Musical
On and off Broadway
Musical e commedia musicale in Italia
di Valerio Cappelli
24 marzo
Alla settantacinquesima edizione dei premi Oscar il film che ottiene il maggior numero di riconoscimenti, sei, è Chicago di Rob Marshall, trasposizione cinematografica di un musical di Bob Fosse che, riprendendo a sua volta la trama di due pellicole del 1927 e del 1942, debuttò a Broadway nel 1975. Il ritorno al grande successo del film cantato e ballato, già anticipato dai due Oscar e dalle otto nominations di Moulin Rouge di Baz Luhrmann nel 2002, corrisponde al momento di grande fortuna che il genere musicale incontra nei teatri di moltissimi paesi, compresa l'Italia.
Un momento d'oro
I sei Oscar conquistati da Chicago, il film con Catherine Zeta-Jones, Renée Zellweger e Richard Gere, non avranno una particolare ripercussione sui musical a Broadway e tantomeno in Italia. Pietro Garinei, il padre del varietà, che governa il Teatro Sistina di Roma come un gentleman inglese, ritiene infatti che il musical nel nostro paese non abbia bisogno d'essere rilanciato, dal momento che sta già vivendo un periodo d'oro. Alle 'prime' del suo teatro, Garinei è quell'uomo con i capelli argentati che sta dritto e impalato a sinistra del botteghino a salutare gli amici, salvo poi dileguarsi quando cala il sipario, perché dopo la morte di Sandro Giovannini, il suo socio scomparso nel 1977, Pietro è un 'antipersonaggio' e non è più voluto uscire alla ribalta per dividere gli applausi con la compagnia. È molto più facile notarlo nei teatrini, a caccia di giovani talenti. Ed è questo che differenzia Garinei dagli altri uomini di teatro, che quasi mai vanno a vedere cosa fanno i colleghi. In Italia la commedia musicale si identifica con lui. La ricognizione sul musical non può prescindere dalla sua esperienza. Ma mentre una volta c'era solo il Teatro Sistina, adesso il panorama è divenuto ricco e complesso, con almeno 34 compagnie amatoriali che propongono commedie musicali in piccole sale, senza lesinare sulla qualità e sullo sfarzo dell'allestimento. Gli interpreti di queste compagnie sono tutto fuorché dilettanti, hanno energia, preparazione fisica e molto entusiasmo. Frequentano le palestre o le scuole di ballo e di canto, che proliferano ovunque. "Il musical - racconta Garinei - è un'esperienza totalizzante che mette in gioco la voce e il corpo. Ed è un gioco di squadra, uno spettacolo collettivo. Un tempo era difficilissimo trovare chi accettava di lasciare il cinema o il teatro per mettersi a cantare e a ballare al Sistina. Oggi avviene il contrario. Gli attori affermati sono attratti perché è davvero una sfida. Sabrina Ferilli ha provato mesi interi con Armando Trovajoli prima di debuttare in Rugantino". A Ferrara è andata in scena un'edizione di Aggiungi un posto a tavola con 25 ballerini e altrettanti coristi. Al Sistina, che ha quasi 50 titoli in repertorio, arrivano richieste da parte di tanti giovani attori. E ai provini, in cui bisogna saper cantare, ballare e recitare, Garinei racconta che, se una volta si presentavano in poche decine, ora arrivano a centinaia. Nel loro curriculum molti scrivono di aver frequentato scuole di musical a New York. Si è sempre detto che il musical non sfondava in Italia perché è estraneo alla nostra cultura, è un genere d'importazione, una fabbrica del sogno nata negli Stati Uniti grazie soprattutto ad americani immigrati di prima generazione: i fratelli Gershwin, Jerome Kern, Irving Berlin, Kurt Weill, Cole Porter. "Il musical - diceva Leonard Bernstein, l'autore di West Side Story - è stato il tributo più originale dato dall'America alla musica moderna. Attendiamo un nuovo lavoro di Rodgers e Hammerstein con la stessa eccitazione con cui alla Scala si attende un nuovo allestimento di Puccini". Ma Saverio Marconi, che nel 1988 ha fondato la Compagnia della Rancia, dice al contrario che il musical ha radici italiane riconducibili (addirittura) all'opera buffa settecentesca, dove convivono il canto delle arie e i dialoghi dei recitativi e, ancora indietro nel tempo, alle imponenti macchine scenografiche, al 'maraviglioso' barocco che proliferava nei teatri di corte e nei nobili palazzi del Seicento italiano. Centinaia di anni dopo, lo spettacolo musicale italiano appare una mela spaccata a metà: da una parte la lirica extracolta, dall'altra il ribollire di umori popolari nel varietà e nell'avanspettacolo. C'è comunque una differenza sostanziale tra musical e commedie musicali. I musical sono racconti più romantici, che nascono dalla storia, dalla letteratura e dal cinema. Nelle commedie musicali c'è meno musica e più commedia, e si cerca di far ridere. I protagonisti, soprattutto donne, vengono dal grande schermo e si confrontano con spettacoli leggendari: Sabrina Ferilli (Rugantino), Stefania Rocca (Irma la dolce), ma anche la giovane Martina Stella lanciata da Gabriele Muccino in L'ultimo bacio (Aggiungi un posto a tavola).
Le origini della commedia musicale italiana
Con Garinei & Giovannini, nel dopoguerra, nasce la commedia musicale. Il loro sguardo è rivolto a New York. Nel 1951 i due sono a Broadway, in cartellone c'è Guys and Dolls ("Bulli e Pupe"). Dopo lo spettacolo si convincono che al Sistina devono trovare un coreografo americano. In Italia c'era stata la grande rivista: Macario, Wanda Osiris, Michele Galdieri autore di tanti spettacoli con Totò e Anna Magnani. Le scale bianche, le prime gambe scoperte. Gli anni di E se ti dice va'…tranquillo vai (1937), di Galdieri, dove l'uomo che diceva "va'" era Mussolini.
La nuova strada, sulla scia di Broadway, comincia con Renato Rascel in Attanasio cavallo vanesio: nelle locandine c'è scritto "Favola in musica". "Ancora non avevamo il coraggio di chiamarla commedia musicale", dice Garinei. Si ingaggia Gorni Kramer, il compositore più americano e jazzista che si riesca a trovare.
Non rifaremo ora la storia di Ciao, Rudy con Marcello Mastroianni nei panni di Rodolfo Valentino; di Rugantino che nel 1961 va in tournée negli Stati Uniti con Nino Manfredi, Ornella Vanoni, Aldo Fabrizi e Bice Valori; o dello stesso Aggiungi un posto a tavola che non è stato in America ma ha fatto il giro del mondo: Vienna, Mosca, Lisbona, Madrid, Londra, Buenos Aires, Città del Messico ... Tutto questo si ritrova nel bel libro di Lello Garinei e Marco Giovannini (nipoti dei 'Signori del Sistina'), Quarant'anni di teatro musicale all'italiana (1985). Ancora manca invece un'indagine sui tanti rami cresciuti negli ultimi anni attorno al grande albero del Sistina. Saverio Marconi nel 1990 mette in scena A Chorus Line (la storia di un'audizione a Broadway come metafora della vita) con una compagnia di tutti ragazzi che recitano e cantano in italiano. È una sfida molto impegnativa. Ci sono tanti pregiudizi sul fatto che si traduca nella nostra lingua un musical leggendario di Broadway. Dalla Compagnia della Rancia, che ha base nelle Marche, sono usciti Maria Laura Baccarini, Renata Fusco, Michele Carfora, talenti della nuova scena. Marconi, che ha 55 anni, dice che anche il pubblico del musical all'italiana è cresciuto, è più attento e competente. A lui si deve la riscoperta di titoli come La piccola bottega degli orrori, Cabaret, Sette spose per sette fratelli, Hello Dolly. A suo giudizio, "la traduzione in italiano dei più celebri titoli in repertorio ha permesso di allargare il target dando una dimensione popolare a un genere che prima era appannaggio di un'élite di appassionati".
Il musical all'italiana
I nuovi titoli su cui punta il musical all'italiana sono ispirati a due capolavori, due icone della Città eterna: il primo cinematografico, Vacanze romane, l'altro della lirica, Tosca. Il copione del film è riadattato da Iaia Fiastri e ha la regìa di Pietro Garinei. Audrey Hepburn e Gregory Peck al Sistina hanno il volto di Serena Autieri e Massimo Ghini.
Il film di William Wyler in questi ultimi anni ha prodotto una vera e propria idolatria, soprattutto per le scene con la Vespa sullo sfondo dei monumenti romani. A Roma non c'è bancarella del centro storico che non esponga il calendario o le foto tratte dal film. Quanto all'opera di Puccini, è stata ribattezzata Tosca amore disperato e Lucio Dalla ne ha scritto testi e musiche, in una commistione di stili e di generi che racconta la storia e i personaggi. Una sorta di dramma pop; una riscrittura (non una rivisitazione) che ha, tra gli altri protagonisti, Franco Califano e Max Gazzé. Ma perché una nuova opera da Tosca? "Perché - spiega Dalla - la storia è meravigliosa e Puccini è la modernità, è addirittura più moderno di tanti musicisti contemporanei. Tutta la musica del Novecento, da Webern al musical stesso, deriva da Puccini e c'è nell'aria un bisogno di tornare alle radici autentiche della musica". Dalla ha avuto una libertà "che la canzone ti vieta perché è schiava di un tempo prestabilito, se scrivi un brano di quattro minuti le radio te lo sfumano; la canzone sta morendo perché non riesce più a essere se stessa e così bisogna creare delle alternative". Lucio Dalla, la voce più insofferente della canzone italiana, l'artista ossessionato dalla tecnologia e dal progresso, ha messo in piedi il progetto a 60 anni, l'età del bilancio definitivo. Va detto che sul musical sembrano proiettare le proprie ambizioni i cantautori più maturi, Dalla, Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni (quest'ultimo però ancora deve trovare un titolo), i quali, appagati dalla forma-canzone, sono in cerca di nuovi stimoli. Nel 2002 sono andati in scena ben 27 nuovi musical. L'attesa si concentra sulla qualità del titolo. Gianmario Longoni, produttore e impresario, ha temuto la saturazione del mercato, un'offerta un po' confusa potrebbe drogare il settore. Si sospetta una crisi di crescita, si auspica una programmazione più razionale. Anche se Saverio Marconi è convinto che diventeremo una Capitale del musical solo quando uno spettacolo potrà restare fermo nello stesso teatro per un anno intero, come avviene a Londra e a Broadway.
La grande sorpresa si intitola C'era una volta... Scugnizzi. Dopo il debutto al Teatro Augusteo di Napoli, lo spettacolo è andato via via crescendo, a una replica s'è affacciato entusiasta anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in breve tempo è stata organizzata la tournée. Scritto da Claudio Mattone ed Enrico Vaime, si ispira a un film, girato nel 1989 da Nanni Loy, che racconta i tentativi di riscatto d'un gruppo di ragazzi dalla violenza di una camorra sempre più spietata. Usciti dal carcere minorile, due giovani prendono strade diverse: uno si fa prete e cerca di togliere gli scugnizzi dalla strada con la musica; l'altro diventa un boss. Dopo vent'anni si ritrovano nemici nella Napoli di oggi che si proietta in una scena a due piani, una città scabrosa, la droga, la camorra, però mai oleografica. Il fatto sorprendente è che i 21 protagonisti sono quasi tutti esordienti: studenti, pizzaioli, animatori turistici, di età compresa tra i 15 e i 21 anni, per la prima volta in scena e provenienti dai quartieri poveri di Napoli e dintorni. Alcuni ragazzi sono bassi o grassi: il criterio per essere reclutati è stato la spontaneità e proprio la normalità fisica. Ai provini s'erano presentati in 1200. Quello che resta sono le facce dei protagonisti, presi dalla strada, e la reazione del pubblico. Che si agita come a un concerto rock e non se ne va senza un bis da cantare in un grande improvvisato karaoke dal sapore popolare. Nel musical insomma sembra che vinca chi percorre una strada diversa, originale. Moni Ovadia ha riempito i teatri con Il violinista sul tetto, classico musical yiddish. "Perché - ha spiegato Ovadia - parlo di qualcosa che è nell'aria, l'ubiquità culturale, l'incrocio di etnie e di come il pover'uomo, l'ebreo errante del ghetto, tenti di difendersi dai soprusi e dalla guerra e dalla violenza integralista credendo nei semplici valori della vita".
Il 'caso' di Notre-Dame de Paris è noto: lo spettacolo realizzato da Riccardo Cocciante ha avuto un battage pubblicitario eccezionale. I ballerini sono soprattutto acrobati, i protagonisti cantano sulle caratteristiche timbriche di Cocciante, le melodie sono tante e rischiano di sovrapporsi le une alle altre. Ma i numeri dicono che, nei primi nove mesi del 2002, lo spettacolo è stato seguito da oltre 700.000 spettatori. Un altro recente spettacolo di successo, Full Monty, porta la firma come regista di Gigi Proietti. Il musical, mutuato dal film omonimo, è la storia di sei operai licenziati che, per sopravvivere, si improvvisano spogliarellisti. Trentadue cambi di scena e, sotto gli slip, la dignità dei lavoratori per un musical che, fenomeno più frequente all'estero, punta più sul solista che sul gioco di squadra.
I Dieci Comandamenti è arrivato in Italia grazie a Guido e Maurizio De Angelis, autori di fortunate colonne sonore degli anni Settanta (Sandokan) e produttori di fiction (Incantesimo). Lo hanno importato dalla Francia dove, dal debutto, ha avuto 335 rappresentazioni e un milione e mezzo di spettatori. Il lancio di un musical di queste dimensioni poggia ormai su un supporto finanziario e ideativo pari a quello di un grande film. La storia sacra ballata e cantata è andata in scena il Sabato Santo; il giorno di Pasqua la recita è stata dedicata a nonni e nipoti, che potevano entrare in coppia spendendo appena 17 euro. Una percentuale dell'incasso era devoluta all'associazione Emergency di Gino Strada alle prese con l'emergenza Iraq.
Il musical più longevo è Grease: l'edizione italiana firmata da Saverio Marconi è tuttora in scena dopo sei anni (mentre in USA si piazza al terzo posto assoluto dopo A Chorus Line e Cats). Jim Jacobs, coautore del musical ambientato nell'America innocente degli anni Cinquanta, ha seguito Grease in tutto il mondo (in Australia è andata in scena negli stadi), e ha detto che l'edizione italiana "è la migliore produzione". Lorella Cuccarini emana energia e naturalezza e sembra che sia nata sul palcoscenico e non in TV; ma anche gli altri 17 interpreti di questo piccolo miracolo italiano sono uno più bravo dell'altro. S'aggiustano il ciuffone con i pettini in tasca a mo' di status symbol (i pettini in USA negli anni Cinquanta erano come i cellulari nell'Italia di oggi), gestualità esasperata come in un cartoon, ritmi vorticosi sulla scenografia che rimanda al campo da football e alla palestra da basket, tra automobilone e poster di Elvis Presley. Al tempo del debutto in Italia, John Travolta, che fu protagonista del film, disse che "la riscoperta del musical si deve al fatto che ci sono persone, sentimenti e sogni dietro gli attori e i ballerini, quindi umanità, fantasia e invito all'evasione collettiva. Il musical è ritornato a essere un autentico sfogo creativo per la platea e per gli attori. Questo tipo di show dà agli attori adrenalina pura, mentre se lavori in uno studio o giri su un set, non avrai mai quell'atmosfera".
Il segreto del successo delle edizioni italiane sta anche nell'intelligenza con cui si evita la trappola di cercare i sosia di personaggi che restano nell'immaginario di tutti. Così il regista Massimo Romeo Piparo, altro punto di riferimento del musical all'italiana, allestendo La febbre del sabato sera, per il ruolo di Tony Manero non ha cercato un'imitazione di John Travolta. Il look, però, quello c'è tutto: camicia sbottonata e colletto ad apertura alare, pantaloni a zampa d'elefante... E poi un'aggiunta personale del regista, i tre falsi Bee Gees sul palco che cantano senza prender parte alla vicenda: Saturday Night Fever è anche uno dei più grandi successi della discografia, negli Stati Uniti è fra i 20 album più fortunati della storia della musica con oltre 15 milioni di copie vendute dal 1977 a oggi. Nello spettacolo Piparo ha scelto una sorta di compromesso: si recita in italiano ma la colonna sonora, simbolo della disco dance e difficilmente traducibile, resta in inglese. Piparo comincia con un record: ha messo in scena per 10 stagioni consecutive Jesus Christ Superstar, il musical rock ispirato ad alcuni brani del Vangelo e agli ultimi giorni della vita di Gesù. Piparo oggi dirige il Nazionale di Milano, l'unico teatro in Italia che programmi soltanto musical. Tra i suoi progetti, Chicago, Dr. Jeckyll & Mr. Hyde e Cats. Nel 1994 è un giovane attore di prosa quando decide di confrontarsi con il musical. In Italia all'epoca c'erano da una parte il transatlantico di Garinei & Giovannini, dall'altra il vascello di Saverio Marconi, "con uno stile - dice Piparo - ancora molto italiano sia nella scelta della lingua che nella musica registrata. Il musical in lingua originale è una strada valida e apprezzata dal pubblico. Io ho portato il sistema della traduzione con sopratitoli in italiano fino ad allora usata sporadicamente solo nei Teatri d'Opera". Il risultato è che artisti stranieri si affacciano sul mercato italiano nelle produzioni di Piparo: Carl Anderson veste nel nostro paese i panni dell'apostolo traditore (il Giuda nero di Jesus Christ Superstar); Bob Simon (star americana del Rocky Horror Show) è nella Febbre del sabato sera e in Evita, e il coreografo Jaime Rogers, ballerino nel film Oscar West Side Story, firma i balletti della Febbre del sabato sera. Il musical è il terreno intorno al quale sono cresciuti talenti come Leonard Bernstein e Stephen Sondheim. "Quando dominava il teatro 'impegnato' - racconta Garinei - dicevano che era un genere sciocco". La critica cosiddetta militante accusava Garinei & Giovannini di mettere in scena commedie qualunquiste, accomodanti, a lieto fine. Ma la strada della riconoscibilità sociale è ancora lunga. Perché nonostante tutto, il musical resta disconosciuto dalla cultura ufficiale e dalle accademie che continuano a ritenerlo un intrattenimento troppo 'leggero', una forma di spettacolo inferiore.
La storia del musical
Origini del teatro musicale americano
Nel 18° secolo il teatro popolare in America aveva una natura essenzialmente musicale. Qualsiasi produzione, a partire dalle tragedie di Shakespeare, prevedeva l'inserimento di numeri in musica. I generi di teatro più in voga includevano pantomime e soprattutto comic operas. Dei 91 spettacoli messi in scena nel 1796 dalla New York American Company, 46 erano opere musicali. Lo spettacolo di varietà nacque nel periodo della Guerra civile fondendo la tradizione inglese del music-hall, importato da personaggi come Albert Chevalier e Marie Lloyd Weber, e la tradizione locale degli honky-tonks, spettacoli licenziosi che si rappresentavano nei saloons per un pubblico soprattutto maschile ed erano formati da vari numeri di ballerine, comedians, cantanti, con un finale particolarmente sgargiante. L'anello di congiunzione fra gli honky-tonks e il vaudeville, il vero e proprio varietà, fu il burlesque, che in origine era una sorta di rivista satirica di attualità incentrata su una protagonista femminile e divenne poi uno spettacolo destinato a un pubblico solo maschile, costruito come un alternarsi di numeri di girls e qualche intervento di comedians e di acrobati. Il pubblico, polemico e sboccato, interveniva spesso in modo greve obbligando i comedians a mettere in mostra tutte le loro doti di improvvisatori e intrattenitori, giocando sul senso del ritmo teatrale e sulla caratterizzazione dei personaggi. Accanto a queste forme di intrattenimento non vanno dimenticati l'extravaganza, la pantomima e i numeri cosiddetti di gags and girls. L'extravaganza si reggeva sulla moltitudine degli interpreti, sugli effetti scenici a sorpresa e sulla maliziosa presenza di ballerine in trasparenti costumi color carne. La pantomima aveva poco o nulla a che vedere con l'omonima forma teatrale europea, ma presentava, insieme a quelli musicali, insoliti numeri di attrazione come gli acrobati in bicicletta o sui pattini a rotelle. Il genere gags and girls, infine, consisteva di semplici numeri di varietà giocati sulle battute comiche e le evoluzioni delle ballerine, essenzialmente portati al successo alla fine del 19° secolo da una popolarissima coppia di comici newyorkesi, Weber e Fields.
Il varietà americano nacque dunque come trasformazione di questi generi licenziosi in un nuovo spettacolo, su modello francese, che manteneva la struttura a numeri, ma che, anche per allargare il pubblico, eliminò gli aspetti più osés. Gli spettacoli, originariamente chiamati varieties, a partire dagli anni Dieci del 20° secolo ebbero il nome di vaudevilles, e continuarono ad avere successo fino agli anni Cinquanta.
I pionieri di Broadway
Il primo 'vero' musical fu The black crook, che andò in scena con testi di Charles M. Barras e musiche di Giuseppe Operti (in realtà si trattava di arrangiamenti di brani altrui) il 12 settembre 1866 al Niblo's Garden Theatre di New York. Era un'extravaganza che si rifaceva alla lontana al Faust goethiano, inserendovi elementi favolistici e romanzesco-sentimentali, e una serie di effetti scenici: un uragano, un Sabbah, una fantasia aerea di angeli. Una delle maggiori attrazioni era rappresentata dal coro di ballerine in costume color carne. Condannato da tutti i moralisti, lo show ebbe ben 474 repliche e conobbe diversi rifacimenti fino all'inizio degli anni Trenta, con l'inserimento di numeri sempre nuovi. Gran successo ebbero anche Humpty Dumpty (1868) e Adonis (1884), che rientravano anch'essi nel genere dell'extravaganza: pieni di affollati numeri e di effetti a sorpresa, non avevano un filo musicale originale. Il primo autore unico delle musiche nella storia di questo nuovo tipo di spettacolo fu Edward E. Rice, cui si devono i brani di Evangeline (1874), ispirato a un dramma contemporaneo, su libretto di Cheever Goodwin. Poco tempo dopo Nate Salsbury inaugurava con The brook (1879) un nuovo tema, quello del 'teatro nel teatro': una compagnia teatrale, in gita, scopre di aver preso al posto della cesta con la merenda quella piena di costumi, per cui decide di improvvisare uno spettacolo. Nel 1879 giunse da Londra l'operetta di Gilbert & Sullivan H.M.S. Pinafore, che con la sua ventata di comicità un po' folle ebbe un'accoglienza strepitosa: durante la stessa stagione la misero in scena cinque compagnie a New York e novanta nel resto del paese.
Molti spettacoli erano caratterizzati da una sorta di cifra stabile, un''impronta' conferita dai loro ideatori e direttori (che furono, perlopiù, impresari e proprietari di teatri): più maliziosi gli Scandals (1913-39) di George White, i Passing shows di Georges Lederer e dei fratelli Shubert, le Vanities di Earl Carrol (1922-37) e le Anderson follies (1919-24), più classiche le favolose Follies di Florenz Ziegfeld, che iniziate nel 1907 proseguirono anche dopo la morte del suo ideatore (1932). Le Ziegfeld follies erano state pensate sul modello delle parigine Folies Bergère, con musiche piacevoli, comicità più o meno piccante, costumi sfarzosi e belle donne 'discinte': in una delle prime edizioni aveva fatto sensazione la rapida visione del nudo integrale di una soubrette nell'atto di uscire dalla vasca da bagno. All'interno di questi show venivano inseriti numeri di danza 'eccentrica', come il fox-trot e il turkey-trot di Vernon e Irene Castle, la danza dell'étoile dei Ballets russes Lydia Lopokova, la tap dance di Adele e Fred Astaire, non ancora divenuti divi cinematografici.
A questi spettacoli faceva da contraltare intellettuale l'intimate revue (la rivista da 'camera'), che invece che sui grandi quadri coreografici, sul nudo e sulla comicità, puntava sull'originalità e l'arguzia della satira, sull'intelligenza e la freschezza dei testi. A questo tipo più elitario di spettacolo furono legati alcuni grandi nomi del musical, come Jerome Kern che, tra il 1915 e il 1918, rappresentò al Princess Theatre di New York alcune intimates di stile raffinato. Nel 1924, la Neighborhood Playhouse inaugurò la serie delle Grand street follies, indirizzata alla satira della vita teatrale contemporanea. I suoi 'numeri' prendevano di mira attori e danzatori famosi, come John Barrymore in Hamlet e Anna Pavlova nella Morte del cigno, oppure ridicolizzavano le ultime novità di Hollywood. Fino alla seconda metà degli anni Venti il musical conservò una duplice fisionomia, 'tra valzer e ragtime'. Da una parte si poneva la fusione di motivi europei con elementi indigeni del musical operata da un gruppo di compositori di cultura musicale europea, come Victor Herbert, Rudolf Friml e Sigmund Romberg, autori delle Ziegfeld follies e dei Passing shows di Shubert, dall'altra la novità tutta americana dei musical di George M. Cohan, che firmò spettacoli memorabili, stravaganti e fantasiosi, a metà strada fra la commedia musicale vera e propria e la rivista (Running for office, 1903, ripreso nel 1907; Little Johnny Jones, 1904; Hello Broadway, 1914, celebrazione del teatro musicale americano che comprende un amichevole omaggio al 'collega' Irving Berlin; The voice of McConnell, 1918). Altro aspetto saliente di Cohan fu il patriottismo: per un suo inno (Over there), divenuto popolarissimo tra i soldati americani impegnati nella Prima guerra mondiale, ricevette la medaglia d'oro del Congresso; in una canzone celebrò George Washington, in altre i padri della patria; in maturità interpretò egli stesso sulla scena la parte del presidente Roosevelt, ottenendone le congratulazioni.
La consacrazione del genere
I musicisti cui il musical deve l'approdo alla fase matura e la consacrazione mondiale furono George Gershwin, Irving Berlin, Jerome David Kern, Cole Porter e Richard Rodgers, con i quali collaborarono alcuni lyricists (scrittori di lyrics), come Oscar Hammerstein II, Ira Gershwin, Lorenz Hart. George Gershwin cominciò la sua carriera dal gradino più basso: song-plugger, cioè strimpellatore di canzoni nuove per clienti di una casa editrice. In seguito fu pianista accompagnatore di spettacoli musicali. Il suo primo grande successo, la canzone Swanee (1919), interpretata da Al Jolson, gli aprì le porte dei palcoscenici di Broadway. Divenne così - spesso in collaborazione con il fratello Ira per i testi - uno dei più fortunati compositori di musical (Lady be good, 1924; Oh Kay!, 1925; Funny face, 1927; Strike up the band, 1930), di songs, di commenti musicali per film. Nelle partiture migliori riuscì a fondere elementi jazzistici con il linguaggio della musica colta europea, come in An American in Paris (1928) e, soprattutto, in Porgy and Bess (1935), che accoglie nella struttura di un melodramma ottocentesco il blues, conseguendo un risultato formale ed espressivo di grande efficacia. La prima commedia musicale di Berlin, autodidatta che componeva a orecchio e aveva inventato una sorta di pianola meccanica per armonizzare motivi nati dalla sua fantasia, presentò la novità di essere basata sul ragtime (Watch your step, 1914). Fra gli anni Dieci e il 1949, praticamente ogni anno firmò un nuovo musical, su copioni di diversi autori. Il suo capolavoro, Annie get your gun (1946), è la storia di una tiratrice scelta degli spettacoli di Buffalo Bill.
Kern, che contrariamente a Berlin e in parte anche a Gershwin si affacciò sulla scena del musical con una solida preparazione musicale (diploma in pianoforte e composizione, corsi di perfezionamento in Europa), fu l'autore di Show Boat (1927), una delle commedie musicali più popolari in assoluto del teatro americano. Tratta da un romanzo di successo di Edna Farber, ridotto e versificato da Oscar Hammerstein II, racconta una storia complessa, una vera e propria epopea che riguarda quarant'anni di storia americana, vista attraverso gli occhi dei membri di una famiglia di teatranti che si spostano con il loro battello-teatro lungo il Mississippi. Andato in scena allo Ziegfeld Theatre di New York il 27 dicembre 1927, Show Boat fu subito un trionfo, con 572 repliche nello stesso teatro di debutto, senza contare le innumerevoli riprese. Appartenente a un'agiata famiglia dell'Indiana, Cole Porter si affacciò sulle scene del teatro americano dopo aver studiato legge a Yale e musica a Harvard e Parigi. Nel 1928 l'impresario Roy Goetz gli commissionò le canzoni per la commedia musicale Paris, che ottenne uno strepitoso successo, il primo di una lunga serie. Tra i musical più memorabili di Porter figurano Wake up and dream (1929); The gay divorce (1932), interpretato da Fred Astaire e Grace Moore (vi appartiene la canzone "Night and day"); Anything goes del 1934; Jubilee del 1935, che propone il motivo forse più noto di Porter, "Begin the Beguine"; Kiss me, Kate (1948), ispirato alla Bisbetica domata di Shakespeare; Out of this world (1950), ispirato a un burlesco Olimpo; Can-Can (1953), che vanta le canzoni "I love Paris" e "C'est magnifique"; e Silk stockings (1955), tratto dal racconto Ninotchka di Melchior Lengyel.
La fortuna di Richard Rodgers è consistita, da un lato, nell'aver potuto contare su una sconfinata riserva musicale (circa 100 le sue canzoni di successo, da Blue moon a My funny Valentine), dall'altro, nell'essersi trovato a lavorare, uno dopo l'altro, con due dei più grandi autori di libretti e di lyrics della storia del musical, Lorenz Hart e Oscar Hammerstein II. La collaborazione con il primo iniziò fin dai tempi dell'università, con lo spettacolo Fly with me (1918), ma il primo vero debutto teatrale fu costituito da The Garrick gaieties (1925): messo in scena al Garrick Theatre dal gruppo giovanile del Theatre Guild di New York, prendeva a soggetto la gioventù inquieta degli anni Venti; ebbe un seguito nel The Garrick gaieties of 1926. Insieme, Rodgers e Hart firmarono 21 musical, tra i quali Dearest enemy (1925), The girlfriend (1926), Peggy Ann (1926), A Connecticut Yankee (1927), Present arms (1928), Chee-Chee (1928). Alla morte di Hart, nel 1943, Rodgers iniziò a collaborare con Hammerstein. Il primo risultato del loro sodalizio fu uno dei maggiori successi dell'intera storia del teatro musicale americano: Oklahoma! (1943), che andò in scena a New York per cinque anni consecutivi totalizzando 2248 repliche (nel 1947 l'edizione londinese avrà altre 1500 repliche). Dalla collaborazione di Rodgers e Hammerstein nacquero anche Carousel (1945), South Pacific (1949) e diverse commedie musicali degli anni Cinquanta, non tutte confortate dall'approvazione del pubblico, se si eccettuano The king and I (1951) e The sound of music (1959), che ebbe 1443 repliche a Broadway e 2835 a Londra, e di cui in Italia è molto nota la trasposizione filmica con il titolo Tutti insieme appassionatamente. Nel 1960 anche Hammerstein morì e Rodgers, dopo aver scritto un musical su un suo libretto (No strings, 1962), si rivolse ad altri, fra i quali Stephen Sondheim e Sheldon Harnick, ma gli esiti non furono così felici come in passato.
Il musical 'impegnato'
Nel corso degli anni Trenta alcuni autori della 'commedia sofisticata' si cimentarono nel musical, rinforzandone il livello della comicità e gli esiti satirici. Tra questi va specialmente ricordato Moss Hart, uno dei più importanti registi degli anni Quaranta, attivo anche come sceneggiatore e librettista di alcuni musical, come Jubilee (1935) di Cole Porter e Lady in the dark (1941), con lyrics di Ira Gershwin e musiche di Kurt Weill. Si trattava del terzo musical scritto da Weill per Broadway dopo che l'avvento del nazismo lo aveva costretto a emigrare negli Stati Uniti; i precedenti, però, non avevano raccolto il favore del pubblico. Diverso invece il caso di One touch of Venus (1943), spiritosa variazione sul mito di Pigmalione, con una statua di Venere che prende vita e si innamora di un barbiere, mentre è desiderata dal direttore del museo: interpretato da Mary Martin (in origine il ruolo era destinato a Marlene Dietrich), il musical riscosse un enorme successo. Meno fortunate le commedie musicali che seguirono, anche se fra queste Street scene, del 1946, appare di superba fattura, alternando dialoghi e musica alla maniera del Singspiel tedesco.
Mentre nell'approccio al musical di Broadway Weill pare aver quasi totalmente accantonato l'ideologia dei suoi lavori in Germania e l'esperienza brechtiana, Mark Blitzstein, allievo di Schönberg a Berlino, coltivò il sogno di una commedia musicale dagli schemi 'epici' e autenticamente proletari, che lo portò a collaborare con gli intellettuali della sinistra cresciuta intorno ai progetti artistici del Federal Theatre di John Houseman e Orson Welles. A lui si devono The condemned (1932), opera-oratorio sulla morte di Sacco e Vanzetti; The cradle will rock (1937), messa in scena da Orson Welles; e Regina (1949), di cui nel 1953 fu allestita una seconda versione con i dialoghi concepiti secondo una struttura ritmica che relega il motivo musicale sullo sfondo. Vicino alla concezione del musical proletario di Blitzstein erano le intimate revues di Harold Rome, tra cui Pins and needles (1937), una produzione diretta dalle organizzazioni sindacali dell'abbigliamento, che superò le 1000 repliche. Proveniva dalla 'classica' anche Vladimir Dukelsky, noto con il nome d'arte di Vernon Duke, che dopo aver ridotto a musical un romanzo di Edgar Wallace, The yellow mask, messo in scena a Londra all'inizio degli anni Trenta, si trasferì a Broadway, cogliendo i maggiori successi con Walk a little faster (1932), Cabin in the sky (1940), Banjo eyes (1941) e altri. Suo contemporaneo, ma con una formazione e un profilo completamente diversi, fu Harold Arlen, definito il 'più nero dei compositori bianchi' e autore di molti musical di successo, tra cui House of flowers (1954), con testo di Truman Capote, regia di Peter Brook e coreografie di George Balanchine, che mette in scena la gioia di vivere di una casa di piacere.
Le 'coppie' del musical
Spesso opere di successo scaturirono da sodalizi artistici durati anni: basti pensare ai fratelli Gershwin, o alle coppie Rodgers e Hart, Rodgers e Hammerstein II ecc. Un posto non secondario meritano Arthur Schwartz e Howard Dietz: la loro collaborazione iniziò nel 1929 con The little show e proseguì l'anno dopo con Three's a crowd. Il successo pieno giunse con The band wagon (1931), interpretato da Fred e Adele Astaire. Seguirono molti altri titoli fino a A tree grows in Brooklyn (1951) e, con consensi più limitati, By the beautiful sea (1954). Negli anni della Seconda guerra mondiale una nuova coppia fece il suo rodaggio: il musicista viennese Frederick Loewe, sbarcato in America nel 1924 ma legato all'eco della vecchia operetta mitteleuropea, e il librettista newyorkese Alan Jay Lerner, attratto dalle atmosfere e dalle storie di fantasia. Il primo grande successo arrivò con Brigadoon (1947), una favola su un villaggio scozzese che torna alla vita per un giorno ogni cento anni. Seguì il musical-western Paint your wagon (1951), portato al successo da Gene Kelly, ambientato negli anni della 'corsa all'oro'. Ma il più fortunato prodotto della collaborazione Loewe-Lerner è del 1956, My fair lady, basato su Pygmalion di George Bernard Shaw (questi rifiutò il permesso di trarre un musical dalla sua commedia, ma il produttore inglese Gabriel Pascal, che deteneva i diritti per la versione filmica, incaricò Loewe e Lerner di realizzare un adattamento). Protagonista è la rozza fioraia Eliza Doolittle che, sotto la guida del professore di fonetica Higgins, diventa una gran dama e frequenta i salotti dell'aristocrazia londinese. Rappresentato al Mark Hellinger Theatre con la regia di Moss Hart, le coreografie di Hanya Holm, i costumi di Cecil Beaton e l'interpretazione della debuttante Julie Andrews, di Rex Harrison e Stanley Holloway, My fair lady fece il giro del mondo, stabilendo un record di durata. Dal musical fu ricavato il film, interpretato da Audrey Hepburn e Rex Harrison per la regia di George Cukor (1967). Un altro grande successo della coppia Loewe-Lerner è stato Camelot (1960), ispirato al ciclo della Tavola Rotonda.
Il 26 settembre 1957, al teatro Winter Garden di New York, esordì la commedia musicale che divide con My fair lady il primato della popolarità nel teatro musicale americano: West Side Story. L'idea di trasporre la storia di Romeo e Giulietta nella New York del 20° secolo, fra gli immigrati polacchi e portoricani, fu del coreografo Jerome Robbins, che la propose allo scrittore Arthur Laurents e a Leonard Bernstein, il quale aveva già composto due musical, On the town (1944) e Wonderful town (1953). Per molti aspetti West Side Story rappresenta un vero e proprio spartiacque nella storia del musical. Un'assoluta novità era innanzitutto l'idea di Robbins di portare avanti il racconto dei fatti attraverso numeri danzati. Lo stile e l'ambientazione poi erano ben diversi rispetto alle commedie musicali di Broadway, nelle quali non era costume rappresentare ambienti volgari e degradati, scene di violenza e finali tragici. Infine, altro elemento di scottante novità, la musica di Bernstein era più complessa e difficile di quanto il pubblico si aspettasse da uno spettacolo 'leggero'. Molti produttori infatti rifiutarono di arrischiare un investimento, che ai più sembrava destinato al fallimento. L'ultima accoppiata famosa nel campo del musical è stata quella fra il musicista John Kander e l'autore di testi Fred Ebb: dal loro sodalizio scaturirono numerose opere, tra cui Cabaret (1966), che in teatro ebbe come protagonista Jill Hayworth ma fu reso celebre soprattutto dalla versione cinematografica del 1972 con l'interpretazione di Liza Minnelli. Il soggetto, derivato da una commedia di John van Druten a sua volta ispirata dal romanzo di Christopher Isherwood Goodbye to Berlin, narra la storia d'amore tra una cabarettista e uno scrittore americano nella Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar, con il nazismo già in fase di irresistibile ascesa. Messo in scena al Brodhurst Theatre di Broadway, Cabaret ebbe più di 1165 repliche e fu ripreso poi, alla fine degli anni Ottanta, all'Imperial Theatre. La stessa sensibilità per i 'ritratti ambientali' presente in Cabaret si ritrova in altre opere di Ebb e Kander, come Zorba (1968), tratto dal romanzo di Nikos Kazantzakis, che ebbe maggior fortuna nel remake cinematografico del 1983 specialmente per l'interpretazione di Anthony Quinn, e Chicago (1975), da cui è stato tratto il film vincitore del premio Oscar 2003. Appartengono agli anni Sessanta anche altri due grandi musical di successo: Hello Dolly (1964) e Hair (1967). Il primo, con musiche e lyrics di Jerry Hermann e libretto di Michael Stewart, tratto dalla commedia di Thornton Wilder The matchmaker, è molto noto nella versione cinematografica interpretata da Barbra Streisand (1969). Di Hermann va ricordato anche La cage aux folles, dalla commedia di Jean Poiret, che in Europa ha riscosso grande successo in teatro e al cinema (in Italia è nota la versione interpretata da Ugo Tognazzi e Michel Serrault, intitolata Il vizietto, del 1978). Hair, con musiche di Galt Mac Dermot e libretto e lyrics di Jerome Ragni, rappresenta il capostipite di un filone giovanile e contestativo che celebra l'amore, l'innocenza, la droga, il pacifismo e la libertà. Erano gli anni del Vietnam, dei 'figli dei fiori', del sogno hippy e della non violenza. Da questo solco scaturirono non soltanto la versione rock dei Two gentlemen of Verona (1971) firmata dallo stesso Mac Dermot, ma anche altri musical dei primi anni Settanta ispirati alle Sacre Scritture, come The last sweet days of Isacco (1970) di Gretchen Crayen e Nancy Ford, Godspell (1970) di Stephen Schwartz, ispirato al Vangelo di Matteo, fino a Jesus Christ Superstar (1971) di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice.
Musical e cinema
Nella storia del musical, oltre alle riprese cinematografiche di musical teatrali di successo, si sono verificati an-che casi di commedie musicali che hanno conosciuto la popolarità attraverso lo schermo o che addirittura hanno debuttato al cinema per essere poi adattate al teatro. Paradigmatico è l'esempio di Singin' in the rain (1952), capolavoro firmato da Stanley Donen e Gene Kelly (cantante e ballerino oltre che regista), che ripercorre la grande rivoluzione causata negli anni Venti dall'arrivo del sonoro. La vicenda narra la storia della giustificata preoccupazione di un'attrice, Lina (Jean Hagen), che avendo una brutta voce si fa doppiare dalla simpatica Kathy (Debbie Reynolds), offrendole così un'occasione per il successo. Il film-musical ha conosciuto numerosi rifacimenti teatrali in tutto il mondo, tra cui quello recente italiano per la regia di Saverio Marconi, presentato dalla Compagnia della Rancia nelle stagioni 1996-97 e 1997-98.
Fu peraltro un musical il primo film sonoro della storia, The jazz singer (1927), che ebbe per protagonista Al Jolson, un cantante-attore già famoso a Broadway. Con questo titolo la Warner Bros si salvò dalla bancarotta e il mondo del cinema subì la sua prima rivoluzione. Negli anni Sessanta e Settanta le pellicole di successo costituirono un'inesauribile riserva di soggetti per Broadway, a partire da Carnival (1961) di Bob Merrill, adattamento del film Lili, interpretato da Leslie Caron. Tra i numerosi musical appartenenti a questo filone Sweet charity (1966) di Bob Fosse, tratto da Le notti di Cabiria di Federico Fellini; The sea of grass (1970) di Truman Capote, dal film omonimo di Elia Kazan; 42nd Street (1982), che nel soggetto ripete la storia dell'omonimo film del 1933 ma è in realtà un duplice omaggio al musicista Harry Warren e al coreografo Busby Berkeley, di cui riassume i numeri danzati di quattro film; Grand Hotel (1990), ispirato all'omonimo colossal della Metro Goldwin Mayer, con interprete Greta Garbo. Parallelamente a questo processo, musical di grande successo conobbero un'ulteriore popolarità attraverso il mezzo cinematografico e i remakes di commedie musicali 'sbancarono' i botteghini dei cinema. Tra questi in particolare Jesus Christ Superstar (1973), Hair (1979) e il cult simbolo della trasgressione sessuale Rocky horror pictures show (1975). Altro caso esemplare è quello di Grease (1972) di Jim Jacobs e Warren Casey, la cui versione cinematografica del 1978, interpretata da John Travolta e Olivia Newton Jones, è divenuta un vero e proprio 'classico' di Hollywood. Anche in questo caso, l'uscita del film contribuì a rafforzare la fama del musical che nel dicembre 1979 si aggiudicò il record di repliche nella storia di Broadway, da allora superato solo da Cats e da A Chorus Line. Quest'ultimo, dopo il debutto avvenuto il 15 aprile 1975 allo Joseph Papp's Public Theatre di Broadway, dove ebbe 101 repliche, rimase ininterrottamente in scena allo Shubert Theatre fino al 1990, dopo che nel 1985 ne era uscita una versione cinematografica con Michael Douglas. Le ragioni del successo di A Chorus Line non vanno ricercate tanto nello spartito di Marvin Hamlish e nelle canzoni di Edward Kleban, quanto nel trattamento coreografico e nella regia di Michael Bennett: rappresenta in effetti una svolta, in quanto rivendica la dimensione drammaturgica della danza come elemento totalizzante dello spettacolo. Si innesta in questo filone anche Fame (1980, noto in Italia sia per la versione cinematografica sia per la serie televisiva intitolata Saranno famosi), che narra le vicende degli studenti di una scuola di ballo, canto e recitazione. Il film ottenne il premio Oscar per la migliore colonna sonora. In questo periodo di rifacimenti e revival, il musical diventa autoriflessivo e celebra sé stesso. Ne è esempio All that jazz (1979) di Bob Fosse, basato sulle esperienze del coreografo-regista durante le prove del musical Chicago. Tuttavia non sempre il revival basta a sancire il successo. A fronte del consenso che ha arriso al recupero di Woman of the year (1981) di Kander-Ebb, con regia di Laureen Bacall e interpreti Raquel Welch e Debbie Reynolds, o quello di The man of La Mancha, con Raoul Julia e Sheena Aston, stanno i fiaschi clamorosi della ripresa teatrale nel 1993 di My fair lady, con Richard Chamberlain nei panni di Higgins, e di Grease 2 (1982). Enorme popolarità ebbero invece altri due musical nati per il grande schermo: nel 1982 Victor/Victoria di Blake Edwards (il regista della Pantera rosa) e nel 1991 il film animato della Disney La bella e la bestia, che vinse l'Oscar per la migliore canzone originale. Sulla via della rivisitazione moderna del musical classico si pone anche Moulin Rouge di Baz Luhrmann, che nel 2002 vinse due Oscar, per le scenografie e per i costumi.
La rivalità di Londra
Nel 1993 la 'grande strada bianca', come per la luminescenza delle insegne al neon i newyorkesi hanno chiamato Broadway, ha festeggiato il suo centesimo anniversario. L'occasione, onorata anche con l'emissione di quattro francobolli celebrativi, dedicati rispettivamente a Show Boat, Porgy and Bess, Oklahoma! e My fair lady, ha fornito un'ulteriore spinta al gusto delle rievocazioni e alla pratica dei remakes di opere famose. Tuttavia all'inizio degli anni Novanta la leadership di Broadway era già stata messa in crisi. All'attenzione internazionale si era ormai imposto il teatro musicale inglese che, dopo aver prodotto risultati importanti con Noel Coward (da Bitter sweet del 1929 a Sail Away del 1961), Sandy Wilson (The boy friend, 1953) e Lionel Bart (Oliver!, 1960), ha definitivamente conquistato il primato con Andrew Lloyd Webber. L'ultima rappresentazione del suo Cats si è tenuta l'11 maggio 2002 al New London Theatre, esattamente a 21 anni dal debutto (i critici avevano pronosticato: "Lo show manca di spina dorsale... durerà poco"). Lloyd Webber vanta anche altri record: è il primo autore ad aver avuto contemporaneamente in scena, a Broadway e a Los Angeles, cinque opere e il primo ad aver quotato in borsa le azioni della società costituita per lo sfruttamento commerciale dei suoi lavori. Molti dei suoi successi sono scaturiti dalla collaborazione con Tim Rice: il primo fu Jesus Christ Superstar, 'opera-rock' rappresentata per la prima volta nel 1971 al Mark Hellinger Theatre di New York, con 611 repliche cui si aggiungono le 3300 di Londra e altre in diversi paesi del mondo. Jesus Christ Superstar fruttò a Lloyd Webber fama, guadagni favolosi e la nomina a baronetto. L'opera successiva, Jeeves (1975), ottenne una tiepida accoglienza. Il successo tornò con Evita (1978), basato sulla biografia di Eva Perón, moglie del presidente argentino. Presentato con la regia di Hal Prince, protagonista Patty Lupone, Evita vanta motivi diventati famosi come "Requiem for Evita" e "Don't cry for me, Argentina". Di Cats (1981) Lloyd Webber scrisse testo e versi, oltre alla musica, adattando il poemetto Old possum's book of practical cats di Thomas S. Eliot, imperniato sulle vicende di un gatto che, alla fine della notte, verrà scelto per salire nel paradiso dei felini. Effetti scenici strepitosi furono previsti in Phantom of the Opera, del 1986, dal romanzo di Gaston Ledoux, su un musicista sfigurato che si aggira nei meandri dell'Opéra. Meno felicemente furono accolti i successivi Chess, Time (entrambi su testi di Rice) e Aspects of love. A parte Tell me on Sunday, l'ultimo musical di vasto successo - sia pure discusso da alcuni critici - fu Sunset Boulevard (1993), tratto da Christopher Hampton (versi di Don Black) dall'omonimo film del 1950 diretto da Billy Wilder (Viale del tramonto), sulla sorte malinconica di una ex attrice di Hollywood che non si rassegna all'inattività. Produttore di commedie altrui, compositore di canzoni e di motivi di circostanza (come per un campionato di calcio), Lloyd Webber compose anche colonne sonore per il cinema (Gumshoe di Stephen Frears, 1972; Dossier Odessa di Ronald Neame, 1974). Inoltre seguì la trasposizione su pellicola dei suoi musical Jesus Christ Superstar (1973; regia di Norman Jewison, direzione musicale di André Previn) ed Evita (1996; regia di Alan Parker, con Madonna protagonista). In questa occasione, alla partitura del musical aggiunse una canzone nuova, "You must love me", cui fu attribuito l'Oscar 1996 per la migliore canzone.