Napoli
Napul’è mille culure
Napul’è mille paure
(Pino Daniele)
Tra autocritica e autoincanto
di 5 aprile
Va in scena al Teatro Mercadante, alla presenza del presidente della Repubblica, Ubu sotto tiro, uno spettacolo diretto da Marco Martinelli e recitato da ragazzi di Scampia, il sobborgo di Napoli più violento e problematico. Anche questa è un’occasione per ricostruire – come auspica Napolitano – «un clima di fiducia nella città, un clima di fiducia nei giovani dei quartieri a rischio».
O’ sole mio e Gomorra
Una delle città più controverse, più discusse, più amate o condannate del mondo è certamente Napoli. Una città che offre di sé due immagini contrapposte, la splendida città del sole e la miserabile città delle tenebre, la grande capitale mediterranea e l’affollata tebaide levantina, la città di Vico e di Croce e la città della plebe. Quando ne parla, un napoletano deve prima di tutto ‘giustificarsi’, deve cioè farsi carico di tutte le colpe storiche attribuite a Napoli e di tutti vizi di cui viene accusata, e difendersi da questo perenne tribunale. Ma non solo deve giustificarsi, deve, sempre più di un abitante di qualsiasi altra città italiana, fare i conti con la propria città. Il ‘problema’ che Napoli rappresenta per lui è una questione sempre aperta, e da qui quel rapporto mai risolto di amore-odio che è il sentimento dominante nell’anima di qualsiasi napoletano. Forse è per questo che Napoli non smette mai, attraverso i suoi scrittori, di fornire immagini di sé stessa. Ogni anno escono perlomeno una dozzina di libri in cui uno scrittore napoletano ‘interpreta’ la sua città. Non dico che sono tutti notevoli, ma che ciò non accade in eguale misura per le altre città italiane. La interpretano e ne denunciano i mali, meglio e in modo più documentato di molti osservatori esterni. I napoletani infatti quando non sono compiaciuti di sé – come accade troppo spesso – sono i più accaniti nell’autocritica, anche se non sempre riescono a uscire dal cerchio pericoloso dell’autoreferenzialità. Resta però il fatto che le diagnosi più attendibili sullo stato della città nelle varie epoche, da Vincenzo Cuoco sul fallimento della rivoluzione del 1799, a Roberto Saviano sulla camorra imprenditoriale, vengono da napoletani feriti a morte dalla loro città e insieme incapaci di sottrarsi alla sua malia. Così la città di Gomorra e quella dì O’ sole mio girano per il mondo e occupano l’immaginario senza escludersi vicendevolmente.
Un mondo antico
Cominciamo a definire i confini geografici di questa città. Sarebbe riduttivo considerare Napoli come nucleo cittadino senza inserirla nella cornice del suo Golfo, privandola dei suoi prestigiosi dintorni. Napoli senza Capri e Sorrento, senza Ischia e Procida, senza il Vesuvio e i Campi Flegrei, senza Pompei e senza Cuma, sarebbe una Napoli senza la sua vera identità. Sarebbe soprattutto tagliato il suo legame mai interrotto con il mondo antico, con quell’antichità greca e romana che affiora dovunque dal paesaggio e dal sottosuolo.
E non soltanto il sottosuolo degli scavi di Pompei, di Ercolano, di Cuma o di Baia, ma anche il sottosuolo del centro storico della città. A questo sottomondo dell’archeologia corrisponde un analogo sottomondo della mentalità, fatto di superstizione, anime del Purgatorio, di rapporti con i defunti, di spiriti, ‘monacielli’ e altre creature provenienti dai recessi dell’anima popolare, di quel popolo bien plus peuple qu’un autre di cui parlava Montesquieu e poi tanti altri viaggiatori che nel tour culturale e formativo del viaggio in Europa includevano obbligatoriamente Napoli come una delle capitali da visitare. Nei resoconti e diari di questi viaggiatori quasi sempre il fatto più rilevante, la particolarità che più colpisce, è la presenza nel cuore della città e nel groviglio dei vicoli di questa popolazione antica per costumi, tradizioni, credenze, cultura, lingua – antica in un certo senso come quella di Pompei – che viene chiamata ‘plebe’ e che è diversa dal sottoproletariato (dal popolo) delle altre città italiane. Così c’è una Napoli borghese e una Napoli plebea, due culture che spesso si fondono, spesso si trovano in contrasto e spesso tendono a sopraffarsi, ma anche ad arricchirsi vicendevolmente.
Tornando al paesaggio, ci sono nel Golfo di Napoli, due stili individuabili a prima vista, che corrispondono a due visioni del Mediterraneo e fanno pensare ai due più grandi poeti dell’antichità: il divino Omero, cantore dell’Odissea, e l’umanissimo Virgilio, cantore dell’Eneide. Questi due stili del paesaggio non potrebbero essere più diversi, eppure si trovano uno accanto all’altro e quasi uno a ridosso dell’altro, abbracciati da un unico Golfo di straordinaria bellezza, dove la storia è passata lasciando tracce indelebili e consacrando ogni baia, ogni promontorio, ogni monte. Il paesaggio virgiliano è quello agreste dell’umile Italia, della verde Italia, con la campagna che dolcemente finisce lambita dal mare; ma è anche quello misterioso delle grotte di tufo stillanti, dove la Sibilla pronunciò i suoi vaticini e dove Enea, attraverso il lago di Averno, raggiunse l’Ade sotterraneo, il silenzioso regno delle ombre. Questo lato virgiliano del Golfo si riconosce appunto per la presenza del tufo, la roccia gialla e porosa di origine vulcanica, e comprende il verdeggiante capo di Posillipo, i fertili Campi Flegrei, e Baia, Pozzuoli, Cuma con la grotta della Sibilla, le isole di Procida e di Ischia. Il paesaggio omerico invece si riconosce subito per la roccia che si leva alta a strapiombo sul mare ed è compatta e possente, come quella delle Alpi Dolomitiche. Sotto la roccia arida e nuda, le spiagge sono bianche di ciottoli levigati come uova, il mare ha il colore del metallo fuso e splende nella gloria del mezzogiorno, come quello che vide Ulisse quando con la sua nave passò da queste parti. È omerica Capri, dove sembra sia concentrata tutta la bellezza del Mediterraneo, omerici sono i faraglioni e il salto di Tiberio arroccato come un nido d’aquila di fronte al capo di Minerva (la punta estrema della penisola sorrentina), e omeriche sono tutta la costiera amalfitana e le piccole isole Sirenuse, fluttuanti nella foschia luminosa del mattino al largo di Positano. Ecco, così l’epico Omero e il romantico Virgilio si dividono il paesaggio napoletano e ne aumentano le suggestioni; e anche se il degrado e la speculazione edilizia rendono tutto devastato e meno evidente, chi ha l’occhio esercitato e una sufficiente cultura riesce ugualmente a vedere tutto questo. Sì, per vedere tutto questo bisogna sognarlo mentre lo si vede,
perché non vede il mondo chi non lo sogna; e torna a proposito il paragone, che una volta fece il narratore e saggista inglese Norman Douglas, con l’anfora ripescata dal fondo del mare, tutta incrostata di conchiglie e di alghe che la nascondono alla vista, ma non all’occhio esercitato che sa riconoscere, oltre le incrostature, la bellezza della forma originaria. E chi portandosi appresso questa disposizione dello spirito va in giro per la città libero da prevenzioni, per la ‘città porosa’ (così la definì Walter Benjamin), porosa come una barriera corallina o una spugna, scoprirà incapsulati nelle anfrattuosità e anche nel degrado del suo tessuto urbano chiostri, chiese, palazzi, scale e portoni, colonne e monumenti e altre insospettate meraviglie. Ci vogliono appunto quella disponibilità e quella disposizione che avevano Goethe e Stendhal, Comisso e Piovene, Ungaretti e la Morante e tanti altri, e che non hanno Bocca e Arbasino, Ceronetti e tanti altri. Dimmi come vedi Napoli e ti dirò chi sei. Se si è schizzinosi, catastrofici o moralisti, a Napoli è meglio non mettere piede. Anche aver la puzza sotto il naso, come si dice, è sconsigliato: ce ne sono fin troppe di puzze. Così allo stesso modo, se si è schizzinosi, catastrofici o moralisti, è meglio non viaggiare in qualsiasi paese di antica o antichissima civiltà. Molti vanno a Napoli come se non sapessero dove vanno, pretendendo di trovare, vedere e riportare cose che si sa benissimo che non ci possono essere, oppure con l’intento di vedere confermate e magari ingigantite quelle che si sa benissimo che ci sono. Come se uno andasse nella civilissima India per trovare le cose che si trovano nella civilissima Svizzera e poi giudicasse l’India con il metro svizzero. Che viaggiatore sarebbe costui? Un viaggiatore dovrebbe viaggiare leggero, senza bagaglio di pregiudizi, curioso, e soprattutto senza un’idea fissata nella testa di «come dovrebbe essere il mondo». Se si fa così, Napoli diventa il luogo deputato del luogo comune.
Anomalie napoletane
Napoli presenta molti caratteri che la fanno diversa da ogni altra città italiana. Qualcuno lo abbiamo già toccato: la plebe, per esempio. Nessun’altra città italiana è abitata dalla plebe. Questa popolazione antica è l’humus sul quale è cresciuta nei secoli la civiltà napoletana e le ha dato l’impronta che ha, i vizi e le virtù, la lingua e la fantasia, la memoria, le favole, le canzoni, il teatro, la poesia. Sono passati per Napoli i greci, i romani, i bizantini, i longobardi, i normanni, e gli svevi, i francesi, gli aragonesi, gli spagnoli, gli austriaci (e stavo per aggiungere gli italiani); ma nessuno di questi passanti ha mai intaccato quell’humus originario, che si è perpetuato attraverso i secoli e fino a oggi. Come ho detto, la plebe costituisce una ricchezza e un problema, perché, come scrisse Pasolini, preferisce estinguersi lentamente, «al pari di una tribù indiana», anziché cambiare i propri costumi e le proprie credenze. Ha accettato la televisione, il motorino, l’automobile e tutti i beni di consumo che offre la modernità, ma questo ha provocato cambiamenti superficiali, che l’hanno appena toccata e anzi l’hanno corrotta e resa violenta, facendo nascere desideri che non possono essere soddisfatti e innalzando il livello della malavita. A Napoli vi sono dunque due anime: una che si rifà a un dialetto e a una tradizione locali; un’altra che si rifà a una cultura, a una tradizione e a una vocazione europee. Nelle altre città italiane questa dicotomia non è così forte e radicata, e non ha le conseguenze che ha a Napoli. Faccio un solo esempio: a Napoli, fino al dopoguerra, fino al 1945, si può dire che la letteratura narrativa (con poche eccezioni, come Matilde Serao) è stata quella dialettale, scritta in dialetto, anche se questo dialetto ha subito notevoli evoluzioni. Basta pensare al Pentamerone, ovvero Lo Cunto de li cunti di Giambattista Basile, alla poesia di Giulio Cesare Cortese e di Filippo Sgruttendio, e poi a quella di Salvatore Di Giacomo, al teatro di Eduardo De Filippo e alla commedia napoletana in generale. Solo nel dopoguerra si è affermata una letteratura scritta in italiano, con Domenico Rea, Michele Prisco, Anna Maria Ortese. Ma nello stesso tempo il pensiero critico, storico, speculativo, da Giovanni Battista Vico a Gaetano Filangeri, da Vincenzo Cuoco a Francesco De Sanctis, da Bertrando Spaventa ad Antonio Labriola e fino a Benedetto Croce, è stato sempre europeo e scritto nella più bella lingua italiana. Questo non vuol dire che la cultura che ha prodotto il Pentamerone debba essere definita locale, perché il Pentamerone, com’è noto, fu tradotto e letto in tutte le lingue e influenzò Perrault, i fratelli Grimm e la letteratura favolistica europea.
Un’altra differenza tra Napoli e le altre città italiane è che Napoli è l’unica in cui c’è stata una vera guerra civile, feroce e senza quartiere, in tempi non lontani. Fu quando nel 1799 la borghesia volle fare una rivoluzione democratica ispirata ai principi di quella francese, e ne uscì sconfitta dalla plebe alleata del re Borbone (un paradosso tragico, come se a Parigi il popolo fosse stato dalla parte del suo oppressore, di Luigi XVI). Basta leggere le cronache dell’epoca per capire quanto odio si scatenò, quanto terribile fu la repressione e quanta barbarie venne fuori quando la plebe e le bande armate del cardinale Fabrizio Ruffo si impadronirono della città. E assume quasi un significato simbolico il fatto, da più testimoni riportato, che si verificassero atti di cannibalismo. Come la città uscì da quella guerra civile e con quali conseguenze durature è stato raccontato da molti e da molti punti di vista, e ancor oggi a Napoli ci sono i borbonici e i giacobini, e due memorie contrapposte. Certo è che – come scrisse Stendhal – la parte migliore della borghesia napoletana fu allora sterminata senza pietà, e che quella ferita storica è rimasta nell’anima della città e non è ancora rimarginata. Un’altra conseguenza da tener presente è che quella guerra civile avvenne quando gli altri paesi europei stavano per entrare nell’età industriale e bloccò lo sviluppo della città in un momento che avrebbe potuto essere decisivo per il suo avvenire.
Un’altra diversità di Napoli è che è stata la capitale di un regno, il regno delle due Sicilie, fino al 1860. Dunque aveva la sua politica estera e i suoi ambasciatori presso le corti europee. Uno di questi fu l’abate Ferdinando Galiani, che divenne amico di Diderot e frequentò gli ambienti illuministi, tenne una corrispondenza con Madame d’Epinay, e fu considerato nei salotti parigini uno degli intellettuali più vivaci e brillanti. Nel 1860 Napoli perse la sua autonomia e diventò, come tutte le altre città italiane, parte del regno d’Italia. Ma molti napoletani non si rassegnarono e ancora oggi non sono rassegnati a questa perdita di prestigio e considerano l’annessione all’Italia una conquista regia, un’occupazione territoriale dei Savoia. E rimpiangono Ferdinando, il re plebeo e aristocratico, che parlava in dialetto e aveva tutte le caratteristiche del napoletano ‘verace’, ed era sempre circondato da una grandiosità e da un fasto che affascinavano i suoi sudditi.
Problemi incommensurabili
Ma ci sono altre anomalie che fanno Napoli diversa dalle altre città italiane e i suoi problemi incommensurabili con quelli delle altre città italiane. L’origine di questi problemi sta forse nella forma stessa che ha preso la città a causa del suo abnorme sviluppo urbanistico. È stato sempre così, anche in passato. Allora questa crescita mostruosa avveniva perché eserciti di villani si riversavano incessantemente dalle campagne (dove le condizioni di vita erano insopportabili) nella città (dove almeno il pane si poteva trovare, perché mancando il pane la città si sarebbe rivoltata). Lì si accampavano nelle piazze e nelle strade e sopravvivevano come potevano (più o meno come accade oggi con gli immigrati clandestini). Così Napoli poté apparire al viaggiatore straniero «un paradiso abitato da diavoli» o « una tana sterminata». Oggi è, sotto molti punti di vista, peggio di allora, perché Napoli è l’unica città italiana che, per la fragilità dei servizi e delle strutture in rapporto alla popolazione e all’estensione dell’abitato, possa essere paragonata a una megalopoli sudamericana. E se il paragone può apparire esagerato, si consideri che una megalopoli sudamericana ha intorno un continente vasto e spopolato, mentre Napoli sorge in una delle zone più popolose del globo. Tutto cominciò sotto il sindaco Achille Lauro, che permise e incoraggiò una delle speculazioni edilizie più devastanti di quest’ultimo cinquantennio, che pure ne ha viste tante. Il film Mani sulla città di Francesco Rosi ne dà una testimonianza eloquente. Oggi si può andare dal centro della città fino a Pozzuoli, a Casoria, in uno qualsiasi dei paesi vesuviani, senza praticamente mai uscire dall’abitato, passando a volte attraverso una periferia degradata, senza collegamenti, senza strade decenti, e sempre intasata da un traffico impazzito. Questa periferia stringe, come un boa tra le sue spire, la città di un milione di abitanti, e la soffoca. Più che una periferia è una conurbazione di circa due milioni e mezzo di abitanti, con una grande percentuale di disoccupati e in condizioni di vita molto precarie. Forse per questo si dice che questa periferia, che circonda e stringe la città, è la sua ‘corona di spine’. E forse anche per questo si dice che i problemi di Napoli, a paragone con quelli delle altre città italiane, sono ‘irrisolvibili’ e appartengono a quel tipo di ‘irrisolvibilità’, nel quale figura, che so, la sovrappopolazione, la fame nel mondo, la droga, la criminalità... Già, questa appunto, la criminalità, con la globalizzazione sta assumendo a Napoli caratteri peculiari. Alla camorra di vecchio tipo si è sostituita una camorra ‘imprenditoriale’ che ha allargato enormemente le sue pretese e i suoi affari e anche, in proporzione, la ferocia dei suoi crimini. Ne ha fatto un’analisi agghiacciante Roberto Saviano nel libro Gomorra.
Vorrei accennare ancora a un’altra ‘diversità’ non meno rilevante di quelle finora descritte: quale città italiana si trova sotto la perenne minaccia di un vulcano, lo «sterminator Vesevo» di Giacomo Leopardi, che quando si risveglia (e più volte nel passato si risvegliò) semina morte e distruzione? La sensazione di vivere sempre sotto un pericolo incombente, di un’eruzione, di un terremoto, fa parte della memoria inconscia del napoletano e determina quel senso di precarietà, di incertezza, di sottile angoscia, ma anche di fatalità, che tutto nella vita quotidiana della città contribuisce a confermare, e che certo non è così diffuso a Milano e a Torino.
Nel 1957, nel suo Viaggio in Italia, Guido Piovene scriveva: «i problemi di cui bisognava parlare ci hanno impedito di assaporare l’incanto che Napoli esprime ancora: l’incanto di una straordinaria metropoli fertile di novelle e di meraviglie, con un unico spirito che, quasi un gas esilarante, circola tra i quartieri popolari e i palazzi dell’aristocrazia». Quell’incanto di cui parlava Piovene non molti anni fa, resiste ancora? A volte, quando per pochi giorni ritorno a Napoli, mi sembra di sì. Ma, sempre Piovene già allora ci metteva sull’avviso quando scriveva che «il cosiddetto vivere napoletano è ormai ridotto a una facciata dietro la quale c’è il vuoto non solo di cultura ma di informazione, e se non si cerca di riempire quel vuoto instaurando forme di vita più idonee al mondo occidentale, tutte le predicazioni possono irrompervi. I napoletani stessi si rendono conto di ciò, e quasi tutti sono ondeggianti tra autocritica e autoincanto».
repertorio
Storia di Napoli
Dalle origini agli Angiò
Il primo nucleo abitativo di Napoli fu Parthenope, fondata nel 7° sec. a.C. da colonizzatori greci tra l’isolotto Megaride e il prospiciente colle di Pizzofalcone. Dopo le lotte con gli Etruschi per il predominio del golfo, la città si estese con la costruzione nelle adiacenze di un nuovo sito, Neapolis (5° sec. a.C.). Florida per le funzioni di scambio incentrate sul porto, divenne municipio romano nel 90 a.C., ma mantenne traccia della sua grecità, sia nella lingua sia nel tracciato urbano tipicamente ellenico, scandito su tre decumani. La repressione di Silla, che la punì per aver parteggiato per Mario (82 a.C.), causò l’indebolimento dei ceti più attivi e la perdita del ruolo commerciale; si accentuò invece l’aspetto di luogo di otia per l’alta società romana, attirata dalla mitezza del clima, dal paesaggio, dalla dislocazione ad anfiteatro sul mare. Napoli divenne così cuore della Campania felix, la regione delle ville e dei complessi raffinati, come quelli sepolti dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. a Pompei, Ercolano e Stabia. In età cristiana, Napoli si sviluppò con nuclei periferici lungo il pendio di Capodimonte e vide la fondazione di importanti basiliche, come la costantiniana S. Restituta e quella del martire S. Gennaro. La minaccia delle invasioni barbariche impose l’edificazione di mura attorno al centro (sec. 5°) e l’abbandono dei quartieri extra moenia. Disputata fra Goti e Bizantini, restò ducato bizantino, di fatto autonomo, contraddistinguendosi rispetto all’entroterra per il suo carattere greco. L’indipendenza durò fino al 1139, quando la città entrò a far parte del regno di Sicilia normanno-svevo. Federico II vi istituì lo Studio (1224), prima università statale e centro di cultura ghibellina. Esigenze strategiche portarono alla costruzione di Castel Capuano e alla ristrutturazione della fortezza (poi Castel dell’Ovo) sull’isolotto Megaride, mentre si consolidò una direttrice di espansione verso l’entroterra. La sconfitta di Manfredi a Benevento (1266) e la decapitazione di Corradino in quella che sarà la piazza del Mercato posero fine alla dinastia sveva, alla quale subentrarono gli Angiò. Sotto la dominazione angioina, il rovesciamento di ruolo già delineatosi tra le parti continentale e insulare del regno culminò nel 1282, dopo i Vespri siciliani, con il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli. L’elevazione a capitale e la fama della corte, alimentata da poeti e letterati come Boccaccio e Petrarca, diedero impulso demografico e urbanistico alla città, di cui fu espressione l’edificazione della reggia e del Castel Nuovo (Maschio Angioino). L’area libera tra l’altura di Pizzofalcone e l’antico centro, valorizzata dalla sede reale, divenne il nuovo nucleo politico-amministrativo e di rappresentanza della città. Segno della politica filoguelfa degli Angiò, con l’accentuazione del vassallaggio feudale verso la Santa Sede e l’immissione del baronaggio francese, fu una griglia di complessi religiosi in cui lavorarono maestranze d’oltralpe. Intorno al porto, potenziato da un arsenale, si moltiplicarono fondachi e logge delle colonie mercantili straniere.
Aragonesi e Spagnoli
Travagliata da assedi ed epidemie nelle lotte fra i pretendenti angioini, Napoli nel 1441 passò sotto il dominio di Alfonso d’Aragona. Venne così a trovarsi al centro, e in posizione egemonica, di una compagine unitaria mediterranea e di una koiné culturale facenti capo alla corona d’Aragona, nella massima fase della sua espansione. La nuova dinastia tracciò un circuito di mura che includeva 22 torri e il Castel Capuano, accentuò gli aspetti militari e difensivi con fortificazioni intorno al Castel Nuovo, promosse l’edilizia civile con palazzi e ville suburbane di classica dimensione rinascimentale; la popolazione crebbe per l’attrazione esercitata sul contado, superando i 100.000 abitanti. Minato da conflitti tra i ceti sociali e conteso tra Francesi e Spagnoli, il regno di Napoli alla fine rimase alla Spagna, vivendo di riflesso, dal 1504 al 1707, le conseguenze delle crisi economiche e politiche che interessavano la corona. Con gli Spagnoli ebbe termine l’indipendenza del regno, che divenne una delle province dell’impero, governata da viceré nominati da Madrid. A metà Cinquecento don Pedro de Toledo attuò una delle trasformazioni più vistose della storia urbana di Napoli: l’estensione delle mura che consentì di raddoppiare i confini topografici, con una fortificazione di collegamento fra i castelli S. Elmo, dell’Ovo, Nuovo, e l’apertura di una grande arteria, la via Toledo; sul declivio tra Castel S. Elmo e la nuova direttrice furono disposti a scacchiera gli alloggiamenti militari, i ‘quartieri spagnoli’.
L’esodo dai feudi e l’insediamento in città dei baroni, attratti da privilegi e vantaggi fiscali, segnarono fisicamente il volto della città con l’edificazione di dimore patrizie, mentre nuovi ordini religiosi, i Gesuiti e i Teatini, diedero avvio alla fondazione di fabbriche imponenti, destinate ad aumentare nell’età della controriforma. L’inurbamento interessò anche mercanti e finanzieri, artigiani e manovali, parte dei sudditi delle province più vessate dalla tassazione. Nel 1602 Tommaso Campanella descrive una città sovraffollata, tenuta in servitù e povertà, in cui una parte «fatica e si strugge e i più si perdono per ozio, lascivia e usura, in mancanza del servizio pubblico». Alla metà del Seicento, con i suoi 450.000 abitanti – compressi entro la cinta muraria, per il divieto del 1556 di costruire fuori delle mura (mantenuto fino al 1716) – Napoli era con Costantinopoli la più popolosa città d’Europa, in condizioni allocative e igieniche insostenibili per l’enorme massa del popolo minuto, colpita anche da un’epidemia di peste (1656). Per contro la costruzione del Palazzo vicereale, di Domenico Fontana, il moltiplicarsi di cantieri per sedi signorili ed ecclesiastiche, la committenza dell’aristocrazia e della Chiesa richiamavano artisti italiani e stranieri, con esiti rilevanti in campo pittorico per la presenza di maestri come Guido Reni, Domenichino, Artemisia Gentileschi, Jusepe de Ribera e lo svilupparsi di una scuola locale con Salvator Rosa, Mattia Preti, Luca Giordano, Francesco Solimena. Questo impasto di fasti e di miseria suscitava conflittualità e problemi di ordine interno, che portarono a rivolte di popolo, come quella capitanata da Masaniello (1647), e diede avvio al fenomeno della ‘camorra’: la difficoltà d’azione dei tutori della legge faceva sì che dei ‘compagni’ (compañeros) istituissero un ordine più efficace, traendone in cambio agi e potenza; la plebe li accettava, ricorrendo ai loro tribunali più volentieri che a quelli del re, e i governanti se ne servivano come mezzo di controllo delle masse popolari.
I Borbone
Nel 1707, nel corso della guerra di successione spagnola, l’Austria conquistò Napoli, che tenne fino al 1734, quando con Carlo III Borbone, primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, il regno tornò indipendente. Un intelligente riformismo, ispirato alle idee politiche di Pietro Giannone e a quelle economico-sociali di Antonio Genovesi, connotò l’iniziale periodo borbonico per la stretta collaborazione fra monarchia ed élite illuminata, mentre il recupero dell’autonomia dava nuovo respiro alla vita cittadina, cui contribuì la tassazione dei beni ecclesiastici, triplicando le entrate del reame. Nuove direttrici viarie furono aperte verso Capodimonte, dove sorse la nuova reggia, verso Capodichino e la zona vesuviana, che si popolò di ville integrate con il contesto paesistico. Agli stessi anni datano le regge di Portici e Caserta, e, nella città, il Teatro S. Carlo, di Giovanni Antonio Medrano, e il Palazzo dei Poveri, di Ferdinando Fuga, bei segmenti architettonici, ma in un quadro urbano complessivo di degrado, per eccesso di densità demografica e cattiva qualità del patrimonio edilizio. L’accordo tra monarchia e borghesia illuminata si ruppe per effetto delle idee rivoluzionarie provenienti dalla Francia. Un piano insurrezionale antimonarchico fallì nel 1794, ma nel gennaio 1799 la fuga in Sicilia di Ferdinando IV prima dell’arrivo delle truppe francesi consentì la proclamazione della Repubblica partenopea, nonostante la plebe insorgesse in armi contro i giacobini, sospettati d’intesa con i nemici. L’eruzione del Vesuvio fece da sfondo al rientro dall’esilio, tra gli altri, del giurista e filosofo Francesco Mario Pagano e delll’ideologo Vincenzo Russo. La Repubblica legiferò alacremente: abolì la tassa sul testatico, l’uso della tortura, i titoli nobiliari, coniò nuove monete. Ma, indebolita dal mancato sostegno di Parigi e dalla estraneità del popolo all’ideologia rivoluzionaria, astrattamente dottrinaria e lontana dalle reali necessità delle masse, presto vacillò anche militarmente e fu spazzata via nel luglio dall’armata ‘sanfedista’ del cardinale Fabrizio Ruffo, appoggiata dalla flotta inglese di Horatio Nelson, il cui equipaggio era formato in gran parte da ‘lazzari’, popolani filoborbonici. Ripristinata la monarchia, Ferdinando IV fece giustiziare i patrioti dopo processi sommari. Conquistata nel 1806 nuovamente dai Francesi, Napoli fu posta sotto il controllo di Giuseppe Bonaparte, poi di Gioacchino Murat, che operarono in profondità nella struttura del regno, proseguendo le riforme (conversione dei beni ecclesiastici in privati, decentramento amministrativo, fondazione di istituti culturali), e intervennero nella città con il taglio della grande strada che dal Museo nazionale conduce alla reggia di Capodimonte (corso Napoleone). Il ritorno di Ferdinando IV nel 1815 si accompagnò a una politica di accentramento monarchico, all’assunzione del titolo ufficiale di Regno delle Due Sicilie e all’adesione ai principi della Santa Alleanza. La netta ostilità nella parte più colta della popolazione sfociò nell’insurrezione militare del 1820, che aprì una breve stagione di vita costituzionale, nei moti del Cilento del 1828, duramente repressi, nelle cospirazioni e nei tentativi di colpi di mano dei liberali (impresa dei fratelli Bandiera nel 1844). La crisi del 1848, aperta in senso rivoluzionario e separatistico dalla Sicilia, a Napoli si sviluppò in senso riformistico con il giuramento della Costituzione da parte di Ferdinando II, ma si chiuse nello stesso anno con un’improvvisa e cruenta reazione. Segni magniloquenti del ritorno dei Borbone furono il completamento del Foro Ferdinandeo (piazza del Plebiscito), l’inaugurazione di un asse lungo la fascia costiera, con la sistemazione della Riviera di Chiaia, di via Posillipo e della strada per Bagnoli, e l’apertura di un’arteria panoramica di mezza costa sulle pendici del Vomero (corso Vittorio Emanuele). Opere di abbellimento e ristrutturazione concorsero a fare di Napoli una meta del Grand tour europeo. Era questa la città mediterranea, oltremodo popolata, indisciplinata e chiassosa che vide l’ingresso di Garibaldi nel 1860.
Il regno d’Italia
Con la conquista garibaldina e l’intervento piemontese, il regno di Francesco II cessò di esistere e fu annesso al Regno d’Italia. Il processo di unificazione si accompagnò al trasferimento al Nord dell’oro del Banco di Napoli (443 milioni di lire oro contro i 148 del resto d’Italia) e al rapido e meccanico trapianto della legislazione e dei regolamenti sabaudi. Si trattò di una scelta politicamente miope, che risultò gravida di conseguenze: il sistema fiscale sardo, esoso e complicato, si dimostrò inadeguato alle caratteristiche economiche della regione, fondate sull’agricoltura e sulla rendita fondiaria, due settori che il meccanismo tributario dei Borbone, più duttile, aveva cercato di proteggere; l’estensione automatica della tariffa doganale piemontese, con abbassamento dell’80% dei dazi protettivi, determinò lo scardinamento dell’industria locale; la soppressione delle imposte di consumo su molte derrate cerealicole e il passaggio dal Comune al governo della riscossione di quelli superstiti furono una perdita secca per l’amministrazione cittadina. Il trasferimento al Nord del baricentro statale portò, inoltre, danni al commercio e all’artigianato, penalizzati dalla repentina caduta dei prezzi, innescando un diffuso malcontento e nostalgie legittimistiche, che emersero fin dall’inizio con il fenomeno del brigantaggio. L’evoluzione della società unitaria travolse la fisionomia dei gruppi che più a lungo si erano identificati con i valori della tradizione locale, nobiltà e plebe: la prima, con la corrosione delle rendite terriere e immobiliari, perse l’agiatezza che l’aveva caratterizzata per secoli; la seconda smarrì il solo sostegno cui, nonostante il paternalismo e il cinismo del vecchio patriziato, aveva potuto appoggiarsi, senza per questo vedersi inserita nelle file del proletariato industriale. Cominciò, invece, a emergere la piccola borghesia che, priva di ruolo nella capitale borbonica, iniziò ad averne uno nel regno unitario, connesso alla burocrazia. Intanto, Francesco De Sanctis, al Dicastero della Pubblica istruzione, intendeva fare dell’Università di Napoli ‘la prima d’Europa’, chiamandovi i migliori ingegni liberali. Perso il rango di capitale del regno, la città rimaneva ancora il centro politico, economico e sociale più importante del Sud.
Alla fine del secolo, dopo l’epidemia di colera del 1884, un’operazione di rinnovo urbano fu intrapresa con lo ‘sventramento’ dell’antico centro, dove la popolazione viveva in condizioni drammatiche per miseria e densità, commistione funzionale con lavorazioni insalubri, assenza di drenaggi in presenza di falde idriche superficiali. Il piano di risanamento, finanziato da una legge speciale del 1885, previde la bonifica per colmata delle parti più basse dei quartieri verso il mare, il taglio dei tessuti antichi con l’apertura di corso Umberto I, via Depretis e via Sanfelice, l’inizio di rioni di ampliamento per i ceti meno abbienti. L’inaugurazione della prima funicolare (1891) di connessione del Vomero con il centro storico sottostante consentì di indirizzare verso la collina nuovi investimenti per l’edilizia residenziale. La tipologia degli interventi determinò tuttavia la separazione territoriale delle classi e dei ceti, laddove nel passato la stratificazione sociale risultava leggibile in verticale: i piani nobili (il primo e il secondo) per i ricchi, i ‘terranei’ per le botteghe artigiane e per i poveri, i piani superiori utilizzati via via secondo un rapporto proporzionale fra altezza e indigenza degli inquilini. Inoltre il risanamento peggiorò la situazione di sovraffolamento delle vecchie case dei ceti poveri, privi di risorse per accedere agli alloggi dei nuovi fabbricati. Intanto l’alta natalità e i flussi immigratori portarono a 500.000 il numero degli abitanti. Le inchieste parlamentari di Giuseppe Saredo e Francesco Saverio Nitti sulla gravità della situazione napoletana portarono al varo di un provvedimento speciale (legge Gianturco, 1904), volto a potenziare le strutture produttive con l’insediamento a Bagnoli dell’impianto siderurgico dell’Ilva (poi Italsider), riservando un perimetro tra Poggioreale e la costa all’espansione della zona industriale. Ma la situazione economica continuò a essere fortemente compromessa, anche per la mancanza dei capitali privati necessari a rinnovare l’arretrata agricoltura locale, in gran parte stornati sull’acquisto dei beni demaniali quotizzati o investiti in titoli di Stato. I superstiti capitali disponibili furono a malapena sufficienti a riparare i danni causati dalle eruzioni del Vesuvio, che nel 1906 distrussero villaggi e colture. Colpita dalla crisi del primo dopoguerra, la città si riprese in parte durante la dittatura fascista, che conferì al porto, in precedenza principale punto d’imbarco per l’emigrazione transoceanica, una funzione di collegamento con i domini coloniali (Libia, Somalia, Etiopia, Dodecaneso), sottolineata dalla creazione di un quartiere fieristico per la Mostra d’Oltremare. Napoli visse in quel periodo anche una breve stagione come centro di produzione cinematografica, in un ruolo pioneristico, destinato a cedere presto all’intraprendenza del Nord (Miramare film di E. Rotondo, Lombardo film di G. Lombardo). L’apertura della Litoranea e l’ampliamento della zona industriale non risolsero i problemi della popolazione e accelerarono invece il processo di degrado del Golfo, mentre continuava il disordine nell’assetto urbano.
La guerra e il dopoguerra
I dissidenti al regime si unirono nella clandestinità in un fronte unico, ma il movimento restò largamente minoritario fino a quando Napoli non fu investita dalla guerra, a causa della quale la disaggregata economia cittadina crollò. Dopo le incursioni aeree inglesi del 1940 anche i ceti sociali che non avevano mai negato il loro consenso a Mussolini diedero segni di insofferenza. L’offensiva aerea degli alleati si intensificò nel 1942-43 con bombardamenti diurni a tappeto, che dissestarono il tessuto urbano e annientarono i servizi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, l’ordine hitleriano ai contingenti tedeschi fu di non abbandonare la città senza averla ridotta a un cumulo di ‘cenere e fango’. Di fronte ai saccheggi delle truppe tedesche nei depositi, che privarono la popolazione delle ultime risorse, alle rappresaglie naziste, all’incendio dell’Università e alla distruzione degli impianti dell’Ilva, la rivolta contro l’occupazione tedesca esplose come un moto spontaneo, coinvolgendo nella guerriglia per quattro giorni (28 settembre-1° ottobre 1943) tutti i ceti sociali, donne e scugnizzi. All’ingresso delle truppe alleate il porto era ‘un cimitero di navi’, la città priva dei servizi basilari, la popolazione ammassata nei rifugi antiaerei e colpita da un’epidemia di tifo. Razionati i pochi generi disponibili, fiorì la borsa nera, presto organizzata in grande stile, mentre l’inflazione cresceva anche per la stampa da parte del governo militare di AM-lire, la moneta di occupazione che in poche settimane pareggiò l’intera massa di moneta italiana in circolazione nel territorio liberato, per un complesso di 16 miliardi di lire. Furto e malavita, contrabbando e prostituzione divennero settori trainanti dell’industria napoletana. Al referendum istituzionale su repubblica o monarchia del 1946, Napoli si schierò in favore della seconda. Il successo del voto monarchico, cui concorse il Movimento dell’Uomo Qualunque del giornalista Guglielmo Giannini, diventò la piattaforma elettorale delle fortune politiche dell’armatore Achille Lauro, sindaco dal 1952 al 1958 e dal 1960 al 1961. Sostenuto dalle masse popolari di cui conquistava i voti usando metodi spregiudicati, con l’appoggio di speculatori e impresari edili, nell’assenza di una disciplina urbanistica (rimase sempre inevaso il piano regolatore di Luigi Piccinato del 1939) e nel silenzio di intellettuali e scrittori della napoletanità, Lauro fu protagonista di una stagione che inflisse alla città danni irreparabili. Negli anni Cinquanta e Sessanta la pirateria edilizia convertì il panorama in cemento sulle colline del Vomero, alle pendici di Posillipo, a Fuorigrotta. Il disordine urbanistico dilagò a scapito di un riassetto della vita economica e civile, distruggendo anche l’economia del vicolo con il trasferimento della parte più povera della popolazione nei comprensori della cintura esterna. Sopravvivenze di abusivismo edilizio continuarono negli anni Settanta-Ottanta, nonostante l’adozione di migliori strumenti urbanistici (piano regolatore del 1972), il peso assunto dall’iniziativa pubblica con la creazione di poli di edilizia economico-popolare (Secondigliano e Ponticelli), le opere di viabilità e risanamento (disinquinamento del Golfo), i lavori di recupero eseguiti nel patrimonio abitativo del centro dopo i dissesti del sisma dell’Irpinia (1980), l’integrazione di attrezzature periferiche, la decongestione e ridistribuzione dei carichi demografici in aree della cintura urbana. Negli anni Novanta, insieme allo smantellamento dell’IRI, Napoli vide cancellate o minimizzate le sue attività produttive: Italsider, Selenia, Aeritalia, Cirio, Alfasud. Il peso scaricato dalla disoccupazione sul settore pubblico e sulle attività precarie, spesso al limite della legalità (lavoro minorile, a domicilio, ‘sommerso’, favorito dai clan criminali), ha reso problematici gli equilibri sociali, la qualità della vita e la stessa dialettica del confronto politico su scala locale.
Il quadro attuale
Al passaggio del millennio, con 1.000.470 abitanti al censimento del 2001, Napoli conferma i processi di contrazione demografica e di suburbanizzazione, il ridimensionamento dell’occupazione industriale sotto forma di rilocalizzazione di impianti del settore secondario a favore di aree della cintura metropolitana; fra i rami manifatturieri restano caratterizzanti quelli dell’abbigliamento, delle calzature e della pelletteria. L’espansione dell’attività crocieristica incrementa il traffico del porto, per movimento di container e flusso di passeggeri; il patrimonio storico è oggetto di iniziative di recupero dei monumenti e di una generale rivalutazione delle istituzioni culturali: dai lavori di risistemazione dei musei, alla realizzazione della Città della scienza presso i dismessi impianti di Bagnoli, alla riapertura del Museo storico astronomico dell’Osservatorio di Capodimonte (2000). Il cosiddetto ‘Rinascimento’ dell’ultimo scorcio del 20° sec. non ha però indebolito la camorra, che da organizzazione verticale e gerarchica ha assunto, per scontri interni, una dimensione pulviscolare e un profilo tendenzialmente gangsteristico. La ‘Onorata società’, che nell’Ottocento aveva tratto la maggiore fonte di reddito da imposte sulle attività più varie (gioco, lotto clandestino, barche, mercati), nello Stato unitario beneficiato di tangenti legate alle clientele politiche, nel dopoguerra assunto il controllo del traffico di stupefacenti, del riciclaggio di denaro e, con l’ingresso nel settore edilizio pubblico, della gestione di fondi per la ricostruzione dopo il sisma del 1980, estende ora il suo campo di interessi agli introiti derivanti dal riciclaggio dei rifiuti e altre attività illecite, con un fatturato che si stima sfiorare il 5-8% del PIL nazionale.