Nanotecnologie
Nell'infinitamente piccolo la nuova sfida scientifica e tecnologica
I progressi dell'elettronica molecolare
di Robert A. Freitas
21 dicembre 2001
La rivista Science (vol. 294, nr. 5551), nella sua classifica annuale dei progressi più notevoli compiuti in tutti i campi della ricerca, assegna il primo posto all'elettronica molecolare, attribuendo alla realizzazione dei primi nanocomputer la qualifica di innovazione di maggior rilievo del 2001. Nei prossimi anni, lavorando su ordini di grandezza molecolari, le nanotecnologie potrebbero rivoluzionare i computer quali noi li conosciamo e fornire strumenti del tutto innovativi in campo biomedico.
Nanotecnologie: origini e prospettive
Nel 1959, in occasione della Conferenza annuale della Società americana di fisica, Richard P. Feynman, premio Nobel per la fisica, tenne un seminario dal titolo "C'è tanto da fare nel piccolo", nel quale propose di impiegare utensili meccanici per costruire utensili più piccoli, utilizzabili a loro volta per costruirne altri di dimensioni ancora minori, e così via fino al livello delle dimensioni molecolari. Feynman suggerì che tali 'nanomacchine', 'nanodispositivi' e 'nanorobot' potessero infine essere usati per sviluppare una grande varietà di strumenti microscopici e di attrezzi aventi precisione atomica, e concluse dicendo: "penso che questo progresso sia inevitabile". Fu questa in sintesi la prima intuizione della nanotecnologia, termine che si riferisce generalmente alla progettazione e produzione di oggetti alla scala delle lunghezze molecolari o nanometriche.
Le parole di Feynman, allora, furono accolte con stupore e scetticismo, ma nei quarant'anni successivi sono stati fatti notevoli progressi verso la realizzazione della sua intuizione. Dall'alba dell'era dei microcomputer - diverse decine di anni fa - in poi, si è registrato un aumento impressionante della velocità e della potenza dei calcolatori, in gran parte dovuto alla progressiva riduzione delle dimensioni dei componenti elettronici che si possono assemblare su una singola piastrina, o chip, di silicio. Secondo un'osservazione che va sotto il nome di legge di Moore, la densità dei transistori su un chip raddoppia infatti ogni 18 mesi. La dimensione occupata da una funzione su un chip si è ridotta dalla frazione di millimetro dei primi microprocessori fino a 0,1÷0,2 micrometri (o milionesimi di metro) dei chip odierni più avanzati. Diverse industrie sono ormai nate con l'intento di produrre entro pochi anni componenti molecolari di computer, utilizzando parti molecolari di dimensioni nanometriche (un nanometro è un miliardesimo di un metro, pari circa alla larghezza di sei atomi di carbonio legati tra loro). Simili progressi sono in via di realizzazione anche nella miniaturizzazione robotica. Lo sviluppo nel campo dei sistemi microelettromeccanici o MEMS (Microelectromechanical systems) è stato reso possibile dalla fabbricazione dei primi micromotori tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Nel 1994 gli ingegneri della giapponese Nippon DENSO riuscirono a costruire una macchina elettrica completamente funzionante, delle dimensioni di un grano di riso, replica su scala 1/1000 di un modello berlina Toyota AA del 1936, costituita da 24 parti, inclusi motore, ruote, carrozzeria, ruota di scorta, paraurti e perfino una targa di soli 10 micrometri di spessore. Nel 1997, due ricercatori della Cornell Nanofabrication Facility, Dustin Carr e Harold Craighead, produssero invece una chitarra di silicio lunga 10 micrometri e larga 2 micrometri, con sei corde spesse appena 50 nanometri (circa lo spessore di 200 atomi). La nanotecnologia punta a costruire oggetti a partire dalle loro componenti fondamentali, in netto contrasto rispetto ai tipici metodi industriali che consistono nel tagliare, dare forma e assemblare i prodotti finali a partire da un pezzo macroscopico di materiale, come è oggi prassi comune dei metodi di litografia per chip e della microtecnologia in generale. Costruire invece gli oggetti molecola per molecola offre un grado di precisione e di controllo sul prodotto finale senza precedenti. Inoltre, utilizzando 'mattoni' fondamentali di scala molecolare, si potrebbero realizzare dispositivi o strumenti molto complessi di dimensioni microscopiche, composti di migliaia o perfino milioni di parti meccaniche diverse.
Le conseguenze dell'applicazione di questo metodo sono potenzialmente enormi: nelle prossime decine di anni la nanotecnologia potrebbe infatti rendere possibile la costruzione di un supercomputer talmente piccolo da essere a stento osservato con un comune microscopio. La medicina sarà rivoluzionata da nanostrumenti che potranno interagire e perfino sanare singole cellule viventi, arrivando a curare molte malattie e forse anche l'invecchiamento stesso. Con industrie più pulite si eviterebbe la creazione di nuove fonti di inquinamento e si potrebbe anche rimediare all'inquinamento già esistente, tradizionalmente dovuto ai processi di fabbricazione convenzionali. Al posto dell'acciaio, solitamente usato nelle costruzioni edili, potrebbero essere impiegati materiali economici e ultraleggeri ma fino a cinquanta volte più resistenti. Si potrebbero inserire in nuovi tessuti miliardi di minuscoli motori, sensori e perfino computer, che permetterebbero ai vestiti di reagire istantaneamente e in modo intelligente a condizioni esterne in continuo cambiamento. Celle solari e batterie a basso costo potrebbero sostituire carbone, petrolio e celle nucleari con energia pulita, economica e abbondante in natura. Nel 2001, per es., Paul Alivisatos e il suo gruppo dell'Università della California a Berkeley hanno annunciato l'avvento di una prima generazione di celle solari plastiche che potrebbero in futuro riuscire a coprire quasi tutti i tipi di superfici, come fossero una vernice. Le prime celle sono state realizzate con nanobarre di selenurio di cadmio disperse in una matrice plastica. Un sottile strato dello spessore di un capello umano, posto tra due elettrodi, produce circa 0,7 volt. Secondo Janke Dittmer, che fa parte del gruppo di ricerca, "questo apre la strada a un gran numero di possibili nuove utilizzazioni come, per es., applicare celle solari sugli abiti, per far funzionare LED (diodi emettitori di luce), radio o piccoli processori per computer".
L'autoassemblaggio molecolare
Esistono molti modi diversi per costruire macchinari su nanoscala. L'approccio più comune e recente è l'autoassemblaggio e il DNA - la stessa molecola che costituisce i nostri geni - è il materiale di costruzione più utile. Venti anni fa il pioniere della nanotecnologia Nadrian Seeman, della New York University, appurò che un filamento singolo di DNA presenta molti vantaggi come materiale di costruzione: rigidità polimerica, possibilità di manipolazione attraverso enzimi noti e interazione intermolecolare con altri filamenti, facilmente programmabile grazie alla caratteristica di complementarità delle coppie di nucleotidi, i mattoni fondamentali del materiale genetico. Sequenze arbitrarie di DNA possono essere fabbricate con facilità utilizzando procedimenti biotecnologici convenzionali. Durante gli anni Ottanta, Seeman ha lavorato allo sviluppo di sequenze di DNA che potessero chiudersi in forme sempre più complesse: dapprima piccoli quadrati, poi cubi tridimensionali composti da 480 nucleotidi ciascuno, infine un ottaedro troncato contenente 2550 nucleotidi. A metà degli anni Novanta Seeman era riuscito a fabbricare DNA di quasi tutte le forme geometriche regolari, in gruppi di miliardi alla volta. Nel 1999 ha presentato la costruzione di un dispositivo meccanico basato sul DNA che potrebbe servire come punto di partenza per la realizzazione di un nanoattuatore. Il meccanismo era costituito da due braccia rigide di DNA lunghe pochi nanometri, che potevano essere fatte ruotare tra due posizioni fisse introducendo un composto di cobalto con carica elettrica positiva nella soluzione in cui erano immerse le molecole. L'introduzione del composto faceva infatti sì che il segmento ponte di DNA che univa le due braccia venisse convertito dalla normale struttura B-DNA a quella meno usuale Z-DNA. Le estremità libere delle due braccia cambiavano posizione di soli 2÷6 nanometri durante questa trasformazione strutturale perfettamente reversibile, come un coperchio che si apre e si chiude.
Nel 2001 Seeman ha dato notizia della sua ultima realizzazione: l'equivalente molecolare di un motore a quattro tempi, interamente costruito e rifornito da DNA. Perché il motore possa girare continuamente, deve essere rifornito a ogni quarto di giro con un fluido contenente la sequenza giusta di DNA. Questo motore molecolare è costituito essenzialmente da una coppia di doppie eliche di DNA, unite in alcuni punti della loro lunghezza. L'aggiunta di molecole di DNA di controllo a una soluzione piena di molecole siffatte fa sì che le molecole di controllo, corte e a filamento singolo, si uniscano a quelle più grandi e le riordinino, raccordando due delle catene a filamento doppio in un punto e dividendole in un altro. I ricercatori rimuovono poi le molecole di controllo utilizzando molecole di DNA, anch'esse corte e a filamento singolo, che agiscono come fossero molecole combustibile. Questo procedimento lascia il motore molecolare in una forma fisica differente da quella di partenza: l'estremità di una molecola a filamento doppio di DNA è infatti ruotata di 180° rispetto a quella vicina. Rifornendo il motore in sequenza con filamenti molecolari corti di DNA diversi, esso può procedere ripetutamente sia in avanti sia indietro. Il gruppo di Seeman sta attualmente lavorando a un metodo per inserire i dispositivi a DNA su reticoli molecolari. La gamma dei movimenti che i motori molecolari possono realizzare va da 0,04 a 4 nanometri, ma i ricercatori hanno realizzato movimenti di ampiezza fino a 35 nanometri utilizzando delle matrici. In pochi anni, motori molecolari basati su questa tecnologia potrebbero fornire di motore e controllare generazioni di robot molecolari. Scrive Seeman: "L'aggregazione di tali dispositivi in matrici potrebbe in teoria portare a stati strutturali complessi adatti per applicazioni di nanorobotica, a patto che i singoli strumenti possano essere manovrati separatamente. Ciò potrebbe essere utilizzato per configurare una scacchiera molecolare o per controllare assemblatori molecolari da utilizzare per produrre medicinali, costruendoli molecola per molecola. I motori molecolari potrebbero perfino lavorare all'interno del corpo umano".
Oltre a Seeman, altri ricercatori si dedicano alla costruzione di nanomotori biologici utilizzando le tecniche dell'autoassemblaggio. In particolare, Carlo Montemagno del California NanoSystem Institute dell'Università di California a Los Angeles è arrivato a modificare un biomotore naturale incorporandovi parti non biologiche e a creare così il primo nanomotore ibrido artificiale. Montemagno è partito dall'ATPasi (adenosintrifosfatasi) naturale, un enzima che si trova nelle cellule di quasi tutti gli organismi viventi. La parte mobile di una molecola di ATPasi è costituita da una proteina centrale che funge da asse (o rotore, usando la terminologia dei motori elettrici) che ruota in risposta a reazioni elettrochimiche con ciascuno dei tre canali protonici della molecola (paragonabile quindi agli elettromagneti nello statore di un motore elettrico). La fonte universale di energia cellulare, l'ATP (adenosintrifosfato), funziona da carburante per il motore molecolare. Utilizzando gli strumenti dell'ingegneria genetica, Montemagno ha aggiunto a una ATPasi modificata residui di aminoacidi capaci di legarsi chimicamente a un metallo, permettendo quindi a ciascun motore molecolare di legarsi a nanopiedistalli di nichel, preparati con litografia a fascio elettronico. Motori molecolari di 12 nanometri di diametro, orientati in maniera opportuna, sono stati quindi uniti ai piedistalli con una precisione che si avvicina ai 15 nanometri. Una barra di nitruro di silicio lunga un centinaio di nanometri è stata poi legata alle sottounità rotanti di ciascun motore molecolare; tutto il processo è stato realizzato tramite autoassemblaggio. In un video di presentazione, si possono vedere dozzine di barre ruotare, come un campo di minuscole eliche. Il primo motore integrato del gruppo ha girato per 40 minuti a 200 giri al minuto, ma quelli costruiti successivamente, alimentati con abbondante ATP, hanno operato per ore in maniera continua. I ricercatori ne stanno ora misurando l'efficienza e la potenza in cavalli-motore, utilizzando tipi di test ben noti a qualsiasi ingegnere meccanico che progetti un motore automobilistico. Montemagno sta anche sviluppando un procedimento chimico per accendere e spegnere in maniera affidabile i suoi motori ibridi. Realizzando un sito legante secondario, conformato a una cascata di comunicazione della cellula, si propone di usare il sistema sensoriale delle cellule viventi per controllare i nanodispositivi impiantati al loro interno, arrivando a ipotizzare che queste nanofabbriche possano essere indirizzate a cellule specifiche, come quelle tumorali, dove potrebbero sintetizzare e rilasciare agenti chemioterapici. Lo stesso gruppo di ricerca sta inoltre provando a costruire un dispositivo biomolecolare autonomo azionato da un motore alimentato a energia solare. In questo nanodispositivo, l'energia solare viene trasformata in energia chimica in forma di ATP, utilizzato poi come carburante per il motore. È il primo passo verso la creazione di un nanostrumento del tutto autonomo che non abbia bisogno di carburante chimico esterno. "Trattandosi di una tecnologia dalla quale non si aspettavano dispositivi utili prima del 2050 - fa notare Montemagno - penso che siamo già a buon punto. Ma c'è ancora molta strada da compiere prima che sia sicuro far muovere liberamente queste piccole macchine all'interno del corpo umano".
L'autoassemblaggio molecolare posizionale
Per le strutture più complesse, come i robot molecolari completi costituiti da migliaia o milioni di parti, sarà molto difficile fare in modo che tutte le parti si assemblino spontaneamente nel giusto ordine. Per costruire tali strutture potrebbe avere invece più senso progettare un meccanismo, chiamato 'assemblatore molecolare', che si basi sull'assemblaggio posizionale, cioè prenda le componenti molecolari e le posizioni esattamente dove si vuole. Un simile strumento lavorerebbe in maniera simile alle braccia robotizzate delle catene di montaggio delle industrie automobilistiche di Detroit o a quelle che, a velocità sostenutissime, inseriscono i componenti elettronici sulle schede di circuito per computer nella Silicon Valley in California. Usando il principio dell'assemblaggio posizionale il robot manipolatore sceglie una componente, la muove sul pezzo in lavorazione, la installa, quindi ripete la procedura con le diverse parti fino a che il prodotto finale è completo. In biologia, un esempio noto di assemblaggio posizionale è il ribosoma, che assembla i singoli aminoacidi nelle proteine all'interno delle nostre cellule. Le operazioni di pick-and-place ("prendi e metti a posto") su scala nanometrica hanno cominciato a essere seriamente sperimentate a partire dal 1989, quando alcuni ingegneri della IBM riuscirono a scrivere il nome della loro azienda con singoli atomi di xeno posizionati con precisione, usando il microscopio con sonda a scansione (SPM) che aveva fruttato ai suoi inventori il premio Nobel per la fisica nel 1986. Fu così realizzato il più piccolo logo societario di tutti i tempi. Attualmente i nanotecnologi stanno studiando come selezionare, disporre e poi far legare chimicamente singole molecole sulle superfici, in posizioni note. Due anni fa, Wilson Ho e Hyojune Lee dell'Università della California a Irvine hanno usato un SPM per prendere una molecola di monossido di carbonio (CO) da una superficie opportunamente preparata, spostarla in una nuova posizione e legarla quindi alla superficie in questo nuovo sito. Gli stessi ricercatori successivamente hanno usato un SPM con una punta di dimensioni nanometriche per localizzare due molecole di CO e un atomo di ferro (Fe), mediante assorbimento su una superficie di argento in condizioni di alto vuoto e alla temperatura di 13 K. Avvicinando la punta del microscopio a una delle molecole di CO e aumentando la differenza di potenziale e l'intensità di corrente dello strumento, l'hanno selezionata e prelevata. Hanno poi spostato la molecola di CO, a questo punto legata alla punta, sull'atomo di Fe della superficie e invertito la corrente; in questo modo hanno ottenuto che la molecola di CO si legasse covalentemente all'atomo di Fe, formando una molecola di carbonile di ferro, Fe(CO), legata a un particolare sito della superficie di argento. Infine, hanno ripetuto la medesima procedura tornando al sito del primo Fe(CO) e hanno aggiunto una seconda molecola di CO per formare la molecola di Fe(CO)2. Il dicarbonile di ferro appariva, nelle immagini della superficie ottenute successivamente al microscopio, come una minuscola struttura a 'orecchie di coniglio', legata covalentemente alla superficie. Un altro passo avanti nelle tecniche di assemblaggio posizionale è stato fatto da Philip Kim dell'Università della California, a Berkeley, e da Charles Lieber a Harvard. Questi ricercatori hanno creato nel 1999 la prima nanopinza multiuso. Le sue estremità funzionali sono costituite da una coppia di nanotubi di carbonio controllati elettricamente ricavati da fasci di nanotubi a parete multipla (i nanotubi sono lunghi cilindri cavi tipicamente di alcuni nanometri di diametro o poco più, composti da atomi di carbonio disposti secondo una configurazione di esagoni come nelle reti dei pollai). Per far funzionare la pinza si applica una differenza di potenziale agli elettrodi, in modo che uno dei due nanotubi acquisisca una carica elettrostatica positiva e l'altro una carica negativa. La forza attrattiva può essere aumentata o diminuita variando il potenziale applicato: con un potenziale di 8,5 volt le braccia si chiudono completamente, mentre tensioni più basse danno luogo a diversi gradi di presa. Utilizzando questo strumento, Kim e Lieber sono stati capaci di afferrare grappoli di sfere di polistirene delle dimensioni di 500 nanometri, più o meno dello stesso ordine di grandezza delle strutture che si trovano nelle cellule viventi. Sono anche riusciti a rimuovere un filo semiconduttore largo 20 nanometri da una massa di fili aggrovigliati. Ciascun braccio della pinza è largo circa 50 nanometri e lungo 4 micrometri. Ora i ricercatori sperano di realizzare nanopinze ancora più piccole in grado di afferrare singole macromolecole, sviluppando nanotubi a parete singola direttamente sugli elettrodi. Sebbene la nanopinza di Kim e Lieber sia molto utile per afferrare e poi rilasciare oggetti, il campo elettrico creato sulla sua punta può alterare gli oggetti manipolati. Inoltre le pinze devono essere costruite una per volta, cosa che nel caso di un gran numero di nanoggetti da manipolare provoca un sensibile rallentamento del processo. Per migliorare questo aspetto, un gruppo di ricerca guidato da Peter Bøggild del Politecnico di Lyngby ha usato nel 2001 processi standard di microfabbricazione per ricavare da una sottile piastra di silicio una serie di micropinze a cantilever, che possono essere aperte e chiuse elettricamente. Bøggild ha poi usato un fascio di elettroni per far crescere all'estremità di ciascun cantilever un minuscolo braccio della nanopinza di carbonio, a un angolo tale che le punte si distanziano di soli 25 nanometri; ciò ha consentito di controllare in maniera più accurata la nanopunta. Molti altri esperimenti si muovono in questa direzione. Per prelevare e posizionare parti nanometriche possono anche essere usati microstrumenti. Nel 2001 un gruppo di ricerca degli Agilent Laboratories ha presentato una micropiattaforma movente ad altissima precisione, capace di eseguire movimenti lineari in due dimensioni a passi di 1,5 nanometri, cioè all'incirca dell'ampiezza di nove atomi di carbonio legati tra loro. Il nucleo del micromover è un attuatore passo-passo, o motore lineare, che invece di ruotare compie dei micropassi da destra a sinistra o in avanti e indietro. La piattaforma impiega circa 20.000 passi e 2,5 millisecondi per coprire una lunghezza totale di 30 micrometri, corrispondente a circa la metà dello spessore di un capello umano. Un altro gruppo diretto da Sylvain Martel del Bio-Instrumentation Laboratory del MIT (Massachusetts institute of technology) sta lavorando su uno strumento di nanoposizionamento simile, chiamato nano-walker. Leader nel campo dell'assemblaggio posizionale su scala molecolare è la Zyvex Corporation, una società privata di ricerca e sviluppo di nanotecnologie che ha sede a Richardson, in Texas. La Zyvex è la prima compagnia ingegneristica avente come fine la creazione di un assemblatore molecolare che usi l'assemblaggio posizionale per costruire strutture di precisione atomica. Come primo passo verso questa realizzazione, nel 1998 la Zyvex ha dimostrato di poter usare tre braccia robotiche, controllate in modo indipendente, per manipolare in tre dimensioni sottili nanotubi di carbonio, sotto la sorveglianza di un microscopio elettronico a scansione capace di esaminare oggetti e movimenti nei limiti di 6 nanometri, quasi alla frequenza di scansione video.
Nel 2001 il National institute of standards and technology ha stipulato con la Zyvex un contratto quinquennale di 25 miliardi di dollari con il fine di sviluppare prototipi di assemblatori molecolari utilizzando sistemi microelettromeccanici (MEMS), estendere la loro capacità su nanoscala e sviluppare sistemi nanoelettromeccanici (NENS) per la creazione di prototipi di assemblatori. Insieme ai suoi partner commerciali e universitari (il Rensselaer polytechnic institute for automation technologies, l'Università del Texas a Dallas e l'Università del Texas settentrionale), la Zyvex spera di accelerare la produzione e la commercializzazione a basso costo di assemblatori per componenti e sottosistemi su scala micro e nano. Lo scopo finale del programma è quello di arrivare nel 2006 alla progettazione e alla costruzione di assemblatori capaci di maneggiare migliaia di componenti di dimensioni inferiori al micrometro ad alta velocità, utilizzando MEMS per costruire prototipi di sistemi che possano essere poi realizzati a costi relativamente bassi. Gli ingegneri della Zyvex stanno mettendo a punto e testando diversi metodi di produzione che permettano un giorno di realizzare la costruzione simultanea, in modo parallelo, di un gran numero di macchine molecolari identiche. Ciò consentirebbe di costruire nanostrumenti e nanorobot con precise specifiche molecolari, in gran quantità e a spese relativamente contenute.
La nanoelettronica
Nel 2001 la notizia più importante nel campo delle nanotecnologie è stata il notevole avanzamento registrato nell'ambito dell'elettronica molecolare con la realizzazione dei primi circuiti molecolari, definiti da Science come 'innovazione dell'anno' per il 2001.
I recenti progressi conseguiti in maniera indipendente da molti laboratori fanno ritenere che entro pochi anni si possa arrivare a una miniaturizzazione straordinaria dei circuiti per computer, quasi ai limiti permessi dalle leggi della fisica, con componenti hardware estremamente piccoli, costruiti mediante il preciso assemblaggio di singoli atomi.
Le ricerche nella nanoelettronica sembrano convergere verso metodi efficaci di fabbricazione di circuiti, inclusi vari approcci per la realizzazione di circuiti molecolari per autoassemblaggio, che nel 2001 hanno raggiunto lo stadio di dispositivi semplici o almeno di logica rudimentale, comprendendo una vasta gamma di componenti elettronici molecolari come fili, diodi e transistori (la produzione di tutti i dispositivi attualmente in via di sviluppo si fonda su qualche forma di autoassemblaggio, piuttosto che sull'assemblaggio posizionale). Sia la velocità di calcolo sia la capacità di memoria dei calcolatori potrebbero compiere ben presto grandi progressi, riducendo drasticamente i costi e le difficoltà di fabbricazione. Potenzialmente un importante 'mattone' per l'elettronica molecolare potrebbe essere il nanotubo di carbonio, così come il più importante componente nell'elettronica è sicuramente il transistore. I transistori sono interruttori elettronici costituenti il cuore di un computer. In quelli più semplici, la corrente che scorre tra l'elettrodo emettitore e l'elettrodo collettore è controllata da una piccola differenza di potenziale applicata a un terzo elettrodo frapposto tra di essi, fornendo così un guadagno in corrente sostanzialmente maggiore di 1 (il fenomeno del guadagno è essenziale nell'assemblaggio di porte e di altri elementi circuitali nei microprocessori: circuiti con un guadagno minore di 1 sono inutili perché il segnale elettrico diventa così debole che non può essere rivelato). Per realizzare un semplice transistore a nanotubi, viene distribuita una soluzione di nanotubi a parete singola su una matrice di elettrodi realizzati in precedenza. La copertura superficiale è così sottile da assicurare che un nanotubo al massimo connetta un elettrodo emettitore con uno collettore. Cees Dekker e i suoi collaboratori dell'Università tecnologica di Delft, nei Paesi Bassi, sono stati i primi a progettare e costruire, nel 1999, un transistore a nanotubi di carbonio funzionante. Tuttavia, in quell'esperimento, il contatto dell'elettrodo di controllo era l'intero chip di supporto al silicio. In tal modo, tutti i dispositivi a nanotubo di ciascun chip dovevano essere accesi simultaneamente e il guadagno risultava minore di 1, perché l'isolante di diossido di silicio tra il contatto dell'elettrodo controllore e il nanotubo era troppo spesso. Nel 2001 lo stesso gruppo ha utilizzato la litografia a fascio elettronico per modellare i contatti dell'elettrodo di alluminio che vengono poi esposti all'aria così da formare strati isolanti molto sottili sui conduttori di alluminio. Questo minuscolo materiale isolante ha permesso ai nuovi transistori a nanotubo di operare in maniera indipendente con un guadagno superiore a 10. Connettendo elettricamente tra loro i transistori a nanotubo, mediante collegamenti in oro realizzati per litografia, il gruppo di Delft è riuscito a costruire un buon numero di circuiti logici, compresa una cella di memoria che può essere utilizzata come parte di una memoria RAM. Secondo Dekker "la logica molecolare è stata quasi il Santo Gral della ricerca sui nanotubi e ora l'abbiamo conquistata. In sostanza questi circuiti saranno in grado di funzionare a qualsiasi velocità compresa tra il megahertz e il terahertz". I nanotubi possono essere metallici (cioè conduttori) o semiconduttori, a seconda dell'orientazione degli esagoni di carbonio rispetto all'asse del tubo. Già nel 2001 un gruppo del Thomas J. Watson research center della IBM (con sede a Yorktown Heights, New York), guidato da Phaedon Avouris, ha reso nota una nuova tecnica per produrre matrici stocastiche di transistori a nanotubi di carbonio, aggirando così il bisogno di separare manualmente quelli metallici da quelli semiconduttori, o di preallinearli oppure orientarli. Per fabbricare tali matrici, vengono deposte su una piastra di silicio ossidato delle catene di nanotubi a parete singola contenenti un insieme di nanotubi metallici e semiconduttori e poi mediante litografia viene depositata sulla parte superiore delle catene una matrice di elettrodi. Facendo scorrere una forte corrente tra gli elettrodi metallici, si eliminano in maniera selettiva i nanotubi conduttori e tra gli elettrodi rimangono solo quelli semiconduttori. Successivamente, sempre nel 2001, il gruppo della IBM ha usato una tecnica simile per costruire un circuito computazionale elementare, noto come invertitore di tensione o porta logica di tipo 'NOT', codificando l'intera funzione logica dell'invertitore all'interno di un singolo nanotubo per formare il primo circuito logico al mondo a molecola singola. Nel mondo binario digitale fatto di 0 e 1, un invertitore di tensione cambia uno 0 in un 1 e viceversa. Questo è uno passo cruciale, perché i processori presenti nel cuore dei computer odierni possono essere visti come una vasta e intricata combinazione di porte NOT, accoppiate con altri due circuiti logici fondamentali, le porte 'AND' e 'OR', che eseguono le relative funzioni logiche. Gli invertitori di tensione sono tipicamente composti da due tipi di transistori con diverse proprietà elettroniche: transistori di tipo n (nei quali i portatori di corrente sono elettroni) e di tipo p (nei quali sono invece le regioni con mancanza di elettroni, chiamate 'lacune', a portare la corrente). Tutti i precedenti transistori a nanotubi di carbonio erano solo del tipo p, quindi adatti a studi scientifici, ma non sufficienti per costruire circuiti computazionali che eseguano funzioni logiche. Scienziati della IBM e di altri gruppi sono riusciti ad alterare le proprietà dei transistori a nanotubo aggiungendo a questo atomi di altri elementi, come il potassio. Tuttavia, il gruppo di Avouris ha recentemente trovato un modo nuovo e più semplice di trasformare un transistore di tipo p in uno di tipo n: il semplice riscaldamento del transistore di tipo p nel vuoto lo fa diventare di tipo n, mentre l'esposizione all'aria inverte il processo. Lo stesso gruppo di Montemagno ha anche scoperto che, oltre a trasformare un intero nanotubo da tipo p a tipo n, si può operare anche su sezioni di un nanotubo in maniera selettiva, trasformandone una parte in tipo n e lasciando la parte rimanente di tipo p. In un altro esperimento, i ricercatori della IBM hanno depositato due transistori di tipo p su un substrato che è stato collegato in un circuito in modo da essere utilizzato come porta NOT. Hanno poi rivestito uno dei nanotubi con un polimero di protezione e temprato sotto vuoto l'intero sistema convertendo ambedue i nanotubi nel tipo n. Il dispositivo è stato poi esposto ad aria a bassa pressione di ossigeno, facendo quindi in modo che soltanto il nanotubo non protetto si ritrasformasse in tipo p. Il risultato è stato un invertitore di tensione perfettamente funzionante costruito con transistori separati di tipo p e n. In un secondo esperimento, gli stessi scienziati hanno depositato un fascio di nanotubi a parete singola su un substrato di silicio ossidato che era stato costruito in precedenza con tre elettrodi in oro; poi hanno coperto tutto con un polimero protettivo. Alla fine, il gruppo ha drogato la regione del nanotubo con potassio attraverso una piccola finestra nel polimero, aperta utilizzando la litografia a fascio elettronico. Con questo procedimento si è realizzato un invertitore di tensione fabbricato da un singolo fascio di nanotubi, con un guadagno di 1,6, e Avouris spera che possano essere realizzati, accanto ai singoli nanotubi, circuiti anche più complessi che rappresentano il passo successivo verso i computer molecolari. Oltre a dedicarsi alla realizzazione di questi circuiti, il gruppo sta anche lavorando all'ulteriore miglioramento delle prestazioni dei singoli transistori. I più intricati circuiti di nanoelettronica possono richiedere fino a migliaia o milioni di componenti a nanotubi disposti in maniera opportuna sullo stesso dispositivo. I ricercatori dell'Università di Stanford, in California, hanno assemblato su uno stesso asse numerose matrici di nanotubi di carbonio a parete singola su siti specifici di fette di silicio da 4-pollici comunemente utilizzate per la produzione dei chip di computer. Facendo crescere nanotubi in maniera ordinata sulle fette di silicio sarebbe possibile utilizzare la tecnologia già esistente di fabbricazione dei chip per connettere i nanotubi in circuiti, producendo anche grandi quantità di transistori per processori di computer, chip di memorie e sensori chimici e biologici. Per depositare i nanotubi su una fetta, Hongjie Dai e i suoi collaboratori hanno utilizzato la fotolitografia disponendo sulla fetta di silicio una matrice di 10÷100 milioni di punti microscopici che servono da catalizzatori per innescare la crescita di nanotubi di carbonio. Quando le fette sono state esposte a vapore caldo contenente carbonio in presenza di un campo elettrico, gli atomi di carbonio si sono condensati formando nanotubi e hanno iniziato a crescere partendo dai punti catalizzatori, orientandosi tutti parallelamente al campo. Da ogni singolo punto si sono sviluppati da uno a tre nanotubi a parete singola, di diametro da uno a tre nanometri e di lunghezza fino a 10.000 nanometri, pari a circa il doppio di quella di un globulo rosso. La chimica che regola i nanotubi è indipendente dalle dimensioni delle isole catalizzatrici e quindi questa tecnica può produrre teoricamente un nanotubo ogni 100 nanometri quadrati di superficie sulla fetta, o circa 800 milioni su una fetta di 4 pollici. Il prossimo passo sarà l'uso delle tecniche standard di costruzione di chip per posizionare i contatti metallici sui nanotubi e connetterli in circuiti. Secondo Dai questa tecnica di crescita strutturata di nanotubi potrebbe trovare una serie di applicazioni pratiche già entro i prossimi cinque anni. Il gruppo di Charles Lieber di Harvard ha lavorato su un diverso tipo di nanofili che ha chiamato 'nanofili semiconduttori'. Il nanofilo è confrontabile nelle dimensioni a un nanotubo di carbonio, di circa 10÷30 nanometri di diametro, ma la sua composizione chimica è più facile da manovrare con precisione.
I nanofili vengono sintetizzati a partire da un catalizzatore metallico, che definisce il diametro del filo e serve come sito dove le molecole del materiale desiderato (di solito silicio o nitruro di gallio) tendono a raccogliersi. Durante lo sviluppo del nanofilo vengono poi aggiunti droganti chimici, che controllano se i nanofili siano di tipo n (con elettroni in eccesso) o di tipo p (con mancanza di elettroni). Lieber ha usato i suoi nanofili per assemblare sia diversi tipi di transistori (a effetto campo e bipolari) sia invertitori, diodi ed elementi di memoria utilizzando nanofili di tipo p e n incrociati. Gli elementi di memoria sono in grado di immagazzinare informazioni per 10 minuti o anche più, intrappolando cariche all'interfaccia tra due nanofili che si intersecano.
"I progressi più importanti che ci attendiamo nel futuro riguardano il campo dell'assemblaggio" ha spiegato Lieber all'inizio del 2002. Il suo gruppo ha studiato come assemblare i nanofili in matrici bidimensionali più grandi o in nanocircuiti, utilizzando flussi di fluido. Proprio come bastoni e tronchi d'albero possono scorrere lungo un fiume, così piccoli nanofili sospesi nell'etanolo possono essere portati a formare linee parallele quando fluiscano attraverso canali in blocchi polimerici. Il processo può essere usato per creare interconnessioni nella direzione del flusso di fluido. Per es., per produrre griglie ad angoli retti, Lieber ha dapprima steso una serie di nanofili paralleli distanti meno di 100 nanometri, poi ha ruotato la direzione del flusso di 90° e ha steso un'altra serie di nanofili. Utilizzando fili di diversa composizione per ciascuno strato si può assemblare rapidamente una matrice di nanodispositivi funzionali. Nel 2001, il gruppo di Lieber ha fabbricato porte logiche funzionali di tipo OR, AND e NOR e ha connesso porte multiple di tipo AND e NOR per implementare calcoli semplici, dapprima nella forma di una porta XOR, che corrisponde alla funzione logica binaria SUM, e poi nella forma di un semisommatore (con riporto) logico che corrisponde alla somma di due bit binari. Combinando una serie di circuiti semisommatori si riuscirebbe a costruire un computer primitivo di base capace di effettuare calcoli di aritmetica elementare, il primo vero nanocomputer. Un'altra tecnica di assemblaggio di componenti su larga scala è stata studiata da Christine Keating e Thomas Mallouk e dal loro gruppo alla Pennsylvania State University. Essa consiste nell'utilizzare DNA per indurre nanofili di oro ad assumere posizioni specifiche su una superficie di oro, portando quindi l'autoassemblaggio dei nanofili ai suoi limiti di possibilità. I ricercatori hanno dapprima depositato i fili di oro, larghi 200 e lunghi 6000 nanometri, nei canali di una membrana porosa e li hanno poi modificati con brevi tratti di DNA. Successivamente hanno coperto uno strato sottile di oro con tratti di DNA che combaciano con parti dei nanofili (si dice che singoli tratti di DNA combaciano quando le loro sequenze sono complementari, come una chiave e la sua serratura o come Polo Nord e Polo Sud di un magnete). Proprio come i magneti, quando tratti di DNA trovano i loro complementari vi aderiscono, facendo sì che i fili si attacchino alla superficie. I fili in cui i tratti di DNA combaciano con quelli della superficie hanno una probabilità quattro volte più grande di aderire alla superficie rispetto a quelli con DNA non complementare. La discriminazione non è tuttavia perfetta, perché anche nanofili parzialmente marcati o non marcati affatto mostrano una leggera tendenza ad attaccarsi. I ricercatori del gruppo di Keating e Mallouk sperano di migliorare questo aspetto e ottenere circuiti elettronici autoassemblanti su nanoscala, usando stati modificati di DNA legati alla superficie capaci di condurre i vari componenti al loro posto; essi pensano anche di collegare i fili gli uni agli altri modificandone in modo complementare le estremità, essendo già stati in grado di modificare le sole punte. Programmati in modo opportuno, i componenti potrebbero raccogliersi spontaneamente in un circuito più complesso. Analogamente al gruppo di Lieber a Harvard, anche Fraser Stoddart e James Heath dell'Università della California a Los Angeles in collaborazione con la Hewlett-Packard (HP), stanno studiando dispositivi nanoelettronici costituiti da una semplice rete di nanofili connessi da interruttori elettronici dello spessore di una singola molecola. Nel 1999, il gruppo della UCLA ha costruito la prima porta logica assemblata chimicamente e basata sulla rotaxane. Questa è un interruttore molecolare 'a navetta', consistente in una molecola ad anello che circonda una catena molecolare che funge da albero e su cui scorre tra due posizioni localizzate vicino a ciascuna estremità della catena. Lo stazionamento dell'anello su una o l'altra posizione può essere variato elettricamente, dando luogo quindi a stati 0 e 1 reversibili. Secondo il brevetto compilato dalla HP nel 2001, i ricercatori possono deporre un insieme di fili paralleli di disiliciuro di erbio del diametro di 2 nanometri e poi un secondo insieme simile di nanofili proprio sopra il primo, ma in direzione ortogonale. Sopra la griglia che ne risulta fluisce una soluzione di molecole di rotaxane, che si posizionano autonomamente nei punti di intersezione, facendo sì che tali punti diventino interruttori molecolari indirizzabili. "In pratica - dice Phil Kuekes, uno degli scienziati della HP - è un approccio del tipo 'mescola e inforna' alla produzione dei semiconduttori. Sono le reazioni chimiche, e non maschere stabilite dal computer, a definire il circuito e ad assemblarlo". Nel 2001, il gruppo della UCLA-HP ha presentato la prima memoria molecolare a 16 bit funzionante, costituita soltanto da un numero esiguo di molecole per cella di memoria. Un altro approccio interessante è stato seguito da James Tour, capo del gruppo di elettronica molecolare del Center for nanoscale science and technology della Rice University a Houston, in Texas. Il suo progetto riguarda la produzione di circuiti logici basati su insiemi di molecole attive assemblate a caso e raccolte in aree molto piccole, ciascuna delle quali contenente una singola 'nanocella'. Si ritiene che ogni nanocella contenga tutte le connessioni intermolecolari necessarie a produrre circuiti logici comuni come porte NOT, AND e NAND, e anche circuiti sommatori. Mentre i gruppi di Harvard e della UCLA cercano di assemblare matrici finalizzate di singoli elementi circuitali, che abbiano un comportamento determinato e prevedibile, l'approccio di Tour è quello di permettere a blocchi di dispositivi e di fili di connettersi tra loro in maniera casuale, ma in grosse quantità. Successivamente, ciascun blocco può essere analizzato per determinare in che modo debba essere utilizzato, come memoria o come elemento di calcolo. Infine, si può selezionare e preparare un particolare cammino del circuito all'interno di ciascuna nanocella utilizzando impulsi elettrici per accendere o spegnere gli interruttori molecolari. Tour ha intenzione prima di tutto di provare che è possibile programmare la nanocella dopo l'assemblaggio, utilizzando delle simulazioni, in un secondo tempo di riuscire realmente a programmare una nanocella e infine di utilizzare le nanocelle così programmate in dispositivi commercialmente utili. Anche se occorreranno ancora tra i 10 e i 15 anni per produrre un sistema funzionante basato su queste nanocelle, il gruppo di Tour, insieme a collaboratori di altre università, ha già dimostrato di saper mutare una singola molecola oligomera di fenilene etinilene. Le molecole sono lunghe 2 nanometri, hanno una sezione di 0,5 nanometri e possono mantenersi nello stato mutato per ore. Questi sistemi di mutazione e memorizzazione potranno essere impiegati tra qualche anno nelle matrici dei sensori.
Una delle ditte specializzate più avanzate d'Europa, la CMP Cientifica, ritiene che i dispositivi nanoelettronici possano costituire un mercato molto più ampio in un periodo che va da 3 a 7 anni, in contrasto con una stima precedente di Il crescente interesse verso le applicazioni della nanotecnologia alla medicina sta portando alla rapida crescita di un nuovo settore, quello della nanomedicina, che in termini più ampi può essere definita come l'insieme della scienza e della tecnologia che si occupa di diagnosticare, trattare e prevenire malattie e traumi, di alleviare il dolore e di preservare e migliorare la salute umana, utilizzando sia strumenti molecolari, sia la conoscenza molecolare del corpo umano. Tuttavia non si tratta solo di un ampliamento della moderna medicina molecolare, in quanto la nanomedicina appare in grado di risolvere la maggior parte dei problemi attuali della medicina utilizzando materiali strutturati su scala nanometrica, ma anche le biotecnologie, l'ingegneria genetica e infine i sistemi molecolari complessi e i nanorobot. La nanomedicina può essere vista come un insieme di tre tecnologie sempre più potenti che tendono a sovrapporsi. Per prima cosa, in un prossimo futuro, alcuni dei materiali e dei dispositivi nanostrutturati che possono essere costruiti oggi serviranno alla soluzione di importanti problemi medici. In secondo luogo, nei prossimi 5-10 anni, la biotecnologia consentirà di raggiungere progressi ancora più notevoli nella medicina molecolare, nell'ingegneria genetica, nella terapia genica e nella biobotica (microbi artificiali). Infine, più avanti nel tempo, forse fra 10 o 20 anni, potrebbero aggiungersi allo strumentario tradizionale i primi macchinari molecolari e nanorobot, mettendo finalmente nelle mani dei medici strumenti di cura più potenti di quelli che si possano immaginare. Un esempio di materiale nanostrutturato o di dispositivo che potrebbe presto trovare la sua strada nella terapeutica medica è rappresentato dai dendrimeri. Si tratta di molecole sintetiche a forma di albero, con una struttura a diramazioni regolari che emergono da un nucleo. Il loro strato esterno può essere costruito in modo da formare un denso campo di gruppi molecolari che servono da uncini per attaccare altre molecole utili, come il DNA. I dendrimeri si sviluppano nanometro per nanometro, cosicché dal numero di passi sintetici, o di 'generazioni', dipende l'esatta dimensione delle particelle di un lotto. Ciascuna molecola è tipicamente di pochi nanometri, sebbene ne siano state costruite alcune lunghe fino a 30 nanometri, costituite da più di 100.000 atomi. James Baker del Center of biologic nanotechnology, dell'Università del Michigan, è un pioniere nell'uso dei dendrimeri come agenti di terapia genica sicuri ed efficaci: essi infatti offrono il vantaggio di introdurre il DNA nelle cellule evitando di innescare una reazione del sistema immunitario. Donald Tomalia, dello stesso centro, ha comunicato di aver usato delle nanoesche al glicodendrimero per intrappolare e disattivare particelle di virus influenzale. Poiché la superficie del glicodendrimero imita i gruppi acidi sialici che si trovano normalmente nella membrana cellulare dei mammiferi, i virus aderiscono ai rami più esterni delle esche invece che alle cellule naturali. Questi sono solo i primi esempi di quello che potrebbe diventare un vasto insieme di nanostrumenti medici. Un agente terapeutico 'intelligente' basato sui dendrimeri avrà componenti multiple che potrebbero assolvere cinque diverse funzioni: riconoscere le cellule malate, diagnosticare lo stato della malattia, rilasciare il farmaco, fornire indicazioni sulla localizzazione della malattia e sui risultati della terapia. Molecole specifiche che mettono in atto ciascuna di queste funzioni sono state già prodotte e testate, mentre sono in via di sviluppo tectodendrimeri che le assolveranno tutte e cinque. Quando poi il Center of biologic nanotechnology individuerà una componente funzionante capace di riconoscere l'apoptosi (morte cellulare programmata), tale componente potrà essere usata come parte di un più grande nanodispositivo in grado di rilasciare terapie efficaci per qualsiasi tipo di cellula malata, come per es. una cellula tumorale o una cellula infettata da un virus. Altri dispositivi nanostrutturati semplici ma efficaci potrebbero essere presto disponibili nella clinica medica. Per es., Tejal Desai, dell'Università dell'Illinois, ha realizzato microcapsule al silicio a immunoisolamento, perforate da numerosissimi nanopori, di diametro inferiore ai 20 nanometri, uniformemente distribuiti. I pori sono abbastanza grandi da permettere il passaggio di molecole come ossigeno, glucosio e insulina, ma abbastanza piccoli da impedire quello di molecole più grandi del sistema immunitario come immunoglobuline, anticorpi e particelle di virus da innesto.
Microcapsule contenenti cellule di isole pancreatiche suine, facilmente raccoglibili, potrebbero essere impiantate sotto la pelle di pazienti diabetici, ripristinando il delicato meccanismo di controllo del glucosio senza bisogno di immunosoppressori, che espongono il paziente a seri rischi di infezione. Nel 2001 erano già in via di sperimentazione studi su topi diabetici. Fornire nuove cellule incapsulate potrebbe essere un modo per trattare anche altre malattie causate da carenze enzimatiche o ormonali. Un altro esempio potrebbe essere costituito da neuroni incapsulati impiantati nel cervello e poi stimolati elettricamente per rilasciare neurotrasmettitori, come eventuale parte integrante del trattamento della malattia di Alzheimer o del morbo di Parkinson. Un altro tipo di nanodispositivo potrà rendere più veloce la lettura del patrimonio genetico di ciascun individuo. Daniel Branton di Harvard utilizza un campo elettrico per far passare una serie di polimeri di RNA e DNA attraverso il nanoporo centrale di un canale proteico dell'·-emolisina montata su un doppio strato di lipidi, in modo simile a quanto avviene nella membrana esterna di una cellula vivente. I fili polimerici passano attraverso il nanoporo, largo solo 2,6 nanometri, causando variazioni nella corrente ionica che vengono usate per misurare la lunghezza del polimero e per discriminare tra segmenti di pirimidina e di purina (i due tipi di basi nucleotidiche) lungo una singola molecola di RNA. Nel 2001 il gruppo di Branton ha dimostrato di poter distinguere tra catene di DNA di lunghezza e composizione simili ma differenti unicamente nella sequenza delle paia di basi. Tuttavia sarà necessario un nanoporo più robusto, probabilmente allo stato solido, per procedere in modo veloce e uniforme al sequenziamento del DNA. Branton prefigura un chip per diagnostica contenente 500 pori operazionali, ciascuno dei quali capace di leggere a un ritmo di 1000 paia di basi al secondo. Tale dispositivo potrebbe decodificare la sequenza dell'intero genoma umano in meno di un'ora o l'intero genoma di un agente virale biologico in pochi secondi. La forza della nanomedicina emergerà in pieno fra una decina d'anni, quando si sarà imparato a progettare e costruire nanorobot completamente artificiali usando materiali resistenti tipo diamante, parti meccaniche su scala nanometrica e sottosistemi da porre in vivo, come sensori, motori, manipolatori, impianti energetici e computer molecolari. Un esempio è quello progettato dal gruppo dello scrivente e consiste in un globulo rosso meccanico artificiale, che chiamiamo 'respirocita'. Sebbene ancora del tutto teorico, il respirocita è un nanorobot sferico del diametro di un micrometro, costituito da 18 miliardi di atomi disposti in maniera precisa in una struttura tipo diamante per formare un minuscolo serbatoio di gas compresso, che può essere portato senza pericoli a pressioni di 1000 atmosfere. Diversi miliardi di molecole di ossigeno e di diossido di carbonio possono essere assorbiti o rilasciati dal serbatoio in modo controllato, utilizzando pompe molecolari alimentate da glucosio plasmatico e ossigeno e gestite da un computer. Sensori di concentrazione di gas esterno permettono al respirocita di mimare l'azione dei veri globuli rossi, ricchi di emoglobina, rilasciando l'ossigeno e assorbendo il diossido di carbonio nei tessuti ed effettuando il processo inverso nei polmoni. Ogni respirocita può contenere una quantità di gas per unità di volume 236 volte maggiore di un globulo rosso naturale, cosicché pochi centimetri cubici iniettati nel sangue umano sostituirebbero la capacità di trasporto di gas pari a 5,4 litri di sangue del paziente. Una dose da 0,5 litri potrebbe mantenere il tessuto del paziente ossigenato in maniera sicura fino a 4 ore, per es., nel caso in cui il battito cardiaco si fermasse per un infarto. La stessa dose permetterebbe a una persona sana di rimanere seduta sul fondo di una piscina per ore, trattenendo il respiro, oppure di correre a massima velocità per almeno 15 minuti senza respirare. Altri nanorobot medicali proposti potrebbero offrire miglioramenti delle prestazioni naturali altrettanto stupefacenti. Nel 2001 nel mio gruppo si è completata la parte teorica di uno studio di produzione in scala di 'microbivori', fagociti (cellule bianche) nanorobotici in grado di pattugliare il sistema sanguigno, andando alla ricerca e divorando gli agenti patogeni, inclusi batteri, virus o funghi. Ciascuno di questi nanorobot potrebbe distruggere completamente un agente patogeno in soli 30 secondi - una velocità circa 100 volte maggiore di quella dei leucociti naturali o macrofagi - lasciando un innocuo residuo di aminoacidi, mononucleotidi, acidi grassi e zuccheri. Non avrà più importanza se il batterio avrà acquisito resistenza agli antibiotici o a qualsiasi altro trattamento medico tradizionale. Il microbivoro lo divorerebbe in ogni caso, ottenendo la sparizione completa anche della più grave infezione setticemica nel giro di alcuni minuti o al massimo di poche ore rispetto alle settimane o addirittura ai mesi richiesti ai globuli bianchi naturali assistiti da antibiotici. E questo senza aumentare il rischio di sepsi o shock settico. Nanorobot simili potrebbero essere programmati per riconoscere e digerire cellule tumorali oppure per rimuovere in maniera meccanica ostruzioni circolatorie in tempi dell'ordine dei minuti, salvando quindi velocemente il paziente che sia stato colpito da danni ischemici. In conclusione, sebbene la nanotecnologia si debba ancora considerare a uno stadio 'infantile' della sua evoluzione, i ricercatori stanno facendo progressi in maniera sistematica. Se si riuscirà a chiarire come 'imbrigliare' e controllare con precisione la manipolazione delle molecole, molti aspetti della vita umana cambieranno per sempre. Invero, la capacità di replicare i processi biomedici a livello molecolare rivoluzionerà la pratica medica.
10-15 anni. Secondo il suo Rapporto sulle opportunità della nanotecnologia, reso noto all'inizio del 2002, "tra 5 anni saranno introdotte sul mercato tecnologie assolutamente rivoluzionarie, come le memorie non volatili a terabyte basate sui nanotubi". La Cientifica pensa che queste tecnologie costituiranno una larga parte dei ricavi dell'industria dei computer.
repertorio
La nanomedicina
Il crescente interesse verso le applicazioni della nanotecnologia alla medicina sta portando alla rapida crescita di un nuovo settore, quello della nanomedicina, che in termini più ampi può essere definita come l'insieme della scienza e della tecnologia che si occupa di diagnosticare, trattare e prevenire malattie e traumi, di alleviare il dolore e di preservare e migliorare la salute umana, utilizzando sia strumenti molecolari, sia la conoscenza molecolare del corpo umano. Tuttavia non si tratta solo di un ampliamento della moderna medicina molecolare, in quanto la nanomedicina appare in grado di risolvere la maggior parte dei problemi attuali della medicina utilizzando materiali strutturati su scala nanometrica, ma anche le biotecnologie, l'ingegneria genetica e infine i sistemi molecolari complessi e i nanorobot.
La nanomedicina può essere vista come un insieme di tre tecnologie sempre più potenti che tendono a sovrapporsi. Per prima cosa, in un prossimo futuro, alcuni dei materiali e dei dispositivi nanostrutturati che possono essere costruiti oggi serviranno alla soluzione di importanti problemi medici. In secondo luogo, nei prossimi 5-10 anni, la biotecnologia consentirà di raggiungere progressi ancora più notevoli nella medicina molecolare, nell'ingegneria genetica, nella terapia genica e nella biobotica (microbi artificiali). Infine, più avanti nel tempo, forse fra 10 o 20 anni, potrebbero aggiungersi allo strumentario tradizionale i primi macchinari molecolari e nanorobot, mettendo finalmente nelle mani dei medici strumenti di cura più potenti di quelli che si possano immaginare.
Un esempio di materiale nanostrutturato o di dispositivo che potrebbe presto trovare la sua strada nella terapeutica medica è rappresentato dai dendrimeri. Si tratta di molecole sintetiche a forma di albero, con una struttura a diramazioni regolari che emergono da un nucleo. Il loro strato esterno può essere costruito in modo da formare un denso campo di gruppi molecolari che servono da uncini per attaccare altre molecole utili, come il DNA. I dendrimeri si sviluppano nanometro per nanometro, cosicché dal numero di passi sintetici, o di 'generazioni', dipende l'esatta dimensione delle particelle di un lotto. Ciascuna molecola è tipicamente di pochi nanometri, sebbene ne siano state costruite alcune lunghe fino a 30 nanometri, costituite da più di 100.000 atomi.
James Baker del Center of biologic nanotechnology, dell'Università del Michigan, è un pioniere nell'uso dei dendrimeri come agenti di terapia genica sicuri ed efficaci: essi infatti offrono il vantaggio di introdurre il DNA nelle cellule evitando di innescare una reazione del sistema immunitario. Donald Tomalia, dello stesso centro, ha comunicato di aver usato delle nanoesche al glicodendrimero per intrappolare e disattivare particelle di virus influenzale. Poiché la superficie del glicodendrimero imita i gruppi acidi sialici che si trovano normalmente nella membrana cellulare dei mammiferi, i virus aderiscono ai rami più esterni delle esche invece che alle cellule naturali. Questi sono solo i primi esempi di quello che potrebbe diventare un vasto insieme di nanostrumenti medici. Un agente terapeutico 'intelligente' basato sui dendrimeri avrà componenti multiple che potrebbero assolvere cinque diverse funzioni: riconoscere le cellule malate, diagnosticare lo stato della malattia, rilasciare il farmaco, fornire indicazioni sulla localizzazione della malattia e sui risultati della terapia. Molecole specifiche che mettono in atto ciascuna di queste funzioni sono state già prodotte e testate, mentre sono in via di sviluppo tectodendrimeri che le assolveranno tutte e cinque. Quando poi il Center of biologic nanotechnology individuerà una componente funzionante capace di riconoscere l'apoptosi (morte cellulare programmata), tale componente potrà essere usata come parte di un più grande nanodispositivo in grado di rilasciare terapie efficaci per qualsiasi tipo di cellula malata, come per es. una cellula tumorale o una cellula infettata da un virus.
Altri dispositivi nanostrutturati semplici ma efficaci potrebbero essere presto disponibili nella clinica medica. Per es., Tejal Desai, dell'Università dell'Illinois, ha realizzato microcapsule al silicio a immunoisolamento, perforate da numerosissimi nanopori, di diametro inferiore ai 20 nanometri, uniformemente distribuiti. I pori sono abbastanza grandi da permettere il passaggio di molecole come ossigeno, glucosio e insulina, ma abbastanza piccoli da impedire quello di molecole più grandi del sistema immunitario come immunoglobuline, anticorpi e particelle di virus da innesto.
Microcapsule contenenti cellule di isole pancreatiche suine, facilmente raccoglibili, potrebbero essere impiantate sotto la pelle di pazienti diabetici, ripristinando il delicato meccanismo di controllo del glucosio senza bisogno di immunosoppressori, che espongono il paziente a seri rischi di infezione. Nel 2001 erano già in via di sperimentazione studi su topi diabetici. Fornire nuove cellule incapsulate potrebbe essere un modo per trattare anche altre malattie causate da carenze enzimatiche o ormonali. Un altro esempio potrebbe essere costituito da neuroni incapsulati impiantati nel cervello e poi stimolati elettricamente per rilasciare neurotrasmettitori, come eventuale parte integrante del trattamento della malattia di Alzheimer o del morbo di Parkinson.
Un altro tipo di nanodispositivo potrà rendere più veloce la lettura del patrimonio genetico di ciascun individuo. Daniel Branton di Harvard utilizza un campo elettrico per far passare una serie di polimeri di RNA e DNA attraverso il nanoporo centrale di un canale proteico dell'·-emolisina montata su un doppio strato di lipidi, in modo simile a quanto avviene nella membrana esterna di una cellula vivente. I fili polimerici passano attraverso il nanoporo, largo solo 2,6 nanometri, causando variazioni nella corrente ionica che vengono usate per misurare la lunghezza del polimero e per discriminare tra segmenti di pirimidina e di purina (i due tipi di basi nucleotidiche) lungo una singola molecola di RNA. Nel 2001 il gruppo di Branton ha dimostrato di poter distinguere tra catene di DNA di lunghezza e composizione simili ma differenti unicamente nella sequenza delle paia di basi. Tuttavia sarà necessario un nanoporo più robusto, probabilmente allo stato solido, per procedere in modo veloce e uniforme al sequenziamento del DNA. Branton prefigura un chip per diagnostica contenente 500 pori operazionali, ciascuno dei quali capace di leggere a un ritmo di 1000 paia di basi al secondo. Tale dispositivo potrebbe decodificare la sequenza dell'intero genoma umano in meno di un'ora o l'intero genoma di un agente virale biologico in pochi secondi.
La forza della nanomedicina emergerà in pieno fra una decina d'anni, quando si sarà imparato a progettare e costruire nanorobot completamente artificiali usando materiali resistenti tipo diamante, parti meccaniche su scala nanometrica e sottosistemi da porre in vivo, come sensori, motori, manipolatori, impianti energetici e computer molecolari. Un esempio è quello progettato dal gruppo dello scrivente e consiste in un globulo rosso meccanico artificiale, che chiamiamo 'respirocita'. Sebbene ancora del tutto teorico, il respirocita è un nanorobot sferico del diametro di un micrometro, costituito da 18 miliardi di atomi disposti in maniera precisa in una struttura tipo diamante per formare un minuscolo serbatoio di gas compresso, che può essere portato senza pericoli a pressioni di 1000 atmosfere. Diversi miliardi di molecole di ossigeno e di diossido di carbonio possono essere assorbiti o rilasciati dal serbatoio in modo controllato, utilizzando pompe molecolari alimentate da glucosio plasmatico e ossigeno e gestite da un computer. Sensori di concentrazione di gas esterno permettono al respirocita di mimare l'azione dei veri globuli rossi, ricchi di emoglobina, rilasciando l'ossigeno e assorbendo il diossido di carbonio nei tessuti ed effettuando il processo inverso nei polmoni. Ogni respirocita può contenere una quantità di gas per unità di volume 236 volte maggiore di un globulo rosso naturale, cosicché pochi centimetri cubici iniettati nel sangue umano sostituirebbero la capacità di trasporto di gas pari a 5,4 litri di sangue del paziente. Una dose da 0,5 litri potrebbe mantenere il tessuto del paziente ossigenato in maniera sicura fino a 4 ore, per es., nel caso in cui il battito cardiaco si fermasse per un infarto. La stessa dose permetterebbe a una persona sana di rimanere seduta sul fondo di una piscina per ore, trattenendo il respiro, oppure di correre a massima velocità per almeno 15 minuti senza respirare.
Altri nanorobot medicali proposti potrebbero offrire miglioramenti delle prestazioni naturali altrettanto stupefacenti. Nel 2001 nel mio gruppo si è completata la parte teorica di uno studio di produzione in scala di 'microbivori', fagociti (cellule bianche) nanorobotici in grado di pattugliare il sistema sanguigno, andando alla ricerca e divorando gli agenti patogeni, inclusi batteri, virus o funghi. Ciascuno di questi nanorobot potrebbe distruggere completamente un agente patogeno in soli 30 secondi - una velocità circa 100 volte maggiore di quella dei leucociti naturali o macrofagi - lasciando un innocuo residuo di aminoacidi, mononucleotidi, acidi grassi e zuccheri. Non avrà più importanza se il batterio avrà acquisito resistenza agli antibiotici o a qualsiasi altro trattamento medico tradizionale. Il microbivoro lo divorerebbe in ogni caso, ottenendo la sparizione completa anche della più grave infezione setticemica nel giro di alcuni minuti o al massimo di poche ore rispetto alle settimane o addirittura ai mesi richiesti ai globuli bianchi naturali assistiti da antibiotici. E questo senza aumentare il rischio di sepsi o shock settico. Nanorobot simili potrebbero essere programmati per riconoscere e digerire cellule tumorali oppure per rimuovere in maniera meccanica ostruzioni circolatorie in tempi dell'ordine dei minuti, salvando quindi velocemente il paziente che sia stato colpito da danni ischemici.
In conclusione, sebbene la nanotecnologia si debba ancora considerare a uno stadio 'infantile' della sua evoluzione, i ricercatori stanno facendo progressi in maniera sistematica. Se si riuscirà a chiarire come 'imbrigliare' e controllare con precisione la manipolazione delle molecole, molti aspetti della vita umana cambieranno per sempre. Invero, la capacità di replicare i processi biomedici a livello molecolare rivoluzionerà la pratica medica.