ΝĀGA
Termine sanscrito maschile con il quale, in Asia meridionale, si indica il serpente, in particolare nell'aspetto semidivino di nāgarāja («re dei serpenti»), abitante le acque e la terra. Raffigurazioni di serpenti in un contesto sicuramente rituale compaiono già nella cultura dell'Indo (v.), sebbene rimangano sconosciute le forme del culto. Come in numerose culture preistoriche, è probabile che anche presso le popolazioni autoctone del subcontinente indiano esistessero antichissime rappresentazioni a carattere mágico-religioso, i cui esiti sono riscontrabili nelle pietre teriomorfe a forma di serpente (nāgakal) dell'India meridionale.
Nell'arte religiosa induista, buddhista e jainista, a partire dal III-II sec. a.C. e sempre più frequentemente dal II sec. d.C., i n. vennero rappresentati come personaggi mitici in rappresentazioni leggendarie e come figure che accompagnano le divinità maggiori e i santi. Nel contempo essi, pentendosi delle loro azioni demoniache e diventando adoratori degli dei o discepoli dell'insegnamento del Buddha, vennero progressivamente a fondersi con le figure divine del culto ufficiale. Parallelamente, nell'ambito del culto popolare, i n. e le loro paredre (nāginī), singolarmente o in coppia, furono venerati e raffigurati come divinità indipendenti.
Nell'India antica il significato della divinità-serpente è evidente sia nei testi religiosi che nelle tradizioni orali e mitologiche. Già negli inni vedici indo-arî degli inizî del I millennio a.C., il «Grande Serpente» è considerato sacro nel suo aspetto di Serpente Cosmico, Ananta, l’«infinito». Come in numerose altre culture, anche in India il serpente è associato, a causa del ciclico mutare della sua pelle, al concetto di rigenerazione e rinascita. Abitando le cavità terrestri, è considerato il custode dei tesori della terra, minerali e pietre preziose, ma poiché durante le piogge esce strisciando dalla sua tana sotterranea, è visto anche come dispensatore di fertilità per i campi.
I nāgarāja furono considerati i sovrani del regno sotterraneo, di incommensurabile ricchezza. La loro corte, con harem e servitù, corrisponde esattamente a quelle del mondo terreno. Alcuni nāgarāja ebbero nomi individuali come Śeṣa, Vāsuki o Takṣaka, ancora oggi oggetto di culto nell'India rurale. Dato che i serpenti potevano mostrarsi ai loro fedeli sia in un aspetto benevolo sia in un aspetto demoniaco dovuto al loro veleno mortale, essi erano contemporaneamente e ambivalentemente venerati e temuti.
Rappresentazioni terio-antropomorfe di n. sono presenti nel subcontinente indiano sin dalla cultura dell'Indo, sia come decorazioni dipinte e figurine a rilievo su vasi ceramici sia come immagini sui tipici sigilli di steatite. La produzione fittile di età maurya (IV-II sec.a.C.) comprende rappresentazioni che combinano, in vario modo, caratteristiche serpentiformi e antropomorfe: serpenti con testa umana o immagini con corpo umano e testa di serpente. Significativa a questo proposito è la combinazione tra la testa di serpente e il corpo femminile, eterno motivo della fertilità nell'ambito della concezione delle dee madri (v. mātrkā).
Accanto alle semplici figurine e alle piccole placche a rilievo di terracotta, già dal II-I sec. a.C. apparvero grandi sculture di n. in pietra, tra cui anche la prima statua di divinità induista nota, l'immagine di Balarāma, il fratello maggiore di Vāsudeva-Kṛṣṇa, raffigurato in forma di uomo, stante con un cobra sulle spalle, da considerare come la «discesa» terrena del Serpente Cosmico Ananta; il corpo del serpente termina sopra la testa del dio, formando un «cappuccio» a ventaglio con sette teste. In quest'immagine cultuale si univano la concezione del dio-eroe di aspetto umano e quella del dio-serpente di origine agricola. Particolarmente significativo è/l'attributo canonico dell'aratro a uncino, che il dio tiene in una delle sue quattro mani.
Non è possibile stabilire se la figura di Balarāma rappresenti il prototipo delle altre immagini di divinità-serpente oppure se l'immagine di culto di Balarāma si ispiri a sculture di n. più antiche in forma umana e con «cappuccio» a più teste di serpente. In ogni caso nelle età successive e a tutt'oggi i nāgarāja e tutte le immagini di Balarāma presentano le stesse caratteristiche e si differenziano solo in dettagli iconografici, come p.es. l'orecchino o la grande ghirlanda, entrambi attributi del dio.
I n. possono avere due o quattro braccia, atteggiate nei gesti propri delle divinità, e possono recare attributi che ne esprimono la sacralità e il rapporto con l'acqua, l'eternità e la rinascita. La mano destra è alzata in un benevolo gesto di saluto, mentre la sinistra regge una fiaschetta con il nettare, la bevanda dell'immortalità. Con l'arrivo in India di popolazioni dell'Asia centrale, quali gli Śaka e i Kuṣāṇa, i n. furono rappresentati anche con una coppa per il vino. Il nāgarāja fu spesso scolpito insieme a una nāginī di aspetto umano e con il cappuccio di cobra a più teste, secondo lo schema iconografico della coppia divina e reale. Sino al V-VI sec. tali figure furono le principali immagini di culto nelle celle dei templi dei n., e dimostrano che il culto dei n. era ancora vivo, come una religione indipendente, nelle epoche dell'induismo classico, l'età gupta e oltre.
Tuttavia, attraverso le figure di Śiva, Viṣṇu e della Śakti i grandi culti induisti si sovrapposero al culto dei n.; questi, insieme alle nāginī, vennero ad assolvere una semplice funzione di assistenti raffigurati nelle nicchie laterali o di degni rappresentanti del mondo ctonio rappresentati come guardiani sui portali del tempio, come a indicare la regione che precede il mondo degli dei. Fanno eccezione le raffigurazioni del Serpente Cosmico Ananta o Śeṣa, il quale, con le sue spire attorcigliate, funge da giaciglio per Viṣṇu disteso nell'oceano primordiale.
Questa immagine è comparabile con la raffigurazione del Buddha che siede su Muciliṇḍa, il re dei serpenti, attorcigliato, che protegge dalle intemperie il Beato in meditazione formando un copricapo di teste di serpente aperto come un ombrello. Questo modello iconografico corrisponde nel jainismo alla figura di Pārśvanātha, il ventitreesimo Tīrthaṃkara (v. jaina, iconografia), che dall'epoca kuṣāṇa (II sec. d.C.) viene rappresentato con un ampio «cappuccio» di serpenti.
In numerosi miti i n. sono esseri titanico-demoniaci, combattuti dagli dei. Dall'età pre-induista discende una mentalità basata sull'osservazione della natura, dove i rapaci sono i nemici per antonomasia dei serpenti; perciò l'aquila mitica Garuda, simbolo e veicolo di Viṣṇu, è rappresentata sterminatrice dei nāga. Ma la grazia divina salva comunque la specie dei n. dall'annientamento definitivo: essi diventeranno - come confermano le loro raffigurazioni come esseri subalterni - fedeli servitori dell'induismo.
Bibl.: H. Härtel, Aspects of Early Naga Cult in India, in The Royal Society of Arts Journal, CXXIV, Ottobre 1976, pp. 663-685; Ν. P. Joshi, The Iconography of Balarafna, Nuova Delhi 1979; G. Kreisel, Sundari der Schöne, Terrakotta-Kunst aus Indien, Stoccarda 1989.