NALDINI, Giovambattista (Giovanbattista, Giovanni Battista), detto Battista degli Innocenti. – Figlio di Matteo, calzolaio, nacque a Firenze il 3 maggio 1535 (Pilliod, 2001, pp. 77, 248, nn. 63, 64), e non nel 1537 come a lungo si è ritenuto sulla base delle indicazioni fornite da Raffaello Borghini, che nel Riposo (1584, p. 618)
lo ricorda quarantasettenne.
Affidato in tenerissima età all’ospedale degli Innocenti, donde il soprannome, Naldini, auspice lo spedalingo don Vincenzio Borghini che, negli anni a venire, si sarebbe rivelato uno dei suoi protettori più munifici, entrò nella bottega di Jacopo Carucci detto il Pontormo a dodici anni (e dunque intorno al 1547). Qui, rincontrato il padre naturale, nel frattempo preso a servizio dal Pontormo (Baldinucci, 1681-1728, p. 511), rimase sino alla morte del maestro (1557).
Verisimilmente segnati dalla partecipazione agli ultimi cantieri pontormeschi, gli anni ancora in parte sfuggenti trascorsi presso Jacopo – che, tra il 1555 e il 1556, non mancò di appuntare nel proprio diario l’insofferenza per le ripetute negligenze del giovane allievo (cfr. Barocchi, 1965, p. 244) – sono oggi documentabili solo attraverso un piccolo corpus grafico distribuito tra Firenze (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, nn. 311 F, 442 F, 6575 F, 6743 F, 6756 F, 6603 F, 6618 F, 14415 F), Parigi (Louvre, Département des arts graphiques, nn. 1015, 1017), Cambridge (Fogg Art Museum, n. 1932.143) e Berlino (Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, nn. 465r, 4626v). I fogli – copie ed esercitazioni ispirate a composizioni del maestro e di Andrea del Sarto – rappresentano la più antica testimonianza di quella spiccata propensione verso la pratica disegnativa che accompagnò l’artista lungo tutto il corso della sua carriera.
Scomparso il Pontormo, Naldini dovette istradarsi a un’attività professionale in proprio che, in assenza di riscontri documentari certi, emerge attualmente solo attraverso qualche laconico accenno presente nelle fonti (Borghini, 1584, p. 613; Baldinucci, 1681-1728, p. 512). Dietro le sollecitazioni di don Borghini – che, con acuta lungimiranza, si spese in prima persona per accreditare il giovane protetto presso l’influentissimo Giorgio Vasari, figura chiave della politica culturale di Cosimo I – nell’autunno del 1560 si risolse per un viaggio di studio a Roma. Qui, avvantaggiandosi delle invidiabili entrature offertegli dall’aretino, frequentò dapprima Marco Marchetti da Faenza e, in un secondo tempo, dati i comuni interessi antiquari, intrattenne rapporti professionali con Giovanni Antonio Dosio (Thiem, 2002, pp. 13-16; Carrara, 2009). Secondo una prassi ricorrente nel percorso formativo degli artisti fiorentini, nell’Urbe si cimentò con assiduità nella pratica della copia, affiancando alle esercitazioni sulla statuaria antica lo studio dei grandi cicli figurativi cinquecenteschi, da quelli ultimati da Raffaello e dai suoi allievi, Polidoro da Caravaggio in testa, alle imprese licenziate dal connazionale Francesco Salviati. Le esperienze che condusse nel corso di questo soggiorno romano – protrattosi almeno fino al 1563 se, come riferisce l’attendibile Raffaello Borghini (1584, p. 613), il pittore eseguì gli apparati allestiti in occasione del matrimonio romano tra Alberico I Cybo, principe di Massa, e Isabella di Capua – possono essere oggi parzialmente ricostruite grazie a un taccuino di schizzi (Thiem, 2002) smembrato tra diverse località tra cui Cambridge (Fogg Art Museum), Firenze (Biblioteca nazionale centrale, ms. N.A. 1159; Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi), Oxford (Christ Church Picture Gallery), Londra (British Museum; Victoria and Albert Museum) e Parigi (Louvre, Département des arts graphiques).
Rispetto alle prove grafiche riferibili agli anni dell’apprendistato pontormesco, questi fogli rivelano un primo ma non timido accostamento verso quella grafia più mobile e briosa propria del lessico polidoresco, evidente, in specie, nella predilezione per un tratto a penna più minuto e vibrato e per un chiaroscuro più vivace ed espressivo. Un discorso a parte, inoltre, meritano i numerosi schizzi di paesaggio, eseguiti, forse, su richiesta di Vincenzio Borghini. Questo genere di produzione, per quanto appaia accomunabile nel tono eminentemente illustrativo e documentario alle copie dall’antico, rivela in taluni casi (come nel lirico Paesaggio con mulino, Oxford, Christ Church Picture Gallery) una maggiore sensibilità atmosferica.
Il periodo di aggiornamento a Roma non tardò a portare i frutti sperati all’indomani del ritorno in patria dove, infatti, la carriera di Naldini registrò una virata decisiva che in breve tempo lo vide giungere alla ribalta del panorama artistico locale. Ammesso il 16 luglio 1564 all’Accademia del disegno (Colnaghi, 1928, p. 188; Zangheri, 1999, p. 2), il pittore prese parte prima ai preparativi per le esequie di Michelangelo (1564) e, l’anno seguente, agli apparati effimeri approntati per le nozze del granduca Francesco I con Giovanna d’Austria (1565). Confermate le aspettative di Vasari e di Borghini, coordinatori di queste due imprese collettive, l’artista, insieme a Francesco Morandini, Giovanni Stradano e Jacopo Zucchi, venne coinvolto nel prestigioso cantiere che, nello stesso torno di anni, l’aretino e lo spedalingo sovrintendevano nel salone dei Cinquecento (sui progetti grafici naldiniani riferibili a questa collaborazione cfr. Barocchi, 1965, p. 249). Parallelamente, ricevette le prime commissioni sacre: la popolosa Deposizione affrescata nel 1566 nella chiesa fiorentina di S. Simone e ricordata come una delle «prime opere che egli facesse» da Raffaello Borghini (1584, p. 613), l’Andata al Calvario (a cui si legano due studi al British Museum, nn. 1856-7-12-9, 1856-7-12-10), realizzata nello stesso anno per la Badia Fiorentina e un ciclo di dipinti di piccolo formato destinato al duomo di Pistoia.
Allo stato attuale degli studi queste opere rappresentano l’esordio ufficiale di Naldini come pittore autonomo e, a giudicare dai lusinghieri commenti di Vasari (1568, VII, p. 611), dovettero essere accolte con un certo favore dalla coeva committenza fiorentina. Sebbene lascino trasparire vividi ricordi da Pontormo, nelle eleganti inflessioni salviatesche che caratterizzano la stesura e il registro espressivo denotano un progressivo avvicinamento a quei raffinati orientamenti stilistici che, alla metà degli anni Sessanta, accomunavano le ricerche degli artisti attivi nella cerchia vasariana.
Licenziate entro il 1568 alcune storiette destinate a corredare la monumentale pala vasariana nella chiesa di S. Croce a Bosco Marengo, il 5 giugno 1569 Naldini venne designato console dell’Accademia del disegno, carica che ricoprì ancora nel 1575, 1578, 1579 e 1585 (Colnaghi, 1928, pp. 187 s.; Zangheri, 1999, pp. 5, 10, 12, 20). Tra il 1570 e il 1571 fu convocato per porre mano a un’altra impresa promossa dalla corte medicea, la decorazione dello studiolo di Francesco I in palazzo Vecchio a Firenze. Per quanto a queste date il pittore si fosse probabilmente ritagliato una posizione di rilievo nello scenario artistico fiorentino, il suo coinvolgimento in questo ciclo dovette derivare dall’ormai collaudato affiatamento professionale con Vasari e con Borghini che, come è noto, condivisero le regia generale del cantiere.
Nell’ambito di questa commissione a Naldini spettò l’esecuzione di due pannelli, l’Allegoria dei sogni, firmata, e la Raccolta dell’Ambracane, documentata in loco già il 7 aprile 1571 (Conticelli, 2007, p. 226) e nota anche come la Pesca della balena o, stando a una recente proposta (Conticelli, 2004, pp. 311-317), come gli Ittiofagi che offrono i doni di Cambise a Macrobi re degli Etiopi. Indubbiamente tra le opere più ispirate nell’intero percorso del pittore, questi dipinti evidenziano una felice quanto singolare coniugazione di spunti stradaneschi e vasariani con umori di sapore neosartesco e pontormesco.
Declinate le richieste di Vasari che, tra il 1571 e il 1573, lo reclamò insistentemente a Roma, nei primissimi anni Settanta il pittore si dedicò alle due impegnative pale in S. Maria Novella, la Deposizione, datata al 1572, e la poco più tarda Natività (cui si riferisce uno schizzo nel Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, n. 705 F) conclusa nel 1573. Il buon esito ottenuto da questi due dipinti, percepibile dalle parole d’elogio spese da Raffaello Borghini (1584, p. 615), dovette definitivamente promuovere l’artista come raffinato interprete di temi religiosi, determinando un incremento sensibile delle commissioni sacre che, a partire dalla metà dell’ottavo decennio, appaiono in effetti in costante crescita.
Le opere collocabili tra la metà e la fine degli anni Settanta – tra cui l’Orazione nell’orto nella Pinacoteca nazionale di Lucca, la Visitazione nell’Accademia etrusca a Cortona, la Stigmatizzazione di s. Francesco in S. Croce a Firenze (firmata e datata 1576), la Resurrezionedi Marti (1577), la Purificazione di Maria in S. Maria Novella (1577) e il Compianto nella Pinacoteca nazionale di Siena (firmata e datata 1578) – se per un verso appaiono caratterizzate da una certa contiguità con il rigore formale di Vasari tardo – in particolare nel ricorso a una stesura controllata e diligente che, mediante un lume cristallizzato, rassoda e leviga le superfici –, dall’altro, non estranea la presenza a Firenze di Federico Zuccari (1575-79), rivelano una meditazione su quegli innovativi principi di ‘convenienza’ e di ‘naturale’ cari alle più moderne istanze della pittura riformata.
Tra il 1577 e il 1580 si situa un nuovo viaggio a Roma scandito da una fitta agenda di impegni che, principalmente, l’artista condusse per la colonia dei fiorentini residenti nella città. Tra gli incarichi riferibili a questo secondo soggiorno nell’Urbe occorre menzionare quelli portati a termine per l’oratorio di S. Giovanni Decollato (Martirio di s. Giovanni Evangelista, S. Giacomo e S. Matteo), per la chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini (Predica del Battista) e per la cappella Altoviti in Trinità dei Monti dove, con l’ausilio dell’allievo Giovanni Balducci, realizzò un ciclo con le Storie del Battista.
Ritornato a Firenze entro il 1580 – anno in cui risultano concluse la Resurrezione di Lazzaro e la Visione di Ezechiele eseguite ancora con l’aiuto di Balducci nella cripta della cappella Salviati in S. Marco –, l’artista, con l’assiduo supporto di una valente bottega (che annoverò in questi anni anche Valerio Marucelli e Francesco Curradi), poté fronteggiare in rapida successione una serie incalzante di commissioni sacre, sia a Firenze – Deposizione in S. Croce (1583), Presentazione al tempio in S. Niccolò Oltrarno (1585), Vocazione di Matteo in S. Marco (1588) – sia in centri minori della Toscana medicea – Madonna e santi a Colle Barucci (1583), Resurrezione di Lazzaro a Montughi (1583), due dipinti in S. Martino a Maiano (1585) e, a Volterra, l’Immacolata Concezione nella chiesa di S. Francesco (1585) e la Presentazione di Maria al tempio nel duomo (firmata e datata 1590). Nella tarda produzione religiosa, segnata da un ricorso sempre più ampio a collaboratori di bottega, Naldini mise a punto un ricercato linguaggio espressivo, caratterizzato, oltre che dalla consueta maestria disegnativa, da una stesura sorvegliata e preziosa e da un castigato realismo sensibile agli aulici purismi formali di Alessandro Allori.
Attivo anche come sofisticato pittore da cavalletto (Diana e Atteone e Apollo e le Muse, Vercelli, Museo Borgogna) e come diligente ritrattista (Beata Caterina dei Ricci, Montepulciano, Museo civico), nel 1584 fu tra le personalità preferite da Francesco I per un ciclo encomiastico destinato al corridoio di Levante della Galleria degli Uffizi.
Debilitato dalla gotta, che negli anni estremi della sua vita dovette limitarne sensibilmente l’intervento nelle opere che gli venivano richieste, nel 1589 si vide costretto ad affidare agli aiuti (tra cui Balducci e Curradi) l’esecuzione di alcune storie nell’ambito degli apparati effimeri allestiti per le nozze di Ferdinando I.
Morì il 18 febbraio 1591 a Firenze, dove venne sepolto nella chiesa di S. Michele Visdomini.
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