MANFREDI, Muzio
Discendente da un ramo ravennate della famiglia degli antichi signori di Faenza, il M. nacque a Cesena (M. Manfredi, Lettere brevissime, Venetia 1606, nn. 187, 292), probabilmente nel 1535, visto che in una lettera del 5 sett. 1594 al duca di Mantova Vincenzo I dichiara 59 anni (Bertolotti, p. 18). Trascorse però la giovinezza a Ravenna (Lettere, nn. 112, 164, 217) e come ravennate è presentato in miscellanee poetiche contemporanee.
Le prime notizie lo vedono a Roma già nel novembre 1552, se è lui il Muzio Manfredi guardiano, insieme con il padre Bernardino, di villa Giulia a Roma (Bertolotti, p. 7); con maggior certezza nel 1568, quando, membro della familia di Francesco Orsini di Monterotondo, si buscò due stoccate nel corso di un litigio con uno staffiere (ibid., p. 8). Nello stesso anno, in agosto, frequentava Niccolò Franco e il letterato ravennate Pomponio Spreti. Il soggiorno romano resterebbe nell'anonimato del piccolo cabotaggio cortigiano, se non fosse per la partecipazione alla battaglia di Lepanto il 7 ott. 1571, cui il M. prese parte imbarcato sulla galea pontificia "La Grifona" come segretario del capitano generale della fanteria pontificia Onorato Caetani (durante il combattimento fu ferito a una mano). Dopo la battaglia è probabile sia rientrato subito in Italia al seguito di Caetani, sostituito nella primavera del 1572 dal nipote di Pio V Michele Bonelli.
L'epilogo del soggiorno romano è ignoto. Tuttavia nel 1575, a Bologna, il M. dedicò a Isabella de' Medici Orsini, la figlia di Cosimo I moglie del duca di Bracciano Paolo Giordano, la Lettione nella quale, con la interpretatione d'un sonetto del sig. cavalier Gio. Galeazzo Rossi, detto il Disposto, si discorre dell'honore reciproco fra gli huomini, e le donne (tipografo A. Benacci), letta il 4 febbraio nell'Accademia dei Confusi, tra i quali il M. era stato accolto con lo pseudonimo di Vinto.
Fondata nel 1570 dal principe Giulio Cesare Colonna durante il periodo trascorso in città per gli studi, dopo la sua partenza l'Accademia fu ospitata in casa di G.G. Rossi, e nel 1575 aveva come principe monsignor Cristoforo Guidiccioni e come protettore Giacomo Boncompagni, figlio naturale di Gregorio XIII. La dedicatoria della Lettione, a firma di un Dionigi Manfredi forse imparentato con l'autore, presenta un M. impedito negli studi dai suoi frenetici spostamenti ("come che non sia continuo in lui l'essercitio de gli studii, massime stando egli poco in un luogo fermo, seben n'ha quel gusto, e giudicio, che può V. Eccell. sapere et ognuno", pp. 6 s.). Concepita come "honesta recreatione" da offrire all'assemblea, mista di prelati, cavalieri e dame, al posto dei normali divertimenti carnevaleschi sospesi per l'anno santo, la lezione è dedicata a illustrare le regole di scambievole decoro e cortesia che regolano i rapporti tra i due sessi, a partire dal sincero riconoscimento delle doti umane e intellettuali femminili: l'esegesi del sonetto è circoscritta alle ultime pagine.
Nello stesso anno e ancora per i tipi di Benacci il M. diede fuori, con dedica a Boncompagni, la voluminosa miscellanea di versi Per donne romane, primo esempio di una serie di raccolte encomiastiche e d'occasione che il M. ripeté durante la sua carriera.
Il volume raccoglie i componimenti di 88 autori. L'ordine alfabetico, per nome di battesimo delle celebrate, si interrompe a p. 621, dove il M. dichiara di far seguire le poesie giunte a composizione tipografica iniziata: considerando che il volume consta di 812 pagine (più le tavole), le adesioni tardive furono numerose, il che testimonierebbe una posizione abbastanza consolidata negli ambienti letterari e la capacità di gestire un meccanismo capillare di reclutamento, anche se è presumibile che esso si sia autoalimentato per processi emulativi e di presenzialismo. Sulla meno folta rappresentanza di poeti romani o residenti conosciuti durante la sua permanenza nella città (C. e G.A. Durante, R. Corso, G.G. Catena, A. Guarnelli), prevalgono presenze riconducibili all'ambiente emiliano e romagnolo (A. Bellentani, A. e G. Pallantieri, Spreti, G.G. Rossi, T. Molza, Accademici Imperfetti di Faenza), mentre per altri nomi (D. Borghesi, C. Caporali, G. Muzio, R. Nannini) è più difficile individuare collegamenti, così come aperta resta la questione dell'originalità dei contributi.
Anche per l'epilogo del passaggio bolognese siamo sprovvisti di notizie. Dopo un soggiorno a Guastalla alla fine degli anni Settanta, dove forse esercitò le mansioni di precettore del giovane Ferrante (II) Gonzaga signore di Guastalla, nel 1580 il M. si trovava a Parma, principe dell'Accademia degli Innominati, in cui fu il Fermo. Tra gli Innominati era allora in corso un dibattito teorico di buon livello su argomenti di poetica, con particolare attenzione al teatro tragico, anche se la ricerca rimase circoscritta all'ambito accademico e nessuna delle tragedie composte fu rappresentata nel teatro di corte, dove predominava il genere pastorale. Il M. diede il suo contributo con la Semiramis.
La tragedia è incentrata sulla figura forte e terribile della regina di Babilonia. Priva di prologo, presenta gli ingredienti tipici del teatro manieristico: le prime due scene, per esempio, prevedono la comparsa dal regno dei morti dell'ombra di Nino, al quale si affianca lo spettro di Mennone, uniti nel pregustare l'imminente catastrofe della donna che per entrambi è stata la rovina. Piuttosto che per originalità della trama - Semiramide infierisce su Dirce, segretamente amata da Nino, e sulla loro prole, conducendo quest'ultimo, ignaro del legame di sangue che lo unisce alla regina, al matricidio e al suicidio -, la tragedia si distingue per fluidità di scrittura e per efficacia dei dialoghi, in cui il M. mette a profitto le sue doti di verseggiatore agile e breviloquente, evitando esiti pesantemente oratori.
La Semiramis non fu mai rappresentata in vita dell'autore, destino condiviso dalle altre sue composizioni sceniche. Qualche riscontro la tragedia ebbe in ambiente ferrarese, dove una tradizione tragica era ancora viva sulle orme di G.B. Giraldi (cfr. F. Patrizi, Della poetica la deca disputata, Ferrara 1586, cc. +3v-4r). Nel 1582-83 il M. soggiornò a Ferrara, accolto a corte, dove assistette a un'esibizione del concerto segreto delle dame di Alfonso II, cui era ammesso un pubblico selezionatissimo. Il 1 gennaio visitò T. Tasso in S. Anna. Tra gli ospiti del carnevale ferrarese era anche il principe Vincenzo Gonzaga, il quale tentò di far rappresentare la Semiramis, che il M. gli aveva dedicato, a Mantova, ma il duca Guglielmo si oppose. La tragedia fu impressa solo nel 1593, a Bergamo, per i tipi di Comin Ventura, con dedica al cardinale Odoardo Farnese, in una stampa che ospita un apparato di ben 47 componimenti gratulatori, risultato dell'attivissima promozione dell'opera condotta dal M. nel decennio intercorso.
Estimatore della Semiramis fu Scipione Maffei, che verso il 1710 suggerì all'attore e capocomico Luigi Riccoboni di inserirla nel suo repertorio e la incluse poi nel secondo tomo del Teatro italiano o sia Scelta di tragedie per uso della scena (Verona 1723). La Semiramis divenne così parte del programma di recupero e riproposta del teatro tragico italiano che Maffei considerava propedeutico alla nascita di un teatro moderno, capace di riformare il gusto del pubblico e di competere con gli autori francesi.
Non si conosce l'anno in cui il M. fu ascritto alla mantovana Accademia degli Invaghiti, ma l'avvicinamento al principe Vincenzo Gonzaga risale almeno alla fine degli anni Settanta: nel 1580-81 il M. inviò a Vincenzo versi e imprese.
Il 6 marzo 1581 spedì un esemplare fresco di stampa della Liberata del Tasso impressa a Parma, da E. Viotti, per iniziativa di Angelo Ingegneri, che intendeva rimediare alla scorretta e abusiva edizione veneziana del poema procurata da Celio Malespini l'anno prima. Il M., che aveva stretto amicizia con Ingegneri a Parma, ebbe un ruolo nell'edizione, ma è difficile precisare entità e natura del suo contributo, che forse si limitò alla correzione in tipografia.
A Vincenzo Gonzaga è dedicato il volume delle Cento donne cantate (Parma, E. Viotti, 1580), con dedica 29 apr. 1580, cioè il giorno in cui venne concluso il suo matrimonio con Margherita Farnese, figlia del duca di Parma Alessandro.
Vincenzo, "giovanissimo e perciò amorosissimo, et bellissimo et perciò amabilissimo", era il destinatario appropriato per un volume che celebrava le bellezze femminili. La raccolta si compone di 302 pezzi, di cui 232 sonetti, che celebrano cento dame italiane famose per bellezza e virtù, soprattutto parmensi e mantovane, ma accoglie omaggi anche a nomi della nobiltà modenese, bolognese, ferrarese; 52 pezzi indirizzati a Corinzia Braccesi, la donna amata dal M., costituiscono un canzoniere autonomo, che era, a quanto dice l'autore, il nucleo originale dell'opera.
I rapporti amichevoli con Ferrante (II), non interrotti durante la permanenza a Parma (anche Ferrante fu ascritto agli Innominati), si concretizzarono nel 1584 con l'approdo del M. alla piccola ma vivace corte del Gonzaga, protettore di letterati e poeta egli stesso. Tra il 1584 e il 1587 il M. godette di un'eccellente posizione: a Ferrante elargiva consigli poetici sul progetto di una favola boschereccia, l'Enone, cui questi si applicò, ma che non fu mai portata a termine. Ma nel 1587 fu allontanato improvvisamente dalla corte durante il viaggio di Ferrante a Genova per incontrare la futura moglie Vittoria Doria. Riparò a Mantova, presso Alfonsino Cauzzi Gonzaga e Ippolita Gonzaga (sorella di Ferrante), e tra aprile e agosto inviò a Guastalla lettere accorate, dalle quali trapela che la disgrazia era dovuta all'ostilità dei cortigiani. Compose un madrigale celebrativo delle nozze e un epitalamio, e compilò in fretta un libro di Cento madrigali (Mantova, F. Osanna, 1587), che doveva festeggiare l'ingresso della Doria nella corte guastallese (al volume contribuirono Ingegneri e T. Tasso, allora a Mantova, che compose due madrigali, di cui uno dedicato alla figlioletta del M., Verticordia, nata il 30 luglio 1584). L'opera fu accolta freddamente, ma il M. continuò per qualche tempo a essere stipendiato da Ferrante e a risiedere con la figlia nel palazzo di questo a Mantova; ma il ritardo nel pagamento delle provvisioni e il trattamento poco decoroso lo spinsero a trovarsi un'altra sistemazione.
Nel frattempo era stato aggregato all'Accademia Olimpica di Vicenza. Per l'inaugurazione del teatro Olimpico, gli accademici pensarono dapprima a una pastorale, e scesero in lizza i vicentini Livio Pagello con la Cinzia, Fabio Pace con l'Eugenio, e Ingegneri con la Danza di Venere; poi, nel 1583, optarono per una tragedia: si fecero avanti Pagello con la Heraclea, l'udinese Vincenzo Giusti con l'Irene e il M. con la Semiramis. Una commissione di cui facevano parte in veste di esperti A. Riccoboni, B. Guarini e l'Ingegneri scartò le tre candidate e scelse l'Edipo re di Sofocle nella traduzione di Orsatto Giustinian.
Il giudizio della commissione rimase segreto e solo nel 1588 una copia delle obiezioni sottoscritte anche da Ingegneri arrivò nelle mani del M., che si risentì moltissimo per il comportamento di quest'ultimo, considerato alla stregua di un traditore. Tramite Erasmo da Valvasone sollecitò Giusti a comporre una replica, dato che il Pagello aveva rinunciato a farlo, poi si decise a rispondere lui stesso. Progettò un dialogo, che poi si trasformò in un trattato di arte poetica, specialmente drammatica e più nel dettaglio tragica, la cui stesura cadrebbe all'inizio del soggiorno del M. in Lorena, nel 1591. Ma del trattato non esistono tracce concrete e non è inverosimile sia rimasto allo stato di progetto, sorpassato da Ingegneri, che nel 1598 diede alle stampe il trattato Della poesia rappresentativa, in cui interpretò lucidamente gli orientamenti teatrali del momento da una linea opposta a quella su cui intendeva muoversi il Manfredi.
Unico risultato tangibile dell'impegno dichiarato dal M. fu la strenua promozione della Semiramis, in cui si profuse con zelo maniacale durante il soggiorno lorenese. Oltre che nello spropositato corredo gratulatorio dell'edizione 1593 e in larga parte delle Lettere brevissime, essa si concretizzò nelle Cento lettere tutte in un soggetto; cioè di mandare a donare copie stampate della sua boscareccia, e della sua tragedia di Semiramis (Pavia, A. Viano, 1594), datate da Nancy tra il 1 gennaio e il 31 luglio 1593, concepite come raccolta delle epistole che avrebbero dovuto accompagnare o annunciare l'invio della tragedia e della successiva Semiramis boscareccia a letterati ed eruditi.
Nel 1589 principia il servizio del M. presso la duchessa Dorotea di Lorena, dal 1584 vedova in seconde nozze di Enrico II duca di Brunswick-Gottinga. Il M. soggiornò per un anno e mezzo alla corte della gentildonna a Tortona e qui sposò la senese Ippolita Della Penna, giovane dama della duchessa e valente musicista. Poco dopo, avendo Dorotea deciso di tornare in Lorena, il M. fu costretto a malincuore a seguirla. L'arrivo a Nancy cade verso la fine di dicembre 1590.
Prima della partenza risulta composta, in meno di un mese, la Semiramis boscareccia, nata probabilmente dal proposito di trattare in toni più leggeri i contenuti della tragedia. Vincenzo I richiese l'opera e il M., appena giunto a Nancy, si affrettò a redigere una copia in bella e a consegnarla al sacerdote Matteo Dalla Porta, di passaggio in città, perché la presentasse al duca, accompagnata da lettere a personaggi della corte (tre di esse, destinate allo scenografo Leone de' Sommi, al maestro di danza Isachino Ebreo, al musicista Jakob van Wert, contenevano istruzioni per la messa in scena: Lettere brevissime, nn. 322-324). Ma il plico non arrivò mai a destinazione e nonostante le missive che il M. continuò a spedire nei mesi successivi, dalla corte di Mantova non giunse alcun cenno, finché l'8 ag. 1592 il M. inviò al duca una lettera di tono risentito. Infine, avendo l'opportunità di dare alle stampe a Bergamo presso C. Ventura la boschereccia insieme con la tragedia, le pubblicò rispettivamente con dedica al nuovo duca di Parma Ranuccio I Farnese e al fratello, il cardinale Odoardo.
Nella lettera a Ranuccio il M. diede sfogo al risentimento pubblicando, con un linguaggio sorvegliato ma inequivocabile, tutta la vicenda dall'inizio. La tesi esposta è che il comportamento del non nominato "principe serenissimo", non potendo dirsi di lui che sia "ingrato, o sconoscente, o discortese", sia "nato da discretione, e da modestia", cioè che il silenzio celi un giudizio negativo sull'opera dovuto all'influenza di letterati della corte di Mantova e taciuto per non mortificare l'autore. Lo stratagemma dialettico non migliorava le cose, anche perché la parallela dedica a Odoardo della Semiramis, al di là delle cortigianesche celebrazioni di prammatica, tendeva a presentare il giovane porporato come uomo intendente di poesia, capace di circondarsi di uomini dotti e immune dall'adulazione. La vicenda editoriale delle due Semiramis sarebbe poi proseguita in parallelo con la ristampa pavese, presso gli eredi di G. Bartoli, del 1598, con nuove dediche dello stampatore P. Bartoli, ma senza sopprimere quelle del 1593 ai Farnese; un'edizione della boschereccia da sola, Bologna 1603.
Irritato dai toni irriguardosi delle lettere, oltre che dal vedere pubblicata con altro dedicatario un'opera di cui aveva fatto richiesta, Vincenzo reagì con durezza. Il M., spaventatissimo per le voci che addirittura meditasse un omicidio, si prodigò in successive epistole ad assicurare la sua devozione. La vicenda aveva assunto probabilmente dimensioni più grandi di quelle reali a causa dello smarrimento in cui era precipitato il M., ma aveva risvolti politici di qualche entità. Il 9 ott. 1584 aveva avuto luogo l'annullamento del matrimonio tra Vincenzo I e Margherita Farnese, sorella di Ranuccio, e ciò aveva dato luogo a tensioni tra i due Stati non ancora sopite. In questo clima trasferire un'opera da Gonzaga a Farnese era un atto di assoluta sconvenienza; fu Ranuccio stesso a manifestare il suo disappunto ("disgusto") in un biglietto dell'11 genn. 1594, in cui rimproverò al M. la mancanza di tatto dimostrata e il non avere osservato le regole di "circospettione e riserva" che vigono nei rapporti con i principi e richiedono di "ragionarne e scriverne sempre sobriamente" (Denarosi, 1997, p. 174).
Il clamoroso infortunio rese il soggiorno in Lorena un riparo più che opportuno e il rientro in Italia fu ritardato fino al settembre 1596. Nel frattempo il M. si sottopose a una defatigante opera di riavvicinamento, inviando a Mantova poesie e notizie su nuovi progetti. Tra questi lavori Il sogno amoroso, cioè Cento madrigali, tutti in soggetto di un suo sogno amoroso, di cui nel novembre 1595 il M. annunciò la stampa, a Milano, con dedica a Vincenzo, stampa che fu poi eseguita solo un anno dopo (tipografo P. Ponzio; poi ibid. 1604), quando il M. era rientrato in Italia. Il 1 maggio 1596 fu spedito a Mantova, manoscritto, il Contrasto amoroso.
Concepita durante il viaggio dall'Italia alla Lorena e composta a Nancy, la pastorale Il contrasto amoroso presentava una notevole originalità nell'invenzione della favola, nella quale agiscono dodici ninfe, quattro delle quali contendono tra loro per sposare il pastore Fileno, unico personaggio maschile, oltre ad Amore nel prologo. La gara è vinta da Nicea, trasposizione in greco del nome di Vittoria Doria, cui il M. aveva annunciato la composizione il 28 ott. 1591 (Lettere brevissime, n. 301). In verità, la pastorale era già stata data per compiuta il 29 agosto alla poetessa vicentina Maddalena Campiglia (ibid., n. 241): il M. dichiara di avere introdotto sotto il nome di Flori la Campiglia, autrice per l'appunto della pastorale Flori, e Barbara Torelli sotto quello di Talia. La favola, canonicamente divisa in cinque atti, si snoda senza una trama unitaria, avvicendando occasioni galanti, giochi di società, pretesti (la gita in barca, l'organizzazione di una festa, gli scherzi durante una nevicata), allusioni e confidenze, in cui il ritratto idealizzato della vita cortigiana è esaltato dal fatto che il pubblico femminile di attrici-spettatrici destinatarie dell'opera era in grado di decrittare la trama delle allusioni e dei riferimenti. Nelle speranze del M. la messa in scena del Contrasto avrebbe dovuto sancire il suo rientro nella corte mantovana, ma non se ne fece nulla: la pastorale fu stampata solo nel 1602 a Venezia, in un'edizione molto scorretta, con dedica a Vittoria Doria, nella quale il M. volle ancora inserire consigli registici nell'eventualità, improbabile, di una rappresentazione. L'anno dopo spedì l'opera a F. Osanna a Mantova, ma il tipografo si rifiutò di eseguire la stampa perché poco remunerativa.
L'agognata partenza da Nancy avvenne nel settembre 1596. Nel novembre, da Pavia, il M. proseguiva la sua corrispondenza con Vincenzo. Nel gennaio 1597 mandò un poema bucolico in lode di casa Gonzaga. Il 2 febbraio Vincenzo manifestò apprezzamento per il poema e inviò un dono a Ippolita. Con cautela il M. insinuò la richiesta di assicurazioni per trasferirsi a Mantova e trovarvi un'accoglienza adeguata per sé e la sua famiglia, ma il duca, pur non mancando di rispondere con affabilità, non mostrò intenzione di favorirlo. Per un periodo, tuttavia, il M. fu probabilmente a Mantova, dato che dal 1597 al 1601 negli archivi non resta traccia di corrispondenza. Quando questa riprende, nel giugno 1601 da Ravenna, mostra un M. come sempre infaticabile, impegnato in nuove composizioni e cure editoriali: spedisce a Vincenzo i Cento sonetti in lode di cento donne di Pavia, da poco stampati a Pavia, che contengono la celebrazione anche di alcune gentildonne mantovane; l'anno dopo seguono i Cento sonetti in lode di donne di Ravenna (Ravenna 1602), i quali ospitano in calce una nutrita appendice di verseggiatori locali in lode del M. e di Ippolita e di altre signore di Ravenna che erano state tralasciate nel libro.
Dalla corrispondenza con Vincenzo risulta che il M. fosse impegnato in questo momento in una "poetica gramatica", che potrebbe essere uno sviluppo di quell'arte poetica ridotta "sotto cento capi in forma di aforismi ridotta, da potersi leggere in un quarto d'hora", che il 20 sett. 1591 (Lettere brevissime, n. 292), cioè nel momento in cui si applicava all'opera polemica contro Ingegneri, il M. avrebbe spedito da Nancy a Carlo Emanuele di Savoia.
Intanto, nel 1602 erano ripresi i rapporti epistolari con Ferrante (II) (Bertolotti, p. 33). Nel 1603 il M. fece stampare postuma a Bologna la versione alineare delle Bucoliche di G. Pallantieri con il testo latino a fronte; nel 1605 uscirono a Venezia i Madrigali sopra molti soggetti stravaganti composti, né men di tre, né più di cinquanta sono per ciascun soggetto; l'anno dopo i Cento artificiosi madrigali fatti per la sig. Hippolita Della Penna cognominata Benigna, sua moglie; nel 1606 le Lettere brevissime. Scritte tutte in un anno, cioè una per giorno, et ad ogni condition di persona, et in ogni usitata materia, con dedica al nobile fiorentino Francesco Rondinelli.
In numero di 365, si finge siano state scritte con cadenza giornaliera durante la permanenza a Nancy dal 1 gennaio al 31 dic. 1591, ma in realtà sono epistole fittizie e la loro dispositio segue una strategia determinatasi a posteriori rispetto agli eventi. Perciò il volume si configura come uno scenario confezionato su misura dall'autore che dà corso ai suoi intenti autopromozionali o polemici o d'encomio attraverso un'accorta regia che rimuove gli aspetti inquietanti, componendo una memoria di misurata eleganza signorile e insieme di vivace impegno intellettuale. La tumultuosa vicenda della Semiramis, per esempio, viene sobriamente evocata con l'esibizione delle sole due missive originarie al Dalla Porta (nn. 279, 283) e di quella, tre mesi dopo, al conte Cristoforo Castiglioni, maestro di camera di Vincenzo I, in cui il M. si querela della "fraude" subita e delle brusche risposte avute da Mantova ai suoi solleciti (n. 363); le lettere con i consigli registici sono dislocate a parte (nn. 322-324).
Intanto, nel 1605 le sue condizioni economiche e di salute si erano fatte problematiche, come lo stesso M. espose a Vincenzo il 13 settembre in una lettera accorata con cui chiese una sovvenzione (Bertolotti, pp. 36-38). Poco dopo, non è noto per quale motivo, il M. si ridusse con la moglie a Roma (la figlia Verticordia, suora dal 1603, rimase a Ravenna). Ippolita, ventottenne, visto il declinare del marito, si attivò per trovare una sistemazione per entrambi e una prospettiva per sé nella prossima vedovanza. Nel corso del 1607 si rivolse all'incaricato di affari del duca di Mantova a Roma, conte Alberto Scotti, al residente Giovanni Magni e direttamente al duca. Un ultimo contatto con la corte di Mantova risale al 13 ott. 1607.
Il M. morì a Roma poco prima del 2 nov. 1609.
Non risulta che Ippolita sia stata mai accolta nella corte di Mantova, anche se probabilmente per qualche tempo continuò a essere remunerata da Vincenzo I.
Versi del M. sono in V. Carrari, Historia de' Rossi parmigiani, Ravenna, F. Tebaldini, 1583; S. Guazzi, La ghirlanda della contessa Angela Bianca Beccaria. Contesta di madrigali di diversi autori, raccolti, et dichiarati, Genova, Eredi di G. Bartoli, 1595; Tempio all'illustrissimo et reverendissimo signor Cinthio Aldobrandini, Bologna 1600; Raccolta di rime di nobili ed elevati ingegni ravennati in morte di Vincenzo Lunardi, a cura di G. Acquarello, Venezia 1604; Gareggiamento poetico del Confuso Accademico Ordito, ibid. 1611; Nuovo concerto di rime sacre, ibid. 1616. L'edizione moderna della Semiramis, insieme con l'Acripanda di Antonio Decio, è a cura di G. Distaso, Taranto 2002.
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