide di annullare il contratto con l’impresa Marzi; l’8 settembre, dopo il trattato di Villafranca, i societari voteranno con una maggioranza decisa (quarantaquattro voti, contro nove) la totale sospensione delle attività, nonostante le forti pressioni delle autorità militari: l’attività del principale teatro veneziano riprenderà solo dopo la liberazione, nel 1866.
La chiusura della Fenice si riflette sulla situazione degli altri teatri, specialmente sull’Apollo di S. Luca e sul Gallo di S. Benedetto. L’età della delusione, conseguente al 1848-1849 e al 1859, sembra generare disimpegno, anche nel campo della teatralità; a poco valgono le ingerenze delle autorità filoaustriache sull’amministrazione cittadina perché finanzi le stagioni dei teatri rimasti aperti: al contrario, nel 1863 il Comune sospende ogni contribuzione per le attività teatrali. Un’immagine adeguata ad illustrare lo stato delle cose è fornita, ancora nel 1852, dal Teatro di S. Samuele, «il più conservatore di tutti teatri», un luogo che ha mantenuto inalterata la sua decadenza — le sue «nude panchette» — e che sa offrire, comunque, il «diletto» del canto; l’anno seguente viene acquistato da Giuseppe Camploy, mecenate veronese appassionato di musica, che lo ripristina e gli dà il proprio nome(54). L’inaugurazione ha luogo il 28 marzo 1853 con Poliuto di Donizetti-Cammarano; un altro intervento di restauro si esegue nel 1855. L’anno seguente il Teatro Camploy accoglie due importanti eventi, le rappresentazioni della compagnia francese Meynadier e le recite di Adelaide Ristori.
Sul versante dei generi di spettacolo, lungo tutto il XIX secolo si riafferma in modo inequivocabile la preferenza del pubblico veneziano per le forme del melodramma, un meccanismo teatrale che pare assorbire meglio la contraddizione fra la vocazione di una città decaduta, ma che non smette di coltivare il sogno di un passato glorioso, e la necessità di adeguarsi ai tempi. Le presenze del teatro recitato sembrano perdere di rilievo, sebbene non manchino le ospitalità eccellenti; infatti, lo strappo fra la centralità produttiva settecentesca e il declassamento a piazza periferica, oltremodo scomoda, si avverte più nell’ambito della prosa. E non è sufficiente, per darsi animo, coltivare il rimpianto per l’età delle dispute sceniche, poiché la separazione da quella esperienza è rimarcata da un mutamento significativo dell’orizzonte teatrale. Pertanto, risulta un avvenimento degno di essere segnalato il passaggio di una grande protagonista qual è la Ristori, un’attrice in grado di proporre agli spettatori veneziani la preziosità scenica di due tragedie, Mirra di Alfieri e Medea di Ernest Legouvé(55).
Sul filone della memoria, che per quanto riguarda lo spettacolo genera il manifestarsi di tante possibili «idee di Venezia»(56), si evoca spesso, e sotto varie spoglie, la persona di Carlo Goldoni. Nella primavera del 1852, ad esempio, al Teatro Gallo la compagnia di Alamanno Morelli presenta il dramma «storico-artistico» Giuseppe Angeleri di Francesco Cameroni, scrittore veneto vissuto fino al 1878; in una situazione da teatro nel teatro si chiama in causa, in modo esemplare, il commediografo settecentesco. A metà Ottocento il profilo di un Goldoni bonario è già completamente definito; in questo caso la sua presenza sovrasta la funesta vicenda sentimentale del comico Angeleri, avvelenato da un’amante crudele, a tal punto che l’attore e teorico del teatro Luigi Bonazzi, che veste i panni di Goldoni, sembra restituirne dal palcoscenico «l’immagine vera». Solamente pochi mesi appresso, nello stesso teatro, una commedia ben congegnata compie il prodigio di consacrare una volta per sempre la centralità ideale del «poeta comico» veneziano. Il 16 dicembre 1853, la compagnia Dondini recita Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari, in cui si mostrano le bizze dei comici, le manie del pubblico, l’invidia dei rivali, in relazione al commediografo veneziano. «Ei fu replicato per ben quattro sere. Per una commedia, a’ dì che corrono, è un vero miracolo!»(57).
Alla linea del recupero della tradizione si contrappone la scena dell’ufficialità, almeno nelle intenzioni dei governativi: il Teatro Apollo presenta, su insistenza degli apparati imperiali, la compagnia tedesca di Franz Kretz, fra aprile e maggio 1860; si veste, poi, da salone di rappresentanza per la visita dei sovrani d’Austria, il 3 dicembre 1861, ma per riempire la sala si deve ricorrere alla partecipazione di ufficiali e funzionari. Per quanto riguarda i teatri diretti da Antonio Gallo, il Malibran insiste nella produzione di drammi popolari, d’argomento sentimentale e romanzesco, il S. Benedetto, invece, tende a sostituirsi alla Fenice, accentuando la tendenza ad importare le messinscene operistiche, affermatesi altrove, a cominciare dai melodrammi di Verdi(58). In questa fase della storia teatrale veneziana si esaspera, inevitabilmente, il confronto con gli splendori dei decenni precedenti: un metodo che finisce per svilire le proposte del giorno, che non riescono ad eguagliare quasi mai la perfezione delle stagioni trascorse.
Il 19 ottobre 1866 entrano nella città lagunare i soldati italiani; anche la Fenice riapre i battenti con un ciclo di spettacoli straordinari e con la visita ufficiale, l’8 novembre, di Vittorio Emanuele II. Subito dopo, con un impegno notevole, quasi a rimarcare l’importanza che il Teatro svolga un’attività regolare in una condizione politica tanto attesa, si apre la stagione di Carnevale con I puritani di Vincenzo Bellini(59). La nuova fase dei teatri veneziani, a cominciare dalla Fenice, sembra avviarsi all’insegna delle difficoltà economiche, visto che vengono a mancare le sovvenzioni dello Stato. Accade che il Gran Teatro sia costretto a saltare la sua attività per dodici stagioni(60) e a ridimensionare la magnificenza delle messinscene, rinunciando all’abbinamento opera-ballo; diminuiscono i rinnovi d’affitto dei palchi, nonostante i tentativi compiuti dalla direzione di rimpiazzare le defezioni mettendo subito in vendita le logge disponibili; nel 1878 si decide di aprire un loggione al posto del quarto ordine di palchi, aumentando così il numero dei posti disponibili; a cominciare dal 1886 fino al 1892 si comincia ad illuminare elettricamente l’edificio; il 3 ottobre 1876 entra in vigore il nuovo statuto, in base al quale si procede alla costituzione di un ente morale, governato da una direzione in carica per un triennio, ma rieleggibile. Nonostante le ristrettezze in questi anni il Teatro ospita le opere di Wagner, a cominciare da Rienzi, l’ultimo dei tribuni (15 marzo 1874), il Mefistofele (8 marzo 1879) di Arrigo Boito, La Gioconda (11 gennaio 1885) di Amilcare Ponchielli, Cavalleria rusticana (24 gennaio 1891) di Pietro Mascagni, la prima assoluta de La Bohème (6 maggio 1897) di Ruggero Leoncavallo, La Bohème (26 dicembre 1897) di Giacomo Puccini, la prima assoluta di Cenerentola (22 febbraio 1900) di Ermanno Wolf-Ferrari, la prima assoluta de Le Maschere (17 gennaio 1901) di Pietro Mascagni(61).
Al S. Samuele l’8 settembre 1870 ha luogo l’esordio della compagnia veneziana di Angelo Moro Lin, che ottiene un consistente successo nel Carnevale 1871 con La bozeta de l’ogio, commedia di Riccardo Selvatico; ma l’essere stato la culla del teatro veneto ‘moderno’ non porta fortuna al Teatro, che è costretto a chiudere i battenti, salvo che per qualche recita saltuaria, per essere ceduto in eredità, dopo la morte di Giuseppe Camploy avvenuta nel 1889, al Comune di Verona. Il Comune di Venezia lo acquista per 40.000 lire, ma decide di demolirlo per costruire al suo posto una scuola.
Il Teatro Apollo, che dalla stagione 1871-1872 accoglie la formazione di Moro Lin, con cui collabora il commediografo Giacinto Gallina, autore di successi quali Le barufe in famegia e La famegia in rovina, nel 1874 subisce un intervento di ristrutturazione che lo porta ad avere in complesso 1.250 posti; è dopo tale intervento che il teatro viene intitolato a Carlo Goldoni. Qualche anno dopo, nel 1880, scompare Regina De Marchi, vedova dell’ultimo discendente dei Vendramin; la proprietà passa, allora, a Chiara Chiotto, nipote di Chiara Vendramin, ma la direzione è assunta dal marito Pietro Marigonda e, successivamente, dal figlio, l’avvocato Antonio. Nel 1883 in ottemperanza alle rigorose misure prefettizie per la sicurezza dei teatri, che imposero da aprile a settembre la chiusura dei teatri Goldoni, Malibran e S. Benedetto — quest’ultimo intanto nel 1868 aveva preso il nome di Rossini —, si eseguono ampi lavori di ripristino. L’attività che ospita il Goldoni è prevalentemente rivolta alla scena recitata, con un’attenzione al crescente consenso ottenuto dagli autori e dagli interpreti veneziani, come avviene nel 1893 con La famegia del santolo, messa in scena dalla compagnia Gallina, con protagonista il grande Ferruccio Benini(62).
Lo stesso scenario si riscontra nel caso dei teatri amministrati con un impegno impareggiabile da Antonio Gallo. Il Malibran, pur restando il luogo privilegiato degli spettacoli più in voga, come nel caso dell’operetta, con il biglietto d’ingresso a basso costo ed una capienza di 2.500 posti, annovera alcuni eventi esemplari. È in questa sala, infatti, che il 10 luglio 1875 si esegue per la prima volta nella città lagunare, per cinque sere con un successo impensabile, la Messa da requiem di Giuseppe Verdi, con la medesima formazione artistica dei teatri di Londra e Vienna, vale a dire Teresa Stolz, Maria Waldmann, Angelo Masini, Paolo Medini, il coro della Scala di Milano, l’orchestra diretta da Franco Faccio, le scenografie di Pietro Bertoja. Anche il Teatro Rossini, che nel 1868 dispone complessivamente di 1.300 posti, rischia la cessione; intorno al 1873 si svolgono alcune trattative per la vendita dell’edificio a Giacomo Levi, che progetta di farne un raffinato teatro da commedia: ma, poi, non si giunge ad alcun esito. Anche qui irrompe, quasi all’improvviso, all’interno della consueta scansione di opere musicali, la passione per l’operetta, seppure, almeno all’inizio, sembri prevalere una scelta qualitativa(63). L’anno seguente, nonostante le ristrettezze economiche, si attuano importanti miglioramenti strutturali, sia all’interno che all’esterno, affidati per la parte architettonica all’ingegnere Francesco Balduin, per quella decorativa a Carlo Matscheg, per quella pittorica a Giulio Carlini e Pietro Bertoja(64). Dopo la riapertura, oltre ad alcune prime veneziane di melodrammi, trovano ospitalità la compagnia di Giovanni Emanuel, uno fra i più rinomati interpreti della scena italiana, che presenta Una partita a scacchi di Giuseppe Giacosa, le rappresentazioni straordinarie di Ernesto Rossi nel 1880 e di Sarah Bernhardt nel 1882.
Dopo la morte di Antonio Gallo, avvenuta nel gennaio del 1883, il deficit finanziario risulta eccessivo; pertanto, i suoi eredi decidono di sospendere l’attività del Malibran e di ridurre quella del Rossini. Nel 1886 entrambi gli spazi sono ceduti in un’asta pubblica, che li aggiudica a Francesco Baldanello e al barone Emerico Merkel, ai quali si assocerà, qualche tempo dopo, Giuseppe Patrizio. Si tratta di un’operazione speculativa, che mira a trarre profitto dall’investimento, senza più prestare attenzione alla qualità delle produzioni. In tal modo tramonta anche la fase dell’impresariato consapevole, che nel corso dell’Ottocento, sia pure in una situazione complessa come risulta essere quella lagunare, trova forme di mediazione possibili fra mentalità economica e passione teatrale. Mentre tramonta il secolo XIX i due ex teatri dei Gallo percorrono un tragitto colmo d’incertezza; è un periodo costellato dalle forme minori di intrattenimento, fino ad approdare oltre la soglia del 1900 nell’incontro con la magia del cinematografo; si tratta di un’attrazione preparata dal 1896 nei teatri meccanici, nei casotti, o «baracche d’entrata», posti in riva degli Schiavoni, oppure nella corte Grande della Giudecca, alle Ciovère a S. Giobbe, nei campi delle Furlane a Castello, di S. Margherita e di S. Maria Formosa; vi si alternano compagnie ambulanti che offrono per pochi soldi l’esibizione di fenomeni viventi, l’acrobatica, l’illusionismo, i prodigi degli automi, le visioni panoramiche, le animazioni fantastiche, le scatole ottiche, le proiezioni delle lanterne magiche e altre strabilianti invenzioni: sta di fatto che nel 1910 a Venezia sono attive ben ventotto sale cinematografiche(65).
Intanto la modificazione della qualità artistica si attua di pari passo con le metamorfosi del meccanismo produttivo teatrale, basato anche sulla crescente difficoltà a trovare sovvenzioni pubbliche. I tempi sono mutati, la modernità assedia la cinta lagunare, gli opifici fanno da fondale ai tracciati consueti di calli e campielli. Nel dissidio fra vecchio e nuovo, fra culto della memoria e contenitore turistico, fra uomini antichi — «teleri veci», li chiama Giacinto Gallina — e giovani rampanti, sembra ingessarsi ogni possibilità di rilancio culturale e teatrale. Proprio attraverso la scena dialettale, che predilige le corde del sentimento e della nostalgia, emerge stridente in ambito veneziano la questione del tramonto di una città-simbolo. Basta leggere il ciclo di sei drammi storici del conte Luigi Sugana, un commediografo bohémien, nato nel 1857, che ha lasciato la più parte delle sue opere manoscritte, per cogliere la consistenza della tragedia. L’esalogia mette in scena attraverso le vicissitudini della famiglia patrizia dei Barbo, nel cui palazzo è ambientato lo svolgersi degli eventi, le vicende veneziane intercorse dalla caduta della Repubblica al dopo annessione all’Italia.
Sebbene la trama storica sia vissuta con uno spirito positivo, attento all’emanciparsi della povera gente, spicca l’amarezza per la patria tradita dagli Ultimi paruconi (1893), dai tradizionalisti ostili ad ogni novità; quando giungono I Francesi a Venezia (1896) si respira un clima di ostilità e di distanza, una condizione ambigua, prevista in Come le onde, la commedia di cui è rimasta solo una traccia descrittiva, che caratterizza il comportamento dei nobili Barbo, stretti tra l’ostilità verso Napoleone, la fedeltà all’Austria e la partecipazione ai moti mazziniani. Un gran sogno (1897) motiva l’azione patriottica dei discendenti che, raccolta l’eredità dei cospiratori antiaustriaci, sono i protagonisti delle vicende repubblicane del 1848-1849; El fator galantuomo (1895), invece, è la commedia in cui i giovani rampolli si arruolano nella guerra d’indipendenza del 1859. Negli ultimi due testi, Casa vecia e paroni nuovi e Casa restaurada, elaborati nei primi anni del Novecento, prima della morte avvenuta nel 1904, irrompe la nuova età, quella dell’unificazione italiana e della contemporaneità, il 1897, cento anni dopo la caduta; ora è lo scontro politico interno ai Barbo a dividere in modo insanabile gli eredi, uno liberale, l’altro conservatore. Ma l’epilogo, che sembra voler sanare il distacco fra le generazioni attraverso un matrimonio felice di due giovanissimi, trova Gigi, il progressista, sconfortato da un destino incongruo, al punto da lasciare la laguna e la casa degli avi dopo che il loro nome è andato perduto per sempre; nel suo monologo conclusivo lo afferma senza remore: «’l conceto del giusto e de l’onesto xe cussì rebaltà a sto mondo da no restarme altro che sparir [...]. Dai veci che pianzeva per aver perso la sovranità, [...] semo rivai a un Barbo, che per sto nome sente el ribrezzo de ’na roba morta chissà da quando. Destin!... Destin?... No, no, giustizia la xe, giustizia!»(66).
Nelle commedie d’ambiente di Gallina, del sindaco-poeta Riccardo Selvatico, di Libero Pilotto, come nelle esaltanti esibizioni di attori quali Marianna e Angelo Moro Lin, Laura Zanon Paladini, Benini, Zago, gli spettatori ritrovano il sapore di una parlata che era stata lingua europea, le sonorità di una voce che traspira un accorato bisogno di riconoscersi ancora come veneziani. La contraddizione, dunque, invade palcoscenico e platea, quasi fossero un unicum indistinto, come se prevalesse un’arrendevolezza dinanzi al destino che ha decretato la fine della città lagunare. Ma non è così: in vero le modificazioni delle abitudini teatrali sono connesse all’affermarsi dei nuovi generi, a cominciare dal cinema; nello stesso tempo è inevitabile che si consolidi una vocazione culturale alta, come sollecitano intellettuali e politici di varie tendenze; il clima è quello di una piazza, S. Marco, e di un caffè, il Florian, in cui è possibile realizzare un raffinato «romanzo veneziano» dannunziano, nel momento in cui, come scrive Gino Damerini, «la vita cosmopolita estiva ed autunnale di Venezia stava per toccare quel culmine di eleganza, di lusso spasmodico, di frivolezza mondana ed artistica che parve preannunciare la grande guerra europea, e dallo scoppio della guerra fu improvvisamente demolito»(67). È la via che, dopo la progressiva chiusura dei teatri, escludendo la Fenice, il Goldoni e il Malibran, luogo invaso oramai dal varietà, dall’avanspettacolo e dal cinematografo, conduce alla ideazione dei festival teatrali all’aperto negli anni Trenta del Novecento. La prova generale si ha nel 1908 con la rappresentazione nel Gran Teatro della tragedia La Nave di Gabriele D’Annunzio, accompagnata dalle musiche di scena di Ildebrando Pizzetti. Intanto, la Venezia popolare canta le canzonete del Redentor, proposte da un concorso per composizioni dialettali che nasce nel 1891 per arrivare alle soglie della seconda guerra mondiale; si traducono nelle melodie orecchiabili i fatti quotidiani, come ne I colombi di San Marco (1891), El ponte, Aqua alta, I foghi? (1892). E il testo della canzone In onibus recita: «Fulgenzia andemo in onibus / andemo col papà / col santolo l’amia / dal naso intabacà»(68).
1. «Gazzetta Urbana Veneta», 2, 7 gennaio 1797, p. 9.
2. L’espressione è introdotta da Mario Baratto, L’itinerario della commedia goldoniana, in Id., La letteratura teatrale del Settecento in Italia (Studi e letture su Carlo Goldoni), Vicenza 1984, p. 41 (pp. 33-55).
3. Cf. I vicini di Mozart. La farsa musicale veneziana (1750-1810), a cura di David Bryant, Firenze 1989 (in partic. David Bryant, La farsa musicale: coordinate per la storia di un genere non-genere, pp. 431-455; Id.-Maria Giovanna Miggiani, Organizzazione impresariale e struttura socio-economica nel teatro della farsa, pp. 457-466).
4. Le vicende che portano alla decisione di erigere un nuovo teatro, dopo il contrasto giudiziario intorno al S. Benedetto, sono descritte e documentate in Franco Mancini-Maria Teresa Muraro-Elena Povoledo, I teatri del Veneto, I, 2, Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, Venezia 1996, pp. 185-297. Cf., inoltre, Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, pp. 165-176.
5. È significativo come l’istanza presentata il 22 dicembre 1790 venga risolta nella seduta senatoriale del 31 dicembre, con una celerità tale da dimostrare fino a che punto i nobili componenti la Società possano influenzare una decisione politica, appartenendo alle famiglie patrizie più in vista. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 172-174: è riportato qui il resoconto dell’impresario Michele Dall’Agata, già attivo al S. Benedetto, che giustifica il suo insuccesso finanziario attraverso una comparazione con le spese sostenute dai teatri rivali.
6. Dai contratti registrati fra il 1794 e il 1797 si deduce che il teatro sia in possesso di Giacomo Antonio, Domenico e Benetto II Marcello, Alvise Renier, Bortolo I, Antonio e Francesco Mora, Anzolo Riva insieme ad altri parenti, Zorzi III Morosini detto Lorenzo, Alessandro Memo, Nicolò Zen, Pietro Zen (cf. ibid., p. 138).
7. La fonte diretta del repertorio delle stagioni teatrali di fine secolo è il diario del «Giornale dei Teatri di Venezia», pubblicato con regolarità nella raccolta, curata dall’editore Antonio Fortunato Stella, Il teatro moderno applaudito ossia Raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri, corredata da Notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, I-LXI, Venezia 1796-1801. Cf. Taddeo Weil, I teatri musicali veneziani del Settecento. Catalogo delle opere in musica rappresentate nel secolo XVIII in Venezia (1701-1800), Venezia 1897; Giuseppe Pavan, Teatri musicali veneziani. Il Teatro San Benedetto (ora Rossini). Catalogo cronologico degli spettacoli (1755-1900), Venezia 1917; Angela Paladini Volterra, Verso una moderna produzione teatrale, «Quaderni di Teatro», 20, 1983, pp. 87-144; Alessandra Abiuso, Antonio Fortunato Stella e il ‘Teatro moderno applaudito’ (1796-1801), «Quaderni Veneti», 1990, nr. 11, pp. 169-188; Orietta Giardi, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine del secolo XVIII, Roma 1991.
8. Cf. Carmelo Alberti, ‘Natura sì, ma bella dee mostrarsi’. Sentimenti, artifici e interpretazioni sceniche, in Naturale e artificiale in scena nel secondo Settecento, a cura di Alberto Beniscelli, Roma 1997, pp. 155-180.
9. A proposito della presenza del repertorio di Goldoni, cf. Id., Sublimi caratteri, veementi passioni. L’interpretazione goldoniana all’inizio del XIX secolo, in Goldoni e l’Ottocento, «Biblioteca Teatrale», 1992, nr. 28, pp. 37-58.
10. L’intervento di Piazza appare nel nr. 3 del 1788; il testo si può leggere ora in Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Milano 1962, pp. 599 ss.
11. Cf. Il teatro patriottico, a cura di Cesare De Michelis, Padova 1966. Cf., inoltre, Giovanni Azzaroni, La rivoluzione a teatro. Antinomie del teatro giacobino in Italia (1796-1805), Bologna 1985; Paolo Bosisio, Tra ribellione e utopia. L’esperienza teatrale italiana delle repubbliche napoleoniche (1796-1805), Roma 1990; Il teatro e la rivoluzione francese, a cura di Mario Richter, Vicenza 1991.
12. È questa l’età in cui il vecchio conte Carlo Gozzi, che nel maggio 1797 ha compiuto 77 anni, al pari di tanti altri nostalgici conservatori, osteggia ogni segno di cambiamento; morirà nel 1806. Sull’onda della memoria Giustina Renier Michiel, ricostruendo le feste veneziane, insiste nel collegare la gloria del passato e il cerimoniale celebrativo che ne era nato con la costernazione dei cittadini, con «la tristezza e l’ambascia» per la sua dissoluzione (Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, I, Venezia 1817, p. 49).
13. Cf. il caso di Padova in Carmelo Alberti, La scena delle metamorfosi, in La Municipalità democratica di Padova (1797). Storia e cultura, a cura di Armando Balduino, Venezia 1998, pp. 143-161.
14. Il giudizio di Giove. Cantata nel faustissimo arrivo di Sua Maestà Napoleone il Grande, Imperatore dei Francesi, e Re d’Italia, Venezia s.a. [ma 1807]. La dedica dell’opuscolo è rivolta al podestà Daniele Renier e ai savi del consiglio municipale di Venezia dall’autore Lauro Corniani d’Algarotti. Gli interlocutori della cantata sono: Giove; Valore; Clemenza; Coro de’ Numi; Seguaci del Valore; Ninfe seguaci della Clemenza.
15. Il decreto si legge in Venezia, Archivio Storico delle Arti Contemporanee (Biennale di Venezia), Memorie teatrali e repertori inediti, fasc. «Teatro S. Benedetto».
16. Il Teatro di S. Moisè si specializza nell’esecuzione delle farse musicali, come risulta evidente dalla tabella di rilevamento su tale genere dal 1792 al 1818 (cf. D. Bryant, La farsa musicale, pp. 436-455); vi sono coinvolti, oltre a Foppa, librettisti quali Gaetano Rossi, Giulio Artusi, Giulio Domenico Camagna, Caterino Mazzolà, Felice Romani, e musicisti quali Sebastiano Nasolini, Giovanni Simone Mayr, Antonio Capuzzi, Vittorio Trento, Vincenzo Pucitta, Giuseppe Farinelli, Gaspare Spontini. All’affermarsi del fenomeno in questo teatro contribuisce la presenza continuativa del basso Luigi Raffanelli, a partire dal 1796 fino al 1815, insieme a Teresa Strinasacchi e Giambattista Brocchi: in virtù della loro bravura il console Bonaparte li invita a esibirsi al Théâtre Italien di Parigi nel 1801. I balli sono curati da Onorato Viganò; le scenografie da artisti quali Giovanni Sabadini, Gaetano Mauro, Nicola e Antonio Pellandi, Francesco Bagnara. Il 3 febbraio 1818, dopo la replica de La Cenerentola di Rossini, si conclude l’ultima stagione, nonostante l’impegno degli impresari Antonio Cera, Paolo Zancla e Luigi Facchini, che si erano succeduti alla gestione. Cf. Tommaso Locatelli, Appendice della «Gazzetta di Venezia». Prose scelte, I-XVI, Venezia 1837-1880: VI, pp. 305-307, 5 giugno 1839. Nel 1871 risorge con il nome di Teatro Minerva, come scena per marionette meccaniche: cf. «Gazzetta di Venezia», 25 ottobre 1871 e 24 ottobre 1880; nel 1906 funziona come cinematografo e locale di spettacoli di vario genere.
17. Giuseppe Carpani, Lettera di un viaggiatore ad un suo amico sopra i teatri di Venezia, 12 dicembre 1804, pubblicata in Id., Le rossiniane ossia Lettere musico-teatrali, Padova 1824, pp. 27-28; cf., anche, D. Bryant-M.G. Miggiani, Organizzazione impresariale.
18. Cf. Alberto Bentoglio, L’arte del capocomico. Biografia critica di Salvatore Fabbrichesi (1772-1827), Roma 1994. Il volume documenta come si articola lo scenario italiano, per le sollecitazioni del viceré Eugenio di Beauharnais, dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Il 2 maggio 1807 il veneziano Fabbrichesi scrive al sovrano in merito alla chiusura del S. Samuele: «Mi si sussurra all’orecchio un decreto, anzi mi si dà per emanato, che esclude il teatro di San Samuele almeno per quest’anno, teatro a me da quella nobile presidenza affittato e all’ombra del quale ho collezionato — a riserva di due o tre — tutti i migliori attori della declamazione italiana. Molte altre cose in conseguenza mi si fanno e temere e sperare» (ibid., p. 35; A.S.V., Prefettura dell’Adriatico, c. 229). Per le vicende della compagnia Pellandi cf. Alessandra Schiavo Lena, Anna Fiorilli Pellandi. Una grande attrice veneziana tra Sette e Ottocento, Venezia 1996.
19. Cf. Franco Mancini-Maria Teresa Muraro-Elena Povoledo, I teatri del Veneto, I, 1, Venezia e il suo territorio. Teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia 1995, pp. 237-238.
20. Cf. Giovanni Morelli, Ascendenze farsesche nella drammaturgia seria italiana del grande Ottocento, in I vicini di Mozart. La farsa musicale veneziana (1750-1810), a cura di David Bryant, Firenze 1989, pp. 441-688.
21. Cf. A.S.V., Archivietto (Atti protocollari dell’I.R. Direzione Generale degli Archivi), B 167, nr. 706, copia di lettera del 21 settembre 1833.
22. Cf. Luigi Costantino Borghi, La polizia sugli spettacoli nella Repubblica Veneta e sulle produzioni teatrali del primo governo austriaco a Venezia, Venezia 1898. Inoltre, cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 185.
23. La generazione di autori che sono presenti nell’ambito veneziano dopo la fine della dominazione francese, con la quale alcuni di essi avevano collaborato, sono: Francesco Antonio Avelloni, detto il Poetino (Venezia, 1756-Roma, 1837), Giovanni Gherardo De Rossi (Roma, 1754-1827), Giuseppe Maria Foppa (Venezia, 1760-1845), Giovanni Greppi (Bologna, 1751-1827), Vincenzo Monti (Alfonsine di Romagna, 1754-Milano, 1828), Antonio Piazza (Venezia, 1742-Milano, 1825), Giovanni Pindemonte (Verona, 1751-1812), Ippolito Pindemonte (Verona, 1753-1828), Giustina Renier Michiel (Venezia, 1755-1832), Antonio Simeone Sografi (Padova, 1759-1818), Alessandro Zanchi (Venezia, 1759-1838). Occorre sottolineare che sul finire del Settecento si intensifica la tendenza a stampare raccolte teatrali, ben organizzate, che mirano a sollecitare la diffusione di opere, in prevalenza straniere, per affidarle alla lettura e, insieme, per contribuire alla formazione delle giovani generazioni. L’episodio più rilevante, dopo la caduta della Repubblica, è la pubblicazione del Teatro moderno applaudito (cf. Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1989). Tra le serie successive si ricordano: Anno teatrale, in continuazione del teatro moderno applaudito, I-XXXVI, Venezia 1804-1806; Terza raccolta di scenici componimenti applauditi, in continuazione all’Anno teatrale, I-XV, Venezia 1807-1809.
24. Tra le compagini teatrali che recitano nel Teatro Gallo si ricorda nel 1825 quella di Fabbrichesi, con Vestri e Demarini, che riescono ad animare un luogo che «s’è bene spesso mutato nella soglia del sonno e della noia, dove appena contate cento persone perdute qua e là tra le panche, e condannate a sbadigliare ed a meditare sulla tristezza della solitudine» (T. Locatelli, Appendice, I, p. 276 [pp. 276-279], 29 gennaio 1825); in questa stagione debutta l’attor giovane Gustavo Modena (cf. Nicola Mangini, Gustavo Modena e il teatro italiano del primo Ottocento, Padova 1979, pp. 78-79). Nel 1835 Francesco Augusto Bon si esibisce probabilmente con il suo pezzo forte Ludro e la sua gran giornata, scritto su un modello goldoniano («Gazzetta Privilegiata di Venezia», 26 agosto 1835 e giorni seguenti). Il Teatro ospita, inoltre, la Compagnia Reale Sarda, diretta da Gaetano Bazzi (1833; cf. Luigi Ferrante, I comici goldoniani, Bologna 1961, pp. 159-160).
25. Il brano è riportato in Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Gorizia 2000, p. 353.
26. T. Locatelli, Appendice, VI, pp. 266-267. Il pezzo appare sulla «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 21 aprile 1838, con il titolo Si dimostra l’inutilità d’un articolo a proposito del Teatro Gallo in S. Benedetto.
27. Per verificare la posizione degli eredi, dopo la chiusura e la morte di Antonio, cf. «Quotidiano Veneto», 21 marzo 1809; per la visita della coppia imperiale, si legga il commento riverente apparso su «Notizie del Mondo» (30 novembre 1815), in N. Mangini, I teatri di Venezia, p. 191; cf., inoltre, F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, I, 1, p. 218.
28. Cf. T. Locatelli, Appendice, II, pp. 335-346.
29. Cf. ibid., V, pp. 228-237. Il ritorno a Venezia di Deligny è registrato nella «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 9 aprile 1840 (cf. ibid., VII, pp. 266-274).
30. Cf. ibid., VI, pp. 309-313.
31. Cf. Id., Teatro l’Apollo-Compagnia Duse, «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 23 febbraio 1843, ibid., VIII, pp. 253-254.
32. Su Modena cf. ibid., pp. 387-392. La recensione del Fornaretto appare sulla «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 24 maggio 1845: cf. ibid., IX, pp. 140-146. Dagli interventi di Locatelli si colgono le tendenze tematiche che anche attraverso le stagioni teatrali contribuiscono a modellare una cultura drammatico-sentimentale, intessuta di memoria e nostalgia dell’antico. All’Apollo, per esempio, si ha un assaggio della passione del romanticismo per le storie medievali, un interesse che, prima del Fornaretto, attraversa, nella stagione autunnale del 1844, le rappresentazioni della Francesca da Rimini (1843) del musicista vicentino Francesco Canneti, su libretto di Felice Romani, vicino al dramma di Silvio Pellico, e Il Borgomastro di Schiedam (1844) di Lauro Rossi, su libretto di Giovanni Peruzzini, allestimento proveniente dal Teatro Re di Milano (cf., rispettivamente, «Gazzetta Privilegiata di Venezia», 21 novembre e 5 dicembre 1844, ibid., VIII, pp. 414-425); ma il fenomeno è verificabile più ampiamente anche sugli altri palcoscenici veneziani. In merito all’Attila, cf. «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 19 novembre 1845, ibid., IX, pp. 169-170. Per l’Alzira verdiana, cf. «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 10 dicembre 1847, ibid., pp. 374-375.
33. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 200-201; F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, I, 1, pp. 384, 390, 404.
34. Cf. Tommaso Locatelli, Apertura del Teatro Gallo in S. Benedetto, «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 27 agosto 1847, in Id., Appendice, IX, pp. 339-343.
35. Per il Piano economico proposto alla Società de’ proprietari del teatro S. Fantino dal conte Giuseppe Giacomo Albrizzi membro della predetta Società, Venezia 1800, cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 218-219. Per i repertori musicali veneti del primo Ottocento, cf. Anna Laura Bellina-Bruno Brizi, Il melodramma e la musica strumentale, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 429-443. Dopo la caduta della Repubblica si segnala, ad esempio, come presso la Fenice si sviluppi una continuità dell’impegno artistico con il compositore Giovanni Simone Mayr, che ha inizio dalla stagione 1793-1794, quindi poco dopo l’inaugurazione del teatro, e si conclude nel 1817; le prime delle sue opere — quasi una all’anno — sono state: Saffo (1794), La Lodoiska (1796), Telemaco nell’isola di Calipso (1797), Lauso e Lidia (1798), Adelaide di Guesclino (1799), Gli Sciti (1800), Argene (1801), La roccia di Frauenstein, Gli Americani (1805); negli anni successivi agisce in altri teatri italiani, dalla Scala di Milano al Valle di Roma, dal S. Carlo di Napoli al S. Moisè di Venezia; per la Fenice compone ancora Lanassa (1817). Lo stesso procedimento si ripete con altri Maestri, tra i quali Giuseppe Farinelli, Stefano Pavesi, Sebastiano Nasolini, Michele Carafa (cf. Michele Ghirardi-Franco Rossi, Il Teatro la Fenice. Cronologia degli spettacoli 1792-1936, Venezia 1989). Nel 1801 si è conclusa la fruttuosa collaborazione con Domenico Cimarosa, la cui presenza ha segnato il punto di contatto musicale più alto fra la scuola napoletana e quella veneziana, soprattutto con Gli Orazi e i Curiazi (libretto di Sografi, 1797), un’opera riproposta a lungo nelle stagioni successive; inoltre, Artemisia (libretto di Cratisto Jamejo [Giovanni Battista Colloredo]), opera incompiuta, viene eseguita dopo la sua morte, avvenuta a Venezia l’11 gennaio 1801; in giugno, proveniente da Napoli, si rappresenta poi Penelope, dramma per musica di Giovanni Maria Diodati. A proposito delle iniziative di promozione finanziaria, si ricorda come nel 1805 la Società dia il permesso all’impresario Valentino Bertoja d’introdurre, dopo le rappresentazioni, estrazioni della tombola e feste danzanti; con il ritorno dei francesi nel 1806, si concede all’impresario Carlo Ballocchino l’uso di alcune stanze adiacenti all’ingresso e al teatro, per organizzarvi tavoli da gioco.
36. Cf. Manlio Brusatin-Giuseppe Pavanello, Il Teatro la Fenice. I progetti, l’architettura, le decorazioni, Venezia 1987.
37. Cf. Elena Ruffin, Il ballo teatrale a Venezia nel secolo XIX, in La danza a Venezia. Dal Settecento a Carolyn Carlson, a cura di José Sasportes, «La Danza Italiana», 5-6, autunno 1987, pp. 151-179. Cf., inoltre, Balli teatrali a Venezia (1746-1859), a cura di José Sasportes, I-II, Milano 1994: in partic., I, Catalogo generale cronologico dei balli teatrali a Venezia dal 1746 al 1859, a cura di Elena Ruffin-Giovanna Trentin, pp. XXIX-CCCXIX.
38. Cf. E. Ruffin, Il ballo teatrale, pp. 163-166; cf., inoltre, Il sogno del coreodramma. Salvatore Viganò, poeta muto, a cura di Ezio Raimondi, Bologna 1984. Sulla fortuna di Rossini a Venezia e in particolare alla Fenice, cf. Sergio Martinotti, Rossini, Venezia e la Fenice, in I teatri nel mondo. La Fenice, Milano 1972, pp. 83-97; Nicola Mangini, Sui rapporti tra teatro e politica negli anni delle ‘prime’ veneziane di Rossini, «Chigiana», 34, 1977, pp. 41-52.
39. Cf. Giovanni Morelli, La musica a Venezia nel tempo della Restaurazione, in Il Veneto e l’Austria. Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1866, a cura di Sergio Marinelli-Giuseppe Mazzariol-Fernando Mazzocca, Milano 1989, pp. 462-465; Id., L’opera nella cultura nazionale italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi-Giorgio Pestelli, pt. II, I sistemi, 6, Teorie e tecniche, immagini e fantasmi, Torino 1988, pp. 393-453; Id., Il teatro per musica, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, III, Dalla metà del Settecento all’Unità d’Italia, a cura di Franco Brioschi-Costanzo Di Girolamo, Milano 1995, pp. 934-947. Il catalogo delle opere in prima rappresentazione dei maggiori musicisti, fino agli anni Trenta, si articola nei seguenti termini: Andronico (1821), Erode (1825), Caritea regina di Spagna (1826), Emma di Antiochia (1834), Le due illustri rivali (1838), La solitaria delle Asturie (1840) di Mercadante; I Capuleti e i Montecchi (1830), Beatrice di Tenda (1833) di Bellini; Belisario (1836), Pia de’ Tolomei (1837), Maria di Rudentz (1838) di Donizetti. Nel 1824 si realizza l’opera Il crociato in Egitto di Meyerbeer. Un compito di rilievo, spesso sviluppato in sintonia con i musicisti, è svolto dai poeti librettisti, quali Antonio Simeone Sografi, Felice Romani, Carlo Pepoli, Salvatore Cammarano. Da segnalare la presenza continuativa di artisti di primo livello, quali Giuditta Grisi, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giuseppe Grassini, Girolamo Crescentini, Angelica Catalani, Gaetano Crivelli, Nicola Tacchinardi, Isabella Colbran, Domenico Donzelli, ed altri ancora. Sulle collaborazioni degli artisti con la Fenice, dalle origini a oggi, cf. I teatri nel mondo. La Fenice, Milano 1972, in partic.: Fabio Fano, L’opera alla Fenice dal 1792 a oggi, pp. 67-81; Guglielmo Barblan, Donizetti alla Fenice, pp. 99-111; Vincenzo Terenzio, Bellini alla Fenice, pp. 113-121; Rodolfo Celletti, I cantanti, pp. 165-188; Robert Emile Huen-Fritz Lehmann, La scenografia, pp. 199-209; Sergio Martinotti, Il balletto alla Fenice, pp. 213-224.
40. Cf. Tommaso Locatelli, Apertura del magnifico Teatro della Fenice, «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 27 dicembre 1837, in Id., Appendice, V, pp. 187-191.
41. Cf. ibid., VIII, pp. 235-238, 322-323.
42. Cf. Marcello De Angelis, Le carte dell’impresario. Melodramma e costume teatrale nell’Ottocento, Firenze 1982. Degni d’interesse sono le carte della «vertenza Mercadante» (cf. ibid., pp. 199-206), che riguarda la rivalità fra il musicista e Donizetti per l’opera di riapertura del teatro; alla fine Lanari risolve la diatriba con il coinvolgimento di un autore minore, Giuseppe Lillo (cf. ibid., pp. 60-67). Cf., inoltre, John Rosselli, Il sistema produttivo, 1780-1880, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi-Giorgio Pestelli, pt. II, I sistemi, 4, Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino 1987, pp. 118-125 (pp. 77-165).
43. Cf. Marcello Conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Milano 1983.
44. Cf. T. Locatelli, Appendice, VIII, pp. 349-350.
45. Sulla rappresentazione di Giovanna d’Arco, nel dicembre 1845, a inizio di stagione, offuscata da «vizii d’invenzione e di stile», cf. Tommaso Locatelli, Bullettino degli spettacoli di Carnovale. Gran Teatro della Fenice, ibid., IX, pp. 180-181.
46. Nonostante la seria malattia che lo colpisce e lo lascia debole per alcuni mesi, Verdi porta a termine la partitura. «L’Attila [scrive il Maestro a Clara Maffei il 18 marzo 1846] ebbe nel complesso esito assai lieto. Applausi e chiamate ve ne furono anche troppo per un povero ammalato». La sera del 20 marzo, come racconta un cronista della «Fama» di Milano (30 marzo 1846, nr. 26, p. 103), il compositore è scortato fino alla sua abitazione «con torcie accese, al suono di eletta banda militare, fra gli stessi evviva, gli stessi battimano dei quali eragli stato prodigo al teatro». Per la recita del 24 marzo, poi, l’incasso raggiunge la cifra record di 5.428 lire austriache. Cf. M. Conati, La bottega della musica, pp. 172-174. Cf., inoltre, T. Locatelli, Appendice, IX, pp. 225-228.
47. Per I due Foscari, cf. T. Locatelli, Appendice, IX, pp. 310-312; in tale occasione, annota Locatelli, «il teatro era mezzo deserto». Su Macbeth, cf. ibid., pp. 376-384. Cf. le cronache degli spettacoli del Teatro Apollo, ibid., pp. 328-331, 333-336.
48. Cf. «Gazzetta Privilegiata di Venezia», 29 dicembre 1847. Cf., inoltre, Graziella de Florentiis, La Fenice e la società veneziana, in I teatri nel mondo. La Fenice, Milano 1972, p. 294 (pp. 287-295).
49. Tommaso Locatelli, Grande Accademia vocale e istrumentale a benefizio della patria nel gran teatro della Fenice, «Gazzetta di Venezia» del 17 novembre 1848, in Id., Appendice, IX, pp. 406-412. Si ricorda come il giornalista della «Gazzetta» partecipò con discorsi alle manifestazioni della Repubblica.
50. Cf. M. Conati, La bottega della musica, pp. 189 ss.; cf., anche, Elvidio Surian, L’operista, in Storia dell’opera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi-Giorgio Pestelli, pt. II, I sistemi, 4, Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino 1987, pp. 293-345.
51. Cf. E. Surian, L’operista, pp. 293 ss.; cf., inoltre, T. Locatelli, Appendice, X, pp. 288-299.
52. Cf. T. Locatelli, Appendice, XI, pp. 251-257; Violetta è la soprano Maria Spezia, Alfredo è il tenore Francesco Landi, Germont è il basso Filippo Coletti. Prima della Traviata ritrovata, il palcoscenico del S. Benedetto propone con intensa regolarità i melodrammi verdiani, a partire dal 1844: in quell’anno, si ospitano le opere Nabucco (8 aprile); Ernani (15 maggio); nel 1845 Ernani (24 marzo) e I due Foscari (30 marzo); nel 1846 Nabucco (13 aprile) e I Lombardi (3 ottobre); nel 1847, ancora I Lombardi (17 ottobre); nel 1848 Attila (26 dicembre); nel 1849 I Lombardi (13 gennaio), Ernani (gennaio), Nabucco (28 aprile), I due Foscari (18 novembre); nel 1850 I Lombardi (23 aprile), Ernani (27 aprile); nel 1851 s’intensifica la rassegna verdiana con Attila (21 aprile), I Masnadieri (10 maggio), Ernani (22 maggio), I due Foscari (19 luglio), Macbeth (27 settembre), I due Foscari (14 ottobre); nel 1852 Luisa Miller (23 ottobre), Rigoletto (6 novembre), Ernani (4 dicembre); nel 1853 Macbeth (28 marzo), Rigoletto (1° giugno), Attila (20 agosto); nel 1854 I due Foscari (23 aprile). Nelle stagioni successive si prosegue con lo stesso ritmo sostenuto (cf. G. Pavan, Teatri musicali veneziani).
53. I cartelloni degli anni successivi accolgono I due Foscari (7 gennaio 1855), Macbeth (10 febbraio 1855), Il Trovatore (6 gennaio 1856), il ritorno fortunato de La Traviata (12 gennaio), Giovanna di Guzman (16 febbraio), Ernani (23 agosto), Giovanna di Guzman (4 novembre), La Traviata (22 novembre), Il Trovatore (7 febbraio 1857). Ma durante tale periodo non smettono mai le pressioni su Verdi, che dal marzo 1856 trova la fattiva intermediazione di Piave, «Poeta Melodrammatico al Teatro la Fenice», la partecipazione dell’impresa Fratelli Ercole e Luciano Marzi, ingaggiata dal Gran Teatro, e il consiglio di presidenza, composto dal presidente agli spettacoli, Giovanni Battista Tornielli, dal presidente all’economia, il conte Alvise Francesco Mocenigo, e dal segretario Brenna. Seppure la notizia della novità verdiana si diffonde rapidamente in città, la scrittura viene firmata da Verdi il 15 maggio e reca l’indicazione di una somma di 12.000 lire austriache. Il primo cenno al Simon Boccanegra si trova in una lettera del 23 agosto a Piave, che ne cura il libretto, ricavato dal dramma di Antonio García Gutiérrez. La prima rappresentazione avrà luogo con sette giorni di ritardo dalla data prevista (cf. M. Conati, La bottega della musica, pp. 341-417). «La musica del Boccanegra [scrive Locatelli sulla «Gazzetta di Venezia» del 16 marzo 1857] non è di quelle che ti facciano subito colpo. Ella è assai elaborata, condotta col più squisito artifizio, e si vuole studiarla ne’ suoi particolari. Da ciò nacque che la prima sera ella non fu in tutto compresa, e se ne precipitò da alcuni il giudizio; giudizio aspro, nemico, che nella forma, con cui s’è manifestato, e rispetto ad un uomo, che chiamasi Verdi, uno de’ pochi, che rappresenti di fuori le glorie dell’arte italiana, che compose il Nabucco, i Lombardi e tanti altri capolavori, [...] ben poteva parere, per non dir altro, strano e singolare» (T. Locatelli, Appendice, XII, pp. 297-298).
54. L’opera che si rappresenta al S. Samuele è Lucia di Lammermoor di Donizetti, descritta da Tommaso Locatelli sulla «Gazzetta di Venezia» del 14 novembre 1852 (cf. T. Locatelli, Appendice, X, pp. 234-238). Il critico veneziano racconta con il suo consueto stile l’avvenuto passaggio di consegne: «Il sig. Camploy vide quell’immensa topaia del Teatro S. Samuele; considerò in esso la strana vicenda delle umane cose, le quali oggi sono in onore, che domani cadono nell’abbandono; pensò che, com’egli, il detto teatro, era buono prima del 1792 ad accorre il fiore della città, tale ei poteva essere anche nel 1853, e si propose di riabilitarlo [...]» (6 aprile 1853, ibid., pp. 309-310). Il restauro inizia dall’illuminazione a gas, ma investe anche la struttura, nelle decorazioni e nei tendaggi, per migliorare l’acustica; al posto del quarto ordine di palchi si apre un loggione.
55. Cf. Id., La Ristori al Teatro Camploy, «Gazzetta di Venezia» del 15 dicembre 1856, ibid., XII, pp. 242-249.
56. Cf. Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436, in partic. pp. 410-415. «La messa a fuoco dei processi economici reali lungo il corso dell’Ottocento — in una Venezia prima austriaca, poi italiana, indugiante al bivio fra una condizione di irriducibile ‘postumità’ e questa o quella forma di riadattamento — diventa a questo punto strategica e vi concorrono in diversi [...]. Il conflitto fra diverse ‘idee di Venezia’ è destinato a permanere [...]» (p. 411). Cf., inoltre, Id., La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482.
57. T. Locatelli, Appendice, XI, p. 161; per il commento relativo al dramma Giuseppe Angeleri, cf. ibid., X, pp. 203-212.
58. Nel decennio 1856-1866 continua la rassegna verdiana. Le opere vengono proposte, a scansione regolare, intervallate da composizioni di altri musicisti di rilievo, considerando all’interno della stagione anche gli spettacoli presentati nel Carnevale e nel proseguimento estivo-autunnale, fino alla vigilia dell’inaugurazione del cartellone seguente (che ha luogo di solito il 26 dicembre): 1856/1857, Leonora di Mercadante (26 dicembre 1856), Lucrezia Borgia di Donizetti (10 gennaio 1857), Mosè di Rossini (17 ottobre), Rigoletto di Verdi (14 novembre), Il barbiere di Siviglia di Rossini (25 novembre), Il Trovatore di Verdi (5 dicembre), I Capuleti e i Montecchi di Bellini (15 dicembre); 1857/1858, Semiramide di Rossini (28 agosto 1858), Norma di Bellini (11 settembre); 1858/1859, Il Trovatore di Verdi (26 dicembre 1858), Macbeth di Verdi (12 gennaio 1859), La Sonnambula di Bellini (23 gennaio), Beatrice di Tenda di Bellini (4 febbraio), Lucia di Lammermoor di Donizetti (19 febbraio), Ernani di Verdi (7 marzo), I Puritani e i Cavalieri di Bellini (29 ottobre), Lucrezia Borgia di Donizetti (13 novembre), Il barbiere di Siviglia di Rossini (26 novembre), L’elisir d’amore di Donizetti (6 dicembre); 1859/1860, La Sonnambula di Bellini (22 aprile 1860), Lucrezia Borgia di Donizetti (2 maggio), I due Foscari di Verdi (19 maggio), Torquato Tasso di Donizetti (26 maggio), Don Pasquale di Donizetti (2 giugno); 1860/1861, Aroldo di Verdi (26 dicembre 1860), La Traviata di Verdi (24 gennaio 1861), Poliuto di Donizetti (16 febbraio), I due Foscari di Verdi (2 marzo); 1861/1862, Un ballo in maschera di Verdi (26 dicembre 1861), I Puritani e i Cavalieri di Bellini (11 gennaio 1862), Il Trovatore di Verdi (1° febbraio), La Traviata di Verdi (6 marzo); 1862/1863, Rigoletto di Verdi (26 dicembre 1862), Maria di Rohan di Donizetti (10 gennaio 1863), Gemma di Vergy di Donizetti (31 gennaio), Ernani di Verdi (14 febbraio), Un ballo in maschera di Verdi (10 marzo); 1863/1864, La Sonnambula di Bellini (14 gennaio 1864), Il barbiere di Siviglia di Rossini (23 gennaio), Lucia di Lammermoor di Donizetti (4 febbraio); 1864/1865, Un ballo in maschera di Verdi (26 dicembre 1864), La Vestale di Mercadante (19 gennaio 1865), Rigoletto di Verdi (25 gennaio), Il Trovatore di Verdi (15 febbraio), I Capuleti e i Montecchi di Bellini (25 febbraio), Giovanna d’Arco di Verdi (11 marzo); 1865/1866, Macbeth di Verdi (26 dicembre 1865), Lucrezia Borgia di Donizetti (6 gennaio 1866), La Traviata di Verdi (24 gennaio), La favorita di Donizetti (10 febbraio), Un ballo in maschera di Verdi (10 marzo); per tutto il 1867 non viene presentato alcuno spettacolo musicale. Cf. G. Pavan, Teatri musicali veneziani, pp. 54-57.
59. Cf. T. Locatelli, Appendice, XVI, pp. 29-30. I rappresentanti del Gran Teatro sono: il sindaco Giovanni Battista Giustinian, il presidente anziano agli spettacoli Giovanni Battista Tornielli, il presidente all’economia Francesco Gregoretti, il presidente cassiere Emilio Mulazzani di Cappadocia e, quindi, Giuseppe Zannini, il segretario ragioniere Guglielmo Brenna, l’impresario Luciano Marzi. Il cartellone straordinario propone: Un ballo in maschera di Verdi (31 ottobre 1866); Un’avventura di carnevale, azione mimica del coreografo Pasquale Borri (31 ottobre); Norma di Bellini (13 novembre); Venezia liberata dal suo re, cantata di Antonio Buzzolla (8 novembre, prima assoluta in occasione della visita a Venezia di Vittorio Emanuele II). Ai Puritani seguono, da gennaio 1867: la prima di Diego de’ Mendoza di Giovanni Pacini, su libretto di Francesco Maria Piave (12 gennaio); Matilde di Schabran ossia bellezza e cuor di ferro, opera buffa di Rossini (26 gennaio); Lucia di Lammermoor di Donizetti (20 febbraio); Faust di Charles Gounod (10 marzo); L’assedio di Corinto di Rossini (27 marzo). Nel 1867 si concludono le recensioni e le annotazioni di Tommaso Locatelli, in seguito alla sua morte.
60. Sono le stagioni 1872/1873, 1877/1878, 1882/1883, 1883/1884, 1887/1888, 1890/1891 e, poi, dal 1892 al 1897; nel 1879 viene sciolta la Società Apollinea. Cf. N. Mangini, I teatri di Venezia, pp. 226-229.
61. Cf. Vito Levi, Wagner alla Fenice, in I teatri nel mondo. La Fenice, Milano 1972, pp. 135-143; Alfredo Mandelli, Puccini alla Fenice, ibid., pp. 145-151; Renato Mariani-Cesare Orselli, La Fenice e i musicisti postverdiani, ibid., pp. 153-163 (Ponchielli, Leoncavallo, Mascagni, Wolf-Ferrari).
62. Cf. Nicola Mangini, Il teatro veneto moderno. 1870-1970, Roma-Venezia 1992.
63. Nei mesi di novembre e dicembre 1874 si propone al pubblico un ciclo di operette in francese di Jacques Offenbach; s’inizia il 21 novembre con La fille de Madame Angot, musicata da Charles Lecocq, poi seguono ben sei lavori composti da Offenbach: La vie parisienne (24 novembre), Les Bavards e Mr. Choufleury restera chez lui le 24 janvier 1833 (29 novembre), La Périchole e Jeanne qui pleure et Jean qui rit (2 dicembre), La Princesse de Trébisonde (6 dicembre). Ma, in seguito, per ritrovare tale genere d’intrattenimento occorre saltare fino a ottobre-novembre del 1880, periodo in cui Rossini accoglie un ciclo di dieci operette e zarzuela, per poi proseguire con buona regolarità nelle stagioni seguenti. Cf. G. Pavan, Teatri musicali veneziani, pp. 59-60, 62-63 ss.
64. Cf. F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, I, 2, pp. 158-159.
65. Cf. Giuseppe Pretini, Dalla fiera al luna park, Udine 1984; Albano Trevisan, Forme spettacolari minori a Venezia fra ’800 e ’900, «Biblioteca Teatrale», 1987, nrr. 5-6, pp. 265-285; Gian Piero Brunetta, Buio in sala, Venezia 1989, in partic. p. 22; Albano Trevisan, A Venezia. L’altro teatro, Venezia 1990; Alessandro Serena-Emilio Vita, Lo spettacolo del corpo, Ravenna 2000.
66. Cf. Biancamaria Mazzoleni, Drammi storici di Luigi Sugana, Roma 1994; Ead., La saga dei Barbo, Roma 1997. Alcune commedie di Sugana sono state rappresentate in questi anni da Emilio Zago al Teatro Goldoni.
67. Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992, p. 84.
68. Cf. Quel che ghe vol. Le canzoni del Redentore (1866-1935), a cura di Riccardo Carnesecchi, Venezia 1995; cf., inoltre, Riccardo Carnesecchi, ‘Venezia sorgesti dal duro servaggio’. La musica patriottica negli anni della Repubblica di Manin, Venezia 1994.