Vedi NAPOLI dell'anno: 1963 - 1973 - 1995
NAPOLI (Neapolis)
Topografia. Città della Campania. Situata a metà della costa tirrenica della penisola italiana, nella parte più interna del golfo sul quale si affaccia usufruendo di un retroterra fertilissimo, la città deve il suo nome al nuovo stanziamento succeduto alla più antica Partenope. Sul promontorio di Pizzofalcone, già toccato dalla navigazione e dal commercio egeo-anatolico, verso la metà del VII sec. i Greci di Cuma, nella loro graduale espansione lungo le coste del golfo, avevano creato infatti il centro abitato di Partenope, sfruttando la naturale insenatura, immediatamente ad oriente del promontorio, come porto. Ma poi, a seguito delle vicende della lotta tra Greci ed Etruschi in Campania, verso la metà del VI sec. dovettero abbandonare la città, e solo verso il 470, respinto l'assalto etrusco, i Greci di Cuma fondarono ad E del porto di Partenope una nuova città: Neapolis, più ampia e più forte della vecchia Partenope; questa continuerà a vivere con il nome di Palaeopolis. Alla fondazione, a fianco dei Cumani, parteciparono i Siracusani; ma già nella seconda metà del V sec. si fece determinante su Neapolis l'influenza di Atene: tutto ciò è ben documentato dalla monetazione neapolitana, ma è ben chiarito, nei suoi termini anche politici ed economici, dallo sviluppo urbanistico della città.
N. conserva in gran parte ancora intatto l'impianto urbanistico antico, per cui sono chiaramente visibili le varie fasi di sviluppo urbanistico: la città del V sec., quella fondata dai Cumani e dai Siracusani, occupava solamente la parte N-O, attualmente S. Aniello a Caponapoli-Piazza S. Gaetano, dell'ampia area recinta dalle mura. Solo nella seconda metà del V sec., sotto la spinta della influenza ateniese e della floridezza economica derivatane, la città si ampliò, organizzandosi secondo un tessuto urbano a linee ortogonali che tuttora si conserva. Neppure la Neapolis della seconda metà del V sec. occupò tutta l'area delimitata dalle mura, poiché solo a partire dall'età ellenistica lo sviluppo urbanistico interessò la estrema regione orientale, mentre già si era venuto determinando, e diventerà particolarmente sensibile a partire dall'età romana, un disordinato ampliarsi della città fuori delle mura, verso occidente, cioè verso il porto, per cui si rese necessario un ampliamento delle mura a protezione del porto e del nucleo urbano tra le vecchie mura ed il porto stesso.
Ricerche e studî recenti hanno consentito di individuare, salvo particolari di dettaglio, sia il perimetro delle mura che le fasi di costruzione, ed appare chiaro che le mura proprie della fondazione della città, databili pertanto verso il 470, furono rinforzate da poderose opere verso la metà del IV sec., opere che non alterarono, se non qua e là limitatamente per necessità particolari, l'andamento delle primitive mura, che correvano all'incirca lungo le attuali via Foria, via Costantinopoli, piazza S. Domenico, via Mezzocannone, corso Umberto, S. Agostino alla Zecca, via Soprammuro, piazza Tribunali, via S. Sofia, SS. Apostoli, via Foria.
Dei monumenti della città antica rari sono gli avanzi, e tutti riferibili all'età romana: Neapolis restò sino alla conquista bizantina città puramente greca, tramandando la lingua ed i costumi greci anche in piena età imperiale romana, al punto che i Romani stessi la considerarono come un'isola di grecità nell'Italia meridionale; purtuttavia, ove si escludano brevi tratti delle mura, nulla avanza, da un punto di vista monumentale, che sia di età greca. Anche per l'età romana la identificazione o ubicazione dei monumenti pubblici e religiosi è molto limitata, non reggendo ad una critica obbiettiva le identificazioni che gli eruditi locali hanno per secoli proposte dei pochi resti monumentali giunti sino a noi incorporati in edifici per lo più religiosi di età più recente. I monumenti identificabili e dei quali restano, come per il teatro, avanzi considerevoli sono: il tempio dei Dioscuri, il teatro scoperto, l'Odeion, le terme di via Anticaglie, le terme di via Carminiello ai Mannesi, l'Archeion con Aerarium e Carceres. Il tempio dei Dioscuri sorgeva lì dove oggi è la chiesa di S. Paolo Maggiore, nell'area corrispondente all'agorà greca ed al Foro romano, a metà strada circa del decumano massimo: il monumento era in gran parte ancora in piedi sino agli inizî del XVII sec. ed il suo aspetto ci è conservato da disegni di Francesco d'Olanda e del Palladio: cause naturali e i lavori per la nuova chiesa hanno ridotto a pochi frammenti i resti del monumento antico, il quale era situato su alto podio, con pronao composto di sei colonne sulla fronte e due sui risvolti, colonne corinzie su basi attiche con ricchi capitelli anch'essi corinzi. La cella, che era in rapporto con il pronao nella proporzione di 1 a 3, doveva essere profonda circa 6 m e tutto il piano del tempio misurava m 24 × 17,40. Nelle fondazioni della chiesa sono conservati resti del più antico impianto del tempio, ma quanto avanza si data, per i caratteri dell'iscrizione dedicatoria e per quelli della decorazione architettonica, all'età flavia.
I due teatri sono posti a settentrione del tempio dei Dioscuri uno affiancato all'altro, per cui il poeta Stazio ricorda la geminam molem nudi tectique theatri: del teatro coperto abbiamo pochi resti incorporati negli edifici che formano l'angolo di via Pisanelli e di via S. Paolo. Più conservato è il teatro scoperto, anche questo incorporato in edifici moderni: un triplice ordine di archi formava il prospetto esterno, ogni ordine era composto di 23 archi girati su pilastri con un interasse di m 6,50. La cavea, suddivisa in ima, media e summa cavea rispettivamente di 5, 13, e forse 12 filari di sedili, era suddivisa in otto cunei ed il tutto era sormontato da un coronamento di circa cinque metri di larghezza. Relativamente ben conservata la scena: larga 44 m, conserva ancora in piedi il muro di retroscena per un'altezza di oltre 20 m ed una larghezza di 19: la scaenae frons era decorata da tre nicchie semicircolan, la porticus post scaenam corrisponde all'area occupata poi dai Frati Teatini della chiesa di S. Paolo Maggiore.
Alle spalle del teatro sono identificabili i resti di un complesso termale, del quale avanzano ricordi negli storici antichi che ne fanno menzione a proposito delle imprese teatrali a Neapolis dell'imperatore Nerone, ma si tratta di resti minimi, mentre ampi e degni di essere salvati ed esplorati sono i resti delle terme apparse recentemente in via Carminiello ai Mannesi, ad oriente di via Duomo.
Nulla conosciamo della famosa Pinacoteca di Neapolis, che doveva essere nelle immediate vicinanze del porto, né del celebrato Ginnasio, per il quale si avanza l'ipotesi che dovesse essere tra la chiesa di S. Agata degli Orefici, a S-E di corso Umberto, e Piazza Nicola Amore, da dove cioè provengono sia un bel torso di Nike che le numerose iscrizioni agonistiche neapolitane.
L'altro monumento pubblico del quale possediamo ora la documentazione archeologica è l'Archeion con annessi Carceres ed Aerarium: che la basilica di S. Lorenzo Maggiore fosse costruita su un edificio pubblico romano era stato sempre ammesso, a causa dei rinvenimenti archeologici sempre segnalati nelle varie fasi della costruzione della chiesa, ma la identificazione di questo monumento antico con la basilica era del tutto arbitrario: recenti rinvenimenti, avutisi in occasione del restauro del monumento nella sua originaria forma gotica, hanno portato alla luce oltre che resti di mura greche del V sec. da porsi in relazione con l'agorà e il primitivo impianto della città, anche, al di sotto del piano della chiesa, di ambienti ben conservati da identificarsi con l'Aerarium e con i Carceres: ciò ci pone il problema della identificazione anche del monumento antico corrispondente alla chiesa attuale e del quale avanzano resti del pavimento, nelle cui fondazioni sono l'Aerarium ed i Carceres. Il noto passo di Vitruvio secondo il quale aerarium, carceres e curia dovevano essere riuniti insieme ci induce a pensare che l'edificio soprastante sia appunto la curia o meglio l'archeion della città, come ci suggerisce il fatto che ci troviamo nell'agorà e l'altro che le fondazioni presentano strutture greche del V secolo.
Al di fuori della cinta delle mura sono da ricordare un edificio termale rinvenuto nell'area della basilica di S. Chiara, ed un muro di alta datazione, fine VI sec. a. C., apparso nella parte alta di piazza del Municipio e da porsi in relazione con il porto, l'area del quale va appunto da piazza del Municipio a piazza del Plebiscito, ai piedi del promontorio di Pizzofalcone. L'area più ad occidente della città e le parti basse della collina di Posillipo divennero in età romana zona residenziale, ricca di ville appartenenti al ceto senatorio e ad arricchiti commercianti e liberti: tra queste, celebrata nell'antichità e identificata dalla ricerca archeologica, è la Villa Pausilypana di Vedio Pollione, posta nelle pendici del colle di Posillipo verso il mare della Gaiola, arricchita, tra l'altro di un teatro e di un odeon.
Bibl.: J. Berard, Bibliographie topographique des principales cités grecques de l'It. Mérid. et de la S., Parigi 1941; M. Napoli, Napoli greco-romana, Napoli 1959, con tutta la bibliografia precedente alla quale è da aggiungere: W. Johannowsky, Problemi archeologici napoletani con particolare riferimento alle zone interessate dal "Risanamento", Napoli 1960; M. Napoli, Una nuova Fratria neapolitana, in La Parola del Passato, LXXI, 1960.
(M. Napoli)
Museo nazionale. - L'edificio sorse con fine e destinazione diversi. Abbandonato il primitivo progetto del viceré duca d'Ossuna di costruire sull'allora deserta collina di S. Teresa, una cavallerizza per scuderia e maneggio, la nuova fabbrica venne commessa dal viceré conte di Lemos e finita su disegno dell'architetto Fontana nel 1616 con il proposito di farne Palazzo degli Studi o Università e, fra interruzioni e restituzioni, tale funzione esso ebbe fino almeno al 1777, insegnandovi fra gli altri, dal 1697 al 1701, Giovanbattista Vico. Fino a quel tempo l'edificio si componeva di un corpo centrale sopraelevato come una basilica sulle gallerie laterali limitate al pianterreno e ricorrenti come chiostri intorno ai due cortili; un grande emiciclo teneva il luogo dello scalone. Restauri e modifiche seguirono fra il 1780 e il 1820, ad opera dell'architetto Fuga e particolarmente dello Schiantarelli che fu l'architetto degli ultimi lavori di adattamento a museo: i lavori più importanti furono la sopraelevazione e l'adeguamento delle gallerie laterali al corpo centrale per necessità di ampliamento e di rinfianco. Tali opere, con l'aggravio delle nuove masse murarie su un terreno tufaceo indebolito da vecchie cave, finirono per produrre dissesti statici sì da rendere necessarî radicali lavori di irrobustimento alle strutture di fondazione.
Intanto le cospicue raccolte di sculture, di gemme, di monete e di pitture che Carlo di Borbone aveva ereditato dallo spento ramo dei Farnese di Parma, e le scoperte che si preannunciavano non meno cospicue dagli iniziati scavi di Ercolano, Pompei e Stabia, poneva il Regno di Napoli nella condizione di essere, dopo Roma, il più ricco depositano di antichità e di arte. Trasferite in un primo tempo le collezioni farnesiane nel Palazzo di Capodimonte, si ebbe per oltre un trentennio nella villa reale di Portici, nelle immediate vicinanze di Ercolano, il primo museo archeologico napoletano, quasi esclusivamente formato dai materiali raccolti dagli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; fino a che, sgomberato il Palazzo degli Studi d'ogni altra installazione, non si ritenne di farne la sede del nuovo grande museo del Regno, riunendo le collezioni farnesiane di Capodimonte a quelle del museo di Portici ed alla raccolta, da pochi anni acquistata, dei Borgia di Velletri (1817). Ciò avvenne nel 1822 con una cerimonia di trasporto che, nella sua festosa scenografia, può essere paragonata ai grandi avvenimenti dei secoli d'oro dell'arte: statue in bronzo e in marmo, gruppi equestri sfilarono su robusti carriaggi trainati da spettacolari tiri di buoi pungolati da bovari, tra una scorta d'onore di soldati a cavallo e dinanzi a una folla accalcata nelle vie, assiepata nei balconi e su palchetti d'onore, incuriosita e divertita all'inusitato spettacolo: la stampa che illustra quell'eccezionale trasporto può dirsi l'atto di fondazione del Museo Archeologico di Napoli.
I criterî fondamentali dell'ordinamento, pur essendo legati al carattere e alle strutture dell'edificio, si sono venuti naturalmente evolvendo in questo ultimo cinquantennio in seguito non solo a nuovi incrementi e a nuove esigenze della museotecnica, ma sovrattutto per maggiori e insperate disponibilità di spazio create dal trasferimento delle collezioni non archeologiche in altre sedi. Primo animoso rinnovatore E. Pais che, pur tra accese polemiche e veementi accuse, riuscì a dare un più decoroso aspetto di museo d'arte al vecchio ordinamento; un più vigoroso impulso s'ebbe nel 1927 con il trasferimento della Biblioteca Nazionale che permise di esporre al primo piano le preziose collezioni della pittura murale campana e di raggruppare e sviluppare in un ricco antiquario le arti e le suppellettili minori della vita quotidiana antica. E, infine, con il trasferimento della Pinacoteca nel Palazzo di Capodimonte (1956), è in corso un nuovo riordinamento che, lasciando le sculture in marmo al pianterreno, raggrupperà e coordinerà al piano superiore, in due grandi settori ai lati del salone centrale, le arti plastiche figurative e le arti decorative. Ma nonostante che con la creazione di altri musei dell'Italia meridionale, il museo di Napoli abbia assai ristretta la possibilità di nuovi arricchimenti, la varietà e ricchezza delle sue collezioni sono tali da assicurargli ancora il privilegio di offrire il più organico e compiuto aspetto dell'arte e civiltà classica in Italia.
Al già imponente gruppo delle sculture in marmo raccolte dai Farnese dai monumenti e dagli scavi di Roma - ad esse appartenevano pezzi celebri (il gruppo dei Tirannicidi, l'Atena, l'Ercole e il Toro Farnese) e una ricca serie iconografica greca e romana - si aggiunsero una preziosa stele funeraria greca con l'acquisto Borgia, il rilievo di Orfeo e Euridice dalla collezione del Duca di Nola e, successivamente, la ricca messe delle sculture di Pompei e d'Ercolano tra cui l'impareggiabile serie dei bronzi della ercolanese Villa dei Papiri. Distribuite le sculture d'arte arcaica, classica ed ellenistica e la serie iconografica nel vestibolo e nelle gallerie del lato orientale e occidentale, i maggiori colossi della scultura antica, l'Ercole e il Toro Farnese, hanno ritrovato sotto la vòlta basilicale della più ampia galleria del pianterreno, tutto il loro valore di volume e di movimento, sì da vederli quasi rivivere nella libera atmosfera per cui l'artista li aveva creati. E in questa stessa galleria con il vaso di Gaeta, la Venere di Sinuessa, l'Eros Farnese, la cosiddetta Psiche di Capua, i gruppi di Sileni e Satiri, le sculture pergamene e la Venere Callipige, si ha uno dei più grandiosi complessi dell'arte ellenistica.
La più lussuosa scultura decorativa imperiale appare invece nella cosiddetta Galleria dei Marmi Colorati dove tutte di provenienza farnesiana sono le statue in marmi rari e policromi adatti al tipo sacrale o barbarico raffigurato: trionfante fra tutte il simulacro della Diana d'Efeso, a cui il caldo colore venato della veste d'alabastro, serrata con il suo sovraccarico di idoli e di emblemi zodiacali intorno al corpo, accentua il contrasto con il nero e freddo colore metallico del volto, delle mani, dei piedi.
Ma nella statuaria quel che è la maggiore e insuperabile ricchezza del museo di Napoli è la collezione delle sculture in bronzo. Un gruppo di 60 e più statue e busti in bronzo provenienti dalla sola Villa ercolanese dei Papiri formavano già per il patrizio romano che li raccolse dalle officine dei bronzisti della Grecia e della Magna Grecia, un museo senza particolari predilezioni, ma ispirato a quel gusto eclettico che i Romani avevano e che permise al collezionista ercolanese di spaziare dallo stile severo delle cosiddette Danzatrici alle più gioiose espressioni dell'arte ellenistica, di scegliere soprattutto tra oratori, filosofi, dinasti e strateghi la sua galleria di uomini illustri; ad essi si aggiunsero le molte statue iconiche del teatro d'Ercolano e i pezzi, ancora lacunosi, d'una grandiosa quadriga e, infine, da Pompei è venuto un minore, ma non meno pregevole, numero di grandi sculture in bronzo (l'Apollo citaredo, gli Efebi di Porta Vesuvio e della Casa dell'Efebo), alcuni stupendi ritratti (Norbano Sorice, L. Cecilio Giocondo) e una più ricca messe della piccola scultura ornamento di fontane e di triclini tra i quali sono i capolavori del Fauno danzante, del Satiro con l'otre, del Sileno portalampada.
Dopo la grande e piccola scultura sono le suppellettili in bronzo, restituiteci a dovizia dal suolo di Pompei e d'Ercolano a offrire il quadro dell'ambiente e del costume della vita familiare antica. La cosiddetta Collezione dei Piccoli Bronzi raccoglie infatti in più sale: apparecchi di peso e misura (bilance e stadere, compassi e archipendoli), gli strumenti chirurgici (preziosa testimonianza della chirurgia antica); gli apparecchi di riscaldamento (bracieri, scaldavivande, fornacette portatili), apparecchi di illuminazione (lucerne a uno e più becchi, candelabri, lucernieri); brocche, anfore, situle, lances, crateri con anse e manici artisticamente figurati o niellati; statuette di Lari e Penati del culto familiare; prodotti di un grande artigianato di bronzisti e metallurgici i cui centri di fabbricazione, oltre che a Pompei, vanno ricercati a Capuavetere, nei centri artistici della Magna Grecia (Taranto) e nel Lazio e in Etruria. E accanto al vasellame in bronzo è la sorprendente ricchezza delle cosiddette arti minori, decoro delle più nobili case pompeiane ed ercolanesi: del vasellame argenteo della mensa con, tra calici e calathi e modioli con decorazione figurata e vegetale, il tesoro argenteo della Casa del Menandro; la policroma varietà dei vetri con l'anfora e la trulla in vetro cammeo su fondo azzurro, piatti e balsamarti di vetro fiorito o ad imitazione delle pietre dure e medaglioni dipinti con ritratto; terrecotte invetriate; avorî e ossi intagliati; oreficerie che dai corredi arcaici di Cuma, greci ed ellenistici delle colonie della Magna Grecia, giungono alle grevi e meno artisticamente fini oreficerie (collane, armille, orecchini) raccolte in buon numero a Pompei intorno ai fuggiaschi dell'eruzione; e infine le gemme ereditate dai Farnese dalla collezione di Lorenzo dei Medici, e che costituiscono una delle più preziose raccolte della glittica antica: dalla copiosa serie degli anelli in pietre colorate o incolori intagliate ad incavo, tra cui celebre è il cosiddetto Sigillo di Nerone, al superbo cammeo della cosiddetta Tazza Farnese, caposaldo della glittica alessandrina.
Oltre alle sculture e alle suppellettili il museo di Napoli ci dà la più compiuta testimonianza delle due arti fondamentali della decorazione della casa antica con il mosaico e la pittura.
La collezione dei mosaici, quasi esclusivamente formata dai pavimenti delle case di Pompei e di Ercolano, costituisce la più ricca raccolta dell'arte musiva del I sec. dell'Impero insieme con gli esempî più insigni che si hanno del mosaico d'arte ellenistica, quali il mosaico della Battaglia d'Alessandro, disteso come un prezioso tappeto nella più nobile exedra della regale Casa del Fauno, gli emblemata con allegorie stagionali degli oeci tricliniari della stessa casa, e i deliziosi quadretti tolti da bozzetti della vita popolare della cosiddetta Villa di Cicerone firmati da Dioskourides di Samo, tali insomma da formare nel loro complesso il primo insuperato capitolo dell'arte musiva. Oltre al mosaico pavimentale la raccolta contiene alcuni rari esempî di mosaici parietali e un mirabile ritratto di matrona che sembrano preludere, con le fontane a mosaico dei ninfei di Pompei e d' Ercolano, al mosaico delle pareti e delle vòlte degli edifici termali e dei grandi ninfei marittimi imperiali e al più tardo mosaico paleocristiano e bizantino.
Ma è nella pittura parietale che il museo di Napoli esprime la sua maggiore e peculiare ricchezza. La raccolta proviene dall'uso, seguito per lungo tempo negli scavi di Ercolano, Stabia e Pompei, di distaccare gli intonaci dipinti dalla parete che li sosteneva non ritenendosi ancora di lasciare le pitture in situ, sia perché gli edifici scavati nel '700 venivano, spogliati che fossero d'ogni loro decorazione e suppellettile, risepolti, sia sovrattutto perché si voleva arricchire il museo di Portici e il nuovo Museo Borbonico. E poiché tale distacco mirava sovrattutto a conservare o i quadri figurati, o i pannelli con paesaggi e vedute di ville, o figure isolate di satiri e baccanti, a ciò dobbiamo se, pur con il distacco della parte figurata dalla sintassi decorativa della parete, e con l'inevitabile frammentarietà del materiale raccolto nelle sale di esposizione e nei depositi, tanta preziosa parte della pittura campana, sottratta all'azione deleteria degli agenti atmosferici, ci è conservata nella sua originale tonalità di colore. Trasferita col nuovo ordinamento dalle oscure e anguste stanze dell'ammezzato nelle sale del piano superiore e ariosamente disposte, non secondo i vieti criteri dei soggetti, ma secondo un più naturale aggruppamento stilistico e topografico, la collezione si presenta come una vera e propria pinacoteca antica. Dalla sala dei primitivi con le pitture funerarie degli ipogei di Ruvo, Canosa, Paestum e Cuma, si passa alla megalografia della Villa di Boscoreale, della Casa di Marco Lucrezio, della Casa del Citarista, al gruppo ercolanese con i miti di Ercole e Teseo, al ciclo omerico della Casa del Poeta Tragico, alla serie così unitaria nello stile e nella composizione del mito nel paesaggio e, infine dopo un gruppo di soggetto storico romano, alla sala dei paesaggi, dei ritratti, del costume e della vita popolare e, da ultimo, preziosa e non ancora riunita, la serie dei quadri di natura morta a commento e illustrazione dei commestibili che le case stesse di Pompei e d'Ercolano ci hanno conservato. S'interpongono nella serie dei dipinti murali i monocromi marmorei (5 da Ercolano, 1 da Pompei) dei quali se il più famoso è quello cosiddetto delle Giocatrici di astragali firmato da Alexandros ateniese, più stilisticamente vicino ai grandi modelli cui s'ispira appare il monocromo della Lotta del Centauro con i Lapiti.
La collezione vascolare s'è formata con il più largo contributo delle necropoli dell'Italia meridionale: necropoli campane e necropoli della Lucania e della Puglia, in modo da costituire con la raccolta cumana, con i sepolcreti della Valle del Sarno, con la collezione di recente acquisita del Marchese Spinelli di Suessola, e con il gruppo dei buccheri etrusco-campani, il caposaldo per la conoscenza del più antico materiale ceramico in Campania, e con i corredi successivi del periodo greco-italico di Cuma, Capua, Nola, Saticula, Anzi, Armento, Paestum, Canosa e Ruvo una delle più ricche documentazioni della ceramica d'arte di fabbriche italiote. Dalle necropoli campane e àpule provengono alcuni capolavori della ceramica attica: la hydrìa Vivenzio da Nola, con la drammatica raffigurazione della notte di Troia, lo stàmnos dionisiaco di Nocera, il cratere detto di Pronomos da Ruvo; da Canosa, da Ruvo e da Altamura i grandi anforoni àpuli che trasportano sulle pareti del vaso la megalografia della pittura parietale (Vaso dei Persiani), e da Paestum e S. Agata dei Goti alcuni vasi firmati dal ceramografo lucano Assteas.
E se si eccettua la serie delle terrecotte architettoniche, dove figurano le lastre fittili arcaiche della Collezione Borgia di Velletri, campana e magnogreca è la ricca serie delle terrecotte figurate dove, fra i più fini e significativi prodotti della coroplastica arcaica, ellenistica e romana, meritano di essere segnalate le stipi raccolte da santuarî e templi di arte schiettamente italica.
Proveniente anch'essa dai centri greci e italici dell'Italia meridionale, la Collezione delle Armi del museo di Napoli rappresenta, insieme con i guerrieri raffigurati su vasi e tombe osco-lucane, la più preziosa testimonianza del costume militare greco e italico nell'età preromana, con elmi, corazze, schinieri e spade raccolte dai sepolcri e armamentarî di Ruvo, Canosa, Pietrabbondante (Bovianum Vetus). L'armatura romana è rappresentata dalle armi gladiatorie di gran parata con cui i gladiatori davano inizio allo spettacolo: tra esse provengono da Pompei i due famosi elmi con scene della presa di Troia e dell'origine di Roma ed è il solo tentativo che l'arte abbia fatto di colorire la truculenta lotta dell'arena con la luce dei mito.
Il medagliere, la più cospicua raccolta statale di monete antiche in Italia, s'è venuto formando e arricchendo, oltre che con il vecchio fondo farnesiano, con raccolte e lasciti vari (Borgia, Carafa, Monteoliveto, Arditi), con le frequenti scoperte pompeiane e, per gran tempo, con i recuperi di tesoretti e ripostigli delle province meridionali; nel 1865 la ricca Collezione Santangelo (di 42.730 pezzi) acquistata dal Comune di Napoli, veniva data in perpetuo deposito al museo. I primi Cataloghi compilati con benemerita fatica dal Fiorelli (1864-1871) comprendono 53.000 esemplari, numero che, con le collezioni medievali e moderne, rappresenta una terza parte dell'attuale consistenza del medagliere napoletano. Per la monetazione antica di particolare pregio è la ricca serie delle monete delle colonie greche dell'Italia meridionale, delle città italiche oltre ai numerosi ripostigli dell'età repubblicana e imperiale; tra i pezzi unici è il medaglione aureo di Augusto trovato nel 1759 a Pompei.
La collezione lapidaria costituisce una delle più complete documentazioni epigrafiche per lo studio delle antichità greche e romane: Roma e il Lazio (fondo Farnese e Borgia) vi sono rappresentati con un cospicuo gruppo di testi giuridici su tavole di bronzo e frammenti di calendarî; la Magna Grecia con il suo più importante testo delle tavole di Eraclea, le laminette orfiche di Turii, le iscrizioni arcaiche di Cuma e le iscrizioni agonistiche e onorarie della Napoli greco-romana; le lingue e i dialetti italici sono presenti con la quasi totalità delle iscrizioni osche raccolte dalla Campania, dal Sannio e dalla Lucania, e con l'unica iscrizione veliterna in dialetto volsco e alcune stele del gruppo piceno, marrucino e vestino. Segue topograficamente disposta lungo le ali di un portico la ricca serie delle iscrizioni di Pompei, Ercolano (con esempî di iscrizioni dipinte e graffite), Pozzuoli (lex parieti faciundo), Miseno, Cuma, Litemo, Sinuessa, Minturno, Cales, Capua (cippi graccani), Acerra, Nola, Benevento, di tale importanza e ricchezza che il Mommsen poté gettare le basi della grande codificazione delle iscrizioni del mondo romano con la sua prima silloge delle Inscriptiones regni Neapolitani (1865).
Di recente formazione è la collezione paletnologica che raccoglie la documentazione delle prime ricerche della civiltà preistorica in Campania e in Lucania: i materiali della Grotta di Pertosa e dello Zachito (Salerno) e delle cavernette funerarie di Matera; alcuni esemplari di ceramica cromica della Grotta del Castiglione a Capri; di particolare importanza per la più antica civiltà della Campania, gli oggetti provenienti dagli strati preellenici di Cuma ed i corredi geometrici e protogreci della valle del Sarno (Striano, S. Marzano, S. Valentino) direttamente connessi all'origine e all'impianto di Pompei.
La sezione tecnologica (1932) raccoglie strumenti e congegni meccanici provenienti per la quasi totalità da Pompei: formata per la maggior parte da originali e in piccola parte da modelli, costituisce una delle più preziose testimonianze delle arti meccaniche degli antichi. Tra gli strumenti: la groma o squadro agrimensorio rinvenuto nell'officina di un faber aerarius a Pompei; la ruota idraulica di Venafro nell'impronta lasciata nella concrezione calcarea delle acque del Tuliverno presso Venafro; la serie degli apparati necessarî per la lavorazione del grano e del pane: il pilum tuscum-graecum o scorticciatore meccanico; le varie macine trusatilis, manuaria, asinaria; la rudicula multiplex o impastatrice a spatola multipla; per la lavorazione del vino e dell'olio (prelum, trapetum, torcular); stadere e bilance (librae, pondera); un gigantesco epistomium in bronzo dell'acquedotto romano dell'isola di Ponza e, infine, ricomposto nella sua integrità il bagno della Villa Pisanella di Boscoreale il più intatto bagno privato dell'antichità.
Legata infine alla storia della formazione del museo è la piccola e pregevole collezione egizia acquistata insieme con le altre raccolte Borgia, con stele in arenaria dell'Antico Regno e del periodo saitico, qualche bella scultura in basalto, vasi canopici, statuette funerarie, statuette di divinità e di animali sacri, coperchi di casse di mummie.
Nonostante la vetustà del suo edificio il museo di Napoli con la dovizia delle sue collezioni è quello che più organicamente rappresenta i varî aspetti della civiltà antica. È un museo di concentrazione e di approfondimento della civiltà mediterranea: Roma, la Grecia, la Campania, vicende storiche e politiche, cataclismi vulcanici e successioni dinastiche hanno fatto di questo museo il più prezioso deposito che la civiltà dell'Italia antica ci abbia lasciato.
Bibl.: Per la storia dell'edificio e delle collezioni: G. Consoli Fiego-A. Maiuri, Il Salone degli Arazzi, Richter 1927; Documenti inediti per servire alla storia dei Musei d'Italia, pubblicati per cura del Minist. della P. I., 4 voll., 1878-1880; vol. I, Nuovo Museo e fabbr. delle porcellane di Napoli (inv. 1796), pp. 166-274; vol. II, Antichità scoperte nelle provincie meridionali, pp. 1-97; vol. III, Museo borbonico, Inventario delle pietre incise (1830), pp. 81-129; vol. IV, Antichità scoperte nelle province meridion., pp. 93-128; ibid., Nuovo Museo e fabbr. delle porcellane (1796), pp. 124-163; ibid., Nuovo Museo dei Vecchi Studi in Napoli (1805). Catalogo delle sculture antiche, pp. 164-273; ibid., Museo della Regina Carolina Murat (1815), pp. 274-327; L. Ceci, Il Palazzo degli Studi, in Napoli nobilissima, XIII, 1904, pp. 161-165, 180-183; ibid., XV, pp. 151-157; A. De Franciscis, Restauri di Carlo Albacini a statue del Museo Naz. di Napoli, in Samnium, XIX, nn. 1-2, 1946.
Cataloghi: G. B. Finati, Il Regal Museo Borbonico, I (Delle statue di marmo), Napoli 1819; Museo Borbonico, voll. I-XVI, 1824-57 (nel vol. XVI l'indice generale delle opere d'arte con testo e tavole nei singoli volumi); A. De Iorio, Déscription de quelques peintures antiques qui existent au Cabinet du Royal Musée Bourbon, Napoli 1825; Gerhard-Panofka, Neapels antike Bildwerke, Tubinga 1828; F. Alvino, Déscription des monuments les plus interessants du Musée Royal Bourbon, Napoli 1841; G. Fiorelli, Catalogo del Museo Naz. di Napoli, Collezione Santangelo. Monete greche, Napoli 1866; id., Medagliere, Monete greche, 1870; id., Monete romane, 1870; id., Monete del Medioevo e moderne, 1871; id., Catalogo delle armi, 1869; id., Catalogo della raccolta epigrafica; I, Iscrizioni greche ed italiche, 1867; II, Iscrizioni latine, 1868; della Raccolta pornografica, 1866; A. Ruesch, Guida illustrata del Museo nazionale di Napoli (compilata per le singole collezioni a cura di D. Bassi, E. Gabrici, L. Mariani, O. Marucchi, G. Patroni, G. De Petra, A. Sogliano), 1911; Touring Club Ital., Napoli e dintorni, 1938-1954, pp. 183-233 (descr. del museo in parte aggiornata).
Pitture e mosaici: O. Elia, Pitture murali e mosaici del Museo Nazionale di Napoli, Roma 1932 (secondo il vecchio ordinamento); Ceramiche: H. Heydemann, Die Vasensammlungen des Museo Nazionale zu Neapel, pp. 923, tavv. 22, 1872; A. Adriani, Vasi di stile attico a fig. nere, in C.V.A., Italia, fasc. XX, Museo Naz., fasc. I, 1950; A. Rocco, Ceramiche delle fabbriche tarde (del tipo di Cales), in C.V.A., Italia, fasc. XXII, Mus. Naz., fasc. II, 1953; id., Ceramiche a decorazione sovradipinta, in C.V.A., Italia, fasc. XXIV, Mus. Naz., fasc. III, 1954; A. Levi, Le terrecotte figurate del Museo Naz. di Napoli, pp. 216, tav. XIV, Firenze 1926. Oreficeria-Glittica: G. Pesce, Oreficeria, Toreutica, Glittica, Vitraria, Ceramica, in Itinerari dei Musei e Monum., n. 19, Roma 1934; id., Gemme medicee del Museo Naz. di Napoli, in Riv. Ist. Arch. e St. dell'Arte, V, fasc. I-II, 1934, pp. 50-97; L. Breglia, Catalogo delle oreficerie del Museo Naz. di Napoli, Roma 1941; C. Siviero, Gli ori e le ambre del Museo Naz. di Napoli, Firenze 1954. Arti decorative: V. Spinazzola, Le arti decorative nel Museo Naz. di Napoli e a Pompei, Milano 1928; B. Maiuri, Museo Nazionale di Napoli, Novara 1957 (illustr. di circa 150 opere d'arte con 28 tavv. a colori).
(A. Maiuri)