Napoli
Alla riflessione politica di M. e al noto esordio della Storia d’Italia guicciardiniana si fa congiuntamente risalire il paradigma storiografico secondo cui la catastrofe italiana ebbe inizio con la discesa di Carlo VIII nel 1494, un’impresa volta alla conquista del Regno di N. da parte del sovrano francese, che faceva proprie le pretese dinastiche degli Angiò contro la casa d’Aragona. L’intera storia recente del Regno – dall’equilibrio instaurato in Italia con la pace di Lodi nel 1454 (Principe xi 6-7; Istorie fiorentine VI xxxii), alla guerra di papa Sisto IV e del re Ferdinando I d’Aragona contro Firenze nel 1479, dopo la fallita congiura dei Pazzi, alla straordinaria ambasceria di Lorenzo il Magnifico a Napoli nel dicembre del 1479 (Discorsi II xi 3; Istorie fiorentine VIII vi, x-xi, xvii, xix), fino alle campagne francesi, condotte da Carlo VIII e Luigi XII, per il controllo del dovizioso, ma politicamente assai instabile dominio nel Mezzogiorno d’Italia – costituisce tema centrale e ricorrente nelle opere machiavelliane. L’esempio napoletano spicca fin dal cap. i del Principe, dove l’autore chiarisce la natura dei principati misti (→ principato) con il dirli «membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista come è el regno di Napoli al re di Spagna» (§ 3). Il riferimento è al trattato segreto di Granada dell’11 novembre 1500, con il quale Luigi XII (→) e Ferdinando il Cattolico (→) si dividevano il Regno di N., sottraendolo a Federico I d’Aragona: per Ferdinando, già re di Spagna, la conquista napoletana determinava un principato misto (parte ereditario e parte di nuova acquisizione). Quel trattato franco-spagnolo (alla cui genesi M. aveva assistito durante la prima legazione in Francia: cfr. LCSG, 1° t., p. 275) viene additato poco dopo, sempre in tema di principato misto, come grave errore politico del re di Francia, il quale per
volere il regno di Napoli, lo divise con il re di Spagna; e dove egli era prima arbitro in Italia, vi misse uno compagno, acciò che gli ambiziosi di quella provincia e malcontenti di lui avessino dove ricorrere; e dove potea lasciare in quel regno uno re suo pensionario [Federico I d’Aragona], egli ne lo trasse per mettervi uno che potessi cacciarne lui [...]. Se Francia adunque poteva con le sue forze assaltare Napoli, doveva farlo: se non poteva, non doveva dividerlo (Principe iii 39 e 41).
L’accordo non durò che pochi mesi: «e’ Galli pien d’ardire / contro gl’Ispani voltorno le punte / volendo el Regno a loro modo partire» (Decennale I, vv. 409-11). La guerra aperta per il controllo della Capitanata e della Basilicata si concluse con le vittorie campali conseguite da Gonzalo Fernández de Córdoba (→) nell’aprile del 1503 a Seminara (Arte della guerra II 62-65) e poco dopo a Cerignola (IV 24); nel dicembre del 1503 la vittoria sul Garigliano mise fine all’influenza francese nel Mezzogiorno (sul ‘gran capitano’ e sull’ingratitudine riservatagli da Ferdinando il Cattolico dopo la lunga e vittoriosa campagna napoletana, M. torna in Discorsi I xxix 13). Occorre rilevare come le imprese francesi tese alla conquista del Regno di N., condotte da Carlo VIII e da Luigi XII, si saldino nel pensiero machiavelliano in un disegno strategico unitario e costituiscano un tassello dimostrativo rilevante nello sviluppo di una teoria politica generale che ha il suo banco di prova nel problema del principato misto. Per altro verso, il progetto di Ferdinando il Cattolico, volto a unificare l’intero territorio dell’Italia meridionale sotto il controllo spagnolo, si sarebbe incrociato più tardi con la politica di papa Giulio II: la neutralità della Spagna, interessata ai nevralgici porti adriatici pugliesi, favorì infatti l’impetuosa conquista papale di Bologna nell’autunno del 1506 (Principe xxv 21).
Il ruolo strategico del Regno di N. emerge con chiarezza nei complessi passaggi che delineano la progressiva realizzazione dei progetti di Cesare Borgia: volendosi liberare dal «respetto del re di Francia», il Valentino «cominciò per questo a [...] vacillare con Francia, nella venuta che e’ franzesi feciono verso el regno di Napoli contro alli Spagnuoli che assediavano Gaeta» (Principe vii 29). Dopo le sconfitte subite nella primavera del 1503, i francesi inviarono un corpo di spedizione per riconquistare il Regno e difendere le truppe che resistevano nel castello di N., a Gaeta e in qualche città pugliese. L’intento del Valentino era quello di non collaborare a tale impresa, ma di procedere dietro l’esercito francese: il che gli avrebbe permesso di assoggettare territori non più difesi dai francesi (impegnati nel Regno) e di battere i francesi stessi attaccandoli alle spalle. Biagio Buonaccorsi descrive in questi termini la strategia del duca nel Summario di cose seguite da dì 6 giugno 1498 fino al dì 10 di settembre 1508 (in N. Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, a cura di F. Chiappelli, 2° vol., 1973, p. 591), sottolineando che tra i primi bersagli del Valentino c’era naturalmente Firenze. E infatti M. conclude la propria diagnosi sul ribaltamento nei rapporti di forza tra il Valentino e la Francia osservando che
come e’ non avessi avuto ad avere rispetto a Francia, – che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ franzesi spogliati del Regno da li spagnuoli: di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua, – e’ saltava in Pisa (Principe vii 35).
Dalla divisione franco-spagnola del Regno, dalla guerra sviluppatasi nel Mezzogiorno tra le due grandi potenze europee, in sostanza dagli instabili equilibri del principato misto e dall’incapacità francese di governarlo, il Valentino trasse occasione per liberarsi dai vincoli che lo legavano a Luigi XII, consolidare il proprio dominio nell’Italia centrale estendendolo verso la Toscana – verso Piombino e Pisa in particolare – e porsi come ago della bilancia tra spagnoli e francesi, perché tanto i primi (vincitori) quanto i secondi (sconfitti) erano ora costretti a cercare la sua amicizia. Com’è noto, il piano del duca non poté realizzarsi compiutamente per l’improvvisa morte del padre, papa Alessandro VI: ma è degno di nota che ancora una volta l’origine di mutamenti così rilevanti per il complessivo sistema politico italiano e così centrali nella valutazione teorica machiavelliana vada ricercata nelle ansie di conquista del Regno di Napoli.
Nei suoi viaggi M. non si spinse mai fino a visitare direttamente N. e il Regno, ma le sue osservazioni sullo sviluppo storico e sui caratteri sociali di quello Stato non risultano per questo meno acute e persuasive. Il disordine e il fermento politico nel Mezzogiorno, sia durante gli ultimi anni angioini sia con le congiure baronali in età aragonese, sono alla base del severo giudizio che in Discorsi I xvii 10 associa N. e Milano nell’impossibilità di darsi un regime repubblicano o di raggiungere l’equilibrio di un principato ‘civile’: «nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte». Disgregazione della compagine sociale e particolarismo feudale sono i fattori di instabilità dello Stato napoletano-aragonese, che ne spiegano il rapidissimo crollo fin dal principio delle ‘guerre d’Italia’. Ancora nei Discorsi, il «vivere politico» a N., come a Roma, in Romagna e in Lombardia, risulta ostacolato dalla presenza dei «gentili uomini [...] che oziosi vivono delle rendite» (I lv 18-20), mentre i grandi feudatari napoletani sono additati in I lix 11 tra quei signori che avendo militato come partigiani di un principe potente (il re di Francia) non possono abbandonarne l’alleanza neppure quando questi rimanga sconfitto (dagli spagnoli). Quest’ultimo caso è di particolare interesse. Riflettendo sulle autonome iniziative di accordi internazionali da parte della nobiltà feudale napoletana, M. applica al Regno di Napoli la tesi che aveva illustrato in Principe iv proprio adducendo come esempio la Francia: l’instabilità e la più agevole conquista di un regno in cui sia ben radicata la grande feudalità, con correlative pretese autonomistiche, rispetto alla monarchia accentrata sul modello dell’impero turco.
Nel cap. iii del Principe sono censurati come maldestri i tentativi francesi di conquista del Regno di N. condotti da Luigi XII; la precedente campagna di Carlo VIII, e soprattutto le reazioni aragonesi in quella circostanza, sono al centro di Discorsi II xii, in merito a un tema di tattica militare più volte discusso nelle opere machiavelliane: se sia preferibile attendere il nemico entro i propri confini o addirittura entro le mura (c’era il precedente tucidideo della strategia periclea nella guerra archidamica, cui forse M. allude in Principe x 5), ovvero condurre la guerra in casa del nemico (come fecero, contro i Cartaginesi, sia Agatocle – cfr. anche Principe viii – sia Scipione, e come Annibale suggerisce ad Antioco III di Siria di fare contro i Romani). Questo argomento offre l’occasione per un più articolato ragguaglio sulla spedizione napoletana di Carlo VIII:
Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne’ suoi tempi tenuto uno savissimo principe; e venendo la fama, due anni davanti la sua morte, come il re di Francia Carlo VIII voleva venire a assaltarlo, avendo fatto assai preparazioni ammalò; e venendo a morte intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso suo figliuolo fu che gli aspettasse il nimico dentro a il regno e per cosa del mondo non traesse forze fuora dello stato suo, ma lo aspettasse dentro a’ suoi confini tutto intero; il che non fu osservato da quello ma, mandato uno esercito in Romagna, sanza combattere perdé quello e lo stato (Discorsi II xii 12-13).
La sconfitta che la flotta aragonese subì a Rapallo nel settembre del 1494 e il fatto che l’esercito di terra dovette ritirarsi entro i confini del Regno all’inizio del 1495, indussero Alfonso ad abdicare in febbraio, senza tuttavia poter impedire l’occupazione. M. non aspira semplicemente a un esercizio prosopografico nel ritrarre un padre saggio e un figlio irruento: piuttosto mira a completare la propria analisi distinguendo i popoli ben armati, che preferibilmente potranno aspettare la guerra in casa propria e sfruttare i vantaggi derivanti dal combattere su un terreno conosciuto, dai popoli disarmati (che si valgono di mercenari), «perché sendo la tua virtù nel danaio e non negli uomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello tu se’ spacciato» (Discorsi II xii 19), e dunque dovranno prevenire un’invasione.
L’attenzione di M. al Regno di N. è volta anche a un passato meno recente, a partire dallo storico legame tra Firenze e la N. di Roberto d’Angiò. In due occasioni i guelfi fiorentini chiesero aiuto al re di N.: nel 1313 contro l’imperatore Enrico VII (Istorie fiorentine II xxiv, e cfr. La vita di Castruccio Castracani da Lucca, § 46, per la cospicua presenza di truppe angioine alla disfatta di Montecatini il 29 ag. 1315), e nel 1325 contro Castruccio Castracani (Istorie fiorentine II xxx e La vita di Castruccio Castracani da Lucca, § 101). In entrambi i casi, gli Angiò rifiutarono di difendere Firenze come città alleata, ma ne pretesero la signoria. Di particolare interesse la seconda circostanza, allorché i fiorentini si appellarono al figlio di Roberto, Carlo duca di Calabria, e «quegli sendo consueti a signoreggiare Firenze, volevono più tosto la ubbidienza che la amicizia sua» (Istorie fiorentine II xxx 2; l’episodio è anche in Discorsi II ix 14 e II xii 21). Carlo inviò come proprio vicario il duca di Atene, Gualtieri VI di Brienne, ma poco dopo i fiorentini si liberarono da quella gravosa signoria per la morte tanto di Castruccio quanto di Carlo. Tuttavia nel 1342-43, in un periodo di crisi economica, Firenze si sarebbe rivolta nuovamente al duca di Atene per essere governata, ma Gualtieri venne infine cacciato dalla città dopo soli dieci mesi (Istorie fiorentine II xxxiii-xxxvii: cfr. G. Sasso, La ‘tirannide’ del duca d’Atene, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., 1988, pp. 491-510).
Consapevole del ruolo che le vicende dinastiche del Regno rivestivano nello scacchiere europeo, M. non ignora poi quali circostanze condussero alla fine della supremazia angioina e all’affermarsi della casa d’Aragona: la regina Giovanna II nel conflitto con Luigi III d’Angiò fu abbandonata dal condottiero Muzio Attendolo Sforza e costretta ad allearsi e ad adottare come erede Alfonso d’Aragona (Principe xii 17, in tema di tradimenti delle milizie mercenarie; cfr. anche Arte della guerra I 58-59 e Istorie fiorentine I xxxviii).
Episodio degno di attenzione, per il giudizio politico a esso sotteso, è l’entusiastica cronaca, in Istorie fiorentine VIII xix, della missione compiuta dal Magnifico a N. nel dicembre del 1479, per concludere la guerra fiorentino-napoletana avviata dopo la fallita congiura dei Pazzi. Lorenzo fu ricevuto con grandissimi onori e seppe guadagnarsi perfino un ospite infido come Ferdinando I d’Aragona. M. sottolinea come la fazione antimedicea sperasse che il re di N. avrebbe trattato Lorenzo come aveva fatto con Iacopo Piccinino (cioè lo accogliesse per poi tradirlo ed eliminarlo): ma l’evidente solidità del dominio mediceo su Firenze e la qualità intrinseca del Magnifico indussero il re di N. a stipulare una durevole pace con i Medici nel marzo 1480.
Luogo mitico di sfarzosa ricchezza è la N. negli scritti letterari machiavelliani. Nella Clizia, legate al Regno napoletano sono sia l’esordio sia la conclusione della vicenda: nel dialogo fra Cleandro e Palamede, che avvia l’atto I per ragguagliare gli spettatori, emerge in un’aura favolosa l’impresa di Beltramo di Guascogna, cavaliere al seguito di Jean de Foix, alloggiato a Firenze in casa di Nicomaco. Beltramo seguì Carlo VIII nella conquista del Regno e, sulla via del ritorno, prima della sconfitta francese sul Taro, inviò a Firenze una bambina di cinque anni, ostaggio di guerra. Clizia, la bambina cresciuta presso Nicomaco e Sofronia, si rivelerà nell’epilogo (V 6) figlia di Ramondo, gentiluomo napoletano: la dote e i natali illustri favoriranno il fidanzamento con Cleandro. La discesa di Carlo VIII verso il Mezzogiorno d’Italia costituisce il punto d’avvio cronologico anche per la Mandragola, poiché Callimaco introduce se stesso, in dialogo con il proprio servo Siro, ricordando come all’età di dieci anni fosse stato mandato a Parigi dai tutori, e come avesse poi deciso di restarvi «perché in capo di dieci anni cominciorno, per la passata del re Carlo, le guerre in Italia» (I 1). N. e Parigi costituiscono infine due poli, avvolti in una medesima fantasiosa atmosfera, in cui il secondo protagonista della Favola, il contadino Gianmatteo del Brica, è chiamato a esercitare i suoi esorcismi per liberare le indemoniate figlie del re Carlo di N. e del re «Lodovico settimo» di Francia (con anacronismo fra Carlo d’Angiò, 1266-85, e Luigi VII, 1137-80).
Bibliografia: C. De Frede, La crisi del Regno di Napoli nella riflessione politica di Machiavelli e Guicciardini, Napoli 2006; A companion to early modern Naples, ed. T. Astarita, Leiden-Boston 2013.