MUTAZIONE
. Termine introdotto in biologia dal botanico olandese H. De Vries, nel 1901, per indicare le variazioni ereditarie da lui trovate in una pianta, l'Oenothera lamarckiana, e la cui esistenza fu poi riscontrata in numerose altre piante e animali. Spesso le mutazioni si riconoscono dalle variazioni non ereditarie (modificazioni) perché sono saltuarie, o discontinue, non rientrano cioè nella curva normale di variabilità per quel carattere o quei caratteri che interessano. Già il Darwin aveva riconosciuto alcune variazioni, che, appunto per il loro carattere saltuario, aveva chiamato sports o single variations, senza peraltro riconoscere la diversità essenziale fra queste e le variazioni che oggi sappiamo non ereditabili. La genetica in questi ultimi anni ha dato grande sviluppo allo studio delle mutazioni; ne ha riconosciute molte che non si distinguono apparentemente dalle modificazioni; e ha anche trovato alcuni mezzi per produrle sperimentalmente (temperatura elevata, raggi X). Le mutazioni sono le sole variazioni ereditarie che si conoscano, e sono quindi le sole su cui possa aver presa la selezione. Sono esse, pertanto, l'unico meccanismo di evoluzione finora sperimentalmente dimostrato; sono però relativamente rare e constano per lo più di alterazioni di minima entità, sicché non sembrano sufficienti a spiegare tutto l'imponente fenomeno dell'evoluzione (v. eredità; evoluzione; genetica).
In geologia il Waagen (1869) chiamò mutazioni gli stadi evolutivi che si susseguono nei varî strati geologici.
Per la mutazione della voce, v. voce.