Nagarjuna
Filosofo indiano (ca. 2°-3° sec. d.C.). È considerato il fondatore della scuola del buddismo Madhyamaka (➔).
Sia i seguaci del Madhyamaka sia gli studiosi contemporanei di quella scuola riconoscono N. come il suo fondatore. Più in generale si può dire che sia stato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna, di cui sistematizza l’idea – già presente in nuce nel Canone pāli – della non sostanzialità di tutti i dharma (o elementi ultimi della realtà fenomenica, ➔ dharma). Pur nella difficoltà di collocazione tipica della storiografia indiana, gli studiosi concordano nel ritenere che N. sia vissuto nella porzione meridionale dell’India centrale all’inizio del primo millennio della nostra era.
A N. sono attribuite moltissime opere, relative a diversi momenti dell’evoluzione della scuola Madhyamaka, cosa che ha indotto gli studiosi a ipotizzare l’esistenza di più di un autore (forse tre) con lo stesso nome. La difficoltà di conciliare tesi diverse in opere attribuite allo stesso N. è stata invece risolta dalla tradizione tibetana ipotizzando che N. abbia abbracciato diverse posizioni nel corso di una vita eccezionalmente lunga. L’opera principale del N. fondatore del Madhyamaka è la Mūlamadhyamakakārikā («Strofe fondamentali della [via] mediana», ma il titolo, come spesso accade in India, non è esplicitato nel testo e deriva in questo caso dalla denominazione tibetana e da alcuni colophon). L’opera è preservata in sanscrito all’interno del commento di Candrakīrti, che la divide in 27 capitoli e 447 versi in tutto (più due stanze introduttive dedicate al Buddha in quanto insegnante dell’origine mutualmente dipendente di tutti i fenomeni, pratī tyasamutpāda). Essa è anche la principale responsabile della denominazione di Madhyamaka, cristallizzatasi negli studi buddistici a proposito della corrente fondata da N.; a quest’opera sono dedicati numerosi commenti, il primo dei quali, l’*Akutobhayā («[Commento] che non teme [attacchi] di nessuna provenienza»), è attribuito a N. stesso, ma più probabilmente è di poco successivo. Fondamentale è anche il commento di Candrakīrti, il cui stile relativamente piano e discorsivo non rifugge dal confrontarsi con temi filosoficamente importanti e rimasti impliciti nell’opera commentata. Di N. è poi la Vigrahavyāvartanī («Sterminatrice di dissensi») con autocommento. Vengono poi comunemente riconosciute come opere di N. la Yuktiṣaṣṭikā («Le sessanta [strofe] sul ragionamento»), la Śūnyatāsaptati («Le settanta [strofe] sulla vacuità») e il Vaidalyaprakaraṇa («Trattato della polverizzazione [delle dottrine avversarie]»).
Per mostrare che ogni ente, compresi i dharma, è privo di natura propria (svabhāva) e quindi vuoto (śūnya), N. mostra le aporie logiche cui l’ipotesi contraria condurrebbe. Che si parli di oggetti spazialmente estesi o di facoltà sensoriali, la loro ammissione è comunque, spiega N., logicamente inaccettabile perché foriera di conseguenze in contraddizione con le tesi di fondo della scuola che vorrebbe sostenerne l’esistenza o con il buon senso. Oltre che per lo scetticismo nei confronti delle entità comunemente accettate, anche sul piano metodologico è possibile notare somiglianze fra il metodo di N. e il modo in cui il Buddha nel Canone pāli arriva a provare l’inconsistenza di alcune questioni e il loro essere in ultima analisi solo sofismi. Similmente (come mostrato da Alex Wayman), N. riduce ogni quesito a un tetralemma, ossia a quattro posizioni possibili (è, non è, è e non è, né è né non è), per poi però negarne ognuna mostrando le conseguenze indesiderate (prasaṅga) che deriverebbero dall’accettazione di ciascuna di queste opzioni. La conclusione è che il concetto così esaminato semplicemente sia privo di ogni realtà propria, sia solo convenzionalmente dato e ultimativamente vuoto. Per es., nel primo capitolo delle Mūlamadhyamakakārikā, N. spiega come le cose non siano prodotte da sé stesse, né da altro, né sia da sé stesse sia da altro, e infine né da sé stesse né da altro. N. prosegue ulteriormente la propria opera critica negando anche il nichilismo cui si potrebbe pervenire. Infatti, non è legittimo affermare ‘gli oggetti esistono’ o ‘gli atomi esistono’ o ‘i dharma esistono’, ma neanche ‘nulla esiste’, poiché anche questa proposizione si rivela logicamente inammissibile. N. non propone infatti la vacuità (śūnyatā) di ogni fenomeno come una tesi alternativa a quelle che via via esamina. Al contrario, il metodo di N. prevede che di ogni posizione sia possibile mostrare l’incongruenza. Il concetto di vacuità non è anch’esso un contenuto dottrinale, bensì solamente un antidoto alle altre dottrine.
Accanto al procedere rigidamente negativo di cui si è detto, si trova, negli inni attribuiti a N. e in parte anche nelle Mūlamadhyamakakārikā, una descrizione almeno parzialmente positiva di una realtà assoluta (paramārtha-satya) contrapposta alle parvenze di realtà (saṃvr̥ti-satya) che esperiamo. Tale differente approccio è probabilmente spiegabile sulla base della distinzione fra una posizione filosofica e una religiosa e accomuna N. a molti altri autori (per es., Śaṅkara e Utpaladeva) che pur abbracciando filosoficamente una posizione monista hanno scritto anche testi devozionali. Si aggiunge però in N. una terza via, ossia il silenzio. Questo travalica la via negativa sopra esposta e prende le mosse dall’idea che il linguaggio è inevitabilmente illusorio in quanto prodotto di concettualizzazioni (vikalpa). Il tema canonico del silenzio del Buddha, che rifiuta di rispondere a questioni inessenziali per il cammino spirituale, viene così ad acquisire una nuova connotazione e un proprio valore semantico.