Musical
Genere cinematografico in cui lo sviluppo narrativo e drammaturgico della vicenda è strutturato su canzoni e danze. Seppur erede di una forma di spettacolo nata nel teatro ‒ la musical comedy o commedia musicale ‒ il m. ha conquistato un'autonoma dignità creativa nel cinema hollywoodiano, divenendo anzi, assieme al western, il genere cinematografico americano per eccellenza, frequentato da autori che hanno realizzato opere di grande valore nell'ambito dell'intera produzione cinematografica.
L'avventura del m. sullo schermo iniziò, naturalmente, con il sonoro. Il film che segnò il passaggio epocale, The jazz singer (1927; Il cantante di jazz), ricordato non tanto per il regista Alan Crosland quanto per il protagonista Al Jolson, impegnato nel tentativo di diventare un cantante di successo, anticipa del m. la tipica struttura narrativa imperniata sulla backstage story ‒ ossia su una vicenda artistica raccontata da dietro le quinte ‒ in cui canto e danza sono giustificati dall'attività dei personaggi. Il genere si diffuse immediatamente dopo, in quanto esaltava più di ogni altro il nuovo traguardo tecnico ed espressivo raggiunto dal cinema. Con esso si cimentarono subito autori qualificati: Rouben Mamoulian firmò Love me tonight (1932; Amami stanotte), ma già nel 1929 il grande Ernst Lubitsch aveva realizzato The love parade (Il principe consorte). Ormai riconosciuto come il primo vero m. concepito per lo schermo, il film avviò uno dei sodalizi più significativi di questo genere cinematografico, con la coppia formata da Maurice Chevalier e Jeannette MacDonald, che per Lubitsch interpretarono anche One hour with you (1932; Un'ora d'amore) e il più famoso The merry widow (1934; La vedova allegra). Appena un anno prima, nel 1933, avevano esordito Fred Astaire e Ginger Rogers, la coppia più celebre del m., con Flying down to Rio (Carioca) di Thornton Freeland e si era imposto un altro protagonista degli anni a venire, Busby Berkeley, maestro dell'immagine coreograficamente costruita. In 42nd Street (Quarantaduesima strada) e Footlight parade (Viva le donne), usciti entrambi nel 1933 per la regia di Lloyd Bacon, l'estro coreografico di Berkeley "trasforma le file di ballerine e le macchinerie del palcoscenico in forme viventi di un universo dinamico senza confini" (Pruzzo, p. 40), mostrando con ciò aspetti fondamentali del m.: ambientazione backstage, lotta per il successo e persino risvolti sociali.
La coppia Astaire-Rogers attraversò tutti gli anni Trenta in una decina di film improntati a un romanticismo di grande e coinvolgente leggerezza, fatta di indimenticabili evoluzioni, spesso pervase da una sottile ironia e di brani musicali firmati da grandi autori, come Irving Berlin e George e Ira Gershwin. Top hat (1935; Cappello a cilindro) di Mark Sandrich resta il loro film più significativo, ma sono da ricordare almeno Swing time (1936; Follie d'inverno) di George Stevens e Follow the fleet (1936; Seguendo la flotta) ancora di Sandrich. E quando la Rogers negli anni Quaranta abbandonò il m., Astaire rimase protagonista assoluto, con molte altre partner, insidiato dal solo Gene Kelly. I due avrebbero danzato insieme in una sola occasione, nel 1945, nel numero The babbit and the bromide diretto da Vincente Minnelli per il film corale Ziegfeld follies. Kelly, del resto, aveva già avuto un altro partner del tutto singolare ‒ il topo Jerry dei cartoni animati di Joseph Barbera e William Hanna ‒ in Anchors aweigh (1945; Due marinai e una ragazza), virtuosistica fusione di realtà e animazione firmata da George Sidney, regista attivissimo nel m., tanto da trasferirne la dinamica visiva in The three musket-eers (1948; I tre moschettieri).Il primo decennio di vita di questo genere cinematografico segnò anche l'affermazione delle case di produzione immediatamente caratterizzate da alcuni importanti esponenti. Se la Paramount esaltò il talento di Lubitsch, la Warner Bros. assecondò i contrasti e le geometrie di Berkeley, mentre la RKO ebbe proprio in Astaire la sua massima gloria. La Metro Goldwin Mayer, da parte sua, si assicurò una posizione predominante 'catturando' gli stessi Astaire e Berkeley. E fu proprio quest'ultimo, in veste di regista, a lanciare definitivamente la giovanissima Judy Garland, in coppia con Mickey Rooney, in Babes in arms (1939; Ragazzi attori). Determinante in questo film fu anche l'ex paroliere Arthur Freed, che da allora in poi, 'in veste di produttore', fu il nume tutelare della MGM. A perfezionare il meccanismo produttivo della factory, come venne definita, arrivò infine Minnelli, la figura più significativa del genere. La guerra non frenò il m., ma offrì anzi un particolare spunto alla propaganda patriottica in For me and my gal (1942) di Berkeley e in Yankee doodle dandy (1942; Ribalta di gloria) diretto da Michael Curtiz.
Verso la metà degli anni Quaranta il m. si avviò alle sue più alte espressioni: alle figure citate si aggiunse Gene Kelly, impegnato davanti alla macchina da presa e nelle coreografie con Stanley Donen, ma soprattutto esplose l'enorme talento di Minnelli, il quale debuttò nel 1943 con Cabin in the sky (Due cuori in cielo), primo dei suoi fondamentali musical. Kelly e Donen, prima di approdare alla MGM, contribuirono al massimo sforzo produttivo fatto nel m. dalla Columbia, assieme al regista Charles Vidor, alla protagonista femminile Rita Hayworth, al musicista Jerome Kern, al paroliere I. Gershwin e all'operatore Rudolph Maté al Technicolor: Cover girl (1944; Fascino), storia di una ballerina in carriera, che rinuncia al successo per ritornare dal primo amore, un ballerino (Kelly) proprietario di un piccolo locale a New York.
L'immediato dopoguerra coincise con la stagione più feconda per questo genere cinematografico. Minnelli realizzò The pirate (1948; Il pirata), un film destinato a conquistare interesse nel tempo, in cui realtà e fantasia avviano un dialogo fecondo che culmina nella canzone di Cole Porter Be a clown, prima geniale rappresentazione della condizione dell'artista secondo Minnelli. La coppia Garland-Kelly, protagonista del film, avrebbe dovuto interpretare anche Easter parade (1948; Ti amavo senza saperlo) di Charles Walters, ma un infortunio al protagonista all'inizio delle riprese fece ripiegare la produzione su Fred Astaire, che proprio con questo film avviò una seconda, più matura carriera.La storia del m. ebbe quindi una svolta nel 1949 con On the town (Un giorno a New York). Non fu tanto per la regia di Donen e Kelly, né per la sceneggiatura di Betty Comden e Adolph Green, né ancora per la splendida colonna sonora di Leonard Bernstein, e neppure per l'ineguagliabile sestetto di interpreti; fu piuttosto per aver trasferito la vicenda dagli studios agli ambienti reali, con personaggi che non hanno alcun rapporto con il mondo dello spettacolo, realizzando così una suprema sintesi tra realtà e arte in forma musicale. Il film, che racconta le avventure nella metropoli di tre marinai in libera uscita, favorì lo sviluppo stilistico nel senso di una maggiore leggerezza e, al tempo stesso, di un'accresciuta forza realistica. Due anni dopo uscì un altro capolavoro: An American in Paris (Un americano a Parigi), sempre di Minnelli. Questa volta la trasferta fu addirittura oltreoceano, per fissare la seduzione esercitata dal vecchio continente sul nuovo. Il regista più esteta di Hollywood amministrò in modo esemplare il rapporto tra le musiche di G. Gershwin e la pittura degli impressionisti francesi, coreograficamente protagonisti di un finale quasi sperimentale, per la lunga durata e per la costruzione narrativa. Kelly fornì qui la sua migliore interpretazione, prima di dirigere, con Donen, Singin' in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia), vera e propria pietra miliare del genere, che coinvolse e continua a coinvolgere intellettuali e grande pubblico ripercorrendo la storia e il modo stesso di fare cinema con funzionalità spettacolare tutta americana. Se poi Gentlemen prefer blondes (1953; Gli uomini preferiscono le bionde) è da citare più che per l'incursione nel m. da parte di Howard Hawks per l'interpretazione di Marilyn Monroe, in buona compagnia con Jane Russell, The band wagon (1953; Spettacolo di varietà) raggiunse forse il vertice di questo genere cinematografico. Diretto ancora da Minnelli, il film è interpretato da un Fred Astaire nel ruolo di una star ormai dimenticata, che in realtà simboleggia la suprema ragion d'essere del m., esplicitata dalla canzone divenuta inno del genere, That's entertainment. Non si contano i grandi numeri che attraversano il film ‒ di fatto un classico backstage musical ‒, ma forse uno può vantare una sorta di primato: lo 'stacco' tra rappresentazione reale e rappresentazione danzata che si realizza sulle note di Dancing in the dark costituisce infatti l'essenza stessa del musical.Con Seven brides for seven brothers (1954; Sette spose per sette fratelli), Donen, questa volta da solo, proseguì nel solco della modernizzazione, proponendo una versione musicale, in ambientazione western, del ratto delle Sabine. M. dalle chiare venature melodrammatiche sono A star is born (1954; È nata una stella) di George Cukor, quasi un testamento precoce per la Garland, e Carmen Jones (1954) di Otto Preminger, mentre un altro autore titolato, Joseph L. Mankiewicz, con Guys and dolls (1955; Bulli e pupe), volle rivisitare il genere in chiave di commedia, e nel 1957 Mamoulian, da parte sua, realizzò Silk stockings (La bella di Mosca), un remake musicale di Ninotchka. Verso la fine del decennio ‒ mentre si moltiplicavano i m. 'biografici', 'nostalgici', di origine teatrale ‒ il film di Minnelli, Gigi (1958), fece incetta di Oscar (nove), rendendo un magistrale e appassionato omaggio a questo modo di fare cinema, e si affacciò sullo schermo Elvis Presley iniziando la stagione dei piccoli film musical americani a basso costo, destinati ai giovani (v. giovanile, cinema).
A Hollywood il m. è stato codificato e ha conseguito un suo stile autonomo, ma anche nel resto del mondo canzoni e danza sono state impiegate frequentemente sullo schermo, sia in commedie sia in drammi musicali. Anche in Italia, come negli Stati Uniti, l'avvento del sonoro fu affidato a un impianto canoro con La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, la cui tecnica espressiva è considerata dall'autorevole Jacques Lourcelles "molto superiore a quella di molti altri primi film sonori conosciuti [...] con numerose scene che utilizzano con brio la profondità di campo visiva e sonora" (Dictionnaire du cinéma, 1992, p. 194). Nel 1954 Ettore Giannini realizzò una sorta di inventario del folclore partenopeo in Carosello napoletano, ma soltanto una decina d'anni dopo le canzoni dilagarono sullo schermo, nel cosiddetto musicarello, filone in qualche modo autonomo rispetto al m., come lo era stato negli anni Cinquanta il film operistico.
In tempi più recenti l'eclettico Pupi Avati, con Aiutami a sognare (1981), ha azzardato un m. più conforme alla tradizione americana, raccontando una vicenda romantica in tempo di guerra tra un aviatore americano e una vedova padana. Nanny Loy, in Scugnizzi (1989), ha invece costruito con sensibilità meridionale un'opera corale animata da ragazzi di un riformatorio. Un cenno merita anche la sceneggiata cinematografica di Mario Merola, che non ha nulla della leggerezza del m. propriamente detto, ma il cui ritmo è pure scandito dalle canzoni. Caso anomalo è poi Le bal, noto anche come Ballando ballando (1983) di Ettore Scola, per l'ambientazione in una sala da ballo francese, ma più ancora per la scelta di affidare alla sola danza e alle canzoni di mezzo secolo l'intero andamento narrativo.
L'unico Paese ad aver cercato una sua via al m. è stato l'Unione Sovietica che, già alla metà degli anni Trenta, importò stili americani, un po' per aderirvi e un po' per parodiarli. Grigorij V. Aleksandrov con Vesëlye rebjata (1934; Tutto il mondo ride) aderì al tema della conquista del successo, non senza trattarlo con personale intellettualismo; il rapporto con il cinema statunitense si fece più diretto nel suo successivo Cirk (1936, Il circo), sulla vicenda di un'attrice americana che, vittima nel suo Paese dell'intolleranza razziale, si rifugia in Unione Sovietica. Negli anni seguenti il m. sovietico prosperò, senza tuttavia conseguire caratteri da esportazione e nel dopoguerra furono adattati alla nuova situazione storica temi classici, come quello dell'artista che trae la fonte d'ispirazione dalla sua terra, dopo aver subito l'orrore della guerra, svolto in Skazanie o zemle sibirskoj (1947; La canzone della terra siberiana) da Ivan A. Pyr′ev, autore di un altro m. di ambientazione rurale, Kubanskie kazaki (1950; I cosacchi del Kuban).
La Germania cercò precocemente di sfruttare la spettacolarità del m. e lo fece coniugando le risorse dello schermo con la tradizione dell'operetta. L'attrice e ballerina Lilian Harvey fu la popolare protagonista di Der Kongress tanzt (1931; Il Congresso si diverte) di Eric Charell, che le aprì le porte di Hollywood, in cui interpreta una guantaia che intreccia un idillio con lo zar Alessandro al Congresso di Vienna. Nella seconda metà degli anni Trenta salì alla ribalta l'attrice svedese Zarah Leander, che l'UFA sfruttò in una serie di melodrammi, ma anche di commedie musicali, come Der Blaufuchs (1938; La volpe azzurra) di Viktor Tourjansky. La produzione di film musicali, in forma di rivista, non si fermò neppure durante la guerra: Helmut Käutner realizzò Wir machen Musik (1942; A suon di musica) e Paul Martin Karneval der Liebe (1942; Carnevale d'amore). Ma anche in Germania non si riuscì a contrastare la concorrenza hollywoodiana, come anche in Francia, almeno fino alla metà degli anni Sessanta, quando Jacques Demy realizzò Les parapluies de Cherbourg (1964) e Les demoiselles de Rochefort (1967; Josephine), due opere uniche, la prima interamente cantata, la seconda popolata di nomi illustri (tra cui quello dello stesso Gene Kelly), che rendono omaggio al cinema americano.
Nell'ambito delle altre cinematografie spicca quella egiziana, e in particolare il nome di Youssef Chahine, il più celebre cineasta arabo. Il suo Wadda῾at ḥubbak (1957, Addio mio amore) fu, tra le molte commedie musicali egiziane vistosamente incrociate con il melodramma, una delle migliori, mentre il numero centrale di al-Yawm al-sādis (1987, Il sesto giorno), film dedicato in apertura a Gene Kelly, è una dichiarata citazione di Singin' in the rain. Una menzione a parte spetta infine al cinema indiano (v. India), in cui musica, danza e canto hanno sempre rivestito un ruolo di primo piano, e alla figura di Guru Dutt, autore di opere musicali di spessore melodrammatico, come Pyaasa (1957, L'assetato) e Kagaz ke phool (1959; Fiori di carta), in cui risultano inventariati autobiografismo e tradizioni.
La convenzionale linea di demarcazione tra cinema classico e cinema moderno, solitamente individuata nei primi anni Sessanta, nel caso del m. si applica in maniera puntuale. Nel 1961 uscì West Side story di Robert Wise e Jerome Robbins, il m. forse più celebre di tutti, di certo il più premiato (dieci Oscar). Ingredienti pregiati (Bernstein autore delle musiche, Stephen Sondheim delle canzoni) e nobili intenzioni (rivisitazione in chiave sociale del mito di Romeo e Giulietta) non attutirono però il senso di artificio che questo capostipite di m. moderno trasmetteva. Artificio che sfiorò anche il classicheggiante My fair lady (1964) di Cukor (anch'esso pluripremiato, con otto Oscar), per toccare poi Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson e travolgere infine l'altra interpretazione di Julie Andrews, The sound of music (1965; Tutti insieme appassionatamente), diretta dallo stesso Wise. Il veterano William Wyler tenne a battesimo Barbra Streisand in Funny girl (1968), mentre il poco più che esordiente Francis Ford Coppola si appoggiò a Fred Astaire per Finian's rainbow (1968; Sulle ali dell'arcobaleno).Il m. era ormai quasi una palestra per vecchi e nuovi talenti; tra questi ultimi Bob Fosse che debuttò con un remake del felliniano Le notti di Cabiria (1957), dal titolo Sweet Charity (1969; Sweet Charity ‒ Una ragazza che voleva essere amata). Gli anni inquieti della contestazione non impedirono a questo genere cinematografico di vivere una nuova giovinezza: se Ken Russell rese omaggio al m. classico con The boy friend (1971; Il boy friend) e Fosse portò alla ribalta Liza Minnelli in Cabaret (1972), gli umori del tempo si fecero sentire in Jesus Christ, superstar (1973), che Norman Jewison trasse dall'opera rock di A.L. Webber e T. Rice, in The Rocky horror picture show (1975) di Jim Sharman, e soprattutto nel sociologico Nashville (1975) di Robert Altman. Il m. sfiorò nostalgicamente anche Martin Scorsese con New York, New York (1977), e dilagò melodrammaticamente con All that jazz (1979; All that jazz ‒ Lo spettacolo continua) di Fosse e Hair (1979) di Milos Forman. Un esito a suo modo originale fu quello conseguito da Fame (1980; Saranno famosi) di Alan Parker, i cui effetti corali, in cui il cinema si mette a servizio della musica, hanno aperto la strada all'estetica del videoclip.Sul finire degli anni Settanta è esplosa la disco-music sulla scia del successo di Saturday night fever (1977; La febbre del sabato sera) di John Badham. È stato poi imprevisto l'eccezionale successo di The Blues Brothers (1980), del giovane e talentuoso John Landis, più attento alle ragioni della creatività cinematografica che alla facile cattura del pubblico giovanile e interpretato da John Belushi e Don Aykroyd. Intento analogo è stato quello di The Cotton Club (1984; Cotton Club) di Coppola, regista che aveva precedentemente sfiorato il m. con One from the heart (1982; Un sogno lungo un giorno), mentre il diligente Richard Attenborough ha raccolto ben altro successo con il teatrale e schematico A chorus line (1985; Chorus line). Un caso oltremodo singolare è stato quello di Little shop of horrors (1986; La piccola bottega degli orrori) di Frank Oz, divagazione musicale della bottega cormaniana. Più ortodossi, invece, i m. disneyani di animazione: The little mermaid (1989; La sirenetta) di John Musker e Ron Clemens, Beauty and the beast (1991; La bella e la bestia) di Gary Trousdale e Kirk Wise. Nel 1996 Parker ha girato Evita, da una celebrata opera teatrale su musica di A.L. Webber, ma l'esito cinematografico è apparso meno riuscito. Nello stesso anno Woody Allen si è confrontato con il genere realizzando Everyone says I love you (1996; Tutti dicono I love you) in chiave di commedia, mentre in quella melodrammatica Lars von Trier ha realizzato nel 2000 Dancer in the dark.Il nuovo secolo si è aperto con Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann, esuberante veicolo per la bravura della protagonista, Nicole Kidman, e Chicago (2002) di Rob Marshall, interessante omaggio a Fosse ‒ e a tutti gli artigiani che hanno contribuito al m. cinematografico. Entrambi i film hanno certificato che il cinema non può fare a meno della musica, e non solo fuori campo.
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