NAPOLEONE I imperatore
Nacque ad Aiaccio il 15 agosto 1769, da Carlo Buonaparte e da Letizia Ramolino, secondo di otto fratelli (senza contare i morti in tenera età), cinque maschi (Giuseppe, Napoleone stesso, Luciano, Luigi, Girolamo) e tre femmine (Elisa, Paolina, Carolina).
Avvocati e magistrati, i Bonaparte (così si dissero alla francese dal 1796) traevano origine dalla Toscana, donde un ramo s'era trapiantato prima a Sarzana, poi nella Corsica (sec. XVI). I loro titoli di nobiltà erano stati riconosciuti dal granduca nel 1757. Carlo Bonaparte, dopo la battaglia di Pontenuovo (9 maggio 1769), alla quale aveva assistito come aiutante di Pasquale Paoli, provvide subito ai suoi interessi accettando la signoria francese e facendosi amico dei governatori dell'isola. Così dal conte L.-Ch.-R. di Marbeuf ottenne che Giuseppe e N. (più tardi anche altri suoi figli e congiunti) compissero in Francia i loro studî a spese dello stato. I due fanciulli lasciarono la Corsica il 15 dicembre 1778 ed entrarono insieme nel collegio di Autun per apprendervi alla meglio la lingua francese; poi, il 23 marzo 1779, N. passò alla scuola militare di Brienne. Quivi egli rimase oltre cinque anni, solitario e taciturno, chiuso nel pensiero della sua casa e della sua isola, in preda ora a crisi di nostalgia ora a scoppî di esasperazione, tra gente estranea che si prendeva volentieri giuoco del suo aspetto bizzarro e della sua nazionalità còrsa. In tale modo si abituò per tempo a osservare il mondo dal di fuori e affinò l'istinto di conquista e di dominio. "Caractère dominant, impérieux, entêté": così l'ispettore Reynaud de Monts. E un suo insegnante: "Corse de nation et de caractère, il ira loin si les circonstances le favorisent".
Assegnato all'artiglieria (prima era parso idoneo alla marina), entrò, il 30 ottobre 1784, come "cadet gentilhomme", nella scuola militare di Parigi, e ivi meglio conobbe, senz'ammirarla, l'aristocrazia francese. Ne uscì, il 28 ottobre 1785, luogotenente in seconda (42° su 58 classificati) e fu mandato a Valenza nella compagnia dei bombardieri del reggimento di La Fère. Nel febbraio di quell'anno era morto, non ancora quarantenne, suo padre.
Le scuole di Brienne e di Parigi avevano di militare poco più che il nome. A Valenza il Bonaparte fu soldato e s'iniziò alla balistica, alla tattica e alla strategia, semplice cannoniere dapprima, com'era l'uso, poi caporale, poi sergente, infine vero ufficiale. Ma nel medesimo tempo, avido di tutto sapere, approfondiva la matematica e la geografia, s'occupava di diritto e di politica, leggeva i capolavori latini e francesi e, naturalmente, non trascurava Plutarco e Rousseau. "Reservé et studieux (così le sue note caratteristiche), il prefère l'étude à toute espèce d'amusement; se plait à la lecture de tous auteurs;... capricieux, hautain, extrèmement porté à l'égoïsme, parlant peu, énergique dans ses reparties, ayant beaucoup d'amour-propre, ambitieux et aspirant à tout".
Ogni suo pensiero era allora rivolto alla Corsica. Nel settembre 1786, ottenuta una licenza, rivide Aiaccio e con varî pretesti di salute o di famiglia vi rimase, salvo una breve visita a Parigi (ottobre-dicembre 1787), per ben venti mesi. Quando tornò (giugno 1788), il suo reggimento era ad Auxonne. Ebbe una nuova licenza nel settembre 1789. La grande rivoluzione, allora incominciata, pareva aprirgli la via alla fortuna nella sua isola, di cui appunto allora esaltava gli eroi nelle Lettres sur la Corse.
Il 30 novembre l'Assemblea nazionale estese alla Corsica tutte le libertà del popolo francese, il che equivaleva a consacrare il principio della sovranità della Francia, ma offriva all'isola, divenuta anch'essa un dipartimento, la possibilità di amministrarsi quasi esclusivamente da sé. P. Paoli accettò il nuovo ordine di cose e da Londra venne, per Parigi, ad Aiaccio (maggio 1790), accolto dappertutto come campione ed eroe purissimo della libertà. Egli trattò con molta benevolenza il giovine figlio del suo antico aiutante, ma, scopertone subito il carattere ambizioso, privo di scrupoli, pronto a tutto - intrighi e violenze - pur di farsi innanzi, accolse freddamente, nel gennaio 1791, la difesa che volle pubblicare di lui contro Matteo Buttafuoco, deputato della nobiltà còrsa all'Assemblea di Parigi (Lettre à Buttafuoco). Nel febbraio N. tornò al suo reggimento a Auxonne e nei mesi seguenti scrisse, in stile declamatorio e in un francese pieno d'italianismi, il Dialogue sur l'amour e le Réflexions sur l'état de nature. Partecipò inoltre a un concorso aperto dall'accademia di Lione sul tema: Quelles verités et quels sentiments il importe le plus d'inculquer aux hommes pour leur bonheur; ma, sebbene indulgesse a tutti i sofismi allora di moda, non ebbe il premio e fu classificato ultimo. Il 2 giugno era stato promosso luogotenente in prima al 4° reggimento artiglieria, ed era tornato a Valenza. Nel settembre, procuratasi un'altra licenza, ricomparve ad Aiaccio. Si facevano allora le elezioni per la Legislativa. Egli si gettò furiosamente nella lotta politica, che in ogni terra era fatta feroce dalle consorterie locali e familiari, e riuscì inoltre egli stesso, intimidendo audacemente i suoi avversarî, a farsi eleggere capobattaglione della guardia nazionale di Aiaccio. Nell'aprile 1792 fece fuoco, nella sua città, sulla folla avversa alla costituzione civile del clero e rispose al pubblico sdegno occupando militarmente i dintorni della cittadella, anzi cercando persino di subornare le truppe francesi, che avevano assistito inetti alla scena. Accusato di aver voluto proclamare l'indipendenza dell'isola, si munì di certificati di civismo e accorse a Parigi, dove vide le tragiche giornate del 20 giugno e del 10 agosto che segnarono la fine della monarchia. Con l'appoggio dei deputati còrsi riuscì a far dimenticare il suo caso, e nel luglio fu promosso capitano. Ma si procurò ancora una licenza. La guerra, ch'era incominciata il 20 aprile, non lo interessava se non in quanto poteva favorire le sue ambizioni sulla Corsica. Nell'ottobre 1792 era di nuovo ad Aiaccio. Nel febbraio 1793, avvenne la spedizione contro l'isola della Maddalena, che avrebbe dovuto servire di base alla conquista della Sardegna, ma il tentativo, disapprovato da Pasquale Paoli, fallì miseramente. Il Bonaparte, che vi aveva condotto il suo battaglione di guardie nazionali, vide fuggire i proprî militi, perdette tutte le artiglierie e corse poi il rischio d'essere ucciso. Così incominciavano le sue imprese belliche. Tornò ad Aiaccio con la rabbia nel cuore.
Dopo l'uccisione di Luigi XVI, il Paoli andava visibilmente allontanandosi dalla Franeia o, meglio, dai giacobini che la tiranneggiavano. Il 2 aprile 1793 Luciano Bonaparte lo accusò presso il Comitato di salute pubblica, il quale ne dispose quindi l'arresto. Ma tutta l'isola insorse a difesa del suo eroe. I Bonaparte, schieratisi con la Convenzione, furono banditi dalla Consulta di Corte, onde dovettero darsi alla fuga e poterono a stento salvarsi a Tolone e poi a Marsiglia (maggio 1793)
L'anno seguente la Corsica si costituiva in regno sottoponendosi alla sovranità del re Giorgio d'Inghilterra.
Staccatosi così dalla sua patria, il Bonaparte si trovava ora, solo, nel turbine della rivoluzione. Di questa egli disprezzava gli autori e i capi, ma più lo sfacelo si approfondiva nella Francia e l'orizzonte guerresco si allargava da tutte le parti, più numerose e più vaste sentiva confusamente aprirglisi le vie dell'avvenire. Da allora la sua personale grandezza divenne il suo unico scopo, l'unico oggetto dei suoi pensieri e del suo entusiasmo. Destinato a Nizza e poi ad Avignone e addetto a umili uffĭci, compose il dialogo intitolato: Souper de Beaucaire, in cui cercava di dimostrare che l'insurrezione dei dipartimenti era senza speranza perché non aveva l'intima forza di quella della Vandea. Era l'apologia del governo dei giacobini, ma un'apologia ragionata come di chi giudica dall'alto, fuori della tormenta. È probabile ch'egli mirasse non tanto a convincere gl'insorti, quanto a farsi merito presso la Convenzione. In quel tempo era incominciato il blocco di Tolone. Il Bonaparte, recatosi al quartier generale per far visita al suo compatriotta e protettore C. Saliceti, ricevette l'incarico di sostituire nel comando dell'artiglieria il capo-battaglione Donmartin, mortalmente ferito, e di lì a poco fu nominato capo-battaglione egli stesso (19 ottobre 1793). Così si trovò per caso ad avere per la prima volta un importante posto di azione. Suo fu il consiglio di attaccare l'Aiguillette per prendere la rada e costringere quindi la piazza alla resa, come avvenne infatti il 18 dicembre; ma, nel tumulto guerresco di quell'anno, il suo merito, ingrandito molto in seguito, rimase quasi ignorato, e forse gli stessi commissarî C. Saliceti e A. Robespierre lo fecero promuovere, subito dopo, generale di brigata più per le sue manifestazioni giacobine che per la sicurezza del colpo d'occhio e lo spirito d'iniziativa di cui aveva dato innegabile prova nel vittorioso attacco. Comunque, fu quello il primo raggio di gloria sulla sua carriera militare. Nel marzo 1794 assunse il comando dell'artiglieria dell'esercito d'Italia, ch'era comandato da P. Jadar Dumerbion, e a Saorgio e sul Roia, contro gli Austro-Sardi, fece la sua prima comparsa nella guerra europea. Erano con lui A. Robespierre, il Saliceti e J.-F. Ricord.
Il Dumerbion voleva agire con metodo e con prudenza: i commissari e il Bonaparte consigliavano l'offensiva pronta ed energica. La caduta dei giacobini, nelle giornate di termidoro, arrestò le operazioni belliche su tutte le fronti. Il Bonaparte aveva compiuto, tra il 15 e il 21 luglio, una missione a Genova, apparentemente per tenere in rispetto quell'aristocrazia, in realtà per spiare i luoghi e per fare un'inchiesta sul Tilly, che ivi rappresentava la repubblica francese. Il 9 agosto, sospettato per la sua amicizia con A. Robespierre, fu tratto in arresto a Nizza e rinchiuso nel forte Carré presso Antibo. Riebbe la libertà il 20 e, restituito al suo comando, contribuì alla vittoria di Dego (21 settembre); ma la grande offensiva da lui agognata non avvenne e subito tutto ricadde nell'abituale inerzia. Nel marzo 1795 avrebbe dovuto partecipare a un colpo di mano sulla Corsica, ma l'impresa andò in fumo in seguito alla sconfitta dell'ammiraglio P. Martin al capo di Noli. Nell'aprile, poiché tutti gli ufficiali dell'esercito d'Italia erano più o meno sospetti di giacobinismo, fu richiamato a Parigi e destinato alla Vandea. Rifiutò di andare. Si considerava quasi soldato straniero al servizio francese, ed era ben risoluto a non compromettere per l'altrui capriccio la propria fortuna. In Italia egli voleva agire. Conosceva tutti i sentieri delle Alpi marittime ed era convinto che un'azione energica avrebbe gettato lo scompiglio negli eserciti austro-sardi e aperto immediatamente la penisola alla conquista repubblicana. Egli possedeva quest 'energia.
Radiato dai quadri, frequenta quindi i ritrovi eleganti di termidoro, si fa amici il Barras e il Carnot, s'insinua nel Ministero della guerra e nel Comitato di salute pubblica, assale successivamente tutti i capi della Convenzione e non si stanca di proporre e riproporre i suoi piani offensivi. Dopo le paci di Basilea (aprile 1798), non restavano in armi che l'Inghilterra, l'Austria e i loro piccoli satelliti. Bisognava assalire i Sardi e gli Austriaci al loro punto di collegamento, allontanare questi ultimi verso est, battere completamente i primi, invadere la Lombardia e penetrare poi per il Tirolo nella Germania. Sogni di giovinezza. Tuttavia istruzioni in questo senso furono mandate al generale B.-L.-J. Schérer, nuovo comandante dell'esercito d'Italia, e condussero alla vittoria di Loano (24 novembre 1795). Ma non fu altro. A un certo momento N. si lascia sedurre dall'idea dell'Oriente e sembra sul punto di accettare un posto a Costantinopoli come organizzatore dell'esercito turco. "Il ne se fait rien de grand que dans l'Orient". Ma il 13 vendemmiaio assume, per incarico del Barras, la difesa della Convenzione e, con la stessa risolutezza che aveva dimostrata una volta ad Aiaccio, disperde i realisti col fuoco delle sue artiglierie. Il 26 ottobre 1795 ha quindi il comando dell'esercito dell'interno, e da allora il suo nome esotico incomincia a correre sulle bocche dei parigini meravigliati. È la fortuna che viene, è la creola Giuseppina Tascher de la Pagerie, giovine vedova del gen. A. de Beauharnais, amica del Barras, che diventerà sua moglie il 9 marzo 1796 e gli porterà, dono di nozze, il comando dell'esercito d'Italia.
Giunse al quartier generale di Nizza il 26 marzo. Partendo, aveva detto al Carnot, il quale al pari dei suoi colleghi del direttorio considerava l'Italia come una terra da saccheggiare e da mercanteggiare: "Soyez tranquille: je suis sûr de mon affaire". Come poi sempre, calcolava, più che sulle sue proprie forze, sulle debolezze degli avversarî. Non aveva ancora 27 anni. Magro e piccolo della persona, sebbene largo di spalle e rotto alla fatica, aveva testa forte e angolosa, colorito pallido, capelli neri e lisci spioventi sulla fronte, labbra sottili, occhi grigi vivi e penetranti. Dai lineamenti romani, dai moti rotti e imperiosi già traluceva il prepotente ingegno e la sconfinata ambizione. Ricevuto con freddezza, mostrò subito, dice il Botta, "quanto fosse nato per comandare", poiché, sbandita la familiarità repubblicana, introdusse nel suo accampamento più rigide forme gerarchiche, onde parve "non più il primo fra gli eguali, ma il superiore fra gl'inferiori". Dopo una settimana, tutto prese un aspetto nuovo. Strappati gli ufficiali, gl'impiegati e i soldati alla loro noia e alle loro rapine, fatti venire quanti più uomini poté dalle vicine guarnigioni e sostituitili con guardie nazionali, provvide alle sussistenze, al vestiario e alle armi e, rialzato così lo spirito delle truppe, incitò tutti a conquistarsi arditamente, nelle ricche provincie e nelle grandi città dell'Italia, le cose di cui abbisognavano ancora. Guerra di rapina. Le forze di cui disponeva erano un po' inferiori, per numero e per artiglierie, a quelle degli Austro-sardi, ma costituivano una solida unità animata da un volere imperioso. Gli avversarî invece, guidati da uomini alieni per temperamento e per età da qualsiasi gesto temerario, erano inoltre divisi da sospetti e da rancori profondi.
L'offensiva incominciò il 9 aprile. Il 14, dopo le battaglie di Montenotte (v.), di Millesimo e di Dego, gli Austro-sardi sono separati. Il 17 i Francesi arrivano sulle alture di Montezemolo, donde l'occhio si allarga sull'ubertosa pianura piemontese: "Annibal a passé les Alpes: nous les avons tournées". Mentre J.-P. Beaulieu si allontana verso il Po, egli si avventa contro M. Colli e lo costringe a ritirarsi prima a Brichetto presso Mondovì, poi a Fossano sulla Stura (23 aprile). La strada di Torino sembra ormai aperta; ma, poiché non è da escludere un'improvvisa disperata resistenza e possono intanto ricomparire gli Austriaci, si accorda con pochi patriotti e, per spaventare Vittorio Amedeo III con la minaccia della rivoluzione, crea una repubblica in Alba. Allora, la sera del 27, arrivano a Cherasco due commissarî del re. Egli sa come si parla alle truppe, ma sa anche come si tratta con gentiluomini che vengono a segnare una capitolazione. Rude dapprima e imperioso, non però arrogante o offensivo, diventa a poco a poco bonario e quasi arrendevole. "La conversation avec lui", dirà più tardi il Metternich, "a touiours eu pour moi un charme difficile à définir". In poche ore, la mattina del 28 aprile, l'armistizio è conchiuso, e la Francia acquista, insieme con Nizza e Savoia, l'uso del Piemonte per le sue operazioni militari contro gli Austriaci.
Il 7 maggio, ingannato abilmente il Beaulieu, attraversa il Po sopra Piacenza, e poi respinge il nemico a Fombio (8 maggio), forza - "petit caporal" - il passo dell'Adda a Lodi (10 maggio), entra liberatore in Milano (14 maggio). "Je voyais le monde fuir sous moi comme si j'étais emporté dans les airs". È l'ebbrezza della gloria finalmente arrivata! Il Beaulieu, battuto di nuovo a Borghetto (30 maggio), si rinchiude in Mantova, ed egli allora, per assediare quella fortezza, viola, senz'alcun riguardo, la neutralità di Venezia e occupa Verona e Peschiera. Incapace di obbedire e sprezzante inoltre degli uomini da lui salvati il 13 vendemmiaio, aveva condotto a suo modo la guerra in Piemonte e arbitrariamente aveva conchiuso l'armistizio di Cherasco. Alla vigilia del suo ingresso in Milano, invitato a lasciare il comando a F.-Chr. Kellermann e a recarsi nell'Italia centrale e meridionale per una grande "razzia", offrì le sue dimissioni e, non avendole il direttorio accettate, si ritenne da allora militarmente e politicamente libero da qualsiasi vincolo che potesse limitare la sua iniziativa, onde da capo di eserciti si trasformò, come Annibale e Cesare, in dittatore e sovrano. La natura lo aveva infatti creato per il trono. Mentre teneva d'occhio l'Austria, trattava, in vario modo, con Venezia, con Genova e con Napoli, a cui concedeva una tregua (5 giugno); poi, iniziata appena l'organizzazione democratica della Lombardia, occupava le Legazioni pontificie e obbligava Pio VI, dopo i duchi di Parma e di Modena (9-20 maggio), a sottoscrivere in Bologna, a durissimi patti, un armistizio (23 giugno). Il 30 giugno era a Firenze, ospite del granduca. E già da ogni parte lunghi convogli trasportavano a Parigi le opere d'arte e di antichità, le vettovaglie e il danaro dell'Italia.
Alla fine di luglio questa vertiginosa potenza parve priva di base. L'Austria mandava un forte esercito sotto il vecchio maresciallo D.G. von Wurmser, il quale doveva liberare Mantova mentre i suoi luogotenenti, per la valle del Chiese, sarebbero piombati su Brescia e avrebbero tagliato la via di Milano. Le non lontane sollevazioni di Binasco e di Pavia (21-25 maggio) lasciavano intendere che cosa sarebbe successo alla prima sconfitta. Il Bonaparte ebbe un attimo d'incertezza e quasi di smarrimento: poi, abbandonato l'assedio di Mantova, dove entrò quindi senza difficoltà il Wurmser (30 luglio), passò con tutte le sue forze sulla destra del Mincio e il 3 agosto a Lonato, il 5 a Castiglione sconfisse l'un dopo l'altro i due corpi nemici obbligandoli a cercare salvezza nelle montagne poc'anzi discese con tanta baldanza. Tornarono all'offensiva in settembre. Dopo la giornata di Rovereto (5 settembre), il Bonaparte penetra allora nel Trentino, passa audacemente in valle di Brenta, e in una vera caccia all'uomo, rapida e impetuosa, batte le truppe del Wurmser a Primolano (7 settembre), le disperde a Bassano (8 settembre), le insegue sino a S. Giorgio (15 settembre) presso Mantova, loro estremo rifugio: campagna mirabile fra tutte le napoleoniche, in cui le risorse inesauribili dell'intelligenza, sempre lucida nel continuo mutarsi delle circostanze, somigliano alle ispirazioni del poeta. Dopo il Wurmser è la volta di J. von Alvinczy. Le vittorie d'Arcole (17 settembre) e di Rivoli (14 gennaio 1797), anche per contrasto con le sconfitte che intanto i Francesi subiscono in Germania, riempiono di stupore l'Europa. Il 16 gennaio il Wurmser esce da Mantova ed è battuto, insieme con G. Provera, alla Favorita: preludio della resa della fortezza, che avverrà infatti il 2 febbraio. Ma il Bonaparte non attende l'evento, e marcia invece contro il papa, che, fiducioso nella vittoria dell'Austria, non ha ancora eseguito i patti dell'armistizio, ne disperde le truppe raccogliticce a Castelbolognese (2 febbraio), e, col trattato di Tolentino (19 febbraio), lo obbliga, pure protestando il massimo rispetto alla religione e ai sacerdoti, a rinunziare definitivamente ad Avignone, al Contado Venassino, alle Legazioni di Bologna, di Ferrara e di Romagna, a permettere l'occupazione provvisoria di Ancona a cedere molte opere d'arte e a versare nuove somme, oltre quelle già pattuite a Bologna. Poi ritorna, instancabile, nell'Italia settentrionale e, mentre tiene a bada Venezia e si allea col re di Sardegna, prepara la nuova campagna, questa volta contro l'arciduca Carlo. Il 12 marzo attraversa il Piave, poi, quasi senza difficoltà, il Tagliamento e l'Isonzo: il 21 marzo è a Gorizia, donde, dopo la vittoria di A. Masséna a Tarvisio (24 marzo), avanza sino a Villaco (25 marzo) e a Klagenfurth (30 marzo). Questa marcia forzata contro un nemico che sempre si ritira non è senza pericoli: la terraferma veneta è tutta in fermento, né l'Austria ha esaurito le sue riserve. Allora - offensiva pacifica - scrive all'arciduca e, con grande sfoggio di sentimenti umanitarî, lo invita ad accordarsi con lui per porre fine alla guerra (31 marzo). Il 7 è a Leoben. Il 18, dopo lunghe e spesso tumultuose trattative, sono firmati i celebri preliminari che, per articoli segreti, dànno all'Austria, in cambio del Belgio e della Lombardia, quasi tutte le terre di Venezia. Le Pasque veronesi offrono poi il pretesto d'intervenire contro Venezia. Il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio decreta la fine della vecchia oligarchia: la nuova repubblica democratica, ridotta di fatto alle sole lagune, occupate anch'esse dai Francesi, non è che una pietosa baraonda destinata alla delusione di Campoformio.
Cherasco, Tolentino, Leoben! Il 31 maggio anche Genova è costretta a democratizzarsi. Nel luglio la Repubblica Cispadana, costituitasi nell'ottobre 1796, si unisce con la Lombardia e forma la Cisalpina, a cui, nell'ottobre, saranno aggregate la Valtellina, Bormio e Chiavenna, già possesso dei Grigioni. Da Mombello presso Milano, dove lo ha raggiunto Giuseppina, il Bonaparte, tra splendide feste, circondato da una folla di diplomatici, di statisti, di generali, di scrittori e di poeti che lo celebrano salvatore provvidenziale d'Italia, regna e governa. Poiché Roma, Napoli e Sardegna sono ai suoi piedi, e le repubbliche ch'egli ha create e che ha organizzate con la costituzione francese dell'anno III, non sono indipendenti che di nome. E osserva gli avvenimenti di Parigi. Non ama i repubblicani, ma la repubblica gli è necessaria per salire; onde appoggia coi suoi proclami e poi con l'invio di P.-F-Ch. Augereau il colpo di stato del 18 fruttidoro. Né ciò gl'impedisce di ribellarsi al nuovo governo, come già all'antico, nelle trattative di pace che intanto continuano con l'Austria a Mombello e a Passeriano. Il 17 ottobre il trattato di Campoformio consacra e perfeziona quello di Leoben. La repubblica democratica veneta passa anch'essa in potere dell'Austria, la quale acquista quindi tutti i dominî di S. Marco, tranne Bergamo, Brescia e Crema che vanno alla Cisalpina e le Isole Ionie che rimangono alla Francia. Questa conserva il Belgio, già annesso dalla Convenzione il 1° ottobre 1795, e, subordinatamente al consenso, che sarà negoziato a Rastadt, del Corpo germanico, la sinistra del Reno. Era l'agonia del Sacro romano impero. Il Direttorio non osò negare la sua ratifica a un atto che portava finalmente la pace, e la pace coi confini naturali; ma in realtà quella pace era un salto nel buio. Se l'Inghilterra non poteva permettere ai Francesi di rimanere ad Anversa, tanto meno poteva consentire loro l'Europa di dominare a Genova e a Milano, ad Ancona e a Corfù, sulle vie dell'Oriente. Il Mediterraneo preparava la monarchia universale: Campoformio, "paix à la Bonaparte", come scrisse allora il Talleyrand, aveva in sé il germe dell'avventura di Russia.
Lasciò Milano il 16 novembre 1797 e, dopo una breve comparsa a Rastadt, dove avrebbe dovuto presiedere la delegazione francese, fece ritorno a Parigi. Nominato comandante dell'esercito d'Inghilterra, pensa, anziché a rinnovare il tentativo di L. Hoche (dicembre 1796-gennaio 1797), a recarsi in Egitto, e ne parla coi suoi dotti colleghi dell'Istituto, quasi d'una spedizione scientifica. Tra le carte del comitato non manca il piano dello smembramento della Turchia e della conquista dell'India, ma egli, in fondo, mira soprattutto a procurarsi, dopo quello d'Italia, un altro proconsolato in Oriente. Il resto dipenderà dalle circostanze. "J'ai goûté du commandement et je ne puis plus y renoncer": cosi aveva detto in Mombello ad A.-F. Miot. Il 19 maggio 1798 "l'aile gauche de l'armée d'Angleterre" fornita dei tesori di Roma e di Berna democratizzate (febbraio-marzo 1798), parte avventurosamente da Tolone portando seco tutti i giovani ufficiali dell'esercito d'Italia e, con loro, un'intera colonia di scienziati, di finanzieri, di medici e di artisti. Né vi manca un poeta. Il 10 giugno il Bonaparte occupa Malta; il 2 luglio sbarca ad Alessandria, annunziando agli Egiziani che ha abbattuto il papa e i cavalieri perché nemici del Profeta e del Corano. Il 20 vince i Mamelucchi alle Piramidi, ma, il 1° agosto, la sua flotta è distrutta dal Nelson ad Abukir, e, subito dopo, la Turchia dichiara la guerra alla Francia. Immenso è il pericolo: il 21 ottobre bisogna reprimere esemplarmente una rivolta al Cairo. Ma le imprese che sorpassano l'immaginazione lo stimolano e lo seducono. Organizza l'Egitto e cerca di risollevarlo aprendo scuole, ordinando pubblici lavori, risuscitando antiche feste. Poi, nel gennaio 1799, penetra con poco più di 13 mila uomini nella Siria. Battuti i Turchi, si getterà sulle vie di Alessandro Magno verso la Persia e l'India, o farà ritorno a Parigi per Costantinopoli e Vienna? Più tardì si attribuì queste intenzioni. Il 16 aprile, vincitore a el-Arīsh, a Gaza, a Giaffa, a Tiberiade, a Nazareth, trionfa al Monte Tabor, ma la resistenza di S. Giovanni d'Acri e la peste che fa strage tra le sue truppe lo costringono a tornare in Egitto (20 maggio). ll 25 luglio distrugge ad Abukir un nuovo esercito turco venuto da Rodi; poi, avuta notizia delle vittorie della seconda coalizione in Italia e della condotta più che leggiera di Giuseppina, affida il comando a J.-B. Kléber e, sfuggendo miracolosamente alla crociera inglese, approda improvviso, il 9 ottobre 1799, al capo Fréjus.
Tornava dal suo secondo proconsolato d'autorità propria, come un sovrano. Nessuno osò rimproverarglielo, onde si può dire che da allora veramente ebbe principio la sua dittatura in Francia. Durante la sua assenza era stata democratizzata tutta l'Italia, ma, subito dopo, la seconda coalizione, alla quale diede colore e calore la diretta partecipazione della Russia, sospettosa della politica francese in Oriente, era riuscita, con l'opera dei suoi eserciti e delle popolazioni insorte, a riconquistare da un capo all'altro la penisola, tranne Genova e la Riviera, e chi sa dove sarebbe arrivata se non si fosse presto, come succede, divisa. Mentre questi disastri seguivano al di fuori, continuava all'interno la decomposizione dei partiti, onde il direttorio viveva a furia di colpi di stato, e un altro anzi stava preparandone proprio allora, dopo quello recente del 19 giugno. Il Bonaparte, giunto appena a Parigi, decise quindi di secondare, nel proprio interesse, i disegni dei direttori Sieyès, Barras e P.-R. Ducos e di suo fratello Luciano, presidente del Consiglio dei cinquecento, e, congiurando con loro quasi all'aperto, si assicurò l'appoggio di molti capi militari della metropoli. La giovine Francia delle trincee stava per prendere il posto della già vecchia Francia delle assemblee rivoluzionarie.
Il 18 brumaio (9 novembre 1799) il Consiglio degli anziani, col pretesto di una congiura antirepubblicana, affida il comando dell'esercito di Parigi all'uomo del 13 vendemmiaio e trasferisce i Consigli a Saint-Cloud. Il dì seguente il Bonaparte si presenta ai Cinquecento. Accolto al grido di: "abbasso il tiranno", riesce appena a rifugiarsi, smarrito e pallido, tra i suoi granatieri; ma Luciano, con la sua presenza di spirito, salva quel giorno la situazione. Le truppe, da lui invitate a liberare la maggioranza da un pugno di traditori al servizio dell'Inghilterra, penetrano nella sala e vi si accampano mentre i deputati si disperdono in fretta da tutte le parti. I pochi rappresentanti rimasti votano, verso sera, un decreto, sanzionato poi dagli Anziani, che abolisce il direttorio e nomina il Bonaparte, E.-J. Sieyès e P.-R. Ducos consoli provvisorî, rivestiti di tutta la potestà esecutiva, con l'incarico di redigere una nuova costituzione.
Questa fu elaborata dal Sieyès sul principio che il "potere viene dall'alto e la fiducia dal basso": fu promulgata con profonde modificazioni, imposte dal Bonaparte all'ordinamento del potere esecutivo, il 13 febbraio e approvata infine dal plebiscito il 7 febbraio 1800. La fiducia del popolo si esplicava, oltre che nel plebiscito, nella formazione delle liste di notabilità, dalle quali sole dovevano trarsi tutti i pubblici funzionarî. Per la prima volta la scelta delle persone fu opera degli uomini che avevano fatto il 18 brumaio. A primo console fu designato, naturalmente, il Bonaparte: a consoli aggiunti J.-J. de Cambacérès e Ch.-Fr. Lebrun. Il Sieyès e il Ducos, nominati senatori, si scelsero, d'accordo coi consoli aggiunti, 29 colleghi e tutti insieme ne nominarono altri 29. Così si ebbe il senato, di cui primo presidente fu il Sieyès. Questa costituzione, detta dell'anno VIII, delegava al capo dello stato, sotto forme repubblicane, l'autorità dittatoriale.
Il Còrso aveva conquistato la rivoluzione. Egli l'avrebbe codificata ora e disciplinata da soldato. Ma prima bisognava occuparsi dell'Europa. Il 19 brumaio, tornando da Saint-Cloud, s'era sentito salutare per le vie di Parigi col grido di: "Viva la pace!". Il paese attendeva dunque da lui una nuova Campoformio. Le operazioni militari, precedute, com'è l'uso, da un'offensiva pacifica, incominciarono, nella primavera del 1800, nella Riviera Ligure. Nel maggio il Bonaparte stesso, mentre il Masséna resisteva in Genova, attraversò il Gran S. Bernardo e, superato l'ostacolo del forte di Bard, si spinse rapidamente, per Milano, sulle retrovie del nemico, tra Stradella e Alessandria. Il 14 giugno M. von Melas è sconfitto a Marengo (v.) e, il 16, capitola ad Alessandria abbandonando tutte le conquiste austro-russe del 1799. Marengo consacrava il 18 brumaio. La campagna non era stata senza pericolosi "attriti", come dicono i militari, ma il Bonaparte era riuscito a fare tutto concorrere alla sua vittoria. E questa volle poi sfruttare sino all'estremo presso i Francesi, onde alle cose vere molte altre si compiacque aggiungerne, esagerate o inventate, nelle sue narrazioni, per colpire maggiormente le fantasie. Più tardi, al Metternich, che si meravigliava dell'abituale falsità dei suoi bollettini, ebbe a dire: "Ce n'est pas pour vous que je les écris. Les Parisiens croient tout...". L'Austria tornò alle offese nell'autunno. Dopo la battaglia di Hohenlinden (3 dicembre), vinta da J.-V. Moreau, la pace di Lunéville (9 febbraio 1801), rinnovando e sviluppando i patti di Campoformio, lasciò la Francia arbitra della penisola sino alla linea dell'Adige. Il Bonaparte trasformò quindi la Cisalpina in Repubblica italiana e se ne fece presidente (Consulta di Lione, gennaio 1802); diede al Borbone di Parma, per compiacere la Spagna alleata, il granducato di Toscana col titolo di re di Etruria (Trattato di Aranjuez, 25 marzo 1801); riunì alla Francia il Piemonte sino alla Sesia (11 settembre 1802), l'Elba e Piombino (marzo 1801), Parma e Piacenza (formalmente solo nel 1807); lasciò, a duri patti (Pace di Firenze, 28 marzo 1801), Ferdinando IV a Napoli; non diede molestia a Pio VII.
Intanto si pacificavano la Russia (8 ottobre 1801) e la Turchia (25 gennaio 1802), la quale riebbe l'Egitto; e finalmente, il 25 marzo 1802, firmò la pace ad Amiens anche l'Inghilterra, obbligandosi a restituire ai Cavalieri l'isola di Malta, da lui occupata nel settembre 1800. Così, nella primavera del 1802, poteva sembrare finita, dopo dieci anni, la guerra, ma in realtà si trattava di una breve tregua, necessaria a tutti per prendere respiro.
Alla pace esterna si accompagnò, ben altrimenti duratura, quella interna, a cui il Bonaparte aveva incominciato a lavorare subito dopo brumaio. Ristabilito l'ordine dappertutto con la repressione dei moti realisti della Bretagna e della Vandea e con la liberazione delle campagne dai briganti che avevano preso a infestarle durante i passati rivolgimenti, soppresse la festa odiosa del 21 gennaio; riammise in patria parecchi terroristi deportati dopo il 1794, e inoltre la maggior parte degli emigrati, ai quali restituì le terre invendute; schiuse a tutti, poiché "avec ces hochets tant dédaignés on fait des héros" un nuovo libro d'oro con la fondazione dell'ordine della Legion d'onore; intraprese grandi lavori pubblici (strade del Moncenisio, del Monginevro, del Sempione, ecc.); diede potente impulso alle industrie, pure mettendo al primo posto l'agricoltura; stabilizzò la moneta; istituì la Banca di Francia (18 gennaio 1800), con cui ebbe in mano tutto il mondo finanziario e poté meglio vigilare sul credito della nazione. Non possedeva grande cultura e, in questi tempi, ignorava quasi la storia della Francia, ma molto aveva osservato e meditato in Corsica, in Italia e in Egitto. E amava il lavoro come la lotta. La sua parola, senza cercare mai l'eleganza, era sempre precisa e originale. Dotato d'incredibile forza d'assimilazione, domandava continuamente, provocava discussioni e le protraeva finché il suo giudizio non fosse formato. Allora decideva e comandava. Egli è diventato legislatore e amministratore, come grande capitano, dice ancora il Metternich, "par suite de son seul instinct". Tutte le conquiste essenziali della rivoluzione furono riconosciute e consolidate. La proprietà, com'esisteva allora, fu garantita, l'accesso ai più alti uffici aperto a tutti, ogni privilegio di nascita rimase abolito. L'unità della Francia era compiuta nell'uguaglianza della rivoluzione. Introdusse nel Consiglio di stato le maggiori competenze e volle da tutti onestà, operosità e sottomissione assoluta. A ogni dipartimento prepose un prefetto incaricato del potere esecutivo, a ogni circondario un sottoprefetto e a ogni comune un sindaco, tutti nominati da lui e scelti nelle rispettive liste di notabilità tra le persone più capaci (febbraio 1800), onde l'amministrazione napoleonica fu ed è universalmente ammirata. Modificò inoltre l'ordinamento giudiziario (maggio 1800) istituendo un tribunale di prima istanza in ciascun circondario, una Corte d'assise in ogni dipartimento, 29 Corti di appello e una suprema di cassazione, con magistrati tutti di nomina governativa. Il medesimo sistema accentratore introdusse nelle finanze abolendo gli appaltatori e fondando esattorie governative. Nessuna manifestazione della vita nazionale doveva sfuggire al suo controllo e alla sua guida. Così anche la scuola ebbe le sue cure, non però quella elementare, ma la media, cioè la scuola della borghesia, e, affinché sorgesse una generazione colta e, insieme, educata secondo lo spirito del regime, sorvegliò i maestri e soppresse la libertà della stampa.
L'opera sua più imponente è il codice civile 21 marzo 1804), al quale lavorò di persona assistendo alle sedute della commissione che lo redigeva, protratta non di rado anche la notte. I materiali erano già stati raccolti dalla Convenzione, ma il Bonaparte li animò del suo spirito di soldato appassionato d'ordine, di autorità e di unità, li ricongiunse cioè alla storia secolare della Francia monarchica. Il codice civile, e poi quello di procedura civile (1° gennaio 1807), quello di commercio (10 gennaio 1808) e quelli penale e di procedura penale (1° gennaio 1811) furono introdotti anche in Italia e, usciti com'erano dal comune pensiero del secolo XVIII, vi esercitarono un'azione che sopravvisse all'impero napoleonico. Naturalmente, non fu trascurato il problema religioso. Il Bonaparte credeva in Dio e non era insensibile alle tradizioni di famiglia e alle memorie dell'infanzia, ma non per questo, bensì per motivì d'ordine politico e sociale, ristabilì ufficialmente in Francia il cattolicismo come religione della maggioranza dei cittadini. Il Concordato (16 luglio 1801), che rimase poi in vigore sino al 1905, rispondeva alla generale rinascita religiosa del paese ed era inoltre molto favorevole allo stato, ma il Bonaparte, non ancora soddisfatto, vi aggiunse gli articoli organici, ispirati alle idee gallicane e giurisdizionaliste, i quali stabilivano che nessun atto della curia si potesse eseguire in Francia e nessun funzionario pontificio potesse esercitarvi le sue funzioni senza il permesso del governo; che i vescovi non si potessero allontanare dalle loro diocesi; che nei seminarî s'insegnassero le proposizioni gallicane del 1682; che il matrimonio religioso dovesse seguire, non precedere, quello civile. Gli articoli non furono riconosciuti da Pio VII, ma il Bonaparte non se ne diede per inteso. Egli favoriva il sentimento religioso e i ministri del culto, ma voleva che la Chiesa cattolica, come quella protestante, come la Sinagoga, fosse, in sostanza, al suo servizio.
Pacificatore all'esterno e all'interno, nessuna dittatura era mai apparsa così legittima come la sua; ma tuttavia i partiti estremi lo detestavano. Quello repubblicano fu da lui schiantato dopo la congiura dei còrsi Giuseppe Arena e Giuseppe Ceracchi, e lo scoppio della macchina infernale in via Richelieu (24 dicembre 1800). Più indulgente si mostrò coi realisti, che avrebbe voluto guadagnare tutti al nuovo regime. Nel maggio 1802 si fece conferire il consolato a vita con facoltà di scegliersi un successore, e allora fu modificata la costituzione in senso monarchico: alle liste di notabilità si sostituirono collegi elettorali nominati a vita dai cittadini, si eliminarono dal corpo legislativo e dal tribunato, ridotto a 50 membri, gli avversarî e i tiepidi, si accrebbe l'autorità del senato, si costituì un Consiglio privato simile a un Consiglio della corona. I realisti, che avevano sperato nella restaurazione di Luigi XVIII, s'inasprirono ancora più. Dopo la congiura degli Chouans, che condusse al suicidio di Ch. Pichegru, all'esilio del Moreau, all'uccisione di G. Cadoudal e all'assassinio del duca di Enghien (20 marzo 1804), avvenne il nuovo definitivo mutamento. Il senato, associandosi al voto del tribunato, deliberò di affidare il governo della repubblica a N. Bonaparte col titolo d'imperatore dei Francesi (18 maggio 1804), e il senatoconsulto che modificava la costituzione fu approvato da un solenne unanime plebiscito. L'imperatore della repubblica, per una generazione nutrita di storia romana, era tutt'altra cosa che un re di Francia. La corona fu dichiarata trasmissibile, secondo la legge salica, nei discendenti di N. e nei suoi figli adottivi o, in mancanza di questi, negli eredi dei due suoi fratelli Giuseppe e Luigi, che, al pari degli altri due e delle sorelle, ebbero titolo principesco e cospicue dotazioni. Per accrescere lustro al novello trono furono poi istituiti, con nomi tolti ai tempi di Carlomagno e degl'imperatori medievali tedeschi, sei grandi dignitarî e varî supremi ufficiali civili e militari, e, più tardi, non solo fu restaurata l'antica nobiltà, ma se ne fondò una nuova di cui i titolari, principi e duchi, portavano il nome di una vittoria o di una conquista napoleonica (Lodi, Castiglione, Rivoli, Wagram, Benevento, ecc.). Al senato fu attribuita l'autorità costituente; il tribunato e il corpo legislativo perdettero ogni importanza e il primo anzi fu soppresso nel 1807; il Consiglio di stato divenne l'organo diretto dell'imperatore per la redazione dei disegni di legge da lui voluti. Ormai non più corpi intermedî tra il popolo e il capo dello stato, non assemblee sovrane, non antichi parlamenti, ma un'amministrazione e degli amministrati. Il paese ne fu allora soddisfatto: il ricordo doloroso della recente tirannide anarchica, la gioia dell'assicurata uguaglianza e l'orgoglio delle conseguite vittorie facevano sì che esso, dopo avere tanto legiferato, fosse riconoscente a chi lo dispensava dall'occuparsi ancora di pubblici affari.
Il 2 dicembre 1804, alla presenza di Pio VII, in Notre-Dame, N. assunse da sé la corona: il giorno innanzi aveva acconsentito che il rito della Chiesa riconoscesse segretamente il suo matrimonio civile con Giuseppina. Il 26 maggio 1805 fu consacrato, nel duomo di Milano, re d'Italia; e poi riunì Genova all'impero (4 giugno 1805) e trasformò la repubblica di Lucca in principato per sua sorella Elisa, moglie di Felice Baciocchi.
Sino dal febbraio 1803, con l'Atto di mediazione, s'era asservita la Svizzera, dalla quale aveva quindi ottenuto il Vallese. Contemporaneamente, dovendosi risarcire i principi tedeschi per i territorî perduti sulla sinistra renana, di cui l'annessione alla Francia era stata riconosciuta a Lunéville, aveva preso egli stesso l'iniziativa di confiscare le terre ecclesiastiche della Germania e di darle, insieme con molte città libere, ai principi stessi per farseli complici e quindi alleati. Tutti tesero le mani per la grande rapina, che fu tosto sanzionata dalla dieta di Ratisbona (25 febbraio 1803). Allora l'Inghilterra, che non aveva mai restituito Malta ai Cavalieri vedendo anche di malocchio la nuova fervida attività che la Francia spiegava nelle colonie e nei mercati internazionali, ruppe la pace di Amiens (maggio 1803). Il Bonaparte, per rappresaglia, occupò quindi il Hannover, possesso personale del re Giorgio III, e raccolse numerose truppe a Boulogne per invadere, se la possibilità si presentasse, le Isole Britanniche; ma, nel pericolo, la diplomazia inglese riuscì a formare, con Austria, Russia, Svezia e Napoli, la terza coalizione. N. porta rapidamente il suo esercito dalle coste della Manica al Danubio, e a Ulma in Baviera, che gli è alleata, costringe K. Mack a capitolare con 45 mila uomini e 200 cannoni (19 ottobre 1805). Il 13 novembre entra in Vienna. Il 2 dicembre, anniversario della cerimonia di Notre-Dame, vince gli Austro-russi ad Austerlitz. Era la consacrazione dell'impero. L'Austria, mentre i Russi si ritirano, segna quindi per suo conto la pace a Presburgo (26 dicembre 1805) con la quale cede le antiche provincie venete alla Francia, il Vorarlberg, il Tirolo, il Trentino, Passau, Lindau e Augusta all'elettore di Baviera, che riceve il titolo regio, la Svevia al duca di Württenberg pure fatto re, il Brisgau, l'Ortenau e Costanza al marchese di Baden che diviene granduca. Intanto, il 15 febbraio 1806, il Masséna entrava in Napoli, mentre i Borboni si rifugiavano per la seconda volta in Sicilia. Allora N. riordina da capo l'Italia: assegna Napoli al fratello Giuseppe, aggiunge al regno italico le nuove provincie ottenute dall'Austria, ma gli toglie il ducato di Guastalla per sua sorella Paolina, moglie del principe Camillo Borghese, e il principato di Massa e Carrara per Elisa Baciocchi, già principessa di Lucca e Piombino. Poi, volgendosi altrove, trasforma la repubblica batava in regno d'Olanda per suo fratello Luigi (giugno 1806) e crea - antico disegno del Mazzarino - la Confederazione del Reno, di cui si proclama protettore (luglio 1806). Così finiva il sacro romano impero, e Francesco II, rinunziando di mala voglia a una dignità che per tanti secoli aveva dato forza e prestigio alla sua famiglia, conservava solo il titolo d'imperatore d'Austria, assunto già nel 1804.
Questi mutamenti determinarono la quarta coalizione. La Prussia, neutrale dal 1795, era stata largamente compensata, nel 1803, della perdita delle sue terre sulla sinistra del Reno e aveva anche avuto promessa d'ulteriori guadagni nel Hannover; ma ora constatava, e non senza umiliazione, che le sconfitte dell'Austria avevano servito, nella Germania stessa, al sempre maggiore incremento della potenza francese. Il 1° ottobre 1806 Federico Guglielmo III, trascinato dal partite della guerra, intimò a N., senza neppure attendere i Russi, di ritirare le sue truppe sulla sinistra del Reno e di non opporsi a una lega della Germania settentrionale sotto la presidenza della Prussia. Il 14 ottobre l'esercito del grande Federico era disfatto a Jena e ad Auerstädt. Il 27 N. entrava in Berlino; poi, spintosi nella Polonia prussiana, occupava, il 20 dicembre, Varsavia, accolto dappertutto come liberatore. Risorgeva il regno di Giovanni Sobieski? N. lo lasciò sperare, e rievocando, come aveva fatto con gl'Italiani dieci anni prima, le grandi memorie nazionali, accese l'entusiasmo dei patrioti, di cui parecchi accorsero sotto le sue bandiere. Sicuro così alle spalle, passò la Vistola e s'inoltrò nelle immense pianure della Polonia russa. L'8 febbraio 1807, a Eylau, in una spaventosa battaglia combattuta sotto una tempesta di neve, arrestò la marcia del gen. A. di Bennigsen che dovette quindi ritirarsi, con 30 mila uomini, verso Königsberg. Seguirono alcuni mesi d'inazione. Il 14 giugno, anniversario di Marengo,i Russi furono sconfitti in decisiva battaglia a Friedland. L'8 luglio fu firmata la pace di Tilsit. Lo zar otteneva di potersi ingrandire nella Finlandia ai danni della Svezia e nei principati danubiani contro la Turchia, ma abbandonava alla Francia le Isole Ionie e Cattaro, paesi occupati dalla Russia rispettivamente nel 1799 e nel 1806, riconosceva tutti i mutamenti avvenuti o che fossero per avvenire nell'Europa occidentale, e consentiva a chiudere i suoi porti alle navi dell'Inghilterra, qualora questa si ostinasse a continuare le ostilità. Così N. aveva il continente ai suoi piedi. Federico Guglielmo III dovette pagare una grossa somma e contentarsi di riavere la Prussia, la Slesia, il Brandeburgo e la Pomerania. La Polonia prussiana, tranne Danzica proclamata città libera, formò il granducato di Varsavia, che fu dato al duca di Sassonia divenuto re; e in tal modo, per ottenere l'alleanza russa, N. deluse quasi completamente, malgrado le preghiere di Maria Walewska, le speranze dei patrioti polacchi. Finalmente i territorî sulla sinistra dell'Elba, compresa Magdeburgo, formarono, insieme con l'Assia-Cassel, con il Brunswick e con una parte del Hannover, il regno di Vestfalia di cui ebbe la corona Girolamo Bonaparte.
Sino dal 1800 N. aveva cercato di guadagnarsi l'alleanza russa contro l'Inghilterra. Ora vi era riuscito. Il 21 novembre 1806, da Berlino, aveva lanciato il famoso decreto di blocco continentale. Fallita l'impresa d'Egitto e perduta per sempre, dopo la distruzione della sua flotta e di quella spagnola a Trafalgar (21 ottobre 1805), la speranza di sbarcare un esercito nelle Isole Britanniche, la chiusura del continente, mezzo estremo di lotta già pensato anch'esso dalla Convenzione, avrebbe dovuto costringere l'Inghilterra a dichiararsi vinta e a deporre le armi. Gravi furono le conseguenze economiche del blocco, ma non meno gravi quelle politiche. Nell'agosto 1807 una flotta inglese comparve a Copenaghen e, adducendo a pretesto che la Danimarca era amica della Francia, s'impadronì di tutta l'armata e spogliò l'arsenale. Dal canto suo N., nell'ottobre del medesimo anno, invase il Portogallo, di cui una parte destinò a Maria Luisa d'Etruria, che dovette intanto abbandonare Firenze e non ebbe poi mai il nuovo stato. La Toscana, annessa all'impero, fu eretta, nel 1809, in granducato per Elisa Baciocchi. Dopo, fu la volta della Spagna. Dal 1795 Carlo IV s'era mantenuto fedele alla Francia. La flotta spagnola aveva combattuto a Trafalgar a fianco di quella francese e il suo ammiraglio Carlo Gravina era stato ucciso. Ma, alla vigilia della battaglia di Jena, dopo l'occupazione francese di Napoli, la Spagna era stata sul punto di unirsi alla Prussia. N. parve perdonare questa infedeltà e anzi patteggiò ancora con Emanuele Godoy, ministro e favorito della regina, ai danni del Portogallo. Ma egli sapeva adesso che la Spagna cercava di sfuggirgli. Così occupò anche questo paese nei modi sleali ch'ebbero il loro epilogo a Baiona (10 maggio 1808). La corona fu data a Giuseppe, e a Napoli andò allora Gioacchino Murat, già granduca di Berg, marito di Carolina Bonaparte. Ma, caduta la dinastia, la nazione si sollevò con irrefrenabile slancio. N. stesso, assicuratasi contro l'Austria la fedeltà dello zar nel convegno di Erfurt (settembre-ottobre 1808), discese nella Penisola Iberica e ricondusse il fratello a Madrid (dicembre 1808). Tuttavia la guerriglia spagnola e portoghese, aiutata direttamente dagl'Inglesi, continuò e fu una ferita sempre aperta nei fianchi del grande impero. A ciò contribuì la lotta che intanto N. stesso aveva impegnata con Pio VII. Le cause di dissidio erano andate rapidamente aumentando dopo il 1804, poiché l'imperatore pretendeva non solo di disporre dello stato pontificio nella sua guerra contro gl'Inglesi o, come li chiamava, gli "eretici", ma anche di esercitare una specie di supremazia sulla Chiesa, in tutti i paesi dove direttamente o indirettamente si estendeva la sua sovranità. L'occupazione di Napoli e poi della Toscana fu di grande pregiudizio all'indipendenza anche spirituale della Santa Sede. Già nel febbraio 1806, proclamandosi successore di Carlomagno e difensore della Chiesa, N. aveva scritto a Pio VII: "Votre Sainteté est souveraine de Rome, mais j'en suis l'Empereur. Tous mes ennemis doivent être les siens". Nel novembre 1805 aveva occupato Ancona; nel giugno 1806 s'impadronì di Benevento e Pontecorvo, di cui fece due principati, feudi per il Talleyrand e il Bernadotte; nel novembre 1807 prese tutte le Marche, che poi unì al regno d'Italia (aprile 1808); finalmente, nel febbraio 1808, il gen. S.-A.-F. Miollis occupò Roma, mentre Pio VII si rinchiudeva, protestando, nel Quirinale. Da allora non vi fu più stato della Chiesa, ma il decreto che lo aboliva formalmente, dichiarandolo non più rispondente agli scopi pei quali "Charlemagne empereur des Français et notre auguste prédécesseur" lo aveva costituito, fu firmato soltanto il 17 maggio 1809. Roma e il suo territorio divennero così, dentro l'impero, i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno, e al pontefice fu assegnata una rendita annua di due milioni di franchi oltre al possesso dei suoi palazzi, all'esenzione da qualsiasi imposta e al godimento di particolari immunità: qualche cosa come la legge delle guarentigie del 1871. Pio VII lanciò la scomunica, che non poté però avere pubblicità. Nella notte dal 5 al 6 luglio 1809 venne arrestato e condotto a Savona, dove, sebbene non gli fossero negati personali riguardi, fu messo nell'impossibilità di esercitare, privo com'era di consiglieri sicuri, il suo ministero religioso.
Il decreto che sopprimeva il potere territoriale dei papi era datato dal castello di Schönbrunn presso Vienna. Nella primavera del 1809 l'Austria aveva ripreso le armi invitando i popoli a spezzare, sull'esempio della Spagna, le loro catene e a rendersi liberi e indipendenti. N. dal 19 al 23 aprile vinse in Baviera l'arciduca Carlo in cinque battaglie (Thann, Abensberg, Landshut, Eckmühl, Ratisbona). Il 13 maggio entrò in Vienna. Il 21 e il 22 combatté con esito incerto ad Aspern e a Essling, ma il 6 luglio sconfisse a Wagram lo stesso arciduca Carlo, onde l'Austria dovette conchiudere a Znaim (Znojmo) un armistizio (12 luglio), che condusse, il 14 ottobre 1809, alla pace di Schönbrunn.
La quinta coalizione era stata vinta come le altre, ma non senza insolita fatica: un nuovo spirito era parso animare gli eserciti avversarî e qua e là s'era avuto qualche tentativo di rivolta, celebre fra tutti quello tirolese di Andrea Hofer, fucilato poi a Mantova (20 febbraio 1810) insieme con 23 compagni. Le forze della rivoluzione già accennavano a spostarsi dappertutto dal campo francese in quello degli alleati dell'Inghilterra. Intanto però l'Austria vinta dovette cedere alla Baviera il paese di Salisburgo; alla Russia un pezzo di Galizia, di cui un'altra parte passò, insieme con Cracovia, al granducato di Varsavia. La Francia ebbe Gorizia, Trieste, parte della Carinzia, della Carniola e della Croazia, terre che, insieme con Istria, Dalmazia, Cattaro e Ragusa (quest'antichissima repubblica era stata abbattuta dai Francesi nel 1806), furono aggregate all'impero col nome di Provincie Illiriche. Il regno d'Italia, privato dei territorî nazionali dell'Istria e della Dalmazia, ebbe dalla Baviera il Trentino sino alla Chiusa di Bressanone. Così l'Austria perdette quasi quattro milioni di abitanti, e fu ridotta entro confini più ristretti di quelli della Francia di Luigi XVI, senza più alcuno sbocco sul mare.
La pace di Schönbrunn segna l'apogeo della potenza napoleonica. Quasi tutta l'Europa era soggetta alla Francia. Luigi Bonaparte, re d'Olanda, rimproverato per l'inefficace osservanza del bloccn, abdicò (3 luglio 1810) e il suo regno fu annesso all'impero. La medesima sorte, alcuni mesi più tardi, ebbero le città anseatiche di Amburgo, Brema e Lubecca, onde la Francia rimase direttamente padrona delle foci della Schelda, della Mosa, del Reno, dell'Ems, del Weser e dell'Elba. Nella Svezia il partito francese aveva già costretto Gustavo IV, amico dell'Inghilterra, ad abdicare, e la dieta aveva quindi proclamato re suo zio Carlo XIII (5 giugno 1809), il quale, non avendo eredi, adottò come suo successore il maresciallo Bernadotte: così anche la Svezia, come già la Danimarca, aderì al blocco continentale. Dopo questi rivolgimenti l'impero comprendeva 130 dipartimenti con 44 milioni di abitanti, senza tener conto delle Provincie Illiriche e delle Isole Ionie che avevano governo speciale. Inoltre re d'Italia era N., mentre cinque principi della sua famiglia regnavano nella Spagna, in Olanda, a Napoli, a Lucca e nella Vestfalia. Quest'ultima era come una sentinella francese nella confederazione renana; l'altra era il granducato di Berg dove, nel marzo 1809, a Gioacchino Murat successe il primogenito (aveva allora cinque anni) di Luigi ancora re di Olanda; la terza il granducato di Francoforte, destinato a Eugenio de Beauharnais (1° marzo 1810), viceré d' Italia, e amministrato intanto dal cardinale G. Fesch, zio di N., come coadiutore dell'ex-elettore Carlo Teodoro Dalberg. La Confederazione era un enorme cuneo tra l'Austria e la Prussia, respinte l'una al di là dell'Inn, l'altra al di là dell'Elba, e riceveva anch'essa, non meno della repubblica elvetica e del granducato di Varsavia, la legge di N. "Il ira loin si les circonstances le favorisent"! La Chiesa stessa s'era in gran parte piegata, sì ch'egli disponeva delle diocesi, nominava i vescovi, convocava i concilî, esercitava tutta l'autorità di pontefice massimo. Mai s'era vista, nei tempi moderni, così sterminata potenza. E, poiché a coronarla sembrava necessario un erede, fatto annullare dal clero di Parigi il suo matrimonio del 1804, col pretesto che non era stato pubblicato, divorziò dalla compagna prima delle sue fortune Giuseppina Beauharnais, per sposare l'arciduchessa Maria Luisa, giovine figlia dell'imperatore Francesco. Il 1° aprile 1810 le nozze austriache furono celebrate a Saint-Cloud, e il 20 marzo 1811 nacque il re di Roma.
N. non fu mai a Roma, ma quel titolo dato al suo erede era un programma. Ora bisognava conquistare l'Oriente. Una volta, primo console, aveva usato consigliarsi con gli uomini di lunga esperienza e di sicura dottrina: adesso, avvolto nella porpora imperiale, non interrogava più nessuno, e regnava e amministrava i suoi immensi dominî sino nei più piccoli particolari. "Quand un ministre" così al viceré Eugenio il 31 luglio 1805, "vous dira: cela est pressé, le royaume est perdu, Milan va brûler et que sais-je moi? il faut lui répondre: Je n'ai pas le droit de le faire, j'attendrai les ordres du Roi...". Voleva intorno a sé gente nuova, giovani a preferenza, che, tutto dovendo a lui, eseguissero i suoi ordini senza discuterli; e, mentre nei rapporti familiari era buono e talora anche debole, nelle cose politiche non tollerava il più piccolo segno di disapprovazione. Una sera di novembre, a Fontainebleau, domandò al card. Fesch, il quale deplorava l'arresto di Pio VII, se scorgesse qualche cosa nell'oscurità del cielo e, avendo quegli risposto di no, soggiunse con voce concitata: "Eh bien, sachez donc vous taire: moi je vois mon étoile: c'est elle qui me guide. Ne comparez plus vos facultés débiles et incomplètes à mon organisation supérieure". Egli infatti credeva ugualmente e fermamente alla sua fortuna e al suo genio.
L'alleanza di Tilsit s'era fatta intanto sempre meno sicura dopo la pace di Schönbrunn. Lo zar si doleva che il granducato di Varsavia, accresciuto con una parte della Galizia, alimentasse le speranze di risurrezione del regno polacco. Inoltre era preoccupato per la scelta del Bernadotte come successore di Carlo XIII. L'adesione della Svezia alla politica francese non avrebbe dato a N., alleato della Danimarca e signore delle città anseatiche, quell'egemonia sul Baltico che da Pietro I in poi era appartenuta invece alla Russia? Soprattutto però lo offendevano i mal dissimulati disegni napoleonici sull'Oriente balcanico ch'egli voleva riservato soltanto alle sue ambizioni.
La crisi si aggravò quando da una parte la Russia riaprì le sue frontiere alle merci britanniche e, per porre un freno all'emigrazione dell'oro, decretò un'altissima tariffa doganale sui vini e sui generi di lusso ch'erano importati dalla Francia, dall'altra N. tolse il granducato di Oldenburgo a un congiunto dello zar (febbraio 1811) e occupò inoltre la Pomerania svedese col pretesto che Carlo XIII non osservava il blocco (gennaio 1812). Allora il Bernadotte, che guidava ormai lui solo la politica della Svezia, si avvicinò alla Russia e così, sotto gli auspici dell'Inghilterra, fu formata la sesta coalizione. La guerra incominciò nel giugno. N. aveva raccolto nella Germania 670 mila uomini, di cui la metà era costituita di sudditi dell'impero, l'altra di alleati, e inoltre di un corpo ausiliario prussiano all'estrema ala sinistra e di uno austriaco alla destra. Il 24 passò il Niemen a Kovno, il 28 giunse a Vilna e un mese più tardi entrò in Vitebsk. I Russi si ritiravano. Alcuni generali erano di parere che convenisse arrestarsi sugli antichi confini della Polonia, ricostituire per intero l'antico regno facendo insorgere la Volinia e la Podolia, e aspettare l'offensiva dei Russi, anziché inseguirli nelle loro steppe. Ma N. voleva una grande vittoria che, come Austerlitz e Jena, annientasse le forze nemiche e riempisse di stupore l'Europa. Come Carlo XIl subiva il fascino misterioso della Russia immensa. Il 17 agosto arrivò a Smolensk; il 7 settembre, a Borodino, vinse in sanguinosissima battaglia M. I. Kutuzov; il 14 entrò in Mosca. In altri tempi, a questo punto, lo zar sarebbe venuto a patti. Ora no: perché ora dietro i sovrani stava la giovinezza ardente delle nazioni. Ed ecco l'incendio di Mosca, la ritirata prima verso Malojaroslavec, poi verso Smolensk, e il freddo e la neve e i cosacchi, le forze alleate del cielo e della terra sulla via fatale della Berezina. Il 5 dicembre i superstiti arrivano a Smorgoń: 39 gradi sotto zero. Il 10 è la catastrofe di Vilna, e poscia la fuga verso Kovno (Kaunas), dove appena 20 mila uomini riescono a ripassare il Niemen.
Napoleone aveva redatto a Smorgoń il suo 29° e ultimo bollettino e poi, lasciato il comando al re di Napoli, era corso precipitosamente a Parigi. Intanto lo zar occupava la Polonia e vi ridestava a sua volta le speranze d'indipendenza. Erano nel suo campo parecchi patrioti polacchi e tedeschi (A. G. Czartoryski, K. v. Stein, K. v. Clausewitz, E. M. Arndt, ecc.) i quali lo esortavano a spingersi innanzi e a farsi liberatore di tutti i popoli oppressi dalla tirannide napoleonica. ll 30 dicembre il gen. York, che comandava il corpo ausiliario prussiano, stipulò per suo conto a Tauroggen (Taurage) la neutralità: il 30 gennaio 1813, a Zaycs, fece la medesima cosa K. F. von Schwarzenberg, che comandava quello austriaco. Il 28 febbraio fu firmata a Kalisz l'alleanza russo-prussiana, e il 25 marzo apparve il manifesto con cui Federico Guglielmo III annunziava la guerra dell'indipendenza e della libertà germanica. Allora i Francesi si ritirarono verso l'Elba. Nell'aprile giunse N. con le nuove leve, ma le vittorie di Lützen (2 maggio) e di Bautzen (20-21 maggio) non diedero frutti apprezzabili. E intanto il Metternich, con arte sottilissima, trasformava l'alleanza austriaca in neutralità armata. Il 4 giugno si conchiuse a Plesswitz un generale armistizio per trattare la pace con la mediazione dell'Austria. Ma nessuno faceva sul serio: non gli alleati, i quali, sentendo approssimarsi l'ora della decisiva vittoria, volevano distruggere definitivamente l'imperialismo francese e ristabilire su salde basi l'equilibrio europeo; non N. il quale, come disse al Metternich nel convegno famoso di Dresda (26 giugno), non poteva rimanere, se non vincitore, sul trono. "Vos souverains... peuvent se la aisser battre vingt fois et rentrer toujours dans leur capitale: moi je ne le puis pas, parce que je suis un soldat parvenu. Ma domination ne survivra pas au jour où j'aurai cessé d'être fort...". Era risoluto a difendere la sua corona coi denti. "Vous n'êtes pas soldat... Vous ne savez pas ce qui se passe dans l'âme d'un soldat. J'ai grandi sur les champs de bataille et un homme comme moi se soucie peu de la vie d'un million d'hommes". Altra volta s'era così giustificato dell'uccisione del duca d'Enghien: "C'était un sacrifice nécessaire à ma sécurité et à ma grandeur". In tale modo il congresso di Praga servì soltanto a offrire all'Austria un pretesto plausibile - cosa di cui non s'era preoccupata a suo tempo la Prussia - di entrare, come avvenne il 10 agosto, nella coalizione. Sino dal 12 luglio, a Trachenberg, s'erano presi gli accordi per le future operazioni militari. N. vinse ancora, il 27 agosto, a Dresda (dove fu mortalmente ferito il Moreau, il quale combatteva nell'esercito russo), ma, di lì a poco (8 ottobre), anche la Baviera, col trattato di Ried, passò dalla parte degli alleati, e, subito dopo (16-19 ottobre), la grande sanguinosa battaglia di Lipsia restituì alla Germania la sua indipendenza. Il 5 dicembre i Francesi avevano ripassato il Reno.
La Spagna era perduta sino dal giugno; la Svizzera e l'Olanda si ribellarono nel novembre e quest'ultima richiamò subito l'esule statolder; in Italia, intanto, il viceré Eugenio, che aveva abbandonate le Provincie Illiriche fin dall'ottobre, dovette ritirarsi dalla linea dell'Isonzo su quella dell'Adige (novembre), prima che la defezione di Gioacchino Murat lo obbligasse a ripiegare sul Mincio.
Tra il novembre e il dicembre si trattò di pace a Francoforte. Gli alleati offrivano, più o meno esplicitamente, i confini delle Alpi e del Reno, ma N. non sapeva decidersi e sembrava attendere qualche cosa che da un momento all'altro dovesse trasformare in trionfo l'imminente catastrofe. Nel gennaio 1814, prima di recarsi al campo, rimise in libertà Pio VII che, un anno innanzi, a Fontainebleau, aveva firmato e poi disdetto una specie di capitolazione (25 gennaio 1813); ricevette la guardia nazionale, a cui affidò suo figlio e sua moglie, nominata reggente; volle infine recarsi nei quartieri poveri di Parigi, dove la folla lo accolse con entusiasmo frenetico. Intanto cinque eserciti avevano passato i confini. L'Olanda e la Svizzera, bastioni di cui la Francia s'era valsa per invadere l'Europa, dovevano servire ora all'Europa per serrare nelle sue morse la Francia. Egli si getta tra i Prussiani e gli Austriaci per distruggerli separatamente, e riesce vincitore a Brienne (27 gennaio 1814), ma ha la peggio a La Rothière (1° febbraio). Tuttavia, poiché G. L. v. Blücher avanza per la valle della Marna e lo Schwarzenberg per quella della Senna, si slancia contro il primo e, dal 10 al 15 febbraio, lo batte a Champaubert, a Montmirail, a Château-Thierry, a Vauchamps; poi si volge contro il secondo e lo vince a Mormant, a Villeneuve e a Montereau (17-18 febbraio). Ma sono vittorie sterili. Il 1° marzo, a Chaumont, gli alleati rinserrano i patti della loro lega, e poi, nel congresso di Châtillon (4-18 marzo), offrono, questa volta, i confini del 1789 con qualche rettifica, forse Nizza, la Savoia e una parte del medio Reno, come aveva già proposto l'Inghilterra nel 1797. Così le ostilità continuano. Il 9 marzo il Blücher a Laon, il 20 lo Schwarzenberg ad Arcis-sur-Aube hanno la loro rivincita: il 30, con una serie di combattimenti slegati, A.-F.-L. de Marmont tenta, per l'onore, la difesa di Parigi, e, il dì seguente, lo zar Alessandro, accompagnato dal re di Prussia, fa il suo ingresso nella grande metropoli ponendo gloriosamente fine alla guerra patriottica ch'era incominciata subito dopo l'incendio di Mosca.
N. era a Fontainebleau: le truppe gli restavano fedeli, ma i generali apparivano freddi e sfiduciati. Il 1° aprile il senato, su proposta del Talleyrand, lo dichiarò decaduto dal trono. Il 4, dopo un violento colloquio con i marescialli Ney, Lefebvre, MacDonald, Moncey e Oudinot i quali volevano la sua abdicazione per evitare una completa catastrofe, acconsentì a cedere la corona a suo figlio, rifugiato con l'imperatrice a Blois. Ma era troppo tardi! Anche il Marmont ora l'abbandonava. Così, il 6 aprile, abdicò senza condizioni; e poi, rimasto quasi solo mentre i suoi più alti funzionarî civili e militari andavano ad accaparrarsi un posto presso Luigi XVIII che stava per giungere, tentò, si dice, di avvelenarsi. L'11 aprile sottoscrisse il trattato che assegnava a lui la sovranità dell'isola d'Elba con due milioni di rendita; a sua moglie e a suo figlio quella del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla; a sua madre, ai suoi fratelli, alle sue sorelle e a Giuseppina, che conservavano i loro titoli principeschi, cospicue pensioni annue trasmissibili agli eredi. Finalmente, il 20, si accomiatò dalla sua Guardia baciando tra i singhiozzi dei soldati la gloriosa bandiera, e partì con pochi fedeli verso la piccola isola che gli era donata dall'Europa già sottomessa tutta al suo impero.
Sbarcò a Portoferraio il 4 maggio: "Ce sera l'île du repos". A Fontainebleau aveva detto ai soldati: "Je veux écrire les grandes choses que nous avons faites ensemble". Invece, sino dai primi giorni, si diede tutto a trasformare e a riorganizzare il suo regno quasi avesse dovuto rimanervi per sempre. Tale era il suo profondo istinto. E contava appena 45 anni. Intanto la sua popolarità rinasceva tra i malcontenti e i delusi della restaurazione, e, d'altra parte, le potenze che s'erano raccolte a Vienna per dare perfezionamento al trattato di Parigi (30 maggio 1814), si dolevano ogni giorno più d'averlo così vicino all'Italia e meditavano quindi di trasformare la sua sovranità in una specie di relegazione in qualche remota isola dell'Oceano. Egli sapeva queste cose; e qui appunto è il movente egoistico dell'avventura dei Cento giorni che parve allora un delitto. Il 26 febbraio 1813 s'imbarcò sull'Inconstante e, seguito da sei piccole navi con 1100 uomini, fece vela verso le coste francesi. Il 1° marzo, dal golfo Jouan sulla spiaggia di Cannes, lanciò il celebre eloquente proclama: "La victoire marchera au pas de charge. L'aigle, avec les couleurs nationales, volera de clocher en clocher jusqu'aux tours de Notre-Dame". Così fu infatti. Il 7 marzo era a Grenoble; il 10, a Lione, riprese, tra il delirio dei contadini e dei soldati, l'esercizio della sovranità. Da allora le diserzioni non si contarono più nell'esercito regio: il 14 fu quella del maresciallo M. Ney, che aveva promesso, pochi giorni innanzi, a Luigi XVIII di portargli l'avventuriero "dans une cage de fer". Giunse la mattina del 20 a Fontainebleau, e là seppe che il re aveva abbandonato Parigi. La meravigliosa impresa non era costata una goccia di sangue: egli aveva ricuperato il suo impero "en montrant son chapeau". La sera alle nove l'aquila raccolse il volo sulle Tuileries.
Ma le potenze non erano disposte a ratificare il fatto compiuto, onde, sino dal 13, lo avevano proclamato fuori della legge come perturbatore della pace pubblica. Egli cercò di rendersi amica la borghesia intellettuale con una costituzione all'inglese, simile alla Carta di Luigi XVIII (Atto addizionale alle costituzioni dell'impero, 23 aprile 1815), che venne promulgata il 1° giugno nel Campo di Marte. Ma fu espediente per lo meno inutile. "Déjà Bonaparte" scrisse allora da Pietroburgo J. De Maistre, "n'existe plus: ce que nous voyons n'est pas lui: c'est une effigie empaillée, et cette effigie même périra". Tuttavia conservava integro il suo genio guerriero. Mise frettolosamente insieme un esercito pronto a dargli, in un estremo sacrificio, tutto il suo sangue. Lasciò Parigi il 12 giugno e, penetrato nel Belgio, sconfisse, il 16, il Blücher a Ligny, mentre il Ney batteva il duca di Wellington a Quatre-Bras. Il 18 avvenne la battaglia decisiva che prese nome del villaggio di Waterloo. Vincitori al castello di Hougoumont e alla fattoria di Haie-Sainte, i Francesi non riuscirono a occupare le alture di Saint-Jean, dove il Wellington, con una tenacia che gli meritò il titolo di Duca di ferro, attendeva i Prussiani del Blücher. E quando questi, sfuggendo alla sorveglianza di E. de Grouchy, comparve finalmente sul campo, la catastrofe napoleonica fu inevitabile. Quindici anni innanzi, a Marengo, era arrivato L.-Ch.-A. Desaix a gettare sulla bilancia della fortuna il peso delle sue truppe. Allora il Melas aveva visto nel Bonaparte l'uomo del destino; adesso N. riconobbe forse l'uomo del destino nel Wellington. Senza l'arrivo del Blücher, il 18 giugno avrebbe segnato probabilmente una vittoria francese, ma l'Europa, unita da forze ignote alle prime coalizioni, era ormai in grado di continuare a oltranza la guerra, e N. non avrebbe quindi tardato ad avere altrove la sua Waterloo; poiché in realtà la sua missione era finita nel mondo.
Giunse a Parigi il 20 giugno. Il 22 abdicò in favore di suo figlio, e si ritrasse poscia alla Malmaison, dove nessuno aveva più posto piede dal giorno in cui vi era morta, l'anno innanzi, l'imperatrice Giuseppina. Ne uscì il 29 e tentò d'imbarcarsi a Rochefort per gli Stati Uniti; ma non poté, e, poiché non ignorava che il Blücher voleva fucilarlo, provvide a salvare almeno la vita salendo a bordo del Bellerophon che apparteneva all'armata britannica. Era la prigionia perpetua. L'8 agosto, insieme coi generali H.-G. Bertrand, Ch.-T. de Montholon e G. Gourgaud, con le famiglie dei primi due e col conte E.-A. de Las Cases, offertisi tutti volontariamente suoi compagni d'esilio, salpò sul Northumberland verso la lontana isola di S. Elena. Ivi, in una modesta dimora a Longwood, trascorse, sotto la sorveglianza del governatore inglese Hudson Lowe, gli ultimi anni dolorosi dettando la narrazione delle sue gesta sino alla campagna di Siria. Morì d'un cancro allo stomaco, il 5 maggio 1821, confortato dalla religione dei suoi padri, e fu sepolto all'ombra di due salici presso una sorgente. Più tardi, nel 1840, le sue ceneri furono portate in Francia, dove tuttora riposano, sotto la cupola degl'Invalidi, sulle rive della Senna "au milieu de ce peuple français" com'egli aveva detto "que l'ai tant aimé".
L'ha amato, soggiunge il Taine, come il cavaliere ama il suo cavallo. In realtà amava se stesso, e gli altri solo in quanto potevano servire alla sua ardente passione di conquista e di dominio. Mai un'idea di personale sacrificio ha attraversato il suo spirito. Volontà imperiosa, intelligenza sovrana, instancabile in ogni genere di lavoro, fu anzitutto un grande condottiero d'eserciti. Nessuno ha mai saputo parlare come lui al soldato e come lui avvincerselo per la vita e per la morte. La sua arte è tutta nel suo genio. Concepiva i piani strategici a linee semplici e, dopo averli studiati e ristudiati, li traduceva in calda rapida azione nel punto e nell'ora giusta. L'urto era la sua gioia e la sua festa. Le campagne del 1796 e del 1814 sono i suoi capolavori: con rapidità divinatoria giudicava le situazioni tattiche più imbrogliate e sceglieva ed eseguiva le mosse nuove e impreviste che conducono con piccoli mezzi a grandi risultati, il che è l'eccellenza dell'arte. Né era diverso nelle negoziazioni diplomatiche e nel tumulto delle lotte politiche. Conoscitore profondo dell'anima umana, aveva l'istinto delle circostanze come il cacciatore ha l'istinto della preda; ma la relativa facilità con cui poté stabilire, in un ambiente preparato, il regime unitario e autoritario del consolato e dell'impero rafforzò in lui, figlio del sec. XVIII e di un'isola del Mediterraneo, la fede superba che nulla fosse precluso alla sua intelligenza. Lo dominava un bisogno prepotente di conquistare e di organizzare, onde più volte fece e disfece la carta d'Europa e, padrone dell'Occidente, mirò all'Oriente senza sapere se da Costantinopoli e da Bombay non avrebbe poi voluto slanciarsi verso Pechino. Poiché nulla era fatto finché rimaneva qualche cosa da fare. Così, perduta qualsiasi aderenza con la realtà storica, era destinato a sparire con l'opera delle sue mani; ma, credente sempre nella propria infallibilità come in un dogma religioso, non immaginò mai che fuori di lui esistessero forze collettive superiori al suo genio, e sino all'ultimo attribuì le sue disgrazie ora alla cattiva scelta degli uomini, ora all'ostilità degli elementi, ora al caso o al destino. Organizzatore e codificatore di una rivoluzione cosmopolita, incominciata in Europa assai prima che cadesse la Bastiglia, non si accorse di vivere in un'età di decisivo sviluppo nazionale e allargò la Francia, oltre le Alpi, sino a Roma; ma come la lima, dice J. De Maistre, fa la chiave e la ignora, così egli fu, senza volerlo e senza prevederlo, l'eroe provvidenziale che diede il soffio della nuova vita alle nazioni moderne. E ciò avvenne non perché nella sua marcia impetuosa furono travolti istituti decrepiti destinati a cadere da sé, ma perché, sotto la pressione del suo stesso dispotismo, tutti i popoli, dalla Spagna alla Russia, acquistarono o riacquistarono la coscienza e l'orgoglio della propria personalità. In nessun paese, sotto questo aspetto, sebbene per diverse vie, la sua azione fu così profonda come in Italia. Coloro che nel 1796 avevano ricevuto da lui la bandiera delle loro speranze e che poi lo seguirono fedeli nei campi dei suoi trionfi e delle sue catastrofi non lo dimenticarono più, poiché sentivano che per lui s'era ridestata nei loro cuori un'energia assopita da secoli, quella volontà di potenza che è condizione essenziale del Risorgimento.
Le campagne di Napoleone.
N. possiede le qualità del capo, nel senso più lato della parola. Ciò che, per effetto di quelle qualità, ha operato nel campo della strategia, emerge da un succinto esposto delle principali campagne di guerra da lui personalmente condotte.
Campagna del 1796-97. - L'annata campale del 1795 era stata nefasta per le armi francesi: gli eserciti del Reno (Pichegru) e di Sambra e Mosa (Jourdan) avevano dovuto abbandonare la linea del Reno e l'esercito d'Italia (Schérer) non aveva saputo profittare della vittoria del Masséna a Loano. Bonaparte, benemerito del direttorio dopo l'implacabile e fortunata repressione del moto parigino del vendemmiaio, tenuto in pregio dai due più influenti membri dell'Esecutivo (il Carnot, particolarmente incaricato di seguire gli affari della guerra, e il Barras, capo spirituale del direttorio) ottiene il comando dell'esercito d'Italia. Il giovane generalissimo, che ha promesso immediata offensiva e sicura vittoria, lascia Parigi (dopo soli tre giorni dalle sue nozze con Giuseppina) per raggiungere l'esercito d'Italia (marzo 1796). I documenti contabili dànno presenti poco meno di 100.000 uomini, ma i combattenti non raggiungono forse i 40.000, di cui circa 4000 di cavalleria. Scarsa la disciplina (compromessa anche dall'insufficienza dei rifornimenti logistici); le bocche da fuoco per la maggior parte immobilizzate dalla mancanza di animali da traino.
Queste forze organizzate in 6 divisioni di fanteria e 2 di cavalleria, sono sparpagliate dalla riviera di Savona-Voltri per Ormea, fino alla testata di Val Vesubia, con altre poche forze a sinistra sulle Alpi, dall'Argentera al Cenisio. Di contro sono l'esercito sardo (M. Colli) e quello austriaco (Beaulieu), il primo dei quali gravita fra Ceva e Mondovì con la sinistra alla Bormida occidentale, e il secondo è estesamente dislocato fra Acqui, Alessandria e Tortona. Mentre il Beaulieu progetta, e inizia un'offensiva che deve avere la sua prima manifestazione contro l'occupazione francese tra i monti e il mare nella regione del Colle di Cadibona, il generale Bonaparte dà inizio alla sua manovra che mira a sfondare lo schieramento nemico nel punto di congiunzione dei due avversarî, dove sarà logicamente minima la compattezza della resistenza e dove un successo determinerà una divergenza d'interessi: dovendo il Colli tendere naturalmente alla protezione di Torino e il Beaulieu alla protezione della Lombardia e di Milano. Gli elementi tecnici e quelli psicologico-politici convergono per determinare questa concezione. L'esecuzione fulminea rivelerà le doti eccellenti del capitano. Dal 10 al 14 aprile l'obiettivo è raggiunto (combattimenti vittoriosi di Montenotte, Dego, Cosseria, Millesimo). Colli si ritira, ordinatamente, su Mondovì (mantenendosi aggressivo specie con la cavalleria) e poi su Torino. A Cherasco (27 aprile) è firmato l'armistizio separato franco-sardo. Beaulieu rimasto solo ripiega il grosso in direzione di Alessandria, poi passa il Po a Valenza. Bonaparte inizia la seconda fase della campagna. Astuto manovratore, invece d'inseguire direttamente gli Austriaci, egli corre rapido lungo la destra del Po, per Stradella fino a Piacenza e passa quivi il fiume per prevenire gli Austriaci sull'Adda. Intanto Beaulieu, saputa la mossa francese, accelera la marcia e Bonaparte riesce a cogliere e battere al ponte di Lodi soltanto una retroguardia austriaca (10 maggio). I Francesi restano, comunque, padroni di tutta la Lombardia esattamente trenta giorni dopo l'iniziata offensiva in Liguria. L'occupazione di Milano, il riordinamento delle divisioni assai provate, la necessità di reprimere con rigorosa fermezza la guerriglia cosiddetta dei "barbetti" e alcune ribellioni scoppiate a tergo delle milizie francesi (specie a Pavia) non ritardano l'ulteriore avanzata contro gli Austriaci, riparati nel quadrilatero delle fortezze venete. Il contatto è ripreso a fine maggio. Con una puntata energica a Borghetto e Valeggio, la linea del Mincio è superata, poi è raggiunto l'Adige. Le truppe austriache ripiegano nel Trentino, mentre Bonaparte assedia Mantova, di dove accorre, con parte delle forze, nell'Emilia, nella Romagna e nella Garfagnana, compiendovi opera più politica che militare per sedare le rivolte eccitate dai retrivi. Intanto Vienna prepara la riscossa, affidata al maresciallo Wurmser, che scende dal Trentino alla testa di 50.000 uomini, con la massa maggiore a oriente del Garda, e con una colonna secondaria per il Bresciano. Bonaparte torna immediatamente a nord del Po, opera il concentramento di tutte le forze a sud del Garda nella regione di Lonato; e per aumentare la massa di manovra leva audacemente l'assedio a Mantova, limitandosi a osservarne da Marcaria (Sérurier) il presidio, che resterà paralizzato da quegli eventi inopinati. Con le forze raccolte Bonaparte intende attaccare prima la colonna austriaca che opera nel Bresciano (Quasdanovic) poi il grosso (agli ordini dello stesso Wurmser) sulla linea del Mincio. A Lonato (3 agosto) sbaraglia il Quasdanovic, le cui soldatesche sono parte prese, parte uccise o disperse; e due giorni dopo, a Castiglione, mette fuori causa il Wurmser che intanto ha passato il Mincio nella speranza di giungere in tempo a collegarsi col Quasdanovic. Bonaparte rioccupa la regione fra Mincio e Adige e cinge nuovamente Mantova d'assedio. Vengono ora al generale in capo suggerimenti dal direttorio perché si scosti da Mantova e attacchi il Wurmser riparato nel Trentino, e quindi prosegua per il Brennero a fare massa col Moreau in Baviera. Bonaparte, invece, considera una puntata su Trento, soltanto come premessa (sicurezza del fianco sinistro) a un'ulteriore offensiva per il Friuli, da condurre al momento opportuno, meta ultima Vienna. Ma intanto il Wurmser, ricevuti rinforzi, inizia una nuova offensiva da Trento per la Valsugana, col grosso delle forze imperiali, poche rimanendo a guardia del Trentino. Il Bonaparte è già in marcia su Trento dal Bresciano e dal Veronese e ha già cacciato gli Austriaci da Mori, da Ala e da Rovereto, quando apprende la mossa del principale corpo nemico per Bassano. Decide allora di cacciarsi alle sue calcagna per la Valsugana a marce forzate (100 km. in due giorni), raggiunge e attacca di sorpresa a Primolano la retroguardia del Wurmser. mentre ai suoi corpi staccati nel piano ordina di manovrare in modo da accerchiare il nemico. Percosso e disorientato, il generale austriaco riesce soltanto con parte delle forze a sfuggire all'accerchiamento e a raggiungere Mantova, dove vorrebbe campeggiare fuori della piazzaforte per mantenersi in grado di manovrare in campo aperto con l'appoggio della fortezza. Ma Bonaparte lo attacca alle porte di Mantova, a San Giorgio e alla Favorita (15 settembre) e lo obbliga a riparare dentro la piazza, dove lo rinchiude.
Frattanto però le vicende della guerra in Germania volgendo favorevoli per l'Austria, questa si dispone a tentare nuovamente la liberazione di Mantova e la riconquista della Lombardia. Mette in piedi un nuovo esercito di 50.000 uomini (Alvinezy), il quale da Trento sbocca per Bassano con parte delle forze e si affaccia ai primi di novembre con altre forze dai Lessini sopra Verona, mentre una terza colonna punta su Verona per la Valle d'Adige. Ancora una volta, troppo estesa fronte di avanzata per così scarse forze. Bonaparte ne profitta con fulminea decisione e attua rapidamente un'altra manovra per linee interne. Passato l'Adige a Ronco muove contro il corpo principale dell'Alvinczy, che batte ad Arcole, dopo tre giornate di lotta (15, 16, 17 novembre) obbligandolo a ripiegare oltre il Brenta, ciò che trae seco il ripiegamento su Trento delle altre forze austriache. Nel gennaio 1797, avuti rinforzi, l'Alvinczy ritenta la prova scendendo questa volta col grosso fra l'Adige e il Garda, mentre altre forze tendono a Mantova dal basso Adige. Bonaparte immediatamente attacca e batte l'Alvinczy fra Rivoli e La Corona (14-15 gennaio), poi con sorprendente rapidità si mette in grado il giorno dopo (16 gennaio) di accerchiare il corpo diretto a Mantova per la bassa pianura e di annientarlo. Pochi giorni dopo (2 febbraio) Mantova si arrende. L'Austria desiste dalla lotta in ltalia. Il Bonaparte può iniziare una rapida azione politico-militare nella Romagna e nelle Marche, per vincere l'ostilità che, in sua assenza, si è riaccesa nello Stato Pontificio. Poi, in marzo, con i rinforzi venutigli dal Reno, inizia la fase risolutiva della guerra riprendendo l'offensiva contro l'Austria, in più largo stile, nella direzione di Vienna. Al comando degl'imperiali che fronteggiano l'esercito francese d' Italia, è ora posto il migliore dei generali austriaci, l'arciduca Carlo, cui anche si promettono altri rinforzi dal Reno. Disegno del Bonaparte: lasciare una sola divisione nella marca d'Ancona, a scopo d'intimidazione; puntare col grosso (5 divisioni di fanteria e una di cavalleria) per il Friuli, la Carinzia e la Stiria, sulla capitale nemica, mentre un forte distaccamento (3 divisioni) compirà l'epurazione dell'Alto Adige, obbligherà gli Austriaci a passare il Brennero e poi per Val Drava si riunirà al grosso, a Klagenfurt, dove convergerà un'altra colonna inviata per Gorizia e Lubiana. Gli Austriaci, battuti in successivi scontri, e infine a Neumarkt, lasciano aperta la via di Vienna. Il Bonaparte giunge fino a Leoben, dove è firmato un armistizio a richiesta austriaca.
In questa campagna il giovane condottiero rivela a pieno le doti che ne fanno un dominatore di eventi: percezione immediata e chiara delle situazioni politiche e militari, inseparabili; pronta ideazione dei piani operativi; audacia "organizzata" di esecuzione; manifestazioni di autorità e procedimenti di comando, che eccitano le energie morali dei capi in sottordine e delle masse dei gregarî; intervento personale nei momenti decisivi, là dove sono maggiori i pericoli ed è più esemplare la prova del coraggio.
Campagna d'Oriente (Egitto e Siria) del 1798-99. - Durante la campagna d'Italia nacque nella mente del Bonaparte l'idea di una spedizione in Egitto, come risulta da espliciti propositi contenuti in una sua lettera al ministro Talleyrand, scritta subito dopo il trattato di Campoformio e nella quale il vittorioso generale giustifica la larghezza delle clausole favorevoli all'Austria e da lui stesso proposte, le quali mirano ad avere sicuri i possedimenti francesi in Europa per colpire l'Inghilterra. Dove? Il generale lo accenna in altra lettera al direttorio (16 agosto 1797): "per distruggere l'Inghilterra occorre rendersi padroni dell'Egitto", in quanto di lì si sbarrano le comunicazioni con le Indie. Mascherata da propositi di diretta invasione delle Isole Britanniche, la spedizione attraverso il Mediterraneo si va preparando sotto la vigile cura del futuro comandante in capo dell'impresa, il quale conferma, in questa occasione le sue eccellenti qualità organizzative. Nel tempo stesso N. studia il piano d'azione (politico e militare insieme) per l'invasione e la stabile occupazione dell'Egitto. La soluzione dovrebbe essere imperniata da un lato sull'alleanza con Costantinopoli, in modo che le armi francesi possano quasi apparire come liberatrici del paese dal dispotismo dei bey e dei Mamelucchi, in perenne stato di ribellione verso la Sublime Porta; e, dall'altro lato, sulla protezione dell'elemento arabo costituente gran parte della popolazione egiziana, contro le angherie feudali degli stessi bey. Egli lasciò le coste francesi soltanto con una parte del convoglio e altri numerosi elementi raccolse per via, a Genova, ad Ajaccio, a Civitavecchia; occupò Malta - da cui si dominano i due bacini del Mediterraneo - per prevenire una manomissione inglese, che i Cavalieri dell'isola non erano in grado d'impedire; previde, in caso d'incontro con la flotta inglese del Mediterraneo, di dovere spezzare il convoglio in più parti, assegnando a ciascuna un proprio punto di sbarco sulle coste africane. Ma, quasi per miracolo, la navigazione avvenne senza incontrare la crociera del Nelson. Il 1° luglio 1798 il grosso convoglio è in vista di Alessandria. Il corpo di spedizione, costituito da cinque divisioni di fanteria e una di cavalleria (senza cavalli, che saranno requisiti sul posto), muove senz'altro, con i primi elementi sbarcati, all'attacco di Alessandria, che viene occupata con un brillante assalto. Poi N. avanza sul Cairo per la sinistra del Nilo; respinge i primi reparti avanzati dei Mamelucchi e procede per attaccare il grosso del nemico, schierato presso le Piramidi e costituito da masse eterogenee di fanti irregolari (poco atti a battaglie campali condotte con arte) e da abbondante e valorosa cavalleria. Bonaparte ha prescritto ai suoi una speciale formazione in "quadrati doppî", al centro dei quadrati fa collocare artiglierie e impedimenta; e i quadrati dispone a scacchiera, in modo che possano fiancheggiarsi l'un l'altro. Contro queste formazioni e la loro massa di fuoco s'infrange l'impeto dei cavalieri mamelucchi. Allora, con elementi distaccati dai quadrati, e conservando il nocciolo di questi, perché vi si possano eventualmente riformare le truppe battute, muove al contrattacco e sbaraglia le fanterie nemiche. Le porte del Cairo gli sono aperte. I Francesi sono padroni del basso Egitto. È ora per il generalissimo d'iniziare l'organizzazione politico-sociale del paese. A quest'opera il Bonaparte intende, quando improvvisamente scoppia la folgore di Abukir. Il 1° agosto, esattamente un mese dopo lo sbarco, Nelson ha sorpreso la flotta da guerra francese che aveva scortato la spedizione, alla fonda nella rada presso Alessandria (Abukir) e l'ha distrutta. Ciò significa per il Bonaparte l'isolamento dalla madrepatria, la certezza d'immediate reazioni dell'infido elemento arabo, che egli andava amicandosi e dei vinti Mamelucchi, infine la perdita di ogni speranza per un favorevole atteggiamento di Costantinopoli. Sulla disastrosa situazione, il Bonaparte si leva gigante. Con ogni sforzo, mostrandosi egli stesso tranquillo, riesce a tenere alto il morale dei suoi. Le difficoltà sorgono a ogni passo. Il 21 ottobre è dai Francesi faticosamente repressa un'insurrezione al Cairo, ma continua la rivolta araba diffusa lungo le vie di comunicazione. Intanto la Turchia arma un esercito da sbarcare ad Alessandria, mentre i pascià della Siria mostrano anch'essi intenti aggressivi. Per prevenire questi ultimi, N. organizza una spedizione oltre l'istmo di Suez, che inizia nel febbraio del 1799 con circa 12.000 uomini e senza nessuna speranza di essere appoggiato dal mare. Occupa Giaffa, assedia San Giovanni d'Acri, muove incontro al pascià di Damasco, avanzante con forze triple delle sue, e lo batte ai piedi del Tabor (16 aprile). Non gli riesce però di fare cadere S. Giovanni d'Acri, soccorsa dal mare dagl'Inglesi; e, quando apprende che un corpo turco si affretta verso Alessandria, decide di levare l'assedio e di tornare in Egitto. Quando giunge, circa 12.000 Turchi sono già sbarcati; ed egli li assale (25 luglio) sulla costa di quella stessa rada di Abukir che aveva visto un anno prima la distruzione della flotta francese. Il corpo turco è annientato. Ma la situazione interna permane grave, rimanendo i conquistatori, in effetto, assediati nella loro conquista. Di più, Bonaparte viene indirettamente informato che la Francia traversa ore critiche per malgoverno interno e insuccessi militari. Decide allora di rimpatriare segretamente, lasciando il comando in capo al Kléber. L'anno seguente i Francesi dovranno abbandonare l'Egitto. Genialità d'ideazione, audacia, sapienza organizzativa e sensibilità politica del Bonaparte sono state frustrate dall'insufficienza della marina da guerra francese.
Campagna d'Italia del 1800. - Il Bonaparte, primo console, vuole consolidare l'ancora vacillante potere, con una clamorosa impresa militare. Mentre il Moreau opera in Germania, e il Masséna in Italia, egli prepara un esercito di riserva, la cui importanza cerca di sminuire, di fronte agli avversarî, facendo correre voce che è costituito quasi interamente d'invalidi (soccorre a ciò la divulgazione di caricature). Poiché la costituzione consolare non consente al primo magistrato della repubblica di assumere il comando di eserciti, figura titolare il Berthier. Da Digione l'esercito di riserva potrebbe appoggiare così le operazioni in Germania come quelle in Italia; ma se ciò può tenere incerto il nemico, la nascente rivalità fra il Bonaparte e il Moreau esclude in effetto la prima ipotesi, tanto più che, nel frattempo, il Masséna è costretto a riparare in Genova, dove gli Austriaci lo assediano. D'altra parte l'esercito di riserva, più che a Digione come si diceva, si raccoglieva in Savoia e nel Vallese. Lo costituivano ottimi elementi, quasi tutti ricuperati dalla Vandea in via di pacificazione. Ai 40.000 uomini circa che lo componevano Bonaparte aveva divisato di aggiungerne altri 15-20.000 che il Moreau ebbe ordine di inviargli per il Gottardo. Fra il 17 e il 25 maggio il grosso dell'esercito di riserva passa le Alpi per il Gran S. Bernardo e subito il Bonaparte magnifica l'impresa al di sopra del suo reale valore. Nulla ha, in realtà, di prodigioso il passaggio delle Alpi in quella stagione e in quella zona. La scarsa artiglieria, smontata, fu trascinata su slitte, improvvisate con tronchi e tavoloni, ripiego che nulla aveva d'inusitato. Superato con astuzia l'intoppo del forte di Bard, Bonaparte non punta direttamente sul Melas, che ha i suoi più grossi elementi sul Varo e in Ligutia, ma dagli sbocchi alpini muove in direzione di oriente per occupare la Lombardia e manovrare sulle retrovie dell'avversario. Vuole così assicurarsi il più facile congiungimento con le truppe che gli debbono venire, come si è detto, di Germania e vuole intimidire il generalissimo avversario, che, invece, non si lascia soggiogare dalla volontà del Bonaparte e conserva la propria iniziativa, rimanendo nel Piemonte meridionale e nelle Liguria, dove la ricchezza agricola e la vicinanza del mare, dominato dagli alleati inglesi, gli consentono di far vivere le truppe anche indipendentemente dalle comunicazioni con l'impero. Il primo console si trova così, ad avere manovrato a vuoto nella direzione Brescia-Milano-Cremona e, per giunta, troppo ampiamente. Allora ripassa a Piacenza a sud del Po, ripiega verso occidente per ricercare la massa principale avversaria, quando già, in seguito alla resa di Genova, le condizioni austriache migliorano. Hanno luogo il combattimento di Montebello (v.) e la battaglia di Marengo (v.), la quale è per i Francesi fortuita vittoria. Grande per risultati politici, la campagna d'Italia del 1800 è tecnicamente imperfetta, il primo console essendosi trovato, nel momento dell'azione decisiva, con le forze disseminate nel campo strategico e, nella zona tattica, inferiore di numero all'avversario, e cioè in opposizione con il fondamentale principio, da lui stesso proclamato, sulla necessaria realizzazione di una superiorità locale nel punto e nel momento decisivi.
Campagna del 1805. - Gli ostentati preparativi che da lungo tempo conduceva l'imperatore Napoleone per un'invasione dell'Inghilterra dalle coste della Manica e dal Mare del Nord, e perfino dalle coste atlantiche, dove aveva raccolto numerose forze in varî campi (principale quello di Boulogne), indussero l'Inghilterra a dare vita a una terza coalizione antifrancese (Austria, Russia, Svezia e poi Napoli). Scende prima in campo l'Austria con due eserciti: l'uno in Germania (68.000 uomini) sotto gli ordini nominali dell'imperatore Francesco, ma, in realtà, del Mack; l'altro in Italia (85.000 uomini) sotto gli ordini dell'arciduca Carlo. Debbono subito seguire tre eserciti russi (135.000 uomini) l'uno al comando del Kutuzov, gli altri agli ordini del Bennigsen e del Buxhöwden, oltre la guardia imperiale comandata dal granduca Costantino. N. prontamente decide di rinviare il progetto d'invasione dell'Inghilterra per aggredire i nuovi nemici nell'Europa centrale e formula il disegno strategico di agire con la massa maggiore delle forze in Germania per mettere fuori causa l'Austria prima che giungano i rinforzi russi, mentre in Italia svolgerà operazioni secondarie, che affida al Masséna. Levati improvvisamente i campi della Manica e del Mare del Nord, dirige i corpi a marce forzate sul Reno e sul Meno, che passa rispettivamente fra Magonza e Strasburgo e fra Magonza e Würzburg nel settembre del 1805. Il Mack ha avuto l'imprudenza di avanzare, solo, attraverso la Baviera fino nei pressi di Ulma; e N. lo prende a bersaglio delle prime azioni offensive della grande armata. Fa compiere ai corpi di Lannes, Ney e Murat una dimostrazione frontale nella Foresta Nera, ed egli stesso si reca ai passi sul Danubio a valle di Ulma con le rimanenti forze, volgendosi con una parte verso ovest e con l'altra verso est; questa seconda con l'obiettivo di sbarrare il passo al Kutuzov in marcia, e già prossimo (7-9 ottobre). Il Mack intuisce la minaccia di accerchiamento e tenta sfuggire verso nord per raggiungere la Boemia, ma ne è impedito dalla vigorosa azione del corpo Ney, lasciato a tale scopo a nord del Danubio (8-15 ottobre). Due giorni dopo, il Mack si arrende e cede la piazza di Ulma con una fretta che lo farà accusare di viltà e condannare a morte. N. decide ora di operare a masse contro gli Austro-russi, i quali però non accettano per il momento il duello e riparano in Moravia sotto la piazza di Olmütz (Olomouc), mentre Vienna (13 novembre) apre le porte al vincitore per ordine del governo. L'arciduca Carlo, che ha operato in Italia contro il Masséna con esito incerto, risolve di ritirarsi in Germania dopo la capitolazione di Ulma.
I due imperatori di Russia e d'Austria hanno preso il comando diretto dei loro eserciti e decidono di muovere controffensivamente contro N., che ha lasciato Vienna e punta in direzione di Bruna, per attaccare gli Austro-russi. L'incontro avviene sul campo di Austerlitz (v.), dove i Francesi conseguono una grande decisiva vittoria (2 dicembre). I due imperatori alleati cedono le armi e due giorni dopo è conchiuso un armistizio con l'Austria, cui segue la pace di Presburgo (Bratislava). Ma Inghilterra, Russia e Svezia non accedono a questo trattato e dànno vita alla quarta coalizione, cui si aggiungono la Prussia, la Sassonia e i piccoli stati del Nord germanico.
Campagna del 1806-1807. - Lo stato maggiore prussiano - che ha prontamente messo in campo un esercito di 128.000 uomini, compreso un corpo sassone, e lo ha formato in due nuclei di prima linea dietro la foresta di Turingia, con un terzo nucleo in riserva a Magdeburgo - rinnova l'errore del Mack dell'anno precedente, e si spinge troppo innanzi ritardando così il congiungimento coi Russi ancora lontani ed esponendosi isolato. N. che possiede una notevole superiorità numerica (180.000 uomini) approfitta di quell'errore con fulminea decisione; spinge innanzi la cavalleria del Murat e il corpo del Lannes contro la massa di sinistra prussiana (valle della Saale) e l'obbliga a una parziale ritirata (9-10 ottobre 1806), mentre rincalza col grosso nella stessa direzione. L'attacco a fondo avverrà il 14 ottobre con la doppia battaglia di Jena (attacco del grosso, guidato da Napoleone, contro il corpo prusso-sassone del Hohenlohe, funzionante come copertura della ritirata dell'esercito verso il nucleo di Magdeburgo) e di Auerstädt (attacco del maresciallo Davout contro il grosso prussiano). Il 25 ottobre i Francesi entrano a Berlino, mentre l'imperatore dispone, per rendere strategicamente definitiva la vittoria tattica sulla Saale, un nuovo attacco contro gli avanzi dell'esercito prussiano (i Sassoni si ritirano dalla lotta), per impedire loro il congiungimento coi Russi. Tutte le piazzeforti prussiane si arrendono a una a una.
Ciò ottenuto, N., sfidando audacemente il crudo inverno, avanza in Polonia per prevenire colà i Russi; mette i campi attorno a Varsavia, e in pari tempo consegue il risultato politico dell'amicizia polacca. Ora deve urgentemente provvedere a rinforzare l'esercito, senza sguarnire le linee di comunicazione che passano attraverso territorî ostili. Ordina perciò la mobilitazione dei coscritti del 1807 e chiama dalla Francia e dall'Italia nuovi reggimenti. Col proclamato "blocco continentale" contro l'Inghilterra (21 novembre) l'animosità bellica della coalizione si acuisce. Infatti, i Russi si presentano al Narew per aggredire. Ma N. subito li attacca (Pultusk) e i Russi retrocedono verso Ostrolenka. Lo zar, insoddisfatto del vecchio generalissimo Kamenskij, lo sostituisce con il Bennigsen e il nuovo capo disegna di riprendere l'offensiva aggirando di sorpresa i campi francesi da nord. N., che ha contromanovrato prontamente nella speranza di poter serrare il nemico contro la costa del Baltico, vedendosi sfuggire il Bennigsen, che, avvertito a tempo, riesce a riparare a Eylau, lo attacca in questa località (8 febbraio 1807). Grande battaglia, molto cruenta, ma tatticamente indecisa. Le grandi operazioni hanno un tempo di arresto e non riprendono che all'inizio dell'estate, dopo la caduta di Danzica nelle mani dei Francesi. N. avanza allora nella valle dell'Alle, riesce (10 giugno) a sloggiare da Heilsberg il Bennigsen, che però riprende, quattro giorni dopo, l'offensiva contro il fianco delle colonne francesi in marcia su Königsberg, ma senza fortuna. Il 14 giugno N. ottiene la vittoria decisiva di Friedland. Dodici giorni più tardi, il 26 giugno, ha luogo il convegno di Tilsit fra l'imperatore di Francia e l'imperatore di Russia e il 7 luglio finalmente viene stipulata l'alleanza tra i due grandi imperi.
Campagna del 1809. - La guerriglia spagnola e le difficoltà politiche e militari che N. incontra nella Penisola Iberica incoraggiano l'Inghilterra, fortemente danneggiata dal blocco, a mettere in piedi una quinta coalizione (Inghilterra, Austria, Spagna, Portogallo). L'Austria prende l'offensiva: in Germania (arciduca Carlo) invadendo la Baviera alleata dei Francesi e in Italia movendo dal Friuli contro le linee dell'Adige (aprile 1809). N. accorre dalla Spagna per rimediare al disseminamento delle forze francesi dislocate in Germania a cavallo del Danubio; situazione alla quale il Berthier (che questa volta era stato poco felice interprete delle istruzioni dell'imperatore) non ha saputo rimediare in tempo. Prontamente N. riesce a fare la massa in presenza del nemico: il 22 aprile, a Eckmühl batte il centro e la destra dell'arciduca Carlo, che a stento ripassa il Danubio a Ratisbona per raggiungere Vienna lungo la sinistra del fiume, mentre l'imperatore marcia a tappe forzate sullo stesso obiettivo per l'opposta riva. Il 12 maggio Vienna si arrende, ma gli Austriaci hanno distrutto i ponti sul Danubio. N. ordina che, profittando di un gruppo d'isolotti (Lobau), si gettino ponti con materiali d'occasione e si forzi il passaggio, risolutamente difeso sull'opposta sponda dall'arciduca Carlo. Il tentativo dà luogo alla cruenta battaglia di Essling (21-22 maggio), ma i ponti francesi sono rotti dall'artiglieria austriaca durante la lotta e N. deve ritirare, alla meglio, le proprie truppe sull'isola Lobau grande, che sarà punto di partenza per una nuova offensiva iniziata un mese e mezzo dopo (5 luglio), col passaggio dei Francesi su ponti gettati più a valle di quelli del tentativo precedente, a fine di aggirare i trinceramenti che l'arciduca Carlo ha fatto costruire sulla riva sinistra dirimpetto a Lobau. Sanguinosa battaglia di Wagram (5-6 luglio) e vittoria francese duramente contrastata. L'arciduca riesce a riparare con gli avanzi del suo esercito in Moravia. I corpi Masséna e Marmont inseguono; ma l'armistizio evita una nuova battaglia. La Russia, alleata già intiepidita, ha operato contro l'Austria in Galizia, ma fiaccamente, ed è stata di scarso ausilio. Il 14 ottobre l'Austria abbandona la coalizione e firma, con Francia e Russia, una pace separata.
Campagna di Russia (1812). - Il blocco contro l'Inghilterra, della cui rigida applicazione N. faceva il cardine della sua politica estera, aveva urtato anche gl'interessi della Russia, preoccupata altresì per gl'ingrandimenti del granducato di Varsavia. Si andava perciò delineando da tempo una rottura del trattato di Tilsit, quando fu alfine stipulata l'alleanza (6ª coalizione) fra la Russia e le potenze direttamente colpite dal blocco e cioè Inghilterra, Spagna e Portogallo. N. rompe per primo gl'indugi e dichiara ufficialmente la guerra alla Russia il 22 giugno 1812. La decisione dell'imperatore s'ispira non solo al principio che convenga assicurarsi l'iniziativa strategica, ma anche a una valutazione politica, in quanto non volendo cedere sulla questione del blocco, giudica che la rapidità delle mosse per colpire la Russia attraverso la Germania può sola assicurargli il consolidamento dei malsicuri vincoli di alleanza che uniscono alla Francia l'impero austriaco e la Prussia. N. ha personalmente curato la preparazione organica e logistica della Grande Armata che è di poco inferiore al mezzo milione di uomini, con prevalenza, però, di elementi non francesi; e ha altresì elaborato con ogni cura, e abbondanza di mezzi, l'organizzazione logistica delle linee di operazione verso la Russia. La radunata delle forze francesi si compie in Polonia e lo schieramento presenta nelle sue linee essenziali un'ala destra (austriaca) agli ordini dello Schwarzenberg, un centro (prevalentemente francese) agli ordini diretti di N. (che, naturalmente, ha anche il comando supremo degli eserciti alleati) e una sinistra (prussiana) nominalmente agli ordini dello York, al cui fianco è, però, posto il maresciallo francese Macdonald. Subito dopo la dichiarazione di guerra, la Grande Armata passa il Niemen e i Russi ripiegano commettendo l'errore (tanto più pericoloso in presenza di N.) di ritirarsi in due direzioni eccentriche. N. si caccia innanzi nel vuoto intermedio e occupa Vilna, il che avviene appena sei giorni dopo la dichiarazione di guerra. Ma fino dall'inizio si risentono gl'inconvenienti della scarsa omogeneità morale e tecnica delle forze di stati diversi e N. decide una sosta di due settimane, quando sarebbe stato, teoricamente, necessario impedire alle due masse russe di riunirsi indietro in direzione di Smolensk, come avvenne. Quantunque Davout abbia battuto a Mohilev (23 luglio) la sinistra russa (Bagration) e Murat - sostenuto dagl'Italiani del viceré Eugenio - abbia battuto a Ostrovo (25 luglio) la destra russa (Barclay de Tolly), un nuovo arresto ordinato da N. a Vitebsk allontana la sperata battaglia decisiva; e quando le operazioni saranno riprese a metà agosto, la vittoria della Grande Armata a Smolensk (16-19 agosto) non impedirà la riunione delle due masse nemiche e la loro sistematica marcia retrograda, in condizioni ormai divenute, per i Russi, più favorevoli, nella direzione di Mosca. La marcia retrograda è soltanto interrotta da un tempo di arresto sulla Moskova (ordinato dal nuovo generalissimo russo Kutuzov), del quale N. approfitta per dare nuovamente battaglia (7 settembre). L'azione - estesa e intensa - riesce molto cruenta; ma anche qui, il successo francese non è decisivo, e il Kutuzov può proseguire la ritirata. N. ne è sconcertato, ma giuoca ormai il tutto per il tutto, e si spinge risolutamente fino a Mosca. Ma i Russi abbandonano la città dopo avervi appiccato il fuoco, distruggendo così - con gl'immensi depositi di materiali e di vettovaglie - le speranze francesi di abbondanti rifornimenti, di cui la Grande Armata avrebbe necessitato per svernare colà. La crisi logistica precipita la situazione strategica, sotto gli occhi dei Russi che attendono l'inesorabile epilogo del dramma, mentre riescono a mantenere N. nell'illusione di una prossima pace. Passato poco più di un mese, la situazione diviene insostenibile, tanto più che Kutuzov, ridivenuto aggressivo, ha sorpreso e battuto Murat a sud di Mosca. Il 18 ottobre, N. ordina l'inizio della ritirata, che si compirà nel cuore di un inverno particolarmente rigido e porterà al quasi totale annientamento della Grande Armata. Durante la ritirata, a Malojaroslavec (24 ottobre), a Vjazma (3 novembre), a Krasnoe (16-19 novembre) i corpi italiani della Grande Armata, sotto gli ordini del viceré Eugenio, compiono prodigi di valore e ottengono successi in azioni controffensive contro le masse russe inseguenti, finché la Grande Armata è pressoché annientata al passaggio della Berezina (26-28 novembre). Che le sorti della Grande Armata siano ormai perdute, basterebbe a rivelarlo il fatto significativo dell'abbandono del comando supremo da parte di N., una settimana dopo la Berezina. Da questo momento la demoralizzazione e il disordine funzionale determinano un vero sfacelo, completato dalle defezioni dell'Austria e della Prussia, le quali passano al campo nemico.
Campagna di Germania (1813). - Mentre, nei primi mesi del 1813, il viceré Eugenio (rimasto a capo degli avanzi della Grande Armata, dopo l'arbitrario ritorno di Murat a Napoli) conduce i pochi resti della Grande Armata francese dietro la Saale a Magdeburgo, N. in Francia compie un nuovo miracolo di organizzazione, con la leva di coscritti e con la raccolta delle armi e dei materiali necessarî a mettere insieme un nuovo esercito, ch'egli personalmente conduce alla Saale. Quivi, alla fine di aprile 1813, i veterani della campagna di Russia e i coscritti provenienti dalla Francia si congiungono a formare un insieme ancora valido, la cui efficienza è moltiplicata dal dinamismo del capo. Con queste forze infatti N. avanza subito contro Russi e Prussiani in direzione di Lipsia. Dopo un primo successo dell'avanguardia del Ney (30 aprile), il grosso francese è sorpreso a Lützen (2 maggio) da un attacco di fianco dei Russo-prussiani, reso possibile dall'incompleto servizio di esplorazione, dovuto alla scarsezza della cavalleria. Ma l'attacco è, in definitiva, respinto e N. può continuare la marcia, fino a raggiungere le principali forze nemiche a Bautzen, sulla destra della Sprea, dove ottiene ancora una grande vittoria (21-22 maggio), sebbene non decisiva. Ispirati dallo zar Alessandro, i collegati adottano il procedimento strategico che ha giovato ai Russi l'anno precedente: cedere terreno e, nel tempo stesso, far balenare a N. la speranza d'una pace vantaggiosa. Tale speranza politica induce infatti il grande stratega all'armistizio di Plesswitz (4 giugno-12 agosto). Ma le possibilità d'intesa sfumano durante il congresso di Praga. Alla ripresa delle operazioni, N. prende l'offensiva strategica, com'è suo costume, e ottiene a Dresda (26-27 agosto) un'altra grande vittoria tattica, cui l'accennata scarsità di cavalleria non gli consente di conferire carattere strategicamente risolutivo. Di più sono manchevoli le disposizioni esecutive del suo capo di stato maggiore Berthier, ormai stanco. Così i collegati riescono a riparare in Boemia, conservandosi combattivi, come mostrano certi loro scatti controffensivi, uno dei quali porta alla cattura di un corpo d'inseguimento francese (Vandamme). Poiché anche i corpi francesi del Macdonald, dell'Oudinot e del Ney, distaccati dal grosso, hanno subito parziali insuccessi (ciò che aggrava la situazione complessiva), N. tenta di affrettare la conclusione vittoriosa con un altro colpo audace: lascia a un piccolo distaccamento le conquistate posizioni di Dresda e imprende la marcia su Berlino; ma lo spirito dei suoi luogotenenti dà segni di depressione e l'imperatore, con senso realistico, rinuncia a un progetto che supera le forze degli esecutori e appoggia su Lipsia, mentre i collegati abbozzano una larga manovra per accerchiare N. e tagliargli la ritirata verso il Reno. A Lipsia (16-19 ottobre) i Francesi sono attaccati e, benché inferiori di numero, sostengono a lungo la lotta; ma, infine, sono decisamente battuti. A stento N. riesce a salvare alcuni resti dell'esercito, i quali ripassano il Reno a Magonza ai primi di novembre; ma non i presidî delle piazze interne della Germania rappresentanti un complesso di 100.000 uomini perduti. La guerra oltre i confini è finita. Alla fine di dicembre i collegati invadono il territorio francese.
Campagna di Francia (1814). - Napoleone fa nuovamente appello al paese per una nuova leva di coscritti. Il paese risponde "presente" per inveterata abitudine, ma a malincuore. Rifulge più che mai, in questa ora, la forza d'animo dell'imperatore. Quantunque assillato, anch'egli, da tragiche previsioni, si prodiga per tenere desta la fede di tutti, mentre sembrano in questa circostanza moltiplicarsi le sue facoltà di grande stratega. La campagna di Francia del 1814 è un modello classico di condotta della guerra ed è riprova del peso che le qualità personali del capo - spirituali e tecniche - hanno sugli eventi avversi.
Senza contare le truppe operanti in Italia e nei Pirenei, la coalizione anti-francese ha al confine franco-germanico due eserciti di forza pressoché uguale (poco meno di 300.000 uomini complessivamente) agli ordini rispettivamente del Blücher e dello Schwarzenberg; può inoltre contare su abbondanti riserve (russe, prussiane, austriache, svedesi, olandesi, ecc.) tra il Reno, il Danubio e la Vistola, le quali avrebbero potuto più che raddoppiare i corpi operanti. Per contro, N. - per le operazioni in campo aperto sul suolo francese - non può riunire che 100.000 uomini (in piccola parte veterani e per la maggior parte coscritti), coi quali costituisce sette piccoli corpi d'armata, oltre i 2 della Guardia, disposti in largo schieramento iniziale dal mare al confine svizzero, cui dovrà seguire il concentramento nel luogo e nel momento opportuno. Ma lo schieramento è ancora in via di compimento, quando i collegati imprendono l'offensiva (che, in verità, avrebbero potuto iniziare alcune settimane prima) violando, consenziente il governo federale, la neutralità svizzera, con l'esercito Schwarzenberg e passando il Reno fra Mannheim e Coblenza con l'esercito Blücher.
Quantunque incompleta, la copertura francese oppone resistenze tenaci, senza però evitare di doversi inflettere; e N. - che, dopo avere invano tentato di avanzare da Vitry a Saint-Dizier, ha dovuto retrocedere e sostenere due sanguinose battaglie a Brienne e La Rothière, per non vedersi aggirato - risolve di fare massa indietro nella regione fra Senna e Marna, e cioè in una posizione centrale, dalla quale tenterà di battere separatamente le colonne principali d'invasione; le quali appunto tendon0 a Parigi per le vallate di quei due fiumi, lasciando un imprudente varco fra l'una e l'altra. Poco dopo, a queste due colonne se ne aggiungerà una terza - dal basso Reno e dal Belgio - agli ordini del Bülow e del Wintzingerode.
Poiché il Blücher avanza non solo distaccato dallo Schwarzenberg, ma anche con le forze proprie troppo ampiamente distese, N. lo assale d'improvviso, e in cinque giorni (10-14 febbraio) lo batte in quattro brillanti battaglie (Champaubert, Montmirail, Chateau-Thierry, Vauchamps). Il generalissimo prussiano ripiega su Chalons sur-Marne; e la stasi dell'offensiva si propaga al Wintzingerode; non però allo Schwarzenberg, che continua ad avanzare giungendo con le punte a Fontainebleau, dopo sospinti dinnanzi a sé i corpi dei marescialli Victor e Oudinot. Allora N., il giorno dopo la vittoria ottenuta sul Blücher, raccoglie le truppe meno stanche, corre veloce verso sud-ovest, batte a Mormant l'avanguardia dello Schwarzenberg, dispensa dal comando il Victor mostratosi fiacca, passa a Montereau sulla sinistra della Senna e minaccia di spezzare in due il grosso della colonna d'invasione. Schwarzenberg, intimidito, si ritira a Troyes, dove N. lo insegue nella speranza di una battaglia, cui però Schwarzenberg sfugge ripiegando all'Aube; e allora N. ritorna fulmineo per Sézanne contro il Blücher e lo sospinge a nord dell'Aisne (3 marzo), poi di lì muove all'attacco degli altri collegati che vengono da nord, coi quali il Blücher è riuscito a riunirsi, e li batte a Craonne (6 e 7 marzo), poi li attacca ancora a Laon (9 marzo) senza riuscire a sloggiarli da questa località; di qui, per Soissons, vuole attaccare nuovamente, con le truppe stanchissime, la colonna Schwarzenberg, che ha ripreso la marcia su Parigi. Questa volta Schwarzenberg previene con la propria offensiva ad Arcissur-Aube l'offensiva francese (20 marzo) e poiché N., con audacia disperata, insiste in un duello a oltranza con forze che sono appena 1/5 di quelle nemiche, il ripiegamento dell'esercito francese tardivamente ordinato, si compirà (21 marzo) con gravi perdite al passaggio sui ponti dell'Aube. Le colonne d'invasione sono ormai riunite e non è più possibile durare utilmente nella lotta contro avversarî preponderanti. La campagna è finita.
Campagna del 1815. - Quando al ritorno di N. dall'Elba si forma una nuova coalizione (Inghilterra, Austria, Prussia, Russia, Spagna, Paesi Bassi, ecc.) per riprendere la guerra, le armi delle potenze collegate sono pressoché pronte, poiché la smobilitazione, dopo la guerra dell'anno precedente, è stata solo in piccola parte attuata. L'esercito francese, invece, è in gran parte da rifare, perché un anno di restaurazione borbonica ha disorientato gli spiriti; gli stessi capi (molti dei quali hanno accettato di servire i Borboni) sono combattuti fra opposti sentimenti; inoltre la sicurezza di un lungo periodo di pace, sulla quale fidava a ragione la Restaurazione, aveva conferito alle forze armate borboniche un carattere più proprio al servizio d'ordine interno che all'azione guerriera. Altra ragione di preoccupazione la Vandea, che al ritomo di N. ha nuovamente inalberato la bandiera bianca borbonica, sicché l'imperatore dovrà impiegare colà un corpo di truppe (30.000 uomini). In definitiva, l'esercito campale, organizzato con la massima oculatezza compatibile con la gran fretta, raggiungerà appena 123.000 uomini contro 850.000 che i collegati hanno di contro al confine francese, dal Belgio alle Alpi. Di queste forze, circa 115.000 uomini sono nel Belgio, ripartiti fra l'esercito dell'inglese Wellington e quello del prussiano Blücher.
I collegati intendono di raccogliere le forze su una fronte di partenza più ristretta, prima d'iniziare la marcia concentrica su Parigi, e perciò la loro offensiva è prevista soltanto per il 1° luglio. N., invece, vuole profittare di quel disseminamento per battere una frazione dell'avversario; e sceglie le forze dislocate nel Belgio, quali più prossime e più minacciose. Più precisamente decide di puntare con fulminea mossa nella zona di contatto fra l'esercito inglese situato a occidente della strada Bruxelles-Charleroi e l'esercito prussiano situato nella regione che si distende a nord della Sambra fra Charleroi e Namur. I sei corpi francesi (Guardia compresa) concentrati a sud della Sambra, fra Solre-le-Château e Philippeville, sono rapidamente spinti dall'imperatore nella notte del 15 giugno, senza che i nemici se ne avvedano, ai ponti di Marchiennes, Charleroi, Le Châtelet, dove respingono truppe avanzate nemiche, continuando poi, per tutto il giorno 15, l'avanzata contro la sinistra inglese e la destra prussiana. Solo a sera del 15 il Wellington apprende al suo quartier generale di Bruxelles l'impreveduta offensiva francese e or5ina al suo esercito il concentramento a sinistra per fare massa nella regione di Marbais coi Prussiani; i quali a loro volta si concentrano verso destra per analogo scopo. Napoleone intuendo il doppio movimento nemico ordina alla propria ala sinistra (Ney) di attaccare gl'Inglesi il mattino seguente, 16 giugno, in direzione di Quatre-Bras, mentre il resto dell'esercito attaccherà i Prussiani in direzione di Ligny. La necessità di agire in modo fulmineo fa apparire poco energiche le risoluzioni dei luogotenenti e lente le mosse delle truppe, ma in realtà l'esercito francese di operazione ha continuamente marciato e combattuto dalla notte del 15. Il Ney non riesce a occupare Quatre-Bras, mentre l'attacco di destra riesce a sloggiare il Blücher da Ligny (v.). Ma il maresciallo prussiano si sottrae abiìmente al contatto con l'ala destra nemica, sicché i Francesi rimangono incerti se i Prussiani si siano ritirati a sud-est su Namur o a nord su Wavre (come effettivamente è avvenuto), ciò che rende ineseguibile l'ordine inviato da N. il mattino del 17 di seguire i Prussiani alle calcagna e di completare, con un contegno aggressivo senza soste, il successo di Ligny. Il maresciallo Grouchy, che comandava quell'ala, si avvia a tentoni per una direzione intermedia (Gembloux) allontanandosi in tal modo da quello che sarà l'indomani il campo della battaglia decisiva (Waterloo, 18 giugno) combattuta da N. contro l'esercito inglese, che il Blücher rinforzerà, da Wavre, nell'ultima fase della lotta, decidendo della sconfitta di N.
La logica semplicità del disegno strategico dell'imperatore, la fulminea rapidità delle mosse, gli ordini tempestivi e tutti convergenti allo scopo, l'audacia con la quale i corpi francesi sono lanciati contro forze doppie, collocano questa campagna (svoltasi in 3 giorni e 20 ore, attraverso marce forzate e combattimenti vittoriosi) fra le più ammirevoli del grande capitano, non essendo le cause della sconfitta finale imputabili né a difetto di genialità né a diminuita energia volitiva. Chi cerca quelle cause nella supposta stanchezza fisica dell'imperatore è fuori della realtà, la breve campagna e la stessa battaglia decisiva essendo piuttosto l'espressione di un'audacia confinante col parossismo.
Per alcune delle rappresentazioni di N. nell'arte, v.: appiani, III, p. 758; canova, VIII, tav. CXCI; david, XII, p. 416 e tavola CXVI; gerard, XVI, p. 653.
Bibl.: Tra le innumerevoli opere generali e particolari (F. M. Kircheisen, Bibliographie du temps de Napoléon comprenant l'histoire des États Unis, Parigi, Ginevra, Londra 1908-12, voll. 2) si citano le seguenti come orientamento: F. Masson e G. Biagi, N. inconnu. 1786-93, Parigi 1895, voll. 2 (contenente gli scritti giovanili); Correspondance (ediz. imper., in cui si trovano anche le opere dettate a S. Elena), Parigi 1857-1860, voll. 32; e le aggiunte da L. Lecestre (1892, voll. 2) da L. de Brotonne (1898 e 1903), da A. Chuquet (1911-12, voll. 4) e da E. Picard e L. Tuetey (1912-13, voll. 4); le lettere e le memorie di Maria Luisa (1887); di Girolamo (1861-1866, voll. 7), di Giuseppe (1853-54, voll. 10), di Luciano (1882-83, voll. 3), di Ortensia (1927, voll. 3), di Eugenio-Beauharnais (1858-60, voll. 10), di G. Murat (1908-1916, voll. 8); le memorie del Barras (1895-96 voll. 4), e degli altri direttori (Carnot, Berthélemy, ecc.), quelle della duchessa d'Abrantès (1831-1837, voll. 18) e di madame Rémusat (1879-80, voll. 3), del Masséna (1849-50, voll. 7), del Marmont (1856-57, voll. 9), del Soult (1854, voll. 3), del Marbot (1891, voll. 3), del Miot de Melito (1853, voll. 3), del Roederer (1909), dello Chaptal (1893), del Pasquier (1893-95, voll. 6), del Talleyrand (1889-91, voll. 7), del Metternich (1881-84, voll. 8), del Castlereagh (1848-53, voll. 12), ecc. - Inoltre: L. Papi, Commentari della rivoluz. franc. dalla morte di Luigi XVI fino al ristabilimento dei Borboni, Lucca 1830-31, tomi 6; A. Thiers, Histoire du consulat et de l'empire, Parigi 1845-62, voll. 2; I. Taine, Les origines de la France contemporaine. Le régime moderne (incompiuta), Parigi 1891-1894, voll. 2; A. Sorel, L'Europe et la Révol. française, Parigi 1885-1904, voll. 8; L. Maelin, La révolution, Parigi 1911; id., Le consulat et l'empire, Parigi 1932-1933, voll. 2; A. Franchetti, Storia d'Italia dal 1789 al 1799, Milano 1907 (2ª ed.); V. Fiorini e F. Lemmi, Il periodo napoleonico, Milano 1919; F. Masson, Napoléon et sa famille, Parigi 1897-1913, voll. 10; id., N. et les femmes, Parigi 1893; id., Marie-Louise, Parigi 1902; id., N. et son fils, Parigi 1904; A. Chuquet, La jeunesse de N., Parigi 1897-99, voll. 3; C. J. Fox, N. B. and the Siege of Toulon, Washington 1902; C. Clausewitz, Der Feldzug von 1796 in Italien, Berlino 1883; H. Jomini, Vie politique et militaire de N. Ier, Parigi 1880-1892, voll. 4; C. de la Jonquière, L'expédition d'Égypte, Parigi 1900-1907, voll. 5 (Sez. stor. dello Stato maggiore); A. Vandal, L'avénemenet de Bonap., Parigi 1903-05, voll. 2; M. Marion, Histoire financière de la France, V, Parigi 1925 (IV: 1797-1818); Schmidt, L'organisation de l'Université impériale, Parigi 1912; D'Haussonville, L'Église romaine et le premier Empire, Parigi 1868-70, voll. 5; I. Rinieri, N. e Pio VII, Torino 1906, voll. 2; id., La diplomazia pontificia nel sec. XIX, Roma 1902, vol. 2; P. de La Gorce, Hist. religieuse de la révol-française, Parigi 1923 (il vol. V, tutto dedicato al Concordato); J. Régnier, Le préfets du consulat et de l'empire, Parigi 1907; H. Welschinger, Le duc d'Enghien, Parigi 1913; O. Brandt, England und die napoleonische Weltpolitik 1800-1803, Heidelberg 1916; A. Fugier, Nap. et l'Espagne, 1799-1808, Parigi 1930, voll. 2; M. Handelsman, N. et la Pologne, 1806-1807, Parigi 1909; E. Driault, La politique orientale de N., Parigi 1904; A. Vandal, N. et Alexandre, Parigi 1896, voll. 3; A. Chuquet, La guerre de Russie, Parigi 1912, voll. 3; H. Houssaye, 1814,Parigi 1888; id., 1815, Parigi 1895-1905, voll. 3; P. Gruyer, N. roi de l'île d'Elbe, Parigi 1906; W. Forsyth, History of the Captivity of N. at St Helena, 1853, voll. 3. - E tra le biografie; P. Lanfrey, Hist. de N. Ier, Parigi 1867-1875, voll. 5; A. Fournier, N. Eine Biographie, Vienna e Lipsia 1886-1893, voll. 3; J. Holland Rose, The Life of N. I, Londra 1905, voll. 2; F. M. Kircheisen, N. I. Ein Lebensbild, Stoccarda e Berlino 1927-1929, voll. 2; J. Bainville, Napoléon, Parigi 1913; A. Gatti, Uomini e folle di guerra, Milano 1921; id., Uomini e folle rappresentative, Milano 1925.
Per l'iconografia di N., v.: A. Dayot, Napoléon. Illustrations d'après des peintures, sculptures, graavures, objets, ecc., du temps, Parigi 1908.