NAPOLI
(gr. Παϱθενόπη, ΝεάπολιϚ, lat. Neapolis)
Città della Campania, capoluogo di regione, posta lungo la costa tirrenica, al centro dell'omonimo golfo.
In età medievale N. vista dal mare appariva imponente, insediata sulle alture di San Marcellino, del Monterone e di San Giovanni Maggiore, tanto da formare una sorta di contrafforte roccioso proteso sul mare, il quale penetrava in profondità lambendo le mura e le stesse alture. Due erano gli approdi cittadini e formavano ampie anse. Il primo, più antico, era detto Vulpulo o illo Aqquario, un bacino che partiva all'incirca dallo sbocco di rua Catalana e giungeva sino alla zona dove oggi sorge la chiesa di S. Pietro Martire, comprendendo tutta l'area dell'od. piazza della Borsa; una parte di esso fu poi conosciuto come porto Pisano. L'altro, piccolo ma più protetto, era quello dei Capece - detto in età angioina degli Amalfitani e dei Sorrentini -, che nel periodo normanno e svevo ebbe maggiore vigore e vivacità, e aveva a uno dei capi la c.d. pietra del pesce, il mercato ittico cittadino, un'insenatura che si può ipotizzare coincidente con il tratto del corso Umberto I che comincia da piazza N. Amore. Entrambi i porti già in età angioina si erano notevolmente modificati, a causa dell'arretramento, lento ma continuo, del mare e si rendevano poco praticabili.La città, secondo Falcone Beneventano, nel 1140 misurava duemilatrecentosessantatré passi (equivalenti a m 4.470), ed era la più ampia tra le città campane (Feniello, 1995a, p. 37). Questo perimetro era il risultato di un complesso sforzo di riorganizzazione delle difese cittadine, prodottosi dopo la definitiva conquista bizantina e in rapporto con il pericolo, costante per secoli, delle incursioni longobarde e arabe.Nel 440 l'imperatore Valentiniano III munì la città, sia da terra sia lungo la fascia marittima, muris turribusque (Galasso, 1958-1959, rist. p. 73): l'opera non si limitò al restauro delle vecchie mura, ma accrebbe le capacità di difesa dei quartieri occidentali e meridionali. Dopo la conquista di Belisario, avvenuta nel 537 nel corso della guerra greco-gotica, si procedette a un sommario recupero delle mura e alla costruzione di sette mirificas turres ottagonali ed esagonali che, staccate dalla cinta, sorsero ai principali angoli di essa (Feniello, 1991, p. 175). Narsete (m. nel 568) procedette invece a un'efficace riattazione dell'intero sistema difensivo e la murazione, che rimase inalterata a E e a N, incluse a O e a S nuove zone nel perimetro cittadino, come per es. la regio Albinensis.Altri interventi avvennero tra il sec. 9° e il 10°, nell'834 e poi nel 902, quando fu creato il Castellione novo, per migliorare la difesa del tratto occidentale della costa dopo l'abbandono del castrum Lucullanum, posto sul promontorio di Pizzofalcone, per paura dell'arrivo della flotta dell'emiro Ibrāhīm. Il Castellione sorse lungo il margine occidentale del Vulpulo e non era collegato alla cinta muraria, ma piuttosto distaccato da essa e formava una sorta di baluardo avanzato, posto nell'attuale zona di rua Catalana, tra via A. de Pretis e via Medina. Nel lato meridionale della struttura era inserito l'antico arsenale, detto in età normanna de domino Rege, che si protendeva nel margine occidentale del bacino, direttamente sul mare. L'arsenale era sormontato da una possente merlatura e dotato di feritoie e posti di avvistamento. La fisionomia era quella di un robusto avamposto murario di sicuro peso difensivo, la cui area però doveva essere piuttosto ridotta, tanto da non poter contenere più di due galere, come testimoniano i documenti contemporanei. Una porta ricavata nell'edificio - la portua de arcina, attestata nel 1018 (Feniello, 1991, p. 177) - permetteva il rapido accesso alla marina: adito che diede vita, in seguito, al pertusum de mare o loco detto pertusum, ricordato da Giovanni Boccaccio come Malpertugio nella novella di Andreuccio da Perugia (Decameron, II, 5).Nel sec. 10° si procedette anche a dotare i tratti maggiormente esposti della murazione costiera di un antemurale, che, costruito direttamente sulla spiaggia, prese il nome di baricatorium o, più comunemente, di moricino, appunto per le sue ridotte dimensioni. Va notato che tra muro di cinta e moricino si formò un'ampia fascia suburbana che in età normanna e sveva fu sottoposta a un rapido e intenso popolamento e si coprì di nuclei religiosi, di abitazioni civili e, per la stretta vicinanza al porto, di sedi commerciali: tale spazio fu chiamato iunctum o iunctura civitatis, una nuova aggiunta alla vecchia città.Oltre al Castellione novo, a difesa del bacino portuale vi erano due delle sette torri costruite da Narsete. La prima, detta de angula e citata solo in un privilegio del 1044 (Feniello, 1991), era posta nell'area dove oggi sorge S. Pietro Martire. Meglio definita è la fisionomia dell'imponente torre Mastra, posseduta dalla famiglia Castagnola e ubicata dove oggi è la chiesa di S. Maria la Nova; varie testimonianze ne pongono i resti sotto il dormitorio dello stesso convento. Altre torri costiere, verosimilmente più antiche, vengono spesso menzionate. La torre cinta - una fortezza di forma quadrangolare, detta così perché toccata dal moricino - era una costruzione monumentale posta nel luogo detto pede de Monterone o, più significativamente, Augusto. La sua imponenza era tale da essere attraversata da un vicolo, detto dei Ss. Cosma e Damiano. Più a E, presso la porta dei Monaci, era invece un'altra torre altrettanto massiccia, fino all'età sveva di proprietà della famiglia Romano, che si raccordava al moricino ed era verosimilmente attraversata da una strada che conduceva nella zona extraurbana di Campagnano. Di altre torri cittadine si hanno notizie frammentarie.Quanto alle porte, partendo dal versante marittimo, da O verso E, si riconoscevano la porta del Vulpulo, detta in età angioina de Petruzula o Petruccia, la porta dei Caputo, la piccola posterula de Appaia o de Appium e la porta del Barbacane, detta anche porta a Mare, de Morizini o de illo Bonifacio. Sul lato orientale si aprivano la porta nova dei Monaci o dei Cannabarii, la porta Furcillensis e la porta Capuana; proseguendo verso N erano un'altra posterula, detta Carbonaria nel sec. 14°, e la porta S. Gennaro. Sulla muraglia occidentale erano la porta Romana, la porta Dominae Ursitatae (ubicata nel luogo dov'è oggi la chiesa di S. Pietro a Maiella), la porta Cumana vel Puteolana e la porta Ventosa, situata accanto al monastero di S. Girolamo delle Monache. Infine, oscura resta la menzione di una porta Pavezia. La loro struttura, secondo quanto congettura Capasso (1891-1893, rist. p. 18) sulla scorta di un passo di Procopio (De bello Gothico, I, 8-9) riguardante porta S. Gennaro, era caratterizzata da due torri che rinforzavano l'arco della porta. Ma è più plausibile ritenere che molte di esse - fra cui la porta dei Caputo e la porta Ventosa - fossero state concepite con un'efficace funzionalità difensiva, ossia simili a grosse torri quadrate che sporgevano dalla murazione e che si protendevano formando un ulteriore baluardo difensivo.La N. medievale cresceva e si stratificava sull'antico tessuto urbano romano, caratterizzato da tre ampi decumani, in un quadro di sorprendente continuità, dove si conservavano le ereditate ripartizioni per regiones, che comprendevano vie (platee), vicoli, trasende e corti. Tuttavia tra il sec. 12° e il 13° tali ripartizioni entrarono in crisi, quando a esse cominciarono a preferirsi quelle per seggi, più rispondenti alla caotica ma vitale società del tempo, che si affermarono nel corso del Duecento.Partendo da S si incontravano: la regio Castellione novo, staccata dalla città; quella di Calcara, che divenne poi la regione di Porto; la regio di Fontanula e quella di Portanova; a O erano le regioni Albinensis e porta Dominae Ursitatae; a E le regioni Balnei novi e Capuana. Nel cuore della città, lungo i decumani inferiore e medio, erano la regio Nili, quella di Domunova, la regio Furcillensis o Herculanensis, quella de Arco cabredato, la regio Augustale o Forum e la regio Termense. Sul decumano superiore erano la regio Marmorata, quella di Somma Piazza e la regio Apostolorum; la più settentrionale era la regio portae S. Ianuarii (Capasso, 1891-1893).Se fino al sec. 12° il paesaggio cittadino fu caratterizzato dalla presenza di spazi verdi, fatto che si riflette spesso nella toponomastica cittadina, nel periodo successivo prevalse un'immagine di grande confusione e disordine. Non solo nei quartieri di più recente formazione, sorti a ridosso delle mura a poca distanza dal porto, e considerati nei documenti del tempo come zone igienicamente malsane, ma anche nella zona 'alta' della platea Augustale, corrispondente in gran parte all'od. via Tribunali, l'esiguità dello spazio urbano spinse a costruire edifici a più piani e a elevare quelli già esistenti.Ancor prima dell'età angioina le insulae religiose - formate dall'episcopium, dalle basiliche, dalle diaconie e dai monasteri - emergevano come elemento distintivo dello spazio cittadino, al punto che Guarimpoto (secc. 9°-10°) ne sottolineava il gran numero e lo splendore (Vitolo, 1990, p. 12). Molti edifici religiosi sorsero su precedenti strutture classiche: la sede vescovile nacque sul tempio di Apollo e formava una vasta area fortificata tra la platea Capuana e la platea Summae plateae, comprendente la cattedrale (formata dalle due chiese distinte di S. Restituta e della Stefania), i granai, i giardini, un ospedale, una biblioteca e diversi edifici. Analogo discorso vale per diverse basiliche: S. Maria Maggiore, detta anche la Pietra santa, sorse sul tempio di Iside; S. Giovanni Maggiore, che dominava il porto del Vulpulo, fu costruito sul tempio di Antinoo; S. Paolo Maggiore fu eretto sulle rovine del tempio di Castore e Polluce; il monastero di S. Gregorio Armeno sorto nell'area dell'antico tempio di Cerere.Le diaconie decaddero tra i secc. 12° e 13°, lasciando tuttavia in vita le chiese e gli ospedali che vi erano annessi. Oltre all'ospedale di S. Pietro e quello dei Ss. Giovanni e Paolo, vanno ricordati: S. Andrea ad Nidum; S. Gennaro ad diaconiam, poi detto all'Olmo; S. Maria Rotonda, detta anche ad Presepe; S. Giorgio ad Forum, ubicato lungo la platea Augustale nell'od. piazza dei Girolamini; S. Maria in Cosmedin, detta anche di Portanova.Fino all'età sveva i documenti danno notizia di ventinove monasteri esistenti in città, undici maschili e diciotto femminili, su parecchi dei quali sono pervenute notizie spesso frammentarie e confuse. All'interno dello spazio urbano occupavano una posizione di prestigio i monasteri dei Ss. Marcellino e Festo e dei Ss. Severino e Sossio, situati poco lontano dal pomerium. Il cenobio dei Ss. Marcellino e Festo era posto presso il pretorium civitatis (Feniello, 1995a, p. 47), al vertice di uno scosceso versante rupestre. Era stato costruito dal duca Antimo (801-818) e i suoi edifici, comprendenti orti e magazzini, dominavano la regione sottostante. Poco lontano era il complesso monastico dei Ss. Severino e Sossio, ubicato nel vico missi (oggi sede dell'Arch. di Stato). Una posizione centrale era anche quella occupata dal monastero femminile di S. Gregorio Armeno o maioris, che formava un'ampia insula a ridosso della platea Nostriana, nell'od. vicolo di S. Gregorio Armeno (Feniello, 1995a). Nelle vicinanze del foro era poi il monastero di S. Pellegrino, nel 1132 dimora delle vergini ancillarum Dei. Tra i vicoli Frigidum e Bulgaro, nella platea di Somma Piazza, si trovava invece il monastero di S. Martino ad monacorum, fondato probabilmente nell'11° secolo. Nella platea Furcillensis era ubicato il monastero di S. Gregorio de regionario. Periferici erano altri monasteri: quello dei Ss. Teodoro e Sebastiano ad casa picta, poco discosto dalle mura occidentali della città; S. Demetrio de regione Albinense, situato all'incirca nell'od. via dei Banchi Nuovi (Capasso, 1891-1893); S. Agata ad populum e l'obbedienza di S. Severino, posti entrambi nella iunctura civitatis (Feniello, 1991, p. 188). Extramurario era il monastero di S. Arcangelo posto subtus muro publico, accanto al quale era uno dei cimiteri cittadini.Per quanto riguarda l'edilizia pubblica, assai meno nota, una funzione rilevante, almeno fino all'età normanna, fu certo svolta dal pretorium civitatis, che per secoli rappresentò la sede del potere ducale. Era ubicato sulla collina di Monterone, cioè in un luogo di importanza strategica nell'ambito delle mura cittadine, e poco lontano dalla diaconia dei Ss. Giovanni e Paolo, detta appunto de pretorio. La struttura, anche se ridimensionata dalla presenza delle vicine fabbriche del monastero dei Ss. Marcellino e Festo, rimase a lungo il luogo dove "reipublicae Neapolitanae negotia agebantur" (Feniello, 1995a, p. 50); verosimilmente, conservò ancora un'importante funzione amministrativa durante il regno normanno, in quanto pare che vi risiedesse il compalazzo.Nel 1180 fu fatta restaurare e ampliare da Guglielmo II l'antica fortezza posta a guardia di porta Capuana, che prese il nome di castel Capuano, edificio che inglobò la vicina porta e la muraglia. Il castello, per la sua importanza strategica e per la sua posizione nevralgica, divenne già nel sec. 12° residenza regia. Dalla nuova amministrazione normanna furono utilizzate due strutture di età ducale: l'arsenale e la dogana. Quest'ultimo edificio sorgeva sulla spiaggia antistante la porta del Barbacane ed era separato dal mare da pochi gradini. Qui era il fulcro del commercio e intorno vi erano alcuni fondaci, fra cui quello dei Genovesi, e un monumentale porticato che accoglieva diverse botteghe, al di sopra del quale vi erano altri magazzini.Moltissimi portici ricavati negli edifici civili o nei pronai delle chiese e dei monasteri - il più bello dei quali era quello che circondava il pretorium e che formava una sorta di belvedere sul porto - venivano usati come luoghi d'incontro e di svago per la popolazione. Al loro interno si ricavavano botteghe e taverne e molti di essi, proprio tra i secc. 12° e 13°, si trasformarono in seggi. Questi, detti anche sedili, pare venissero edificati a partire dal sec. 11°, quando diverse case magnatizie fecero edificare 'portici privati' al duplice scopo di "unirsi con quei della loro famiglia" e di "trattare degli affari coi loro eguali" (Feniello, 1995a, p. 23). Erano più di ventinove, disseminati in diverse zone della città, senza un ordine topografico determinato, ridotti poi a sei all'inizio del Trecento dalla nuova amministrazione angioina. Si trattava generalmente di locali costruiti con pianta quadrata, aperti su tre lati e coperti da una cupola, che occupavano un'area di m 20 ca. e comprendevano una sala grande per le riunioni e un ambiente retrostante di ridotte dimensioni, destinato alle consultazioni ristrette.Comune era l'uso di bagni, che ebbero un'importante rilevanza sociale come luoghi di ritrovo e d'incontro. Intorno al balneum correvano colonnati, esedre, portici e giardini, come quelli che circondavano il bagno Nostriano, il più antico della città, situato nella regio Augustale, nelle vicinanze immediate del foro. Nel 1076 si ha notizia di un balneum vetus destructum alla via Capuana, mentre nel 1164 viene menzionato un altro balneum veterem (Capasso, 1891-1893), presso la scomparsa via dei Ferri Vecchi. Anche all'interno della porta dei Caputo era un bagno, fatto edificare agli inizi del 12° secolo. Un altro era al Monterone e comprendeva "ipso spoliatorio et tepidarium et fornace et cum putheo aque vive" (Capasso, 1881-18922, II, p. 102). Alle notizie riguardanti bagni pubblici e privati si connettono quelle riguardanti la presenza di fonti e sorgenti d'acqua. A fontane fanno riferimento i nomi fistula e fistula fracta e forse anche la denominazione 'formelli', ma va anche ricordato il vicolo quatuor putea. Assai ricca di sorgenti era la zona di Patrizzano, dove ancora oggi è evidente la c.d. fontana delle Zizze. Celebre fu, in età angioina, la sorgente del monastero di S. Pietro Martire.Un rapido accenno meritano le strutture fognarie e di scolo delle acque. La cloaca massima stava quasi al centro della città e veniva da Pistasio nella regione di Forcella e, come si legge in una scrittura dei primi anni del sec. 12° (Feniello, 1995a, p. 51), correva in superficie lungo la strada pubblica. Passava sottoterra, invece, la cloaca pubblica di Nilo. Tuttavia, in gran parte i deflussi che giungevano dalla sommità delle tre colline non erano controllati e davano vita ai c.d. lavinari, scoli carichi di detriti e di rifiuti che spesso precipitavano con violenza sulle zone basse della città. Il più celebre di essi era posto subito a O di porta Dominae Ursitatae; caratteristiche analoghe doveva avere anche il carbonarius publicus, situato lungo le mura settentrionali.Gli edifici civili raggiungevano generalmente i due e anche i tre piani e di solito le abitazioni erano fornite di saloni, di cucine, di scale (in legno o in muratura), di ingressi incancellati, di depositi (c.d. cellari) e di altri accessori. Il piano terreno era occupato spesso, oltre che dai cellari, anche da botteghe o da laboratori artigianali. Al piano superiore erano le camere, il cubiculum o cubuculum, il triclinium - termine ancora usato nelle carte medievali -, le stationes e le cammare. Il termine cucina viene spesso sostituito da quello di caminata, con il quale si indicava il locale del focolare. Al di sopra era il terrazzo, l'astracum, con un pavimento di lastrico battuto. I vani abitabili erano collegati da un raccordo esterno lungo un corridoio-balconata (anditum altineum) che immetteva su di un ballatoio, secondo una tipologia ancora riscontrabile in molte case del centro antico cittadino e, in particolare, nel fondaco di S. Gregorio. L'immobile si sviluppava intorno a uno spazio più o meno esteso, detto curte o curticella, caratterizzato da un porticato che correva lungo tutto o parte del perimetro interno. All'interno della curte erano disposti il pozzo, la piscina (la cisterna per conservare l'acqua) e, talvolta, il forno; altre testimonianze indicano come talvolta vi fosse anche il cantarum (il lavatoio).I tentativi di riordino di questa singolare realtà abitativa cominciarono già agli inizi dell'epoca angioina. Le antiche strutture difensive cittadine vennero in parte diroccate e abbattute per volontà di Corrado IV, nel 1252, e il gran numero di indicazioni posteriori riguardanti ruderi, resti di mura e spezzoni di torri mostra con chiarezza l'entità della distruzione. Ad alterare poi definitivamente l'assetto delle opere di difesa, specialmente di quelle ubicate lungo il litorale, contribuì la notevole espansione urbana prodottasi nel corso del Duecento, che consigliò la costruzione di nuovi ampliamenti delle mura e l'apertura di altre porte.I sovrani angioini vollero un profondo rinnovamento di N., che tuttavia non modificò sostanzialmente l'organizzazione cittadina, bensì la adeguò ai nuovi tempi e allo sviluppo della città, capitale del regno. Agli inizi del Trecento Carlo II (1285-1309) provvide a dotare N. di un nuovo porto, sorto sulle strutture del più antico porto Pisano, complesso che fu fornito di un faro. L'accesso all'approdo fu reso più agevole dalla costruzione di una nuova strada costiera. Poco lontano fu edificato l'arsenale, capace di ospitare numerose imbarcazioni.Carlo I (1282-1285) aveva dotato la città di una nuova residenza reale, castel Nuovo. La reggia, dalle caratteristiche di una vera e propria fortezza, fu collocata a O di N., nello spazio compreso tra il porto Pisano, le mura occidentali della città e il promontorio di Pizzofalcone, nel luogo fino ad allora occupato dal convento francescano di S. Maria a Palazzo. Essa divenne la residenza di Carlo II. La presenza del castello favorì l'espansione della città verso O e nel nuovo spazio urbano sorsero le residenze dei principi angioini, le dipendenze della corte, gli edifici dell'ammiragliato, dell'archivio regio, della curia del vicario e della camera Razionale. Anche sul lato orientale della città gli Angioini promossero la costruzione di una nuova e importante residenza chiamata Casa Nova, dove dal 1305 alloggiò l'allora principe Roberto e dove si spense nel 1309 Carlo II.A difesa della città si pensò di elevare nuove fortezze. Re Roberto (1309-1343) stanziò mille once per la costruzione, sulla collina di Sant'Elmo, di un castello, nel luogo dove in età normanna era una torre d'avvistamento detta di Belforte. I lavori proseguirono dal 1329 al 1343 e furono diretti, tra gli altri, anche da Tino di Camaino. Poi, per volontà di Carlo III di Durazzo (1381-1386), nell'angolo meridionale delle mura fu eretto nel 1382 il forte del Carmine, che, per la particolare forma del suo torrione, prese il nome di Sperone.I nuovi sovrani furono soprattutto i fondatori di nuove chiese e conventi e ciò contribuì a cambiare sostanzialmente il volto della città, stimolandone la rinascita artistica e culturale. L'edificazione di queste fabbriche religiose fu favorita da un lato dal consolidamento delle attività economiche nella città, dall'altro dai privilegi che la corte francese concesse agli ordini religiosi e in particolare agli Ordini mendicanti. Carlo I, poco tempo dopo l'esecuzione di Corradino di Svevia, promosse la nascita di una chiesa, con annesso ospedale, nel luogo dove si era consumato quel tragico evento, ossia nel c.d. campo Moricino, dedicata a s. Eligio. La chiesa e il convento di S. Lorenzo furono completamente rifatti al tempo di Carlo I, tra il 1270 e il 1275. Nel luogo si erano avute prima una basilica paleocristiana e successivamente una chiesa appartenuta al Capitolo di Aversa e donata da questo nel 1224 ai Francescani. Sui resti della diroccata torre Mastra si procedette a edificare, a partire dal 1279, il complesso di S. Maria la Nova. Sulla torre Falero fu costruito il monastero di S. Agostino della Zecca, così denominato perché negli edifici circostanti fu collocata la zecca cittadina: terminato nel 1284, S. Agostino ebbe numerose donazioni, poiché dal 1287 il convento divenne lo Studio generale dell'Ordine agostiniano, cioè l'Università teologica.I lavori per la costruzione di S. Maria del Carmine iniziarono nel 1283: la chiesa sorse su un terreno donato nel 1270 da Carlo I ai Carmelitani, suolo sul quale esisteva una chiesetta nella quale si adorava un'icona bizantina della Madonna, detta dal popolo 'la Bruna'. Il monastero di S. Pietro Martire fu fondato nella regione Calcaria e la prima pietra fu posta nell'aprile del 1294, con la partecipazione delle più alte cariche del regno. La chiesa era nel 1340 ancora in costruzione e fu notevolmente danneggiata dal maremoto del 25 novembre 1343, episodio che però permise una più rapida conclusione dei lavori. I Domenicani stabilirono la loro sede principale in città, tra il 1284 e il 1324, sul sito dove precedentemente era un cenobio basiliano, poi divenuto luogo di culto benedettino (S. Michele Arcangelo a Morfissa); essa nacque grazie al notevole apporto economico della corte, al punto che nel 1324 il duca di Calabria donò cinquanta once d'oro per il compimento dei lavori. La chiesa di S. Maria Donnaregina fu voluta dalla moglie di Carlo II, Maria d'Ungheria, e fu eretta su un'area occupata nel sec. 7° da un cenobio basiliano intitolato a s. Pietro del Monte e successivamente passato alle monache benedettine. Si sa che nel 1298 era ancora in costruzione il dormitorio, mentre solo dal 1307 si fa cenno alla costruzione della chiesa, che non dovette essere terminata prima degli anni venti del Trecento. S. Pietro a Maiella sorse sui resti della porta Dominae Ursitatae e l'edificazione della chiesa modificò non poco la fisionomia dei luoghi: scomparvero infatti gli orti e i giardini, fino ad allora numerosi nella zona, e furono assorbite dalla fabbrica le chiese di S. Agata ad Ficariola e di S. Eufemia. La chiesa e il convento di S. Chiara furono fondati per volere di Sancia di Maiorca. Il convento - dapprima intitolato al Santo Corpo di Cristo - ebbe una dimensione tale da renderlo tra i più considerevoli dell'età angioina, simile a una struttura fortificata, tanto da essere definito "una mezza città" (Capone, 1995a, p. 50). La chiesa, edificata tra il 1310 e il 1328, sorse su un'area a N del monastero di S. Maria Donnalbina e il suo muro di cinta fu allineato a E con il tracciato dell'antica murazione cittadina. Intorno al 1324 la regina Sancia di Maiorca fondò ancora un'altra chiesa, con annesso cenobio, intitolata alla Maddalena. Nella zona nordorientale della città, nei pressi del carbonarius publicus, si edificò tra il 1339 e il 1343 il primo nucleo della chiesa di S. Giovanni a Carbonara.Infine, gli edifici del complesso episcopale furono interessati dalla costruzione del nuovo duomo: la Stefania fu demolita, mentre S. Restituta venne ridotta in lunghezza e trasformata in cappella del duomo. Circa i tempi di realizzazione, è noto che nel 1300 Carlo Martello, re d'Ungheria (m. nel 1296), fu sepolto in una cappella della chiesa, terminata poi nel 1304 (Capone, 1995a, p. 46). I documenti attestano la celebrazione degli uffici religiosi a partire dal 1306, ma i lavori proseguirono con una certa intensità. La stabilità di tutta la costruzione dovette peraltro essere abbastanza incerta, al punto che nel 1343 rovinò in parte e fu necessario intervenire con lavori di consolidamento. La chiesa, dedicata alla Vergine Assunta, ospitò fin dall'inizio il culto di s. Gennaro.
Bibl.:
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Le radicali trasformazioni alle quali il tessuto urbano di N. è andato soggetto nel corso dei secoli hanno cancellato quasi ogni traccia delle testimonianze artistiche del primo Medioevo, scarsamente surrogabili con il racconto delle fonti scritte, esigue di numero e piuttosto generiche. Contro la sopravvivenza di questo passato, oltre alle cause ricorrenti (mutare del gusto, eventi calamitosi, usura del tempo, azione sconsiderata degli uomini), ha congiurato non poco l'accrescimento della città in senso centripeto, destinato a produrre già in antico, e in misura crescente all'indomani della Controriforma, sostituzioni di interi blocchi edilizi, per fare fronte a mutate esigenze funzionali e di apparato degli ordini monastici e religiosi di nuova fondazione, insediatisi entro la cerchia delle mura - dove peraltro risiedeva la nobiltà di più antica data - nel rispetto delle ben note prammatiche vicereali in vigore dal 1566 al 1718, rinnovanti periodicamente il divieto di costruire nella zona extramurale. Di fronte al quasi totale inabissamento della produzione architettonica e figurativa medievale precedente, gli interventi di età angioina, le rivendicazioni dell''apostolicità' della sua Chiesa e persino della sua priorità rispetto alla Chiesa di Roma, destinate ad alimentare, tra Cinquecento e Seicento, il gran fiume dell'erudizione sacra, sortirono tuttavia l'effetto di una migliore salvaguardia di tutto ciò che di quel lontano passato recava i segni, sia pure sottoposto agli 'imbellettamenti' che le pratiche devozionali moderne richiedevano.
Città profondamente ellenizzata, nel corso del Medioevo N. gravitò a lungo nell'orbita politica e culturale dell'impero d'Oriente, dapprima come ducato dipendente a seguito della conquista bizantina (536), poi, dalla seconda metà del sec. 8°, con il rango di capitale di un ducato di fatto autonomo, sebbene formalmente subordinato all'autorità imperiale, fino all'annessione al regno normanno di Sicilia nel 1139. Prima della radicale virata di rotta in direzione dell'Occidente imposta prima dagli Svevi e poi, con più decisione, dall'avvento della dinastia angioina, il patrimonio di forme ereditato dalla tradizione romana, ancora viva in epoca tardoantica, appare fortemente permeato di apporti artistici dal Vicino Oriente e dalle regioni costiere dell'Africa, cui la legavano intense relazioni commerciali di vecchia data. A N., peraltro, trovarono rifugio molti religiosi e presuli africani espulsi da Genserico nel 439, tra i quali i vescovi Gaudioso e Quodvultdeus.Con Capua N. divide l'onore di una fondazione costantiniana, la basilica di S. Restituta, in origine dedicata verosimilmente ai ss. Apostoli. A una sola abside innestata a un invaso articolato in cinque navate, nitidamente riconoscibile nel suo impianto spaziale nonostante gli interventi trecenteschi, che comportarono anche una decurtazione del corpo longitudinale, la basilica rivela accenti africani nel presbiterio rialzato e nelle colonne a sostegno dell'arco trionfale decisamente staccate dal muro (Krautheimer, 1965). L'edificio rappresentò il primo nucleo dell'insula episcopalis, comprendente una seconda cattedrale intitolata al Salvatore, fatta costruire alla fine del sec. 5° dal vescovo Stefano I - e perciò dal suo nome detta anche Stefania - quasi certamente sul sito di un edificio di culto più antico di un secolo, al quale è stato ricondotto con buona verosimiglianza il pavimento musivo di secondo strato venuto alla luce in occasione degli scavi condotti nell'area del duomo nel corso degli anni Settanta (Di Stefano, 1974; Farioli, 1978). L'organismo della doppia cattedrale, documentato in altri centri paleocristiani (Aquileia, Treviri), è stato variamente interpretato. L'ipotesi di recente più accreditata (Farioli, 1978) è che esso assolvesse a precise funzionalità liturgiche: chiesa per la liturgia festiva la maggiore (S. Restituta), chiesa per la liturgia feriale la minore (Stefania), detta anche domestica ecclesia in quanto annessa alla domus episcopale. Tra le due basiliche, parallele tra loro e separate da un vico, si interponeva il battistero di S. Giovanni in Fonte (v. Battistero), la cui datazione è stata anticipata con buoni argomenti al tempo del vescovo Severo (363-412 ca.; Bologna, 1992), nella cui struttura, a cupola raccordata da cuffie angolari al quadrato di base, sono stati rilevati spunti orientali, precisamente sasanidi (Bertaux, 1903). Allo stato dei fatti non è possibile stabilire in quale rapporto, di tempo e di stile, il battistero severiano fosse con quello costruito da Paolino di Nola (353-431) a Cimitile, enfaticamente celebrato in uno dei suoi carmi, ma non ancora individuato (Testini, 1978).Le convergenze d'indirizzo culturale tra le fabbriche paoliniane di Cimitile e quelle coeve napoletane promosse da Severo sono state interpretate dalla critica come spia di legami personali tra i due presuli, coinvolgenti certamente anche un terzo protagonista in campo artistico della primitiva Chiesa campana, Simmaco, vescovo di Capua, che nel 431 assistette alla morte di Paolino. Per il tramite di quest'ultimo tali rapporti, superando l'ambito locale, avevano interessato altri eminenti uomini di chiesa del tempo, quali Ambrogio, Girolamo e Agostino, oltre che l'allievo stesso di Paolino, Sulpicio Severo (ca. 360-420 ca.), impegnato nella sua sede di Premuliacum (od. Primillac), in Aquitania, in un'intensa attività costruttiva. La solidarietà d'intenti che gli scambi epistolari evidenziano dovette lasciare qualche traccia anche in campo artistico, a cominciare dalla soluzione della doppia cattedrale, familiare certamente sia ad Ambrogio sia a Sulpicio Severo (Bologna, 1992; Fiaccadori, 1992), fino a quella del transetto tripartito, ipotizzato nella basilica di S. Giorgio Maggiore, e agli apparati decorativi. In ogni caso è proprio con Severo che ebbe inizio quell'intensa e ininterrotta attività costruttrice, sostenuta in primo luogo dai vescovi, ma anche dall'aristocrazia locale, che tra il sec. 5° e il 6° conferì a N. il volto che la città conservò per un buon tratto del Medioevo.A Severo le fonti riferiscono la fondazione di due cenobi cittadini, dedicati l'uno a s. Martino, l'altro a s. Potito, oltre a quattro basiliche variamente identificate. Tra queste va annoverata sicuramente la c.d. basilica severiana, la prima delle cattoliche maggiori, dedicata a Cristo e agli apostoli, più tardi intitolata a s. Giorgio per la presenza di un oratorio. Radicalmente manomessa dopo l'incendio del 1640, con inversione del suo orientamento, essa conserva l'abside traforata, un'originalissima soluzione di referenza medio-orientale, riproposta in forme persino più complesse e solenni in successivi impianti chiesastici di Napoli. Prima delle trasformazioni barocche essa era preceduta da un piccolo portico e aveva il corpo longitudinale tripartito da due file di dieci colonne di marmo, mentre altre dodici colonne, di diametro e di altezza maggiori delle altre, erano nella crociera, sei delle quali la dividevano dall'abside e dalle navate (Bertaux, 1903; Venditti, 1967; 1969).Di alcune di queste costruzioni - quali le basiliche di S. Stefano e di S. Eufemia, che il vescovo Vittore fece costruire fuori le mura della città alla fine del sec. 5°, o ancora quelle di S. Fortunato e di S. Gaudioso, a mezza strada verso le catacombe di S. Gennaro - resta solo il ricordo scritto. Nulla si sa anche dell'impianto primitivo della Stefania, che, dopo il rifacimento dell'abside nel sec. 6°, fu rinnovata verso la fine dell'8° dal vescovo Stefano II (766-800) a seguito di un rovinoso incendio, né di quello di S. Maria Maggiore (detta la Pietra santa), elevata dal vescovo Pomponio (514-532) e dal cronografo della Chiesa napoletana definita grandi opere constructa (Gesta episcoporum Neapolitanorum). Articolata in più navate da colonne era la chiesa dei Ss. Apostoli, che nel Cinquecento conservava ancora l'atrio paleocristiano (Capasso, 1881-18922, I). Perduto è altresì il monastero di S. Severino, fondato dal patrizio Liberio allo scorcio del sec. 5° nell'area del castrum Lucullanum, intorno al mausoleo contenente le spoglie dell'apostolo del Norico elevato dalla matrona Barbara o Barbaria, cenobio che per impulso dell'abate Eugippio (m. nel 533), discepolo del santo, uomo di folte e diramate frequentazioni intellettuali, divenne subito, con la sua biblioteca e il suo scriptorium, uno dei più importanti centri di irradiazione di cultura teologica dell'Occidente.Nel corso del sec. 6° l'isola episcopale si era arricchita di un secondo battistero per iniziativa del vescovo Vincenzo (555-578), con annesso triclinio vescovile identificato con un ambiente absidato emerso a ridosso della sacrestia del duomo angioino (Farioli, 1978). Nelle immediate vicinanze del battistero vincenziano sorgeva la basilica di S. Lorenzo, indicata dalle fonti con l'appellativo ad fontes per distinguerla dall'altra detta di S. Lorenzo Maggiore, ubicata invece nell'area del foro, patrocinata dal vescovo Giovanni II il Mediocre (533-555). Dell'antica chiesa, mirificis constructionibus digestam (Gesta episcoporum Neapolitanorum), impostata su una preesistente aula romana del sec. 1°, gli scavi condotti negli anni Cinquanta (Hirpinus, 1961-1962) hanno rivelato l'originaria planimetria, ispirata a modelli architettonici di ascendenza siriaca e microasiatica: tre navate divise da colonne, in parte reimpiegate nella costruzione angioina, ampia abside non estradossata con due ambienti annessi, dove sono affiorati resti dell'impiantito mosaicato, profondo nartece. Sul sito di un tempio pagano sorse la chiesa di S. Giovanni Maggiore, di cui sussiste l'ampia abside traforata con arcate binate, inquadrata da due colonne con pulvini recanti il monogramma del vescovo Vincenzo, per la quale tuttavia è stata prospettata in passato l'ipotesi, suggestiva ma non dimostrabile, di una primitiva fondazione agli inizi del sec. 5° e di una sua destinazione al culto ariano (Cecchelli, 1968). Aperta con due valichi verso l'accesso della contigua e preesistente necropoli era anche la chiesa di S. Gennaro extra moenia, datata verso gli inizi del sec. 6° (Fasola, 1974).La fertilità d'invenzioni formali dell'architettura sub divo della N. paleocristiana ha corrispettivi persino nelle catacombe, in particolare nel complesso di S. Gennaro. La natura tufacea del sottosuolo ha consentito infatti di realizzare gallerie in superficie anziché in profondità, con soluzioni spaziali di respiro monumentale, assimilabili a quelle dei cimiteri africani piuttosto che alle necropoli di Roma (Krautheimer, 1965), e con apparati decorativi in alcuni casi in tutto degni delle grandi basiliche cittadine. Salvo rare eccezioni, le pitture delle catacombe, condotte a mosaico e ad affresco, costituiscono anzi gli unici documenti figurativi a disposizione per ricostruire lo svolgimento della pittura a N. fino al sec. 10° (Fasola, 1974; Rotili, 1978; Bertelli, 1992), quando le catacombe cessarono di essere adoperate come luogo di sepoltura dei vescovi e dei personaggi illustri della città.Le più antiche pitture, riferite al sec. 2°-3°, sono ubicate nella volta del vestibolo superiore delle catacombe di S. Gennaro. Gli affreschi, ridotti ormai a larve, accanto a storie veterotestamentarie, come nei coevi affreschi del cubicolo 13 della necropoli di Cimitile (Korol, 1987), raffigurano anche un tema eccezionale, un'allegoria della remissione dei peccati ispirata al testo letterario del Pastore di Erma. Le testimonianze qualitativamente più significative del complesso sono rappresentate dai mosaici che rivestono gli arcosoli della 'cripta dei vescovi' scalati nel corso del sec. 5°, alcuni dei quali, nella fattura larga, a tocchi di colore iridescente, richiamano le parti più alte della decorazione musiva del battistero di S. Giovanni in Fonte, la cui cronologia è da decenni oggetto di discussione (Pani Ermini, 1978). La tesi più plausibile sotto il rispetto storico-artistico - l'unica peraltro in grado di mettere d'accordo il valore testimoniale delle fonti con le sensibili differenze interne di cultura pittorica da sempre rilevate dalla critica - è quella che vuole i mosaici eseguiti in due momenti diversi: il primo, fondativo, risalente ai tempi del vescovo Severo; il secondo coincidente con gli anni del vescovo Sotere (465-492), il quale si sarebbe fatto promotore di un intervento di consolidamento o di ripristino della veste musiva (Bologna, 1992).Le iniziative pittoriche di Severo - che si estesero anche al perduto mosaico nell'abside della basilica di S. Giorgio Maggiore, raffigurante il Salvatore tra gli apostoli seduti e al di sotto quattro profeti - si svolsero in stretta connessione di tempi con quelle paoline e con qualche anticipo sulle imprese capuane di Simmaco, partecipando delle medesime implicazioni 'mediterranee': un orientamento peculiare della cultura artistica della Campania tardoantica, destinato a rafforzarsi tra i secc. 5° e 6°, come confermano gli splendidi brani di pavimento musivo affiorati nella Stefania (fine del sec. 5°) e gli altri di poco successivi legati alla committenza di Giovanni II il Mediocre messi in luce nei pastophória della basilica di S. Lorenzo Maggiore (Farioli, 1978). Allo stato dei fatti non è possibile stabilire in quale rapporto di stile i secondi fossero con i coevi cicli musivi che rivestivano l'abside della Stefania - con la più antica rappresentazione finora nota della Trasfigurazione - e con l'arcone trionfale di S. Restituta, dov'era raffigurato un tema apocalittico ancora celebrato dalla letteratura seicentesca: Cristo in trono, tra i sette serafini con i candelabri accesi, venerato dai ventiquattro vegliardi. Né valgono a compensare della "immagine del Salvatore minazzante et terribile" (Cronaca di Partenope) mosaicata nell'abside vincenziana di S. Giovanni Maggiore le superstiti tracce di pittura del sec. 6° nelle catacombe di S. Gennaro, di S. Gaudioso e di S. Eufebio, di una fattura corsiva inclinante verso una formula stilistica di progressivo svuotamento del plasticismo di tradizione tardoantica, ancora attivamente operante invece nei notevoli frammenti ad affresco di inizio sec. 6° recuperati nella chiesa di S. Gennaro extra moenia.Alla distruzione di tutti gli arredi preziosi documentati nelle basiliche fa eco la scomparsa pressoché totale della scultura ornamentale in marmo, rappresentata da un solo manufatto, un bel pluteo mutilo ritrovato in S. Giovanni Maggiore. Esso raffigura un cigno a lato del monogramma costantiniano, di forte impronta naturalistica nell'accurato disegno, anche se ridotto alla pura cifra grafica, caratteri per i quali è stato riferito alla corrente orientaleggiante documentata tra i secc. 5° e 6° in altri centri di produzione della penisola.
All'indomani della conquista longobarda di gran parte del Mezzogiorno continentale N., capoluogo della parte costiera della Campania, da Gaeta ad Amalfi, rimasta sotto il controllo bizantino, si presenta come la città economicamente più attiva della regione. Essa manteneva contatti con tutti i più importanti porti del Mediterraneo e con Roma, almeno finché non si profilò la minaccia degli Arabi, che la spinse a ritrarsi dal mare per trasformarsi progressivamente in un centro di produzione agraria e di industria tessile, celebre in particolare, secondo il racconto del viaggiatore arabo Ibn Ḥawqal (Ṣūrat al-arḍ), che la visitò nel 972, per la qualità dei tessuti di lino che vi si producevano. Le relazioni con Bisanzio continuarono tuttavia anche dopo la raggiunta autonomia e anzi si rafforzarono, con riflessi diretti sul piano culturale, tra i secc. 9° e 10°, in conseguenza della decisa ripresa politica nel Mezzogiorno dell'impero d'Oriente e sotto la pressione di forti correnti migratorie verso la Campania di Greci in fuga dalla Sicilia e dalla Calabria per sottrarsi alle vessazioni degli Arabi.Le testimonianze artistiche superstiti, per quanto esigue di numero, confermano la posizione della città quale avamposto culturale di Bisanzio e la sua sostanziale estraneità ai grandi eventi figurativi che nello stesso arco di tempo avevano visto la luce nei territori del confinante principato di Benevento. Per la definizione del volto della N. ducale particolarmente gravi appaiono le perdite sul versante dell'architettura sacra, rappresentata in origine da un grande numero di chiese, cenobi e oratori, più d'uno di rito greco, ricostruibile ormai solo sulla scorta delle carte di archivio e delle fonti storiche (Capasso, 1881-18922, I; Venditti, 1967; 1969). Al tempo di papa Gregorio Magno (590-604) in città risiedevano ben centoventisei chierici, senza contare quelli che vi si erano rifugiati dalle zone vicine, una cifra ritenuta 'notevole' per una città altomedievale. Si conoscono inoltre i nomi di almeno nove monasteri urbani, destinati a moltiplicarsi enormemente nei secoli seguenti, anche in conseguenza del trasferimento entro la cerchia delle mura, sotto la minaccia saracena, di quelli ubicati nel suburbio, particolarmente fitti a O di N., nella ridente zona del castrum Lucullanum e dell'isola di Megaride. Di alcuni di questi edifici di culto, tra i quali meritano una segnalazione per la loro speciale natura le sette diaconie, è incerta persino l'ubicazione topografica. Gli altri sono stati invece radicalmente manomessi in età moderna, con la sistematica cancellazione di ogni traccia del loro passato, testimoniato solo da scarsi frammenti plastici scampati alla distruzione solo perché reimpiegati come materiale da costruzione.Fra le più insigni fondazioni altomedievali vanno annoverati i monasteri di S. Sebastiano, S. Maria di Donnaromita, S. Gregorio Armeno, sorto nell'area del tempio di Cerere, S. Marcellino, S. Maria a Piazza e infine la chiesa di S. Paolo Maggiore, edificata dal duca Antimo (801-818) sull'antico tempio dei Dioscuri, il cui pronao rimase in piedi sino al terremoto del 1688. Nuova veste venne conferita anche alla Stefania, distrutta da un incendio alla fine del sec. 8° e subito ricostruita dal vescovo Stefano II. I suoi successori ornarono l'altare maggiore con lamine di bronzo, mentre il vescovo Atanasio (849-872) fece dono di tredici stoffe ricamate illustrate con storie evangeliche, sospese alle colonne della navata.Le uniche preziose reliquie della pratica architettonica in uso a N. nei primi secoli del Medioevo sono costituite dal campanile di S. Maria Maggiore, databile al sec. 10°-11°, e dalle problematiche vestigia della chiesa del Salvatore, poi inglobate in castel dell'Ovo, e dell'oratorio di S. Aspreno, gravemente alterato nei primi decenni di questo secolo. Il primo, come l'affine campanile di S. Maria a Piazza, abbattuto nel 1923 per i lavori di risanamento della zona di Forcella, presentava la peculiarità dell'ordine basamentale attraversato da un valico. Nella compatta stesura del paramento di cotto, del tutto privo di risalti plastici, ma ravvivato dagli inserti di marmi antichi, sono stati riconosciuti accenti bizantineggianti (Venditti, 1969), con recuperi della tecnica edilizia romana, particolarmente evidente nei brani tessuti a opus reticulatum su due delle facce della cuspide terminale.Più numerose e quasi tutte concentrate nei secc. 9° e 10° sono le testimonianze plastiche, anche se insufficienti persino a suggerire un'idea del raffinato sistema ornamentale dispiegato negli interni degli edifici di culto di cui le fonti contemporanee hanno conservato l'ammirato ricordo. Alcuni frammenti di plutei, ora in S. Restituta e nell'area del palazzo Arcivescovile, ubbidiscono a un sistema ornamentale, quello a nastri viminei intrecciati a formare figure geometriche, dal sec. 8° in avanti praticato in ogni parte della penisola, ma con una particolare frequenza a Roma, città con la quale N. manteneva intensi contatti attraverso lo scalo intermedio del porto di Gaeta, ove pure sono attestati affini esempi di scultura (Aceto, 1978; Fiocchi Nicolai, 1984). I manufatti di maggiore impegno stilistico sono quelli legati all'attività di una ben individuata e prolifica bottega locale, nutrita di cultura orientaleggiante (Belting, 1962). Le sue opere, giovandosi anche del rinnovato prestigio politico di Bisanzio nel Mezzogiorno, lasciarono un'orma profonda nelle città vicine da sempre aperte a contatti con il mondo medio-orientale (Cimitile, Sorrento, Positano, Amalfi), con risonanze persino nei centri longobardi, quali Salerno, Benevento e Capua (Rotili, 1978; Farioli Campanati, 1982; Aceto, 1984; Di Giacomo, 1986), fissando un orientamento di gusto al quale la Campania restò fedele per almeno un paio di secoli, fino alle spettacolari iniziative di Desiderio (v.) a Montecassino (v.). Il momento formativo della bottega è stato individuato nella lastra incisa con l'epitaffio del console Bono (m. nell'834), oggi conservata in S. Restituta, e in un paliotto d'altare di più elevata condotta plastica (duomo, cappella degli Illustrissimi), ambedue già in S. Maria a Piazza. I prodotti di maggiore impegno sono rappresentati dalle sculture di Cimitile patrocinate dal vescovo di Nola Leone III, in carica tra la fine del sec. 9° e i primi anni del 10°, e dai coevi marmi di S. Aspreno, offerti dai coniugi Campolo e Costantina, ricordati da un'iscrizione in caratteri greci incisa sulla spalletta superiore di due plutei che, con i relativi pilastri e mensole, dovevano in origine appartenere a una recinzione presbiteriale. La superficie delle transenne è impaginata con losanghe includenti vari elementi di repertorio, di incerto significato simbolico, secondo modalità compositive concordemente ricondotte a esperienze sasanidi rifluite già da tempo nelle stoffe bizantine e per questa via trapassate in Campania (Monneret de Villard, 1923). I pilastrini e le mensole attingono invece a piene mani al repertorio di forme tardoantiche, svolgendo secondo i modi della stilizzazione bizantina il motivo dei girali vegetali, arricchito da temi mutuati dalle arti suntuarie (avori, oreficeria). Al medesimo momento, e non al sec. 11°, e ai modi della stessa bottega vanno riferiti con ogni verosimiglianza una serie di formelle campite da animali in posa araldica provenienti dalla cattedrale di Sorrento, ora disperse per vari musei, e un notevole pilastro frammentario in origine in S. Giovanni Maggiore, conservato a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), la cui datazione si fa oscillare tra i secc. 7° e 8° (Kienerk, 1978).Altro clima culturale si respira nel pluteo con cervo e cavallo alato e negli affini frammenti scolpiti sul rovescio del calendario marmoreo ritrovati in S. Giovanni Maggiore. Datati anche nel sec. 9°, nella soda corposità 'romanica' dei tralci, abitati da una fauna fantastica, modellata con precisione e scioltezza di disegno all'antica, essi spettano agli inizi del sec. 12° (Rotili, 1978), in contiguità di tempo e di stile con una danneggiata lastra nella cattedrale di Aversa e con l'archivolto del portale principale della cattedrale di Carinola.Dei manufatti delle arti suntuarie si sono conservati soltanto, oltre il ricordo delle fonti, un orecchino di maniera bizantina e varie placchette decorate con paste vitree, quasi certamente d'importazione bizantina (Napoli, Mus. Archeologico Naz.).La documentazione della pittura monumentale è limitata ad alcuni modesti pannelli affrescati nelle catacombe di S. Gennaro scalati dal sec. 8° all'11° (Rotili, 1978; Bertelli, 1992), i più tardi partecipi di modalità formali peculiari dell'ecumene provinciale bizantina. Scarse sono anche le testimonianze di codici greci e latini miniati, peraltro d'incerta collocazione (Grabar, 1972), sebbene l'esistenza in città di molte biblioteche, alcune anche con scriptoria annessi, autorizzi a ipotizzare un'intensa attività miniatoria. Alla celebre biblioteca del cenobio di S. Severino altre se ne erano venute affiancando nei monasteri dei Ss. Sergio e Bacco, di S. Arcangelo a Baiano, di S. Pietro, del Salvatore, dell'episcopio, quest'ultima dotata dal vescovo Atanasio I (849-872) di una scuola di scrittura (Fuiano, 1961; Cilento, 1969a; 1969b).L'interesse per la cultura libraria da parte dei chierici, ma anche della classe aristocratica - il duca Sergio (840-864 ca.) è detto dalle fonti "litteris tam Grecis quam Latinis favorabiliter eruditus" (Gesta episcoporum Neapolitanorum; Fuiano, 1961) -, è confermato dalla vicenda del Romanzo di Alessandro attribuito allo pseudo-Callistene, destinato a grande fortuna con il titolo di Historia de proeliis. Trascritto a Costantinopoli dall'arciprete Leone, ivi inviato dal duca di N. Giovanni III intorno alla metà del sec. 10° in missione diplomatica, a sua richiesta ne procurò qualche tempo dopo una traduzione "de Greco in Latinum" (Frugoni, 1969; Cavallo, 1992) da destinare alla biblioteca cui il duca aveva dato vita per onorare la memoria della moglie Teodora, appassionata lettrice di libri sacri. A un non meglio identificato scriptorium di N. e con datazione oscillante tra la fine del sec. 9° e il secondo quarto del 10° (Bologna, 1992) sono state ricondotte le vivaci miniature del codice contenente varie opere di Virgilio (Napoli, Bibl. Naz., ex-Vind. lat. 6). Colorite rapidamente, esse appaiono frutto di una stratificata cultura. Al sostrato tardoantico, riproposto con un procedimento operativo 'a ritaglio' (Bertelli, 1975), si sovrappone infatti schietto un fattore culturale inedito, riecheggiante i modelli della pittura e della miniatura di area beneventana (v. Beneventano-cassinese, Arte), con esiti figurativi avvertibili anche nelle illustrazioni del De materia medica di Dioscoride (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 337).
L'unificazione del Mezzogiorno sotto la Corona normanna con il conseguente spostamento del centro di gravitazione della vita politica verso la Sicilia, il vero cuore pulsante della nuova formazione statale anche sul versante artistico grazie alla serie delle straordinarie iniziative patrocinate dalla Corona tra Palermo, Cefalù e Monreale, produsse un rafforzamento degli scambi culturali tra l'isola e la Campania, ma anche un'enorme dilatazione degli orizzonti. Nella trama di relazioni di portata mediterranea che si venne tessendo lungo la linea di comunicazione tirrenica, al tradizionale fattore medio-orientale, rappresentato al più alto livello dai grandi cicli musivi siciliani, si intrecciarono apporti dalle regioni della Francia sudoccidentale e meridionale, teatro nel settore della scultura di esperienze che, per la loro forte impronta antichizzante, trovarono nel Mezzogiorno un ambiente preparato ad accoglierle e a rilanciarle. L'episodio di massima convergenza in questa direzione è rappresentato dalle due transenne di S. Restituta databili alla fine del sec. 12°, illustrate l'una con Storie di Giuseppe ebreo, l'altra con episodi della Vita di s. Gennaro, di Sansone e con le immagini di santi greci venerati dalla Chiesa napoletana. Eseguite da due diversi maestri - il primo incline a effetti di vibrante pittoricismo nella ricercata sottigliezza d'intaglio, quasi da operatore aduso a lavorare di cesello, il secondo più sensibile alla definizione larga, scultorea del rilievo -, le lastre napoletane traggono la loro diretta fonte d'ispirazione stilistica dai maestri operosi nel corso degli anni ottanta del sec. 12° nel chiostro di Monreale, in particolare dall'autore dei capitelli figurati con analoghe storie bibliche, i cui modi formali si sono ripercossi, forse con una battuta in anticipo su S. Restituta, anche nell'arcone mediano del portico della cattedrale di Sessa Aurunca illustrato con Storie di s. Pietro (Gandolfo, 1989; Glass, 1991).Al filone della scultura romanica campana animata da un rinnovato studio dell'Antico, che, muovendo dagli amboni di Salerno (ca. 1175-1180), diede frutti nello stesso chiostro di Monreale, appartengono anche due capitelli reimpiegati nella sala capitolare della chiesa di S. Agostino della Zecca. Figurati con aquile angolari appollaiate su una corona di foglie di acanto, essi sono stati dirottati dalla critica verso l'ambiente federiciano per la presenza dei volatili, ritenuti emblema araldico della casa sveva, con una improbabile datazione negli anni trenta-quaranta del Duecento.Un indizio di quanto produttivi fossero stati in questo periodo i legami di N. con l'ambiente siciliano, tanto più significativo in assenza di ulteriori testimonianze, è fornito dalla decorazione pittorica affiorata di recente a seguito di un restauro nell'abside paleocristiana della medesima basilica di S. Restituta, al di sotto di ridipinture della fine del 16° secolo. Sullo sfondo di un cielo di un azzurro intenso attraversato da cirri rossastri, entro una mandorla fiancheggiata da quattro angeli si staglia il Cristo apocalittico. Lo sormonta la colomba dello Spirito Santo, mentre nelle cuffie angolari si dispongono a coppia i simboli degli evangelisti. Della composizione primitiva, che i pochi brani integri fanno intuire di grande qualità, sono state portate alla luce solo alcune parti, condotte ad affresco, tranne la testa di Cristo, che è su tavola incastrata nel muro, così come su tavola dovevano essere, a giudicare dall'impronta rimasta sull'intonaco, dipinte anche le teste del tetramorfo. Gli elementi di stile rinviano ai grandi cicli musivi siciliani del pieno sec. 12°, dai quali è prelevato anche lo spunto della fascia ornamentale a finti caratteri cufici lungo il sottarco che introduce alla curva absidale, sovrapponibile a quelle dipinte da maestranze islamiche nel soffitto della Cappella Palatina.Per caratteristiche tecnico-stilistiche, quasi certamente nel Tīrāz reale di Palermo fu prodotta intorno alla metà del secolo anche l'unica preziosa reliquia di oreficeria di età normanna, la stauroteca del duomo di Napoli (Lipinsky, 1960), più nota come croce di s. Leonzio dal nome del vescovo vissuto nel sec. 7° che, secondo un'antica ma infondata tradizione, ne sarebbe stato donatore. Dalla consueta forma bizantina, essa è costituita da due facce di diversa fattura ed epoca. Quella originaria è in filigrana 'a vermicelli', arricchita da gemme e perle fissate in castoni a cappi e, all'estremità dei bracci, da quattro medaglioni d'oro con smalti ad alveoli raffiguranti i quattro evangelisti, i quali - è stato di recente prospettato - sembrano anteriori all'opera orafa e potrebbero essere originali bizantini (Farioli Campanati, 1982, p. 374). L'altra faccia, più tarda, fu eseguita in lamina a sbalzo da maestranze forse sulmonesi di modesta levatura.Nel vasto giro di queste relazioni mediterranee risulta implicata anche la chiesa di S. Giovanni a Mare, isolato episodio architettonico di età romanica, documentato per la prima volta nel 1186. Annesso dall'origine a un baliaggio e a un ospedale dell'Ordine gerosolimitano, l'edificio è pervenuto attraverso varie stratificazioni. Il settore più antico, datato intorno alla metà del sec. 12° (Venditti, 1969), è costituito dall'invaso basilicale ad arcate su colonne con capitelli di spoglio, caratterizzato da vivi accenti bizantino-islamizzanti nel profilo acuto dei valichi e nell'accentuato sviluppo verticale dei piedritti. Il corpo tripartito è intercettato da un braccio trasversale, nel corso del Duecento coperto con volte a crociera, come del resto le navate, in sostituzione forse di una originaria soluzione di copertura a capriate a vista. Un'addizione duecentesca deve invece essere considerato il secondo braccio trasversale, sul quale si aprono tre cappelle quadrate, a fondo piano, inquadrate da archi ribassati, per gli espliciti riferimenti alla tradizione catalano-durazzesca databili in epoca assai avanzata, già entro la prima metà del 15° secolo.Ai manufatti ricordati in precedenza poco altro si può affiancare per il sec. 12°: un modesto crocifisso ligneo nella chiesa di S. Giovanni Maggiore, di rigida schematicità nella tozza squadratura del corpo, nel quale pure sono stati individuati echi ormai attutiti di modelli carolingio-ottoniani; un secondo esemplare in S. Giorgio Maggiore, più svolto nel morbido modellato del corpo, databile allo scorcio del secolo. Le sculture lignee di maggiore impegno formale, in genere d'importazione, ricadono però nel Duecento: dal crocifisso d'intenso patetismo nel duomo, all'altro più grafico già in S. Aniello a Caponapoli, al notevole esemplare di S. Maria a Piazza, di patetica grandezza nel corpo allungato, tutti in vario grado legati a esperienze di marca iberica (Bologna, Causa, 1950).Nei decenni in cui videro la luce queste opere N. era ormai da tempo inserita nel flusso delle esperienze artistiche d'impronta gotica che dagli anni venti del Duecento maturarono nei circoli della corte sveva, animati dalle iniziative culturali promosse da Federico II e, dopo la sua morte, dal figlio Manfredi. Appare quanto mai verosimile ritenere che la città, divenuta nel 1224 sede dello Studio generale del regno (Arnaldi, 1988), avesse sviluppato anche un'intensa attività nel settore dell'illustrazione libraria. Malgrado l'assenza di indicazioni dirette, da autorevoli specialisti essa è stata indiziata come la sede probabile dello scriptorium che produsse e miniò alcuni tra i più bei codici svevi, dalla Bibbia di Manfredi (Roma, BAV, Vat. lat. 36) e da quelle a essa collegate, anche per formato e lussuosità dell'apparato ornamentale, di Parigi (BN, lat. 40) e di Torino (Bibl. Naz., E.IV.14), al De arte venandi cum avibus di Federico II (Roma, BAV, Pal. lat. 1071) miniato per Manfredi dopo il 1258, al De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli (Roma, Bibl. Angelica, 1474; Federico II e l'Italia, 1995; v. Federico II).È accertato che in Neapolitano palatio - da identificare con castel Capuano e non, come si è a lungo ritenuto, con un perduto palazzo imperiale da esso distinto - Federico II aveva fatto effigiare il tema della Giustizia imperiale. Dal modo come questa era atteggiata, secondo la descrizione duecentesca di Francesco Pipino (Chronicon), doveva trattarsi di una composizione pittorica. Vi era raffigurato l'imperatore, seduto in trono, al centro, affiancato da Pier delle Vigne in cathedra, mentre in primo piano era il popolo prosternato ai piedi del sovrano, che chiedeva giustizia, il tutto commentato da cinque esametri leonini (Rotili, 1978).Una testimonianza notevole, sebbene d'incerta provenienza, di cultura figurativa sveva è costituita dal danneggiato bocciolo di candelabro (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte). Sei snelle figure maschili, di cui una nuda, acconciate alla moda e dai lineamenti resi con gotica sottigliezza di tratti, intrecciano intorno al fusto un lento passo di danza, con una freschezza tutta moderna nella sciolta eleganza dei corpi, che rammenta i migliori prodotti della miniatura di età manfrediana.
Durante la lunga fase del dominio angioino-durazzesco, destinato a protrarsi per quasi due secoli, N., elevata al rango di capitale, divenne nel giro di una generazione il centro culturale e artistico di un regno tra i più potenti d'Europa, beneficiando degli enormi investimenti in opere d'arte dei nuovi sovrani (v. Angioini), ma anche della classe aristocratica e degli ordini religiosi impegnati, specie quelli di nuova istituzione, in una intensa attività edilizia. Gli ambiziosi programmi della corte, sollecitati ora da autentica pietas religiosa, ora da intenti celebrativi e di autorappresentazione, in competizione con le grandi monarchie europee, richiamarono nel regno artisti celebri dalle regioni dell'Italia centrale. Così, dopo l'ondata iniziale di maestranze francesi, soprattutto orafi e architetti, le cerchie di corte si rivolsero ai maestri italiani rappresentativi delle novità figurative moderne. Dopo la documentata presenza di Montano d'Arezzo e di Pietro Cavallini nel primo decennio del Trecento, fu la volta di Lello da Orvieto, di Tino di Camaino, di Giotto, di Lippo Vanni e di Andrea di Vanni d'Andrea, degli orafi senesi Pietro di Simone e Lando di Pietro, del fiorentino Niccolò di Tommaso e, ormai ad apertura del nuovo secolo, ma forse con una precedente frequentazione, di Antonio Baboccio da Piperno. Rapporti diretti dovettero essersi intrecciati anche con Simone Martini, sebbene la sua presenza a N. risulti alquanto dubbia. L'opera di questi maestri, sul cui esempio si formarono schiere di artisti locali, alcuni anche noti anagraficamente, da Leonardo di Vito ad Atanasio di Ricardo Primario e a suo fratello Gallardo, da Roberto d'Oderisio a Cristoforo Orimina, che ne diffusero i modi per le province del regno, modificò profondamente il volto della N. altomedievale, fissandone un'impronta capace di resistere anche agli sconvolgimenti di età moderna.
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