Narrativa
di Claudio Magris
Narrativa
sommario: 1. Tramonto dell'epica e crisi del romanzo: la dissoluzione del grande stile. 2. Totalità e regressione: la cancellazione del soggetto e l'avventura delle tecniche narrative. 3. La modernità come caduta: arte e vita, volgarità e morale. 4. Avanguardia e rivoluzione. 5. Il dopoguerra. □ Bibliografia.
1. Tramonto dell'epica e crisi del romanzo: la dissoluzione del grande stile
Svevo - racconta la figlia, Letizia Fonda Savio - non era alieno, nella conversazione quotidiana, da qualche termine disinvolto o, talora, anche sboccato, finché una volta il suo amico Joyce, indignato, lo riprese ammonendolo che ‟simili cose si scrivono, ma non si dicono". L'aneddoto non rivela soltanto la differenza fra Svevo, che non avrebbe mai messo sulla carta quelle parole un po' scostumate, e Joyce, che sembra considerarle anzitutto in vista della loro possibile utilizzazione nella scrittura; nella sua bonarietà casalinga, l'aneddoto pone in risalto la contraddizione entro cui si dibatte e di cui vive la letteratura moderna, sin dal romanticismo ma soprattutto nel Novecento. Scrivere e vivere appaiono, in un continuo ed eccitato mutare delle posizioni via via sostenute, ora quali sinonimi ora quali antitesi; vengono posti l'uno al servizio dell'altro e viceversa oppure l'uno contro l'altro, in un alternarsi di esaltata celebrazione e di crisi totale che investono entrambi i termini. La parola viene sottoposta a un'insopportabile tensione, perché le viene richiesto - contemporaneamente e contraddittoriamente - di coincidere con l'esistenza, di estrarne l'essenza salvandola dalla distruzione e d'altra parte di staccarsene in un'alterità autosufficiente, in una autonomia totale. L'arte, specialmente quella verbale, viene chiamata - ai primi del secolo - a sopperire alle deficienze del pensiero filosofico, non più capace di comporre il mondo in un'unità di significato: è all'arte, al romanzo che Proust chiede di essere condotto alla ‟vera vita, la vita infine scoperta e chiarita, la sola vita di conseguenza vissuta". Per Broch, che definisce la poesia ‟impazienza del conoscere" (v. Broch, 1936; tr. it., p. 257), il romanzo deve protendersi sull'abisso del ‟laggiù" ossia sull'oscura totalità della vita, che il nostro secolo ha cominciato a intravvedere e a indagare, e ha il compito - come specifica in una lettera a D. Brody del 1931 - ‟di appropriarsi di quelle parti della filosofia, che pur corrispondendo a bisogni metafisici [...] valgono oggi come non scientifiche" (v. Broch, 1957, pp. 59-60). Joyce chiede all'arte di cogliere la verità della vita, l'epifania che svela il segreto del quotidiano; ma, secondo suo padre, se si fosse smarrito nel Sahara si sarebbe per prima cosa seduto sulla sabbia per tracciare una carta geografica e cioè avrebbe subordinato l'esperienza al grafico della medesima, la vita alla sua rappresentazione (v. Marengo Vaglio, 1977). Non diversamente Proust, che chiede allo scrivere il recupero del tempo perduto, sacrifica il tempo allo scrivere. Con le Duineser Elegien (1911-1923) Rilke scriverà la poesia poetologica per eccellenza, la poesia dell'assolutezza e dell'autosufficienza della poesia stessa.
La storia della letteratura, soprattutto narrativa, del Novecento è la storia dello scarto fra la vita e la sua rappresentazione e dei tentativi di colmare quello scarto o di allargarlo, di trasformarlo in una limacciosa identità o in una scissione radicale, oppure di trovare in esso, nelle sue pieghe, un paradossale rifugio. Il secolo nasce, apparentemente, in un clima di fervida fiducia nella letteratura e nella sua capacità di incidere sul mondo e cioè diventare mondo. Balzac aveva imposto al romanzo di far concorrenza all'anagrafe, e anche se i suoi successori si accontentano di diventare gli impiegati di quest'anagrafe (v. Thibaudet, 1936), essi credono di poter offrire con i loro romanzi - come dicono i sottotitoli di molti di quelli di Alphonse Daudet, Mœurs parisiennes - immagini obiettive di realtà e di costume. La loro illusione realistica si rivelerà ingenua, anche perché la formula da cui essi avevano preso le mosse, Mœurs de province, è il sottotitolo di Madame Bovary (1857) e cioè del capolavoro di uno scrittore, Flaubert, che aveva capito fra i primi, sin dalla metà dell'Ottocento, la gelida e solitaria alterità della letteratura rispetto alla vita. Ma in tutta l'Europa occidentale la letteratura, col naturalismo, riafferma la propria funzione di conoscenza scientifica e di efficacia pratica nei confronti del reale. Con Les Rougon-Macquart, histoire naturelle et sociale d'une famille sous le Second Empire (1871 - 1893), Zola aveva fatto del romanzo un ritratto scientifico e oggettivo della storia e della società di Francia, e col suo intervento nell'affare Dreyfus aveva dimostrato il peso politico del romanziere, e quindi del romanzo che gli conferiva autorità. L'intellighenzia russa preparava il terreno alla rivoluzione e affidava alla parola poetica messaggi di liberazione messianica; negli Stati Uniti la letteratura scandalisticopopulista del muckrake si scagliava in un'impresa d'investigazione e denuncia della corruzione e della miseria; in Germania la Freie Bühne di Berlino - fondata sul modello del Théatre libre parigino - iniziava, dal 1889, a rappresentare drammi di critica sociale e di accusa politica che smascheravano l'abiezione delle condizioni di lavoro dei ceti proletari o sottoproletari e la falsità e la repressione di istituti quali la scuola o la famiglia.
Questa fede nella scientificità e nell'efficacia politica della letteratura è caduta assai presto; essa appartiene a un'ingenua preistoria della letteratura contemporanea, e tutte le sue successive reincarnazioni dal romanzo sociale degli anni venti al neorealismo italiano del secondo dopoguerra - saranno nobili ma fiacche illusioni. Del naturalismo non è rimasta la polemica sociale - ovvero il tentativo di usare la rappresentazione della vita per trasformare la vita - bensì la sua impura mimesi della vita bruta e immediata, la sua complice e affascinata immedesimazione col frammentario e crudele disordine dell'esistenza. Il selvaggio sviluppo delle città industriali americane, che nel tempo d'una generazione trasformavano il paesaggio e la natura stessa (v. Kazin, 1942), insegnava a Theodor Dreiser la spietata legge della necessità e la secondaria importanza dell'uomo, come le teorie di Darwin le avevano insegnate agli intellettuali europei; nei suoi romanzi possenti e voraci - da Sister Carnie (1900) a The financier (1912) all'American tragedy (1925) - Dreiser non soltanto converte la livida accusa della brutalità in un ritratto abbagliato dalla forza, ma trasforma l'immenso caos americano nel volto della vita stessa, di una vita caotica e indifferente che non rivela - nè si lascia imporre - un significato. Norris e Jack London non faranno che scrivere il poema, generoso, disordinato e violento, di quest'esistenza tumultuosa vissuta nella libertà della lotta e della sopraffazione, nell'anarchismo vitale facile a convertirsi nel titanismo prevaricatore. In Germania Arno Holz, padre del naturalismo, teorizza e produce una poesia che ‟tende a identificarsi totalmente con la natura, vuole così negare sé medesima come istituzione, purificarsi di qualsiasi sovrastruttura ideologica e di qualsiasi mediazione speculativa, ritrovare insomma l'assoluta verità del reale" (v. Baioni, 1972, p. XI).
Se nella sua pretesa di obiettività scientifica e di efficacia sociale il naturalismo è una delle ultime voci della civiltà borghese tradizionale, della sua fiducia nel progresso e quindi del suo umanesimo, esso è anche una delle prime espressioni del mondo contemporaneo, che è nato dallo sfacelo di quell'umanesimo: facendo radicalmente proprio il principio di rappresentazione oggettiva, esso si allinea e si azzera sullo stesso piano della realtà che si proponeva di denunciare, risolve interamente i valori nei fatti e aderisce alla selezione individuale e sociale ovvero alla violenza di classe, traendo alla luce la struttura economica della società borghese, non più riscattata o ammantata dalla sovrastruttura etica e spirituale. La letteratura contemporanea nasce quando muore la borghesia tradizionale, ancora imperniata sull'individuo: sullo sfondo del romanzo - e non solo del romanzo - naturalista ci sono la brulicante espansione americana di fine secolo, i brutali anni guglielmini che distruggono la vecchia Germania della Kultur in una frenetica e rozza industrializzazione; c'è l'avida borghesia francese della belle époque, che chiede all'arte e allo spirito di fornire ghiotti piaceri.
La grande letteratura aveva compreso già nella metà dell'Ottocento - almeno da Baudelaire e Flaubert - l'inconciliabilità di arte e mondo borghese, unita al doloroso dovere di assumere questo stesso mondo borghese della volgarità e della brutalità a unico veritiero tema dell'arte. La letteratura di fine secolo diffonde e divulga questo divorzio, e insieme lo rappacifica compromissoriamente, entrando - coi suoi prodotti che rappresentano l'anti-poesia del mercato - nella circolazione del mercato. A essa spetta tuttavia la funzione di aver reso pubblico e definitivo l'ineludibile contrasto fra scrittori e pubblico, fra artista e destinatario o committente, fra letteratura e società. Da allora tutta la letteratura vivrà di tale contrasto, e diverrà impensabile quella solidarietà fra produttori e consumatori artistici che stringeva la società del Secondo impero in una gioiosa identità fra se stessa e il proprio ritratto letterario o addirittura fra se stessa e il giudizio corrosivo che la letteratura esprimeva nei suoi confronti; così come sarà impensabile la funzione di poeta ufficiale, nel quale una società riconosce i propri ideali, come accadeva con Carducci. A parte la narrativa di consumo, integrata per definizione nella società e in accordo con essa, solo alcune forme di avanguardia tenteranno, con la mimesi della tecnica industriale, un modo di sia pur stridulo accordo col potere sociale.
Un'altra antitetica forma di fede nell'arte scandisce il volgere del secolo. È la fede che ‟la sola scienza al mondo suprema, la scienza delle parole" (D'Annunzio) possa afferrare l'essenziale, ‟tutta la verità della vita", qualcosa che ‟mentre s'aspetta già è passato, trascorso invisibile in un sospiro, in un baleno" (Conrad), quella tremula increspatura che di continuo si riforma sulla corrente della vita, come aveva detto Walter Pater nella conclusione degli Studies in the history of the Renaissance (v. Pater, 1 873), aggiungendo che di essa ‟sarà sempre più esatto dire che ha cessato d'esistere anziché dire che esiste" (ibid. ; tr. it., p. 247). È soprattutto la grande poesia francese del tardo e ultimo Ottocento che ha puntato le sue carte sul valore orfico della parola, a un tempo meta suprema del mondo - che secondo Mallarmé esiste per approdare a un libro - e supremo strumento per penetrare - e per dominare - il segreto del mondo, come Orfeo che non solo intende il linguaggio degli animali e delle piante ma anche, col suo canto, muove le pietre e fonda città, sia pure per ridissolversi, alla fine, nel respiro canoro del mondo. La celebrazione della parola orfica oscilla tra due funzioni che le vengono attribuite, di fine e rispettivamente di mezzo, sia pure altissimo, della vita: il fiore che la parola fiore evoca, secondo l'immagine di Mallarmé, è un'assenza, è l'idea assente di tutti i fiori, è l'indicibile quale meta estrema (l'essenza) ma anche quale limite estremo (l'irrappresentabile) del dire poetico.
Fin dalle origini della nostra tradizione, il poeta ha un triplice ufficio, orfico, omerico ed esiodeo : egli è il cantore che strappa i nomi e i volti alla notte, che fissa e celebra gerarchie e valori sociali, che trasmette e insegna la sapienza e la laboriosa perizia del lavoro quotidiano. Tutte e tre queste funzioni - soprattutto la seconda, quella celebratrice, e forse un po' meno la terza, recuperata nei vari tentativi di letteratura tecnico-didattica - sono andate in crisi, e l'espressione di questa crisi è soprattutto il romanzo. In un suo famoso saggio su Leskov, Walter Benjamin ha contrapposto il romanzo al racconto: alla saggezza (‟il lato epico della verità", v. Benjamin, 1937; tr. it., p. 238) del narratore, voce corale della sua gente e capace d'impartire insegnamento e consiglio, è subentrato il soliloquio del romanziere, la gelida perfezione stilistica dell'artista sradicato, il quale è ben consapevole che la totalità del mondo s'è infranta, che il particolare disgregato non lascia più trasparire il respiro e la legge dell'universale, che le parole non possono afferrare le cose e che l'esperienza individuale è incomunicabile.
Nella sua Theorie des Romans (1920) György Lukàcs scorge nel romanzo la voce dell' ‟espatriazione trascendentale" ossia dello sradicamento dalla coralità dell'epica, potenzialmente senza fine. Ma il presupposto dell'epica è una oggettiva totalità sociale in cui tutti possono riconoscersi, è l'universalità immediata di valori e punti di riferimento fruibili per ognuno, la religio affettiva e morale, la possibilità di trasmettere l'esperienza senza livellarne le peculiarità individuali e cioè la possibilità di narrare. ‟Raccontare, raccontar veramente, io credo non si sapesse se non in tempi che furono prima di me. Non m'è accaduto mai di sentir veramente raccontare", scrive Rilke nelle Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, uno dei primi romanzi - o antiromanzi - che s'imperniano sulla crisi della narrativa. Per Benjamin è simbolicamente la prima guerra mondiale a segnare la fine dell'epica, del rapporto fra molteplicità individuale e unità del mondo; per Lukàcs è la civiltà borghese che ha infranto, già molto tempo prima, quella totalità organica e unitaria della vita, la quale aveva consentito la creazione di quelle grandi e ininterrotte epopee in cui essa si era rispecchiata. La grandiosa opera di Verga sigilla idealmente il secolo, non solo in Italia, con la cupa immagine di un mondo di vinti, di una storia che si volge inevitabilmente alla catastrofe e - quando non si chiude regressivamente nell' ‛ostrica' della circoscritta elementarità - di un'arte che può solo ritrarre quel tetro disastro delle cose che, secondo la poetica di Verga, si racconta da sé, senza il filtro dello scrittore.
È tra la fine del secolo e gli anni trenta che si annuncia e rispettivamente si compie, con risultati di altissima poesia, la fondamentale rivoluzione della letteratura contemporanea, ossia la disarticolazione della totalità e del grande stile classico. Quest'ultimo è la capacità della poesia di ridurre il mondo all'essenziale e di dominare il brulicare del reale in una laconica unità di significato; Nietzsche e poi Heidegger denunciano tuttavia nel grande stile una violenza metafisica, che costringe e comprime le dolorose dissonanze della vita e anche le sue diversità riottose e liberatorie nella compatta armonia della forma e del significato. Nietzsche scorge in ogni parola un ‟pregiudizio" (Menschliches, Allzumenschliches, 1878; tr. it., p. 165), ossia una sistemazione gerarchica precostituita, che irrigidisce la vita e ne soffoca le infinite potenzialità: la conoscenza, che vorrebbe fissare lo sguardo nel fluire dionisiaco non ancora immobilizzato dalla forma, inciampa in ‟parole dure come sassi" e finisce per ‟rompersi una gamba" (Morgenröthe, 1881; tr. it., p. 40) e cioè per rattrappirsi nella ripetizione dell'identico. Se ci si vuole liberare di Dio, dice colui che vuole trasvalutare tutti i valori, occorre anzitutto liberarsi del soggetto psicologico e sintattico, che organizza e sderotizza la vita nella formalizzazione categoriale. Heidegger, sulla scia di Nietzsche, vedrà nel grande stile la prevaricazione del pensiero metafisico che riduce il mare dell'essere, il fluttuare dell'altrove e dell'incerto, entro i polizieschi e rassicuranti orizzonti di un senso preciso, esauriente e definito.
Il grande stile - che consiste, diceva Hofmannsthal, soprattutto nella capacità di tacere il pullulare dei particolari a vantaggio dell'essenziale - è ciò che permette di dare un senso alla vita e di farlo trasparire in ogni dettaglio, che in tal modo appare sempre ricco di significato e mai assurdo o irrelato: nella mazurca di Natascia o nei baffi disegnati col carbone sopra la bocca di Sonia c'è tutto il respiro di Guerra e pace (1867-1869), dell'esistenza e della storia. Ma Guerra e pace - forse l'ultimo capolavoro classico capace di far balenare in ogni scheggia, come in quella di uno specchio, la pienezza della vita - è il grandissimo libro della vita autogiustificata, che trova in se stessa e nella sua armonia il significato del suo fluire; è una delle ultime opere d'arte che, costruite con laboriosa razionalità, raggiungano ‟l'apparenza della vita reale" che s'appaga della propria ‟eterna continuità" (v. Mirskij, 1949; tr. it., pp. 229 e 231). I mirabili diari di Tolstoj rinsaldano in una unità indistinguibile vivere e scrivere, sono insieme il fiume che scorre e l'argine che lo contiene o il ponte che lo varca. Guerra e pace, capolavoro di un aristocratico agrario certo assillato dai problemi morali e sociali ma pur sempre sorretto da un'integrità feudale robusta sino all'animalità, sembra testimoniare che l'unità epica di universale e particolare poggia su una cultura, quasi su una ‛natura' agraria: quella che reggeva l'universo metafisico e che la storia ha precluso per sempre. Già in Anna Karenina (1877), che Thomas Mann in un saggio del 1939 paragonava al respiro eternamente variato ed eguale del mare, il senso della vita si arresta, interdetto e indefinito, sulla soglia del caos, così come nel monologo interiore dell'eroina prima del suicidio immagini sconnesse e percezioni casuali sono sul punto di sopraffare l'unità della sua psiche. Tolstoj stesso è il primo a infrangere la sua epica giustificata dall'unità di stile, e la infrange in due direzioni antitetiche. La sua tormentosa, razionalistico-decadente inquisizione morale instaura nella vita la scissione della coscienza, che all'olimpica e ordinatrice prospettiva dall'alto oppone la dolorosa distonia della protesta creaturale, della diversità irriducibile (v. Auerbach, 1946). D'altra parte il suo intuito artistico lo costringe a far emergere il ‟dettaglio superfluo", l'anarchico elemento particolare e transeunte, ‟a spese del generale e dell'universale" (v. Mirskij, 1949; tr . it., p. 222). Si tratta di un processo che investe l'intera cultura europea; in Italia è Pascoli a porsi da quell'ottica terremotata che scandalizzava Cecchi, accomunando in una somma dispersiva e antigerarchica una persona e un filo o di paglia, una nuvola e un sasso avulsi da ogni scala d'importanza (v. Barberi Squarotti, 1976).
Il luogo in cui avviene questa crisi - e che da questa crisi viene sconvolto - è l'unità dell'io. I due principali artefici di questa scomposizione, che verrà indagata, proseguita e arginata da Freud, sono Nietzsche e Dostoevskij. È forse da Zapiski iz podpol'ja (Memorie del sottosuolo, 1865) di quest'ultimo che esce la letteratura - e specialmente la narrativa - contemporanea. Una crudele, sgradevole e autolesiva indagine della sofferenza - la cui crudeltà deriva peraltro dall'integrale impegno umano - scava nella psiche scoprendone la struttura fluida e instabile, l'aggregazione di nuclei molteplici malamente coperti dalla fittizia unità di superficie. I grandi romanzi dostoevskijani sono un'attesa messianica di un uomo nuovo, ma il vecchio Adamo da cui essi prendono congedo è anche il tradizionale soggetto umanistico, l'io borghese concepito quale unità ben definita. Non sono soltanto Idiot (L'idiota, 1868-1869) di Dostoevskij o le Zapiski sumasšedšego (Memorie di un pazzo, 1884, pubbl. postumo) di Tolstoj a esprimere questo nesso fra il disgusto per l'organizzazione della vita e la tensione a una nuova forma di organizzazione: simile a un personaggio dostoevskijano, Gleb Uspenskij, una delle figure più eminenti dell'intellighenzia russa, disintegra la sua personalità in uno sdoppiamento patologico; Vsevolod Michailovič Garšin non solo finisce nella depressione malinconica e nel suicidio, ma scrive una serie di racconti sui manicomi, fra i quali lo splendido Krasnyi cvetok (Il fiore rosso, 1883), storia di un pazzo ossessionato dall'idea che il male del mondo, ch'egli vuol sconfiggere, sia incarnato in tre papaveri del giardino dell'ospedale.
Il motivo della follia ha radici sia nel pensiero filosofico sia nell'indagine clinica e psicologica, anch'essa peraltro impegnata filosoficamente. Per Schopenhauer, che rifiuta la totalitaria e ottimistica identificazione hegeliana fra reale e razionale, l'arte è contemplazione di un oggetto liberato dalla connessione causale nella quale esso si trova inserito nella realtà empirica (Vattimo); la follia è il caso estremo di questa sconnessione e di questo straniamento - che di per sé è sempre stato considerato, da Aristotele a Šklovskij, caratteristico della funzione poetica. Ma Nietzsche rivendica ‟il nostro diritto alla nostra follia" (Morgenrö the, 1881; tr. it., p 74), cioè a un'altra forma di ragione rispetto a quella socratico-cristiano-borghese, a un'altra forma di organizzazione dei molteplici nuclei psichici che sottendono la precaria unità dell'io. Il superuomo nietzscheano, che Vattimo traduce giustamente ‟oltre-uomo", indica appunto la tensione a un nuovo stadio antropologico proiettato ‛oltre' i tradizionali confini dell'io umanistico: il soggetto, che sino allora aveva organizzato intorno a sé e alla propria unità i significati del mondo, sta vivendo - secondo Nietzsche - il proprio crepuscolo ma lo vive come una liberazione, come una fase verso quello scioglimento della propria monolitica rigidezza, repressiva e autorepressiva, nel fluido proliferare delle proprie pulsioni. L'arte è chiamata non solo a rappresentare ma anche ad attuare o almeno ad anticipare questa fluidificazione dionisiaca dell'io e viene quindi ad assumere pure una funzione in senso lato politica, che verrà fatta propria dalle avanguardie, nel loro binomio di arte assolutamente libera e arte quale pratica rivoluzionaria. L'unità del soggetto scopre il proprio carattere storico anziché naturale, scopre che la propria struttura organica e compatta è il frutto secolare e millenano di una dura separazione dallo scorrere dell'esperienza e dal fluire della natura, il frutto di un irrigidimento della metamorfosi: è la tesi che più tardi Adorno e Horkheimer esporranno nella loro Dialektik der Aufklärung (1947).
Con maggiore o minore chiarezza, questo motivo rivoluzionario scuote, intorno al volgere del secolo, tutta Europa. Già Ibsen aveva intuito l'antitesi fra l'io che si perde nell'irrigidimento (Brand, 1866) e l'io che si perde nel continuo sbucciarsi delle sue bucce di cipolla, le quali celano solo altri strati di bucce e non un nucleo (Peer Gynt, 1867), e aveva additato l'anarchica inconciliabilità fra individuo e società ossia tra vita e forma, poetica e morale (En Folkefiende, Un nemico del popolo, 1882; Naar vi døde vaagner, Quando noi morti ci destiamo, 1899). Nel 1890 Hamsun tiene a Cristiania, l'odierna Oslo, aggressive conferenze contro la psicologia di caratteri, opponendole la ‟ubevidste Sjeleliv", la ‟vita inconscia dell'anima", ossia ‟quel mondo di reti e di cellule e di spigoli e di sconcertanti profondità, in cui tutto vive e si muove e si muta" (v. Hamsun, 1960; tr. ted., pp. 44 e 82). In Mysterier (Misteri, 1892) Hamsun scrive il romanzo di un io ‟sgangherato" (v. Bazlen, 1968, p 74) che si disperde nei suoi frammenti. Anche i romanzi di Strindberg (Tjenstegvinnans son, Il figlio di una serva, 1886-1909, Le plaidoyer d'un fou, 1887-1888) scompongono l'autobiografia in un'allucinatoria sconnessione; lo Sconosciuto, protagonista del suo dramma Tilli Damaskus (Verso Damasco, 1898-1904), si proclama l'ultimo e il distruttore. Maestro nell'arte romanzesca, Joseph Conrad sa di disegnare con essa, com'egli dice, perfetti intrecci sul ghiaccio, ma sente sotto i suoi piedi l'ignota ‟forza occulta e selvaggia dell'acqua": è in questo ‟elemento distruttore" (simboleggiato dal mare, dalla tenebra, dal groviglio stesso della vita mimato dalla sua tentacolare narrativa a più prospettive) che l'impavido eroe di Conrad si muove (giacché ‟chi nasce cade in un sogno come si cade in mare") cercando impavidamente di tenerlo a bada, di fare in modo che sia lo stesso ‟profondo, profondo mare" a sorreggerlo. Se in Joseph Conrad, ancora erede del romanzo e dell'ethos ottocentesco, l'eroe - l'io - cerca di misurarsi col profondo, c'è chi invece - specialmente nella letteratura francese - rompe il ghiaccio per affondare in quelle acque e sciogliersi in esse, come Alfred Jarry - o il Padre Ubu del suo teatro - nelle truculente e gaie devastazioni di ogni norma. Già Rimbaud, molto tempo prima, aveva proclamato ‟Io è un altro" e aveva identificato la poesia con la necessità di scendere integralmente agli inferi e di vivere la propria ‟stagione all'inferno". Non a caso nel suo grande libro Axel's Castle (1931) Wilson considera Rimbaud e Villiers de l'Isle-Adam le due simboliche possibilità della letteratura contemporanea: la vita vissuta e bevuta sino in fondo, nella sregolatezza e nella trasgressione, per farsi veggente ovvero aprirsi a dimensioni ignote dell'esperienza e della poesia, oppure la rinuncia totale a ogni esperienza per vivere unicamente nel puro artificio dell'arte, che ogni realtà non può non distruggere.
Ma questa realtà ostile alla poesia è la realtà costruita dalla ratio occidentale, dalla nostra ragione storica cui si può opporre un'altra forma di ragione, quella che la prima considera follia (v. Foucault, 1961). Nel suo racconto postumo Argo e il suo padrone Svevo trova ‟la vera, la grande sincerità filosofica" nelle assurde categorie con le quali il cane, che parla in prima persona, cerca di porre ordine fra gli odori: ‟Esistono tre odori a questo mondo: l'odore del padrone, l'odore degli altri uomini, l'odore di Titì, l'odore di diverse razze di bestie (lepri che sono talvolta ma raramente cornute e grandi, e uccelli e gatti) e infine l'odore delle cose". La sincentà filosofica è quella che denuncia l'assurdità di ogni tavola classificatoria, l'impossibilità di istituire un rapporto stabile fra una categoria e i suoi oggetti, lo svanire di ogni identità che si dissolve di continuo in sotto-unità sempre più piccole. Manca un luogo in cui si possano ordinare le cose, ossia manca l'unità del pensiero, il quale non può o non vuole più risolvere le contraddizioni del reale, ma è il fermento stesso di queste contraddizioni, l'agente che dissolve l'unità del mondo e del vissuto. Ciò che accade ad Argo con gli odori, accade - nella Coscienza di Zeno (1923) - pure a Zeno con i ricordi, cioè con le esperienze e le unità significative della sua vita, che la sua autobiografia dovrebbe chiarire e ordinare e che essa invece scompone e altera.
Il pensiero e la forma non unificano più in una totalità organica i disjecta membra del reale : la vita, scrive nei suoi diari Musil - il più grande poeta di quest'infinita e indefinita apertura -, non dimora più nella totalità, in un Tutto concluso. Un' ‟anarchia degli atomi", egli prosegue, restituisce la ‟libertà dell'individuo e l'esuberanza della vita" emancipata da ogni ‟volontà" e cioè da ogni progetto totalizzante volto a imprigionare le singolarità ; ogni unità minima si affranca dalla sua gerarchia e in questo disordine viene a instaurarsi una sorta di parità e uguaglianza, di ‟eguali diritti per tutti". Il soggetto - e il soggetto poetico in particolare - vive con reazioni diverse e contrastanti la fine, liberatoria e dolorosa, della sua unità e del suo domi- nio su una realtà che, da parte sua, appare - come dice una poesia di Stephen Crane - una nave foggiata da Dio ma sfuggita alla sua mano e vagante senza meta. C'è la poesia tentacolare che, dalle lunghe lasse ritmate delle Leaves of grass di Whitman (1855) a quelle di Saint-John Perse, s'inebria di questa beata proliferazione sensuale, e c'è la poesia che gode ma anche soffre di questa dispersione, di questo scorrere della Vita, scrive il lirico ungherese Endre Ady, e e menzognera e ricca di speranze" al di sopra del soggetto, cadavere che trascolora nei campi di grano in cui giace. Niels Lyhne (1880), lo splendido romanzo del danese Jens Peter Jacobsen, é la trasparente radiografia di una soggettività poetica che si distrugge ma anche si salva, cancellandosi, nell'ipersensitiva immedesimazione col mondo.
La malinconia di Niels Lyhne, l'accidia dello stupendo Oblomov (1859) di Gončarov o la malvagità di Sologub (Melkij bes, Il demone meschino, 1905) sono le grandiose difese regressive che l'artista oppone all'irrompere della vita. Il romanzo che voglia narrare questa storia si mimetizza col suo torpore maligno e si disperde nella sua apertura. Durante tutta la sua vita, a cominciare dal 1898, Musil lavora a Der Mann ohne Eigenschaften (1930-1943), il romanzo che si propone di rappresentare l'intera realtà nel suo mutevole divenire ed è perciò destinato a rimanere un frammento perennemente incompiuto (e non solo perché interrotto dalla morte di Musil nel 1942). Der Mann ohne Eigenschaften è l'ironico e struggente tentativo di scrivere un romanzo totale che non si disperda nella centrifuga molteplicità delle cose e insieme non rinunci a inseguirle nella loro incessante metamorfosi, nella loro fluida potenzialità riluttante a irrigidirsi in una forma definitiva. Enciclopedia della modernità composita e inautentica - esemplificata dall'impero asburgico che prima e più di altre società aveva rivelato la sua natura di ‟esperimento del mondo", come diceva Musil, vale a dire di modello per eccellenza del mondo contemporaneo senza centro nè base - Der Mann ohne Eigenschaften non ha un centro nè una fine, così come non ha un centro l'anello che Clarisse, il personaggio femminile ricalcato sulla figura di Nietzsche, si sfila dal dito nè ha un centro l'Azione Parallela, la trama principale del romanzo che ruota intorno a un vuoto, che è dunque costruita sul niente.
Der Mann ohne Eigenschaften è il grande romanzo che prende di petto lo scoglio contro il quale continuerà a infrangersi, in una contraddizione irrisolta, la letteratura: l'impossibilità di imporre agli individui la camicia di forza dell'universale-umano, che faccia di essi i rappresentanti di un'identità totalitaria intollerante di ogni diversità, e l'impossibilità di rinunciare a proiettare sul caos delle particolarità un significato universale, a meno di appiattire la vita in un'immediatezza indistinta e di annegare la poesia nella sua gelatinosa promiscuità. La storia della letteratura del Novecento è la storia del conflitto fra l'universale e il particolare non più armoniosamente uniti nel simbolo goethiano, fra l'ordine e la trasgressione, tra l'uomo faustiano teso alla felicità e quello di Strindberg reclamante il suo diritto alla stridula negatività; è la storia del conflitto fra la prospettiva dall'alto, che unifica e trascende le dissonanze ma anche ne ignora la sofferenza, e la prospettiva creaturale dal basso, che dà voce all'irrisolto dolore ma anche lo esaspera, distruggendo la possibilità di dargli un senso. È anche la storia della perversione dei due termini in conflitto: il grande stile potrà diventare Tribunale del Terrore, la coscienza infelice torpido e addominale azzeramento dell'umano. Il romanzo è il luogo letterario privilegiato in cui avviene questa lotta, perché è il genere cui è demandato, almeno da un secolo e mezzo, di narrare l'evoluzione, la formazione dell'individuo. Ma quest'individuo, come scrive Musil nei diari, si rivela, nel suo nucleo centrale, soltanto la provvisoria condensazione di un complesso gangliare giunto a un certo grado di autoconsapevolezza.
Per Hegel l'età moderna è quella della morte dell'arte, di cui egli scorgeva due modi agonici fondamentali, entrambi basati sul primato della casualità: l'accidentalità esteriore, disgregata nell'accumulazione di particolari naturalistici, e l'accidentalità interiore, contrassegnata dalla dissoluzione soggettivo-psicologica dell'oggetto (Morpurgo Tagliabue). Ma questo metro hegeliano è commisurato sull'arte e sulla letteratura occidentale, mentre oggi la Weltliteratur, e cioè la letteratura mondiale profetizzata da Goethe, è una realtà concreta che non può essere valutata soltanto con i parametri della tradizione occidentale, mentre d'altronde mancano altri parametri di giudizio o anche semplicemente di comprensione. Se la ratio socratico-illuminista si è rivelata ‛uno' tra i modelli di ragione possibile, non si può comprendere la Weltliteratur integrandola negli schemi di quella ratio e delle poetiche o estetiche che ne sono derivate. Una delle grandi conquiste della letteratura del Novecento è la dimensione mondiale ch'essa ha assunto, allargando gli orizzonti nazionali sino a fonderli in un unico panorama universale; alcuni dei più grandi libri sono venuti e continuano a provenire da culture diverse e lontane, prima ignote. L'antropologia ha insegnato a considerare quest'universalità non già riducendola all'identità del modello europeo-occidentale di universale, ma rispettando pariteticamente i vari modi di universalità. C'è una falsa Weltliteratur, la quale non è altro che integrazione del diverso nell'identico ossia colonizzazione o snaturamento culturale, come i romanzi scritti in francese dallo zingaro Matéo Maximoff, che degradano la letteratura zingara a colore esotico per i ‛forestieri'. C'è un'onesta Weltliteratur che si cimenta apertamente con i problemi del confronto fra la propria integrità e il proprio inserimento in una civiltà più articolata e più forte, come Muittalus Samid Birra (Racconto sui lapponi, 1910) del nomade lappone Johan Turi. C'è infine una grande Weltliteratur che sfida e contesta, in nome dell'universale-umano, la sua versione e la sua attuazione occidentale, e che ha dato capolavori quali Black Elk speaks (1932), autobiografia di un vecchio stregone Sioux, o documenti sconvolgenti di vita emarginata e oppressa quali lettere dalle carceri, diari dai manicomi o dai ghetti di gruppi conculcati.
Il tramonto del grande stile comporta anche, a questo punto, l'impossibilità di delimitare i confini stessi della narrativa e della letteratura, perché sulle rovine di un modello unico e della gerarchia infranta ogni dettaglio e ogni forma rivendicano autonomia e parità: il genere illustre come quello di consumo, il romanzo sperimentale come quello poliziesco o fantascientifico, la confessione orale registrata al magnetofono e la scritta murale, il libro di storia economica e il ta-tze-bao o anche, come nel body language, il gesto, la corporalità immediata, la scrittura quale scan- sione e ritmo fisico. L'interrogativo che Sartre poneva col suo libro Qu'est-ce-que la littérature? (1947), per rispondervi con la necessità di un rapporto concreto fra l'autore e il suo lettore reale ‛qui e ora', implicato nei suoi stessi problemi e non astrattamente universale, indica forse anche oggi una giusta direzione di risposta, ma così indeterminata da essere insufficiente, perché il ‛qui e ora' di oggi è più vasto e impreciso dell'eterno e dell'universale di ieri. Il rapporto fra una produzione artistica dai centri o poteri sempre più impersonali e una massa di destinatari tutt'altro che omogenea ma confusa in categorie fluttuanti, tende ad abolire la differenza tra prodotto artistico e prodotto di consumo, formalismo sperimentale e tecnica pubblicitaria; l'artista si fa disponibile a più forme d'arte e diviene contemporaneamente - nella complessa rete dell'industria culturale, in cui il vero messaggio consiste nel procedimento della trasmissione-produttore, committente, press-agent e distributore della propria opera (v. McLuhan, 1964). D'altronde se l'unica nostra certezza è, per citare Montale, ‟ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", l'abdicazione al giudizio dinanzi al mare dell'oggettività è una sordida resa alle cose cosi come sono, ossia al dominio della confusione e della barbarie, è una complicità con l'anonimo e occulto potere delle persuasioni di massa, invano camuffate da liberazione e segnate invece dall'infelicità. La grande arte moderna, secondo Adorno, nega l'esistente piuttosto che entrare in connivenza con esso, deforma il volto già svisato dell'umano per far intravvedere quale esso dovrebbe veramente essere, frantuma la realtà della vita falsa per ricordarci che la vita vera è altrove, oltre ogni nobile edificio classicheggiante e oltre ogni appiccicosa immediatezza.
La civiltà borghese nega l'arte perché, facendone un oggetto sublime ossia mercificandola in un prodotto che non ha da racchiudere alcun significato della vita, la pone dinanzi all'alternativa fra il neoclassico e il caos, la restaurazione e l'indistinto. Da entrambi è assente il senso: già dato in un caso, e quindi morto e catalogato, oppure eliminato nell'altro. La parola è eterogenea rispetto al senso, che risulta inesistente oppure indicibile. Non è un caso che a scrivere il romanzo del senso latitante sia stato Musil, ossia uno scrittore austriaco. La cultura danubiana ha avvertito con particolare intensità la crisi della parola e la frantumazione della totalità, l'inevitabile inautenticità della vita. L'impero asburgico era una grande costruzione precaria e artificiale, un concentrato dell'artificio e della precarietà insiti in tutta la crisi borghese e quindi un punto nevralgico di quella crisi, una stazione meteorologica della fine del mondo, come diceva Karl Kraus. Ein Brief, pubblicato da Hofmannsthal nel 1901, è un racconto che denuncia l'insufficienza della parola (la quale non riesce più a dire l'esperienza e a ordinare il fluire indistinto della vita) e il naufragio del soggetto, il quale non riesce più a porre fra sè e il brulicare vitale la rete del linguaggio e si dissolve pertanto in un fluttuante fascio di sensazioni e di rappresentazioni. Fra il significato e il significante s'è aperto uno iato incolmabile; le parole - dice una lirica giovanile di Rilke - sono dei muri che celano quel senso che scintilla appena dietro di essi; l'espressione è un'operazione in perdita che degrada la perla lucente del profondo, quando la porta alla superficie, a dozzinale perlina di vetro.
Questa frase, apposta da Musil a epigrafe del suo primo romanzo Die Verwirrungen des Zöglings Törless (1906), è di Maeterlinck, il poeta belga che tende a identificare la poesia con l'ineffabile, col silenzio. Ein Brief è un racconto sull'impossibilità di narrare e di dire, è il documento poeticissimo di una letteratura che assume quale tema se stessa e il proprio scacco; la scrittura, afferma Rilke in una delle prime novelle, falsifica il senso originale dell'esperienza e disarticola l'unità del vissuto, irrigidisce la vita nella morta immobilità del segno. La letteratura del Novecento è contrassegnata infatti, anche per il rivoluzionario sviluppo della linguistica in direzione strutturalista, dalla tormentosa consapevolezza dell'arbitrarietà e della convenzionalità del segno e si fa, anche perciò, letteratura sulla letteratura, poesia sul linguaggio: io sarò scritto, dice Malte nell'omonimo romanzo rilkiano, a proposito della sua autobiografia nella quale egli si dà un'identità ma anche si fossilizza. È soprattutto in Austria che il pensiero analitico e negativo comporta la crisi di qualsiasi fondazione sintetica (Cacciari). La crisi che investe le scienze - soprattutto la matematica - e la filosofia, distruggendo la possibilità di fondarle oggettivamente, conduce - con Hertz e Boltzmann e specialmente con Wittgenstein - a ridurre il fondamento, e la parola quale fondamento primo, a mera convenzione operativa, a segno vuoto. Törless, nel romanzo omonimo di Musil, scopre che il segno i, corrispondente alla √-1 indica un numero che non esiste; la civiltà, che si basa sulle parole, è campata in aria. Inoltre la stessa simultanea e polivalente compresenza di lingue diverse e di stili diversi favorisce, nell'ambito dell'impero, la riflessione critica e analitica sul linguaggio (F. Mauthner, Karl Kraus), la ricerca di nuove organizzazioni formali nei vari campi dell'espressione - dalla musica all'architettura alle arti figurative - e la sensibilità per l'eclettismo Kitsch che domina l'arte e la vita non più rette da un valore centrale: Broch costruisce il suo romanzo polifonico a più voci, strati e stili (Die Schlafwandler - 1931-1932 - che intrecciano racconto, saggio e inno) per esprimere un mondo in sfacelo, che non ha più alcuna unità nè autenticità.
Dalla coscienza dell'arbitrarietà del segno si svilupperanno due opposte tendenze: il tentativo di ritrovare la parola come logos e verità, fondendo poesia e scienza, e il gioco sperimentale-combinatorio con le parole e con le forme destituite di ogni significato che non sia il loro uso operativo, la loro regola di gioco. Questa seconda tendenza, che domina tanta parte dell'avanguardia - quella che non vuol infrangere il mondo, bensì riprodurre nell'arte la tecnica del potere e della produzione - corrisponde soprattutto alla mutata fisionomia del destinatario dell'arte e della letteratura, che non è più l'universale ‛ognuno' medioevale nè l'individuale ‛uno' del liberalismo bensì un ‛qualcuno', un imprecisato ‛non nessuno', un anonimo che riesce appena a negare la sua non esistenza e non ad affermare una sua entità peculiare (Morpurgo Tagliabue): il tipico consumatore condizionato - di romanzi o di quadri in serie - dalla società industriale, l'uomo inautentico che vive nella sfera tecnica del man, del verbo coniugato impersonalmente.
Questa crisi del soggetto non è solo etico-filosofica, ma anche psicologica: Mach (v., 1885; tr. it., p. 29) definisce ‟insalvabile" l'io, ridotto a provvisorio e mutevole aggregato, sempre ulteriormente scomponibile, di sensazioni raggruppate in relazioni psichiche. Dalla psichiatria - Ribot, Janet - giungono scoperte sulla struttura multipla dell'io, che Hofmannsthal trasferirà poeticamente nel suo romanzo incompiuto Andreas oder die Vereinigten (1912-1913, abbozzi negli anni successivi), mentre è intorno all'inizio del secolo che iniziano a uscire gli studi di Freud. Dopo Freud, ovviamente, la letteratura e specialmente la narrativa non sono più le stesse. La psicanalisi non si limita a scoprire, e quindi ad acquisire alla parola e al racconto, nuove zone dell'umano e nuove funzioni del linguaggio, il mondo dell'inconscio e la duplice natura, rivelatrice e mascheratrice, del linguaggio quale soggetto e insieme oggetto del conoscere, i cui meccanismi retorici riproducono e insieme trasformano, articolando la loro simultaneità nella dimensione lineare del segno, i processi psichici del profondo. Dopo la psicanalisi, lo spazio della narrativa sarà l'immenso e tortuoso fondale del preconscio e dell'inconscio: gli Ulissi del romanzo contemporaneo si muoveranno fra gli impercettibili ma tremendi sommovimenti della loro struttura psicologica, e il racconto sarà una scrittura cifrata da decodificare, per capire che cosa le parole - e le figure retoriche - celano e, celando, dicono.
Un malinconico e lucido ebreo viennese che abitava a pochi isolati da Freud, Arthur Schnitzler, scrive nel 1901 il racconto Leutnant Gustl, il primo monologo interiore di lingua tedesca nel quale la narrazione è un fluire e un accavallarsi di lapsus e rimozioni, un continuo travestimento della libido. L'importanza di Freud per la narrativa consiste anzitutto nei mezzi che il lavoro analitico fornisce al lavoro letterario: il lavoro analitico, mediante il quale, secondo il detto di Freud, ‟là dove era Es deve diventare Io", consiste nell' ‟analisi interminabile" ossia nell'analisi della psiche, che la costituisce e costruisce nell'atto stesso in cui la indaga (v. Rella, 1977, p. 43), cosi come la coscienza, oggetto e soggetto dell'indagine come quella di Zeno (v. Saccone, 1973), viene costruita dal narratore nel farsi stesso del racconto. Più che in un codice di simboli alquanto rigidi, che ha indotto a leggere in miti e in opere d'arte i segni occultati di traumi sessuali, il merito della psicanalisi (che sarebbe ben misero ove dovesse ridursi a quest'ermeneutica poliziesca del sospetto) consiste nel carattere dinamico impresso all'unità dell'io e alla sua rappresentazione, ossia al racconto della sua storia. La psicanalisi è di per sé romanzo, nel senso forte e positivo del termine, vita che si fa racconto e in esso si chiarisce; essa invita la poesia ad allentare la memoria meccanica per far emergere quella involontaria, che ricollega l'infanzia alla rêverie cosmica e riannoda i legami fra l'esistenza individuale e quella del Tutto (v. Bachelard, 1960). L'arte, secondo Jung, mostra nei suoi simboli gli archetipi dell'inconscio collettivo ossia del passato dell'umanità o almeno di una civiltà, che è possibile ritrovare aldilà dei duri limiti del principio dell'adattamento. Il romanzo contemporaneo attingerà a questi motivi per forgiare, come Joyce, ‟la coscienza increata della razza" e portare alla luce le stratificazioni, i miti, le strutture primordiali sottese alle rappresentazioni psichiche dell'individuo; la penna dell'autore ‟scrive cose che stupiscono l'animo suo" (v. Jung, 1931; tr. it., p. 43) e cioè l'affiorare dei processi di formazione dell'inconscio collettivo, cui l'arte dà la veste del mito. Il dibattito sul mito, che investe la cultura soprattutto intorno agli anni venti, invita il romanzo a scendere alle oscure origini ctonio-materne della storia, alle ‛Madri' della civiltà.
Il romanzo, su questa linea, acquista una nuova totalità, vuol tornare a essere cosmogonia, mito ed epos come alle origini, per scendere agli inferi della personalità e riportarli alla luce, ripercorrendo ogni volta il cammino dal pensiero arcaico - sottostante alla coscienza - al più alto livello storico di civiltà: dal Finnegans wake (1922-1939) di Joyce a Joseph und seme Brüder (1933-1943) di Mann il romanzo scende nel ‟profondo pozzo del passato" latente nell'uomo per ritrovare l'accesso alle fonti della vita.
L'insegnamento di Freud verrà certo spesso appiattito in due semplificazioni, egualmente riduttive per la letteratura: la rigida contrapposizione dualistica fra conscio e inconscio che determinerà una nobile ma astratta narrativa umanistica preoccupata di arginare l'emersione dell'irrazionale, e un misticismo monistico e panico, il quale scorge in tutta la realtà soltanto un Es che parla in essa e scorge, in ogni gesto, un fluire indifferenziato del desiderio, un luogo inconscio di estatiche rivelazioni dell'essere: è la strada che percorre il geniale Georg Groddeck col suo Seelensucher (1921), in cui l'Es diviene il personaggio-protagonista del romanzo, e che giunge agli odierni profeti del desiderio senza sponde, della vita ridotta a serie di macchine desideranti (v. Deleuze e Guattari, 1972). La vera lezione di Freud è un'altra, è l'interminabile costruzione analitica e dialettica di un io né irrigidito né spiaccicato; in questa ricomposizione senza fine Freud si rivela uno spirito classico, e il suo pensiero attento alle contraddizioni è, nel Novecento, uno dei pochi luoghi nei quali si riattui, anche se certo non nella forma sintetica del grande stile, un'unità dell'uomo e della vita. Ma dietro quest'unità, ottenuta tramite il linguaggio che ‟rappresenta il mondo dominandolo" (v. Rella, 1977), sta l'irrappresentabile ossia la morte, la perdita irreparabile che nessun segno o sistema di segni può sostituire o riparare, il limite - caduco e malinconico - del linguaggio stesso. Quest'ultimo rappresenta qualcosa d'assente come se fosse presente, è la rappresentazione mediante la quale la cultura impedisce alla natura originaria (la scena primaria, l'incesto, la morte) di presentarsi e la sostituisce col simbolo. L'arte è un'archeologia che scende negli strati del linguaggio, alla ricerca della natura sepolta, ed è insieme l'opera di occultamento simbolico della natura stessa; la narrativa è uno smascheramento ma anche una costituzione della civiltà, la rappresentazione-cancellazione dell'immediatezza. Il ‛disagio della civiltà', cui Freud dedica il suo grande libro del 1929, è la diagnosi del peso enorme, ormai quasi intollerabile, che hanno assunto le costruzioni, mediazioni, rimozioni e sublimazioni della cultura, sì da soffocare quasi la vita e impedire l'evoluzione dell'uomo ossia il motivo perenne e perennemente variato di ogni racconto.
2. Totalità e regressione: la cancellazione del soggetto e l'avventura delle tecniche narrative
Il capolavoro di Thomas Mann che inaugura la narrativa tedesca - ed europea - del Novecento e che resterà ineguagliato nell'opera dello scrittore, i Buddenbrooks (1901), reca come sottotitolo Decadenza di una famiglia ed è infatti il racconto di una grande famiglia, specchio e simbolo della grande civiltà borghese, che s'estingue nel corso di quattro generazioni. Il romanzo classico è la storia di una Bildung ossia della formazione di un individuo che si evolve sviluppando le proprie potenzialità latenti e maturando a una piena umanità, secondo l'esempio del Wilhelm Meister goethiano. Il romanzo del Novecento sembra invece raccontare la storia di una formazione impossibile, di una maturazione bloccata e capovolta: le due soluzioni che paiono offrirsi all'individuo tardoborghese sono egualmente negative, la crescita unidimensionale quale inserimento nel meccanismo produttivo a prezzo della progressiva rinuncia alle molteplici virtualità latenti nell'infanzia, oppure la noncrescita, la regressione a un'infanzia irrigidita e stravolta, ignara di società e storia o bramosa di ignorarle. A questo pessimismo sul destino della civiltà, che la seconda guerra mondiale e la realtà capitalistica del mondo ‟totalmente amministrato" (Adorno) confermeranno tragicamente, si oppongono certo alcune voci: la speranza nella rivoluzione, il risveglio di gruppi e popoli oppressi e, nell'ambito stesso della civiltà europea-centroeuropea che pur sancisce quel pessimismo, una diversa concezione delle potenzialità liberatorie dell'Eros. In un suo saggio del 1914 Lou Andreas-Salomè scorgeva nel narciso femminile il modello di una forza vitale capace di sottrarsi al binomio civiltà-repressione e alle ombre serotine della crescente rimozione, e pronta a crescere come una ‟pianta nell'alta luce dell'ora meridiana, che getta la sua ombra verticalmente, ne viene protetta e guarda ad essa come al più tenero riflesso del suo proprio essere - in esso ombreggiandosi: affinché il grande incendio non la bruci prima del tempo" (v. Andreas-Salomé, 1914; tr. it., p. 65).
La decadenza borghese, di cui Mann si fa il grande poeta e tenta di farsi l'ambiguo superatore, scaturisce dall'irreparabile conflitto fra vita e arte, fra la borghesia - che costruisce valori umani e s'appoggia sulla calda e operosa seppur limitata esistenza quotidiana - e lo spirito che, nato da quella borghesia, la distrugge con la sua analisi implacabile e dissolutrice, mostrandone la vanità e la volgarità. I personaggi manniani sono quasi tutti, come il Tonio Kröger del racconto omonimo (1903), dei ‟borghesi sviati" dall'arte, votati al gelo di una conoscenza che permette loro di capire la vita e di averne nostalgia, ma li costringe a perderla e a disprezzarla pur avendone invidia. È la morte che trionfa sulla vita, come nel Tristan (1 903), in cui è l'arte a dar voce a tale richiamo della morte, anche se Thomas Mann vuole porre umanisticamente in guardia, con la sua rappresentazione di queste irresolubili polarità, dalla seduzione irrazionale consistente proprio in queste antinomie prodotte dalla morente civiltà borghese. I Buddenbrooks mostrano come la borghesia distrugga doppiamente se stessa: generando nella propria agonia quei mostri della notte che annientano il suo umanesimo individualistico anche se ne sono i legittimi discendenti (dalla disumanizzazione industriale al fascismo) e generando l'arte, che annienta quella salda e aproblematica vitalità su cui si fonda la borghesia stessa. Già nel Rosmersholm (1886) Ibsen aveva messo a fuoco un concetto della vita che uccideva la vita. L'arte è insieme nostalgia di vita, incapacità di vita, consunzione parassitaria della vita e cattiva coscienza - sia pur sublimata - dell'inquinamento della vita provocato da quella società di cui l'arte stessa è il fiore supremo che tuttavia se ne distacca. L'unica salvezza può consistere nel tentativo - al quale si afferrano Thomas Buddenbrook e Gustav von Aschenbach (Der Tod in Venedig, 1912) - di unire vita (borghese) e arte nel laborioso stile etico elevato a scrupoloso criterio del lavoro artistico, nella disciplina del contegno che argini i demoni del profondo e presieda alla severa forma dell'arte. Ma questo contegno, come dimostra Der Tod in Venedig, è impari alle forze del disordine, alla malattia irrazionale della borghesia che travolge le precise dighe dell'ordine borghese, inadeguato a dominare il proprio caos.
Dietro Thomas Mann non ci sono soltanto Nietzsche e Schopenhauer, ma c'è anche Wagner, ossia il grande esempio di una dissoluzione tardoromantica del grande stile che ha cercato di trasformarsi in una nuova totalità. Il Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale) wagneriano offre non solo una tecnica per creare una struttura compositiva (il cromatismo, l'uso dei Leit-motive) ma anche un'unità mitico-ideologica da imporre, quale sfondo o cornice, alla molteplicità dei fenomeni, inquadrati in tal modo nell'ordine del ricorrente e dell'archetipico. Da Mann a Joyce, il modello wagneriano fornirà alla più grande narrativa uno strumento per la ricomposizione di una totalità. Ma si tratta - e Mann è fra i primi a comprenderlo - di una totalità conquistata sul piano tecnico, di un'organizzazione totalizzante dei materiali della vita: un'organizzazione patetico-tecnico-formale che si basa sulla dissoluzione del grande stile e della sua severa unità, intesa quale senso immanente e implicito nei fenomeni. Nietzsche aveva rifiutato Wagner proprio perché aveva visto in lui la versione romantico-decadente (gonfia di pathos sentimentale ma anche - come molte opere della decadenza - di pathos tecnico-formale) della dissoluzione del grande stile e della sua laconica austerità che gli era, nonostante tutto, così cara. L'organizzazione delle forme, attuata grandiosamente da Wagner, ricostituisce sul piano tecnico quella totalità che non esiste più sul piano del significato; non a caso in Wagner è la restaurazione del mito e del rito che cerca di sostituire il senso assente. Aldilà di questo surrogato mitico-tecnico o meglio di questa tecnicizzazione del mito sarà possibile soltanto, anche nell'ambito delle strutture narrative, il ricorso alla parodia e all'ironia, a quel doppio fondo che permette di superare lo scacco assumendolo consapevolmente e giocosamente non solo a oggetto, ma anche a modo della rappresentazione, come farà ad esempio Thomas Mann con Die Betrogene (1953) e soprattutto col Felix Krull (1954), recupero in chiave umoristico-libertina di quella purissima Bürgerlichkeit interiore, di quella intimità del sentimento distrutta dalla degenerazione del bourgeois.
La letteratura e soprattutto il romanzo del Novecento sono contrassegnati dal predominio della tecnica letteraria (surrogato dalla perduta unità di stile e senso), contemporaneamente innalzata a tema assoluto e primario dell'opera d'arte e impiegata quale strumento sempre più complesso che dovrebbe servire ad afferrare qualcosa, un'essenza o un senso della vita, che pure si sa irreperibile e che anzi spesso ci si affanna a proclamare inesistente e a escludere dalla problematica letteraria. La storia del romanzo del Novecento è la storia della sua tecnica, come dice il titolo di un saggio di J. Warren Beach (1932), ma questa tecnica viene a costituire - specie nella cultura anglosassone - il fulcro di un'avventura umana in cui lo scrittore gioca tutto il suo destino. Nella prefazione a The wings of the dove (1902) Henry James - è Giorgio Melchiori a sottolinearlo - si dimostra consapevole delle proprie ‟supersottigliezze e arciraffinamenti" (v. James, 1934; tr. it., p. 339) cui ricorre per accostarsi alla sua eroina Milly Theale, per avvicinarsi attraverso giri concentrici e volute indirette al centro del romanzo e al significato più segreto della vicenda e del personaggio. I ‟periodi spezzati di James che procedono quasi a stento, tastando il terreno in cerca della parola esatta" e ‟le spietate contorsioni della grammatica" piegata a ‟seguire le involuzioni del pensiero" (v. Melchiori, 1963, p. 29) sono volti non solo a produrre la perfezione della macchina narrativa, ma anche a capire, a ‟riconoscere le cose con assoluta precisione", ad afferrare una ‟visione" (ibid., p. 431), quella che Gerald Manley Hopkins, il gesuita poeta, chiamava l'inscape, l'insieme essenziale e indivisibile di un oggetto. La bellezza fuggitiva, che l'arte per Hopkins dovrebbe trattenere dallo svanire, non è un sovrappiù estetico ma tende a identificarsi col senso più vero della realtà, con la sua epifania.
Per raggiungere questa verità, la semplice verità della ‟calda vita" cara alla poesia di Saba, il romanzo contemporaneo deve battere vie tortuose e complicate, perché è proprio la chiara superficie dell'apparenza che si è resa difficilmente attingibile alla profondità moderna. La verità sfuggente deve essere circuita perifrasticamente (circuitously), diceva Henry James a propostito di Milly Theale, e aggirata da tutte le parti, per essere colta in tutte le sfaccettature della sua molteplicità prismatica : il narratore racconta un evento o ritrae un personaggio raffigurandolo dai più diversi punti di vista, nelle più differenti occasioni o tramite la visuale dei più vari personaggi ; l'autore moltiplica le prospettive, si sposta disordinatamente, con un moto pendolare, lungo l'asse temporale e rifrange le plurime prospettive nelle varie cristallizzazioni del flusso cronologico, per riprodurre non già una presunta realtà data o una storia precisa già compiuta, bensì il faticoso e tenta- colare avvicinamento della coscienza ai dati sparsi del reale, il continuo divenire di una storia che giunge di continuo a compimento nell'atto stesso in cui viene narrata. Con l'unità di stile sparisce pure il narratore onnisciente che poteva fingere di organizzare il mondo a suo piacere e affermare tranquillamente, scandalizzando Valéry, che la marchesa era uscita alle quattro e il cocchiere era partito alle cinque, senza dover giustificare la fondatezza di queste osservazioni.
Il narratore scompare, si fa personaggio del suo stesso racconto come colui che dice ‟io" nella Recherche di Proust, si azzera e si confonde nell'amalgama narrativo ; col grande stile cade pure la distinzione fra i generi, per cui il romanzo diviene saggio (nel senso di dibattito ideologico ma anche, etimologicamente, di tentativo che saggia le possibilità della forma), e il saggio diviene esperimento formale, avventura romanzesca delle idee, come nello Zauberberg (1924) di Thomas Mann, enciclopedia delle ideologie e delle tentazioni ideologiche nel ventennio fra le due guerre - diffusa in un tempo narrativo dilatabile e contraibile a piacere. La prima cosa che il romanzo deve raccontare è il suo stesso farsi, il divenire della sua costruzione: Gide scrive Les faux-monnayeurs (1925), romanzo d'un romanzo che intreccia il resoconto della vicenda al resoconto diaristico dell'attività dello scrittore che la narra.
Questa tecnica, che Thomas Mann userà nel Doctor Faustus (1947) fingendo che a documentare il demonico destino dell'arte moderna e del nazismo sia un onesto professore che lo registra senza capirlo, era già stata impiegata da Conrad nel romanzo Under western eyes (1911), nel quale la morbosa storia ‛russa' veniva vista attraverso gli occhi perplessi di un insegnante inglese. Conrad è certo uno dei padri del romanzo - antiromanzo - moderno, che si dissolve nella moltiplicazione dei propri piani prospettici e cronologici; la voce del narratore o dei narratori che, nei romanzi, egli immagina raccontino le vicende, è una delle prime e grandi voci della poesia moderna che brancola, sconfitta e intrepida, alla ricerca dell'insondabile verità affondata nel buio, nel Heart of darkness (1899) come dice il titolo d'un suo grande racconto. La sua dissociazione del reale, sempre combattuta dall'impegno morale, appartiene a una concezione profondamente etica della letteratura, che alla letteratura chiede la fondazione e l'esplorazione dei valori: è la ‟grande tradizione" di cui ha parlato Frank Raymond Leavis, tradizione etico-estetica che il celebre critico scorgeva nel romanzo inglese e in quella sua diramazione che, ai suoi occhi, era il romanzo americano dell'Ottocento. Ma il romanzo inglese tradizionale è sempre stato, anche nelle sue punte più alte, un grande romanzo ‛di mezzo', ossia un romanzo incline a rappresentare anche il male e le contraddizioni trovando - o almeno cercando - una strada di conciliazione sociale: ‟il romanzo inglese è stato una specie di impresa imperiale, un'appropriazione della realtà avente l'alto fine di riportare ordine dove il caos regnava" (v. Chase, 1957, p. 14). Quest'ordine non implica necessariamente una concezione positiva dell'universo e della società: ci sono ad esempio pochi romanzi così altamente e cupamente tragici, nella letteratura moderna, come Tess of the d'Urbervilles (1891) di Thomas Hardy, affresco del mondo quale regno retto da un'antiprovvidenza crudele e indifferente (v. Praz, 1964°). Ma questo cupo ritratto non disgrega la società ch'esso pur effigia senz'illusioni, così come il pessimismo ‟equanime" (v. Bevilacqua, 1970, p. X) di Theodor Fontane, narratore della vecchia Prussia trasfusa nella nuova Germania, prende atto con tragica compostezza dell'assurdità della vita e dell'alienazione sociale (Effi Briest, 1895; Der Stechlin, 1899).
Uno degli ultimi rappresentanti della grande letteratura inglese di mezzo è stato - nonostante l'occulta angoscia che incalza segretamente la sua pagina, la quale pur sembra scritta con quel ‛lapis rosso' della natura che colpiva tanto Serra (v., 1974) - Rudyard Kipling: non già per l'ordine imperiale di cui egli si fece promotore, ma per la coralità epica che unisce e fonde nella voce impersonale dei suoi racconti le singole voci individuali. Mediocre romanziere ma possente narratore, Kipling trasforma la coralità epica tradizionale nella collettività ultramoderna di una società media, nella quale l'individuo prende coscienza di sé non isolandosi bensì integrandosi nella comunità. La tecnica, cui l'arte di Kipling presta l'intensità sensoriale dell'esperienza della natura, è la tumultuosa dilatazione del mondo quotidiano, il quale tramite l'avventura incessante inserisce l'iniziativa individuale in un totalizzante coro sociale (v. Runcini, 1975). Con Kipling natura e tecnica tendono a identificarsi, la favola orale si unisce all'orario ferroviario e l'alterità etnica e religiosa si salda a ogni altra nel fervido divenire del mondo; l'opera kiplinghiana, sempre oscillante fra progresso e reazione, cerca di salvare l'individuo pur allargandosi a quell'epicità della società di massa - basata sulla riproducibilità e sulla riproduzione dei valori (anche di quelli artistici) - nella quale Benjamin e Bloch vedevano una potenziale democrazia, una potenziale partecipazione collettiva a esperienze prima riservate a personalità d'eccezione. Tale epicità della tecnica pur individualizzata è certo facilmente convertibile nella reificazione indifferenziata, che trionferà nell'amorfa epica dell'universale fungibile ritratta genialmente da un film come Nashville di Altman (1975), ed è anche facilmente pervertibile nel protervo consenso conferito all'esistente così com'è. A incrinare ma anche a riscattare l'epica di Kipling intervengono la sua angoscia, il suo laconico coraggio difensivo e sconfitto, l'ombra dell'Altro che si proietta sul suo mondo: un Altro che, per lui come per Conrad, è la civiltà extraeuropea che si ridesta dal servaggio coloniale, la diversa o le diverse civiltà possibili che incalzano il dominio di quella bianca e dell'individuo borghese, la fiumana di volti e voci nelle immense strade indiane.
Al romanzo inglese dell'ordine Lawrence opponeva, nei suoi Studies in classic American literature (1923), quello americano aperto alle sconfinate e indefinite vastità della frontiera e all' inquietante ‛complessità del sentimento" (Allen Tate, cit. in Chase, 1957, p. 15) che da essa proviene e che sconvolge ogni ordine. La letteratura americana, che si esprime con eccezionale vigore nel romanzo, è la letteratura dell'identità assente ma sempre cercata. La tecnica romanzesca che circuisce il vero è la metafora di questa ricerca del senso e di se stessi affidata all'arte e mascherata da procedimento tecnico. La narrativa americana si muove nell'ambito dell'incontro-scontro fra romanzo (noveil) e romance. Il romance, che già nel 1835 William Gilmore Simms, il Walter Scott del Sud, definiva ‟il surrogato dell'epica antica fornito ai contemporanei", è una narrazione che punta alla totalità epica, che fonde poesia e prosa ovvero immediatezza quotidiana e significati, che si tuffa avidamente nel reale ma guarda al ‛possibile', che non si preoccupa di verosimiglianza realistica né di coerenza psicologica o strutturale, perché fa i conti con una totalità mitica e religiosa e si basa, come la piccola Pearl in The scarlet letter (1850) di Hawthorne, su una visione ‟intuitiva [...] e poetica del mondo" (v. Chase, 1957, pp. 87-88). Henry James sapeva che il romance era libero da quella sudditanza al definito e alla volgarità quotidiana che irretisce il romanzo nella causalità. Il romance può essere abnorme e smisurato, luminoso di significato e affondato nella tenebra; affronta, come il Moby Dick (1851) di Melville o le opere di Hawthorne, i problemi estremi e le cose ultime e presuppone, come diceva Lawrence (v., 1955, p. 162) a proposito dei due autori ora citati, ‟una totale fedeltà a una moralità che tutta la loro passione va a distruggere". Il romance può - o, come scrive Melville in Moby Dick, deve - restare incompiuto, perché le costruzioni grandiose ‟lasciano il soffitto all'avvenire" e sono ‟abbozzo di un abbozzo" ossia giganteschi brancolamenti alla ricerca del senso ultimo della vita.
Il romanzo americano contemporaneo ha dunque direttamente alle proprie spalle una tradizione epica, una totalità - frammentaria e aperta - cui esso continua ad attingere almeno sino al terzo decennio del secolo. Maestro del romanzo e del congegno romanzesco, James sa ch'esso non può non nutrirsi a quella fonte sotterranea, se non vuole inaridire la sua perfezione strutturale : nei suoi libri, dice Chase (v., 1957, p. 142), ‟si riesce ad afferrare il romance proprio mentre scompare nell'intrico del romanzo". James quindi da un lato secolarizza l'epica nell'intreccio formale, ma dall'altro affonda le radici delle sue sottilissime architetture narrative nell'humus vitale di quell'epica. La presenza in controluce del romance ossia dell'epos nel romanzo americano fa sì che esso continui a esprimere tensioni e contraddizioni di valenza simbolica universale: il Sud quale simbolo della tenebrosa schiavitù che incombe su ogni esistenza, la lacerazione-simbiosi di colpa e felicità (lo scrittore americano, da Mark Twain a Faulkner, è costretto a identificare la natura e il paradiso perduto col mondo sudista agrario-schiavista), l'appartenenza-inappartenenza delle molteplici componenti nazionali a un crogiolo che forma e dissolve la loro identità, la presenza fresca e recente della violenza inferta alla natura e della punizione tragica che ne deriva, le proiezioni della colpa incarnate nelle figure delle vittime, rimosse e sempre riemergenti nella coscienza: il pellerossa, l'ebreo e soprattutto il negro (Fiedler). La presenza e il ricordo del romance lasciano un largo spazio nella letteratura americana (almeno sino agli anni trenta-quaranta) per una narrativa che punta, nella scrittura e attraverso la scrittura, a valori che stanno oltre il testo, così come l'ossessione di Achab o il bianco della balena sono origine e meta del libro ma anche l'oltrepassano: i racconti di Hemingway, che s'aggirano intorno ai temi dell'iniziazione alla vita, dell'amore e della lotta, i libri di Henrv Miller che esplorano e magnificano la festa dei sensi e le possibilità del corpo proseguono, nei modi a loro propri, la tradizione del romance ovvero del libro chiamato a scoprire il senso della vita. Da queste radici nasce anche la possente e smisurata saga di Faulkner, che si avvale della più moderna tecnica narrativa e della dilatazione delle possibilità linguistiche (il flusso di coscienza, lo sconvolgimento della normale sequenza temporale assorbita e intessuta nell'altro tempo dell'inconscio) per cimentarsi con le domande ultime del destino umano, in un aggrovigliato intreccio di selvaggia innocenza naturale (cifrata nel mitico Sud) e tormentoso interrogativo morale. The sound and the fury (1929), epos vissuto all'interno di quella struttura mentale dell'idiozia nella quale s'era già calato London (Told in the drooling ward, 1916), usa la tecnica joyciana con pathos dostoevskijano per ritrarre, nel trascorrere del tempo e nell'inesorabilità dei suoi ritorni, la condizione di tenebra dell'uomo. Absalom, Absalom (1936) unisce il flusso di coscienza, e del tempo che si amalgama nelle passioni e negli individui per disfarli incessantemente, agli archetipi del racconto biblico e della tragedia greca: ancora una volta è in gioco, in quest'ardua struttura romanzesca che trabocca da se stessa, una moralità ossia il senso della vita e della storia, pure vissuto con un'intensità vitale preconscia aldilà di ogni controllo e fine morale.
Questa rivoluzionaria tecnica linguistica e strutturale aveva trovato, molti anni prima, il suo più grande maestro in James Joyce, il padre di tutta la narrativa novecentesca - anche se egli stesso riconosceva nel racconto Les lauriers sont coupés (1887) di Édouard Dujardin il primo monologo interiore e anche se sono stati rintracciati nel Settecento inglese le origini della dissoluzione ironica e parodistica delle forme narrative (Melchiori). Sin dai mirabili Dubliners (1914) e soprattutto dallo Stephen Hero (iniziato ai primi del secolo), poi ripreso e rifuso in A portrait of the artist as a young man (1916), Joyce punta a cogliere l'epifania, tende all' ‟annotazione stenografica di un'esperienza vissuta" (Eco), alla messa a fuoco di ‟un momento significante senza commento", il quale non può essere costruito ma solo registrato (v. Scholes e Kain, 1965, p. 4). L'epifania è il momento in cui l'oggetto, anche infimo e banale, si presenta - secondo la definizione tomista - nella sua interezza, simmetria e radiosità ossia nella sua essenza; la parola, pur ancora densa di sensitività impressionista, deve spogliarsi delle reazioni soggettive per cogliere impersonalmente la rivelazione delle cose, l'attimo di stasi in cui si manifesta l'essenza della vita e del suo fluire, di quella ‟trama viva che, mutando incessantemente di colore e di forma, mandava su nell'aria calda e grigia della sera un continuo, incessante mormorio". Questo magico momento dell'accadere presuppone un massimo di sensibilità individuale, esasperato sino al punto di rovesciarsi in un massimo di oggettività ovvero in un impersonale apparato di registrazione: anche Malte, nel citato romanzo di Rilke, è un io ipersensibile - un artista, e per di più un aristocratico - che fa della sua quasi patologica iperreattività la tavola di cera sulla quale s'imprime, vertiginosa e incessante, la fenomenologia della metropoli (Parigi) ovvero dell'anonima e sovraindividuale vita moderna.
La magia lirica, che Joyce deriva in parte dalla tensione poetica del suo grande conterraneo irlandese Yeats, è il punto di partenza per una costruzione epica: l'attimo suggerisce una concentrazione atemporale da cui partire per giungere alla simultanea totalità del mondo. Specialmente in area anglosassone è stato messo in evidenza l'attimo quale nuova ‟unità di tempo nella narrativa" (v. Melchiori, 1963). Lawrence si protende all'apparizione istantanea della ninfea e cioè al perenne transito del mutamento; Ungaretti afferma la totalità della scheggia-frammento (Fortini); Virginia Woolf si apre alle miriadi d'impressioni che piovono e cadono da tutte le parti, assumendo ‟la forma della vita di lunedì o martedì" e facendo della vita stessa ‟un alone luminoso, un involucro diafano che ci avvolge dall'origine della coscienza fino alla fine". Il puntinismo, che Virginia Woolf ha trasformato nella struggente poesia del respiro della vita, sta agli antipodi del grande stile: isola il particolare dalla totalità e soprattutto lo vota alla caducità, non sa trattenerlo nella durata del significato: ‟Bisogna che sfugga, bisogna che cada. E poi?" si chiede Virginia Woolf nel romanzo The years. Sia nel suo teatro sia nelle sue novelle, anche Čechov mostra la subordinazione del personaggio alle forze infinitesimali che lo compongono e alle spinte distruttive del suo inconscio, nelle quali egli si sgretola. L'individualità si dissolve nella serie ininterrotta dei minimi processi psichici che la sottendono e ai quali compete una fisionomia più precisa della fittizia unità della persona, come accade - in area inglese - nei racconti di Katherine Mansfield che tanto devono a Čechov. In Russia, è la prosa ornamentale di Andrej Belyj a costituire ‟una dichiarazione d'indipendenza delle unità minime" e a ‟eludere il controllo dell'unità maggiore, a distruggere l'interezza dell'opera" (v. Mirskij, 1949, p. 413). Lo sfondo dell'opera di Belyi, Pietroburgo (che dà il titolo a un suo romanzo del 1912), è l'immagine - con l'evanescente irrealtà di cui la città sulla Neva è un simbolo così ricorrente nella letteratura russa - della spettrale e fantastica dissoluzione di quest'unità del reale.
Virginia Woolf e Čechov inseriscono tuttavia il minimo e l'insignificante in una trama di significati balenanti sullo sfondo misterioso dell'Essere frammentario: la pietà umana con la quale Čechov si china sui propri personaggi ricostruisce un'unità di senso, e se The waves (1931) della Woolf dissolve del tutto la struttura dell'esistenza in un flusso psichico, lo splendido To the lighthouse (1927) infila magicamente i singoli attimi nella collana di una coralità in cui ogni individualità si riconosce nell'altro e le singole esistenze increspano come sorrisi amorosi la continuità della vita, mentre Mrs. Dalloway (1925) si richiama alla simultaneità joyciana. La grandezza di Joyce, nell' Ulysses e nel Finnegans wake, consiste nel fare del linguaggio, in una misura non raggiunta da alcun altro scrittore, l'espressione e insieme la sostanza del mondo: il confronto, nel suo testo, non avviene tra le individualità psicologiche dei personaggi bensì tra ‟i modi di rappresentabilità [. . .] tra i linguaggi [. . .] e quindi tra le realtà" (v. Marengo Vaglio, 1977, p. 98). Nella durata di una giornata (Ulysses) o di una notte (Finnegans wake) Joyce coglie la simultanea stratificazione mitico-psicologica che si è depositata in ogni associazione verbale e mentale, in ogni frammento dell'esperienza; il ricorso a strutture archetipiche - il poema omerico, i corsi e ricorsi della filosofia vichiana - non vuol ridurre il molteplice all'ordine, bensì far affiorare l'immensa pluralità e relatività degli ordini esistenti, la compresenza di cronaca e mito, di archetipo e mutamento, il condensarsi dell'intera storia e cultura del mondo in ogni gesto e in ogni parola. Il romanzo diviene allora un'archeologia che scava nel quotidiano, sciogliendo le sue incrostazioni cristallizzate per liberare il pullulare dei dettagli che vi si erano intessuti e rinserrando d'altronde in un sempre nuovo e fulmineo amalgama lo scorrere indefinito del mondo. La ‟metamorfosi dell'inorganico in parola" (v. Contini, 1977, p. 793) conferisce, in un incessante trascorrere dall'interno all'esterno e viceversa, linguaggio alle cose, fa parlare la vita stessa nella babele dei suoni e nel poliglottismo delle lingue, dei rumori fisici, delle declinazioni, dei lapsus, delle grammatiche, delle flatulenze e delle risacche sulla spiaggia. A tal fine Joyce impiega un registro inesauribile di generi letterari e livelli linguistici, idiomi e piani prospettici, un poliglottismo e un macaronismo (ibid., p. 794) che fanno dell' Ulysses la ‟summa moderna [...] della poliglottia, versata espressionisticamente dentro l'Io" (ibid.).
L'Ulysses, al suo apparire, destò scandalo e sembrò ad alcuni - per es. a E. R. Curtius - il vangelo antiumanistico di un'esistenza privata di ogni gerarchia di valore e tutta azzerata a una sorta di livello fisiologico; un filosofo della speranza rivoluzionaria come Ernst Bloch scorgeva invece nella micrologia joyciana la riscoperta di ‟tutto ciò che non si è adattato al letto di Procuste" del pensiero e cioè di quanto resiste alla violenza emarginatrice della filosofia - idealistica e sintetica - dominante. Joyce recupera ‟la prelogica realtà effettuale del vissuto, rovinato in sparse macerie" e libera le energie vitali seppellite sotto quelle macerie.
Scolaro e insieme maestro, in questa linea, di Svevo, Joyce si cala - attraverso le cicatrici che la psicopatologia della vita quotidiana incide come crepe sul volto dell'uomo medio - sino alle radici della vita, s'immerge nella minuta psicologia privata per dragare un limaccioso fondo collettivo. In Joyce - specialmente nei monologhi femminili come quello di Molly nell' Ulysses, identificato col ritmo della fertilità della terra, o come quello di Anna Livia Plurabelle nel Finnegans wake, fuso col mormorio del fiume Liffey - è la corporeità che si fa linguaggio, ‟flusso di una continuità totale" (v. Contini, 1977, p. 793). Finnegans wake, libro scritto ‟al limite dell'inglese" (v. Anderson, 1967, p. 113) e che vuol essere, come l'autore stesso dice, ‟un disordine ben architettato", è l'opera mai definita nè definibile che coinvolge l'uomo nel fiume del cosmo e della parola anziché permettergli di dominare il cosmo con la parola; è il testo sconfinato che fonde e confonde parola e cosa. In questa metamorfosi eraclitea, incessante ma statica nell'alternanza dei suoi corsi e ricorsi, l'individuo corre il rischio di smarrire la propria identità, di perdersi nel proteiforme fluire verbale-corale, come gli eroi di Yeats che si difendono a colpi di spada dal mare che vuole sommergerli (v. Cambon, 1963). La totalità di Joyce - che Jung (v., 1933), intendendo lodarla, paragonava a una tenia - è astorica, si sforza d'inserire il divenire sociale nel perpetuo ritorno del ciclo cosmico: ‟la storia - dice Stephen Dedalus nell' Ulysses - è un incubo da cui cerco di destarmi". Tale antistoricita joyciana è certo diversa dall'eternità che Eliot vuol restaurare con la sua forma, col suo roseto immobile che fissa ‟l'intersezione del senza tempo col tempo": la stasi è per Eliot il trionfo dell'ordine su quel disaccordo fra attualità e durata, music hall e mito, ch'egli stesso aveva espresso nel poema The waste land (1922). Altra cosa è pure il tentativo di Pound di unire nei Cantos l'istantanea concentrazione dell'immagine e una continuità totale della storia. L'opera di Joyce si protende verso l'epica ossia verso la rappresentazione totale, ma questa talora si dissipa in un corto circuito fra il tutto e il niente, in uno sforzo architettonico che approda all'allusione o al gioco verbale anche banali, dove la banalità costringe il lettore, terroristicamente, a leggere invece in essa, di continuo, l'universale. L'epica totale, a questo punto, sarebbe il dizionario o addirittura l'alfabeto, colmabile di tutte le suggestioni possibili. ‟I massimi Specula enciclopedici all'inizio del secolo - scrive Fortini, facendo il nome di Joyce e di Proust (v. Fortini, Questioni..., 1977, p. 317) - torcono la loro vista dall'avvenire e costruiscono la loro cattedrale fingendo intorno a sè un deserto"; se aveva iniziato chiedendo all'arte la conoscenza della vita, Joyce finisce per subordinare la vita alla scrittura dell'opera d'arte. I grandi romanzi del Novecento - di Proust, Joyce e Musil, osserva Fortini - nascono in forma allegorica di saggio critico su di un'opera letteraria assente. Il libro che punta sul linguaggio finisce spesso per oltrepassarlo e rovesciarlo nel silenzio, per trovare l'essenza non nella parola totalizzante bensì, come nel Tod des Vergil (1945) di Broch, nella totalità dell'essere ‟al di là dal linguaggio". Più tardi l'austro-barocco-cattolico Gütersloh vorrà ritrovare nella correlazione analogica e metaforica della parola la chiave dell'unità del mondo (Sonne und Mond, 1962).
Enciclopedia del cuore e del linguaggio, A la recherche du temps perdu (1913-1922) non è soltanto il più grande trattato sulle passioni umane offerto dal XX secolo, ma è anche il romanzo che si è più genialmente servito della quarta dimensione, il tempo, per delineare i personaggi. Questo tempo bergsoniano è quello della durata e del ricordo, nel cui edificio mirabile si ricrea la vita perduta e se ne estrae il senso essenziale, ed è il tempo dello scrivere che ripercorre l'esperienza e lo stesso ricordare. Nella sua stanza e a letto, dopo aver vissuto, Proust vive veramente, ossia ritrova il cuore della vita; l'attimo - la reminiscenza che affiora istantanea grazie al profumo della madeleine o al tintinnio di un cucchiaio - è il perno intorno al quale si dipana il filo del tempo ritrovato, di ‛tutto' il tempo ritrovato. I nomi e la loro eco riportano e ricreano non solo una figura, ma la realtà intera del mondo che non sarebbe tale senza quell'eco e quell'ombra, così come sono l'apparire della signora Swann e il ricordo del suo apparire che danno senso e totalità al Bois de Boulogne. La Recherche è lo struggente e sterminato catalogo che porta alla luce l'impalpabile vita del cuore umano, che l'esistenza rimuove come marginale e anarchica e che invece contiene l'essenza della vita vera, esiliata e impossibile nell'ambito della vita falsa imperante; l'amore, la gelosia, il rimpianto, l'oblio, il desiderio e la sua estinzione, le struggenti e impercettibili intermittenze del cuore sono i luminosi frammenti di una biografia che non può costruirsi saldamente come nel romanzo classico, ma può vivere solo nella dispersione o nella sublimazione, e può essere costruita solo dal ricordo, dalla parola, dalla poesia.
Grande affresco sociale che cela sotto l'apparente snobismo il mistero della società ovvero la sua base economica, la Recherche è pure una grande opera di denuncia so- ciale, perché mette disperatamente a nudo il dissidio fra quella vita sociale e la vita vera che ne è avvolta e sepolta. Sinuoso e tentacolare, il periodo proustiano circuisce questa vita vera che brilla solo in absentia, solo nel ricordo e nella parola ; la totalità epica di Proust, cui i biancospini di Combray o gli occhi azzurri della signora di Guermantes danno un volto incomparabile, è la totalità straziata e dispersa che giace nel cuore degli individui alienati e che solo il libro, il segno chiamato a rappresentare la vita, può magicamente ricostruire. Nella pagina di Proust il minimo - il nome di un paese, una sfumatura di luce - riacquista piena dignità, brilla di luce inestinguibile : la luce della vita vera, che splende nella scrittura.
Anche negli ultimi racconti di Svevo, Zeno - protagonista e fittizio narratore autobiografico della Coscienza - continua a vivere gli ultimi sprazzi dell'esistenza accorgendosi di essere soltanto colui che ha scritto la propria vita e non colui che l'ha vissuta, e che la sola cosa importante della sua vita è quella descrizione di una sua parte che egli stesso ha steso sulla carta. Il vegliardo sveviano si augura che ognuno passi il tempo a leggere la vita scritta degli altri o, ancor meglio, la sua propria; egli sa che la vita vera dilegua senza traccia ma scopre nella scrittura un riparo dalle ferite che la ‟vita orrida vera" arreca nel momento del suo trascorrere; solo mettendosi in salvo dal presente egli ritrova il senso della vita che, nel presente, è oscurato dall'ansia di vivere. La scrittura è lo spazio dell'elusione e dell'indecisione, le quali impediscono alle varie parti in gioco di comporsi in un rigido intero definitivo, è il luogo del desiderio erotico sempre acceso dall'oscillazione ironica, dal significato sempre latitante ma che esiste e brilla in tale fuggitiva dissimulazione. L'io stesso, disperso e dissimulato come quello proustiano fra le macerie del sentimento e lo scandaglio della penna che le rimuove, si risolve in un mobile campo di tensioni, nel rispecchiamento fra il soggetto dell'enunciazione e quello dell'enunciato, e in tale mobilità trova la sua identità più vera.
La grande letteratura mitteleuropea ha espresso grandiosamente l'angoscia per la vita e insieme la difesa da quest'angoscia e la colpa insita in questa posizione difensiva. Maestro assoluto dell'autentica avanguardia ossia della negazione compiuta per amore del vero, Kafka è il più grande poeta dell'esilio della verità. Il personaggio kafkiano è ‟condannato a star sulle difese sino alla fine", a venir accusato di colpe imprecisate ch'egli respinge e che sono poi il fatto stesso di vivere; egli deve dire di no al richiamo dell'esistenza, che Kafka denuncia quale esca minacciosa e ingannevole, quale trappola che attira l'incauto fuori dalla sua trincea e lo trascina alla catastrofe, come avviene nel racconto Ein Landartzt (1914). Kafka stesso indietreggia ogni qualvolta i lacci quotidiani sembrano stringersi intorno a lui e si sottrae al matrimonio, all'ufficio, alla famiglia. Nell'universo kafkiano l'uomo rilutta tenacemente al desiderio e cerca di sfuggire alla sua forza tortuosa e struggente perché sa di non essere all'altezza del grande e trascinante respiro del desiderio e preferisce bloccarlo, reprimerlo, distanziarlo, eluderlo piuttosto che venirne travolto. Nessuno ha descritto come Kafka la debolezza e l'eccitata fragilità dell'uomo moderno, sradicato dalla natura e scagliato come un sasso nella storia, di fronte alla lusinga e alla pienezza del desiderio, che accosta l'individuo alla totalità vitale.
Kafka registra il vuoto dell'esistenza, nella quale legami e valori sono pervertiti in tranelli al fine d'illudere gli uomini che esistano ancora possibilità di vita piena e farli cadere, abbacinati da questa promessa, in trappole ancor più spietate. Kafka, che raffigura l'irrazionalità e l'irrealtà del tutto sommando singoli particolari costruiti con razionalissimo e preciso realismo, ritrae il mondo moderno in cui la totalità irrazionale è appunto il prodotto della razionalità funzionale ma insensata delle singole sfere d'attività; la sua poesia è il modello dell'unica poesia contemporanea possibile, quella che nega l'esistente - onde mostrare e contrario, secondo Adorno, l'immagine assente della vita vera - e frantuma sia il reale sia gli strumenti della sua comunicazione, per non essere complice o apologeta del suo errore. Ma Kafka sa pure che dire di no, rifiutarsi all'insidioso miraggio della vita significa respingere ogni possibilità di salvezza per scansare il pericolo, morire d'inedia per timore di morire avvelenati o, come il suo Hungerkünstler (1924), per incapacità di trovare il cibo adatto. Nel racconto Der Bau (1923) la creatura inseguita dal mortale nemico scava dei cunicoli che le offrano uno scampo o un riparo all'avanzata dell'avversario, ma intreccia le uscite sotterranee di sicurezza alle spirali delle gallerie tracciate dall'altro per raggiungerla, sino a non distinguere quasi più il labirinto della minaccia da quello dei nascondigli. Kafka rappresenta l'autodistruttiva difesa dell'io contro tutto ciò che minaccia la sua esistenza, l'assurda e negativa difesa opposta dal declinante io borghese alla tumultuosa ricchezza della vita: la ragione, che si esaspera per difendersi dall'irrazionale, si nega e si storce in follia.
Proseguendo con originalità la lezione di Kafka, Elias Canetti scrive nel 1935 col suo romanzo Die Bendung - uno dei capolavori narrativi del secolo - una visionaria e gelida parabola di questo delirio autodistruttivo della ratio occidentale, la grottesca tragedia dell'‛io diviso' (v. Laing, 1959), che cerca di salvarsi irrigidendosi nella paranoia o disperdendosi nella centrifuga metamorfosi della follia. Il dottor Peter Kien, l'eroe di Canetti, è la tragica figura dell'identità ritrovata solo nell'irrigidimento e nella morte, dell'individuo che si getta a capofitto nel futuro affinché il duro presente diventi quanto prima innocuo passato, innocuo perché morto. La Blendung di Canetti è la prova che il sublime, nella letteratura contemporanea, può consistere solo nell'assolutezza della negazione, come per Kafka, e non nell'ibrida medietà fra tradizione e avanguardia, fra demonico e umanesimo tentata da Thomas Mann, che ha cercato di dare un compromissorio segno positivo all'irresolubile polarità. Robert Walser, scrittore amato da Kafka, sceglie le ‟regioni inferiori" per poter respirare, si dilegua nel minimo e nell'insignificante, sceglie di servire e di obbedire, di autoreificarsi e di mimetizzarsi col potere per sfuggire alla minaccia.
In Kafka lo strumento della salvezza-distruzione è la scrittura: scrittura che è preghiera ma anche assillante riduzione della vita, mimetizzazione con l'ingranaggio del potere: la letteratura è anche il verbale che Josef K., l'imputato del Prozess (1925), scrive per giustificarsi ossia - poiché non conosce l'accusa - per giustificare tutta la sua vita, che viene però così ossessivamente divorata dalla pagina. La verità di Kafka, che assume su di sé tutto il negativo dell'epoca, è la verità del deserto, dell'esilio dalla Terra Promessa ; è una verità oggettiva ma irraggiungibile, che impone di essere rappresentata ma non si lascia rappresentare e viene distrutta dallo stesso tentativo di rappresentarla; una verità che può essere afferrata solo di riflesso nelle parabole e sfugge alla razionalizzazione dei romanzi, e appare quale orrore inconoscibile o quale luce abbacinante, quale degradazione assoluta o distanza invalicabile (v. Baioni, 1962). L'individuo è prigioniero del nesso che si è instaurato fra l'irrazionalità del mito arcaico e l'irrazionalità dell'apparato ultrarazionalistico borghese ; egli tuttavia è colpevole proprio pérché si sente in colpa, perché sente la vita quale turpe imperfezione. Errante in una terra di nessuno come il suo Jäger Gracchus (1916-1917) respinto dai vivi e dai morti, Kafka ha trasformato la sua condizione di ebreo praghese assimilato di lingua tedesca in un simbolo della condizione umana tout court: maggioranza all'interno della dominante minoranza tedesca a Praga, circondata a sua volta dalla popolazione ceca sulla via del riscatto nazionale, gli ebrei praghesi si assimilavano sradicandosi dalla totalità della Legge dell'ebraismo orientale e perdendo così la propria identità - per integrarsi in una società che di lì a poco li avrebbe respinti col suo furore antisemita. È la colpa che Kafka rinfaccia al padre nel Brief an den Vater (1919) ma anche a se stesso, in quanto incapace di realizzare quella pienezza affettiva ch'egli vedeva nell'intatta famiglia ebraico-orientale. Come l'agrimensore K. o il campagnolo, Kafka non riesce a farsi accogliere nel castello né a entrare nella Legge, a varcare la porta pur fatta per lui : le lettere a Félice e a Milena, le due donne amate e tenute a distanza, documentano, forse più d'ogni altro testo del secolo, l'impossibilità dell'inserimento e la colpa ma anche l'eroico amore di verità insiti in quest'impossibilità, in un'unione indissolubile di poesia e vita cui forse soltanto Saba, non a caso erede dell'ethos e dell'epicità ebraica, si è avvicinato.
L'irrangiungibile punto di riferimento positivo è infatti, per Kafka, la pietas vitale e familiare della letteratura jiddisch, ch'egli segue con nostalgia specie nelle rappresentazioni date a Praga dal teatro jiddisch. Letteratura minore o addirittura dialettale - estesa sul piano mondiale, quella jiddisch è una delle ultime epiche che hanno unificato il particolare umoristico e vernacolo della quotidianità con l'universale-umano di sentimenti classici: lo shtetl, il piccolo borgo ebraico-orientale, offre una totalità relativa in base alla quale l'ebreo commisura, tenero e impavido, la dilacerata frammentarietà del mondo. Tewje der Milchiger (1903) di Schalom Alejchem, paterfamilias colpito ma non travolto dalla storia, è un Ulisse comico ed eroico che riafferma di continuo, con la confidente religiosità dell'ebreo, la familiarità col mondo pur avverso e ne demistifica la truce grandezza. Uno dei lieviti della letteratura austro-tedesca (Joseph Roth), russa (Il'ja Erenburg) o americana (Saul Bellow, Malamud) sarà la nostalgia per questa pienezza vitale e per questa familiarità con l'universo garantite dalla religio.
La Dublino di Joyce e la Praga di Kafka sono due grandi esempi dell'unica patria possibile per la letteratura contemporanea: luoghi dell'esilio e dell'artificio, dell'irrealtà e dell'inappartenenza, perduti nella vita e ricreati meticolosamente sulla carta, mappe quotidiane della discesa agli inferi. Luoghi in cui linguaggio e nazione, poesia e società non sono più in corrispondenza, bensì sfasati; durante e dopo la seconda guerra mondiale questo processo s'accentua ancor di più con l'esilio e il trapianto di scrittori in paesi di lingua diversa, dove essi debbono parlare una lingua differente da quella in cui non possono non scrivere: Canetti in tedesco a Londra o Celan in tedesco a Parigi, Singer in jiddisch a New York o Solzenicyn in russo a Zurigo, per non parlare degli scrittori che cambiano pure nazionalità letteraria, come Nabokov, autore di Zaščta Lužina (La difesa di Luzin) nel 1930 e di Lolita, in inglese, nel 1955. Alla disgregazione del luogo della letteratura corrisponde quella del linguaggio, in un processo di distruzione-costruzione. Anche in Italia la linea letteraria più viva è quella ‛espressionistica' che, riallacciandosi alla scapigliatura lombarda e piemontese e alle innovazioni vociane - specialmente Boine - finisce per operare una totale alterazione delle strutture sintattiche e narrative. Da Federigo Tozzi a Italo Svevo il romanzo italiano esce dalla provincia (v. Guglielminetti, 19672) - talora esasperandola quasi volesse perforarla per uscirne agli antipodi, come faranno Pavese e Fenoglio - quando sgretola l'ordine psicologico e linguistico, le prospettive ideologiche e lo stesso recinto dello spazio letterario, per affacciarsi sui bordi del caos e dell'informe. Nella geniale opera di Pirandello la consunzione, spirituale e formale, del grande stile implica il proliferare e il turbinare del soggetto disgregato nelle sue maschere e nei suoi frammenti (Il fu Mattia Pascal, 1904; Uno, nessuno e centomila, 1926) e anche la messa in gioco dell'ordine letterario e del rapporto fra autore e personaggio, fra l'opera mai finita e il divenire della sua indefinitezza (Sei personaggi in cerca d'autore, 1921). L'avanguardia sarà e vorrà essere essenzialmente ‟opera aperta" (v. Eco, 1962), divenire poetico che nega ogni risultato divenuto, processo e non prodotto finito. La narrativa che mira al continuo farsi del reale e di se stessa innesta nel romanzo il relativismo della fisica moderna (v. Debenedetti, 1971); fin dal 1916, col suo romanzo Si gira (divenuto più tardi Quaderni di Serafino Gubbio operatore) Pirandello trasferisce la tecnica cinematografica nel racconto quale simbolo e strumento del mobile trascolorare vitale d'ogni forma definita.
È la letteratura del disordine quella che istituisce, con la sua negazione, un discorso sul mondo, anche se la sua negazione di un ordine sociale può indurla, come accade a Pirandello e ad altri grandi anarchici (reazionari perché disperati: Hamsun, Pound, Céline, Mishima), a rifiutare irrazionalmente la dimensione stessa della socialità. Il poliglottismo di Carlo Emilio Gadda è un esempio di discorso totale sul mondo - ‟nuova Enciclopedia italiana", scrive C. Cases (v., 1974) a proposito di Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957) - che risucchia il mondo nel vortice linguistico quasi per risucchiarlo in un percorso a ritroso nel fiume della storia, alle matrici originarie di tutti i linguaggi, quasi al di qua dell'articolazione sociale. L' ‟eleatismo" di Pizzuto elimina infine, osserva Contini (v., 1977, p. 800), non solo il monologo interiore ma anche la persona e realizza quindi il linguaggio come immobilità dell'Essere intersoggetivo.
3. La modernità come caduta: arte e vita, volgarità e morale
Nel romanzo Königliche Hoheit (1909) di Thomas Mann il poeta Axel Martini, autore di inni alla vita sfrenata e passionale, dichiara di essere astemio e di andare sempre a letto alle dieci di sera e aggiunge che solo tale meticolosa regolarità gli permette di cantare l'orgia e il disordine. Tanta arte del Novecento nasce dalla coscienza che la poesia è possibile solo come estraneità e antitesi alla vita, specie alla vita borghese. E la cultura italiana appare come un blocco integralmente borghese (v. Petronio, 1976). Già l'opera di Verga e di Fogazzaro costituisce la denuncia di un'irreparabile decadenza che colpisce, patologicamente, la società borghese; la nuova letteratura trova in questa malattia e in questa decadenza il suo unico luogo possibile. Il suo eroe può essere ‟soltanto per la morte" (v. Barben Squarotti, 1976, p. 24); la poesia di Pascoli vive tutta nella contrapposizione fra la propria aspirazione al valore e la coscienza ch'esso è irreparabilmente svanito nella società presente: è irrealtà, sogno vano come l'ultimo viaggio di Odisseo, insensatezza dell'azione come per Alexandros. L'unica risposta possibile è allora alterare irreparabilmente il rapporto fra le cose e le parole, emancipare magicamente i significanti da ogni coattivo riferimento a precisi significati (Beccaria).
La poesia è possibile solo come inattualità della poesia stessa, come evocazione della propria impossibilità; Gozzano la recupera ironicamente solo grazie all'ombra della morte incombente, che gli permette un'alterità totale rispetto al mondo borghese e una relativizzazione completa dei suoi valori. La poesia, nostalgica e ironica, nasce dall'aridità ossia dall'esilio dalla vita e dallo scettico rimpianto per quest'ultima che pure la impedirebbe; l'arte di Gozzano è la malinconia (v. Macchi Giubertoni, 1976, p. 276), ovvero la sfiduciata negazione del progresso, com'egli scrive parodisticamente visitando l'esposizione di Torino del 1911 (‟cui bono? Melancholia!"). Poesia è la rappresentazione della poesia necessariamente assente nel mondo borghese e possibile solo nella distante consapevolezza che si prende di quest'assenza, nella coscienza del mito che si degrada - come quello di Odisseo narrato a tavola ‟ad uso della consorte ignorante" - nel contesto della norma quotidiana, familiare e sociale. Per Corazzini (Desolazione del povero poeta sentimentale, 1906) la poesia è ‟esiguità", è dire che non si è poeti, ma che non si può neanche vivere bensì solo ‟specchiare con rassegnazione la realtà impoetica, piangere silenziosamente e morire un poco ogni giorno", ‟come le cose". Non solo il mondo umano, ma anche l'oggetto è irretito nella totale reificazione, è alienato in un'opacità insensata e perisce, in una specie di antropomorfismo negativo. Da Kleist a Baudelaire a Rilke, il poeta moderno sembra talora chiedere alle cose (marionette, bambole, giocattoli o semplici oggetti) una redenzione, un muto messaggio di liberazione presente negli oggetti non ancora raggiunti dall'alienazione penetrata fino nel cuore dell'uomo; altre volte sono invece proprio le cose, col loro silenzio inesplicabile e il loro mistero che le estrania agli uomini (ovvero col loro gelido valore di scambio che ha distrutto il loro originario valore d'uso, caldo e familiare), a far sentire l'età moderna come stato di caduta. Da Schiller in poi, la poesia è la coscienza del conflitto e della dissonante simbiosi fra natura e civiltà, verità e menzogna, bellezza e artificio; con Baudelaire la storia è sentita quale peccato, quale condizione di caduta (v. Quadrelli, 1977).
D'Annunzio ha assunto con radicale coerenza, specialmente nella sua narrativa, la volgarità e la colpa della modernità a tema e a struttura stessa della sua letteratura. Se nel Piacere (1889) l'intellettuale riesce ancora a isolarsi dalla disgustosa realtà in un artificio estetico-erotico, nel Trionfo della morte (1894) è tutta la società in veste di repellente e ignobile malattia che travolge ogni velleità di nobiltà, in una spietata diagnosi che nelle Vergini delle rocce (1895) arriva alla descrizione della speculazione edilizia a Roma, denuncia sociale dilatata ad apocalittica e sensuosa mostruosità (v. Barberi Squarotti, 1976). D'Annunzio assume nella sua opera tutto il peso che il danaro, la grossolanità, il Kitsch, l'assenza di stile e la depravazione etica hanno gettato sulla vita: come Baudelaire e Verhaeren, egli ritrae nella Laus vitae (1899-1900) l'orribile disumanizzazione della metropoli industriale, centro della miseria e della prostituzione universale, folla di oppressi e di schiavi in cui Elena argiva può essere solo una vecchia bagascia e ogni sublimità tragica è impensabile. In D'An- nunzio la poesia moderna fa i conti col suo inesorabile rapporto col danaro. Il ‟vivere inimitabile" di D'Annunzio è l'esperienza veramente eccezionale del poeta che vive nella sua poesia e, prima ancora, nel suo corpo la bruttezza e la decadenza, il peccato della modernità, e che trasgredisce l'impero del danaro con quell'infrazione gratuita e solo personale la quale, socialmente, lo conferma. Il compagno dagli occhi senza cigli (1928) e La Leda senza cigno (1916) sono l'audace ritratto dell'inesorabile connessione fra ideali e abiezione, mito e volgarità, sogno d'eccezione e verifica del banale squallore.
D'Annunzio è stato l'interprete e insieme l'incarnazione della modernità quale caduta; dopo di lui, soltanto Pasolini è stato capace - nei romanzi come nelle liriche, nei film come nella stessa condotta di vita - di identificarsi, in un'intimidatoria ma sofferta indecenza vitale, con l'esaurimento morale di tutto un paese. L'estetismo, che si protrae dalla fin de siecle al secondo dopoguerra, è stato una delle più grandi prese di coscienza della tragedia occidentale, sia quando ha assunto la forma di un severo distacco fra arte e vita per denunciarne il divario (per es. nella poesia di Stefan George) sia quando le ha fuse per denunciarne la reciproca opera di corruzione, facendo della vita un'opera d'arte ma un'opera d'arte impura, sfacciata e distruttiva come la vita, dalle trasgressioni di Oscar Wilde a quelle di Pasolini o di Jean Genet. L'io superfluo si svela nell'iperbole della propria indecenza che riassume, esasperandola, quella di tutti. Accanto a questa poesia cercata nell'immediatezza del vissuto c'è il distacco classico di una poesia che intende se stessa quale scissione ma anche quale ambigua salvezza: è il caso di Montale, altissima voce autentica dell'inautentica esistenza contemporanea e poeta ironico di quella superfluità dell'io che si rivela nella scissione fra storia e cronaca (Fortini), nell' ‟elencazione ellittica" (v. Jacomuzzi, 1978, p. 13) di oggetti designati successivamente senza sviluppo sintattico, quasi a esprimere, nella loro nuda e arida presenza, la mancata risposta che il mondo dà all'interrogativo dell'uomo.
Una profonda rivolta antiborghese anima la letteratura francese di fine secolo e del primo Novecento. Per Lèon Bloy la parola acquista una violenza visionaria e plebea, un furibondo realismo nato dal fiammeggiante lievito cristiano e dall'odio per la civiltà borghese intesa quale razionalizzazione del dominio, falsificazione e appiattimento della vita. All'ordine borghese viene contrapposta una fede intensa sino alla follia, come quella della prostituta Véronique nel romanzo Le désespéré (1886), umile sino alla cancellazione di ogni dignità sociale - come nella scelta finale della mendicità da parte di Clotilde ne La femme pauvre (1897) - e virulenta sino alla contumelia. L'ispirazione religiosa vuole scrostare l'esistenza di ogni orpello rassicurante per scoprirne la nudità essenziale e vuole sconnettere ogni sistemazione della vita per liberarne la selvaggia potenzialità verticale: è una poesia religiosa che riscopre, come accade soprattutto nei diari di Bloy, l'immediata dimensione corporale, con una torva e ribelle spregiudicatezza. Péguy pone la parola al servizio di un sogno escatologico, di una redenzione che deve provenire dalla fede e dalla vecchia terra di Francia liberate da ogni sovrastruttura ‛politica': dreyfusardo per amore di giustizia e avverso alla chiesa ufficiale e all'antisemitismo, il cristiano nazionalista e repubblicano Pèguy (Notre patrie, 1905; Notre jeunesse, 1910) si oppone alla politica e all'intellettualismo in quanto costrizioni e costrizioni ideologiche che fanno violenza all'autenticità dell'esistenza: borghesia e socialismo gli appaiono due volti complementari di quella mistificazione ideologica che segna la decadenza della buona vecchia Francia (L'àrgent, 1913). Da questa matrice nasce pure la destra francese di Maurras e dell'Action francaise, respinti peraltro da Péguy : comune è il senso della civiltà moderna quale declino, che aveva già ispirato il pessimismo delle Origines de la France contemporaine (1876- 1894) di Taine, il quale sembrava far iniziare la decadenza della storia di Francia dal suo stesso principio; anche per Zola, del resto, la storia dei Rougon-Macquart è una storia di tramonto.
La Francia eterna del popolo e della cattedrale di Notre Dame viene distrutta dai professori della Sorbona e dell'École Normale: Les déracinés (1897) di Barrès è la sto- ria ‟di una borsa di studio che conduce al delitto" (v. Thibaudet, 1936; tr. it., p. 441) ossia di un progresso secondo Barrès falso e intellettualistico, che aliena l'individuo dalle sue radici primarie (la terra, la famiglia, la nazione). Teatro di scontro ideologico (dreyfusardi e antidreyfusardi, internazionalisti e nazionalisti, patrioti e pacifisti, Les déracinés e il Jean-Christophe di Romain Rolland, 1904-1912), il romanzo francese è soprattutto imperniato sul motivo della personalità individuale, su quel culte de moi cui Barrès dedicava la sua trilogia del 1888-1891. Questo egotismo assume l'aspetto di una liberazione dell'individualità dalle ‛paludi' (le Paludes di Gide, 1895) dell'isolamento letterario e dell'educazione moralistica. L'opera di Gide è l'itinerario di questa liberazione dell'io dalla Porte étroite (1909) della morale sino alla scoperta dionisiaca delle gioie terrestri (Les nourritures terrestres, 1897) e della vita nuda e amorale. Gide vuol vivere senza legge per ritrovare la vita e poter dire, com'egli dirà nel 1946, ‟J'ai vécu"; sennonchè la sua ricerca - preoccupata di liberare immoralisticamente il soggetto, ma anche di non dissolverlo nell'indistinto del desiderio - diviene la generosa eppur facile predicazione d'una loi nouvelle, una fiducia nella legge della passione che presuppone un'idea ormai arcaica sulle possibilità reali dell'autonomia dell'individuo. Gide ci è più vicino nel continuo gioco fra vita e scrittura, fra romanzo e diario sul romanzo inserito nel romanzo - presente in tante sue opere (oltre che nel suo Journal, 1889-1949) - che non nel messaggio vitale, affermato generosamente al di sopra delle reali possibilità dell'individuo. Più che sotto i soli africani delle sue gioie omoerotiche, la vita fluisce, tenera e naturale perché non predicata, nei Grand Meaulnes di Alain-Fournier (1913); l'eroe più vero di Gide non è forse l'individuo che proclama d'aver veramente vissuto, ma il Lafcadio delle Caves du Vatican (1913), costretto all'insensatezza dell'atto delittuoso e gratuito quale unica affermazione individuale possibile.
L'eroe di Gide sembra a metà strada fra lo scettico e amabile umanesimo di quelli di Anatole France - consapevoli delle contraddizioni sociali ma convinti che l'istituzione letteraria possa contribuire, almeno un poco, a una ragionevole civiltà - e la gelida astrazione del Monsieur Teste di Paul Valery, intelligenza pura ripiegata su di sé e coscienza che osserva le mutazioni della propria struttura, avvolta in una dimensione rarefatta nella quale le reazioni classiche del soggetto - l'angoscia, l'interrogativo metafisico - sono solo relitti d'una psicologia individuale sorpassata (sebbene Valery stesso, nel Cimetiére marin, 1920, abbia dato voce proprio all'incrinatura che il soggetto costituisce nel mare immobile dell'Essere).
In generale si può notare, nel romanzo francese, una tendenza alla restaurazione del soggetto individuale che si afferma tra gli anni venti e quaranta, scordando la lezione dell'avanguardia e della narrativa sperimentale. Sulla scena del romanzo europeo, tra le due guerre, non campeggiano tanto i grandi romanzi veramente rivoluzionari, imperniati sull'eclissi della totalità e sul crepuscolo del soggetto (Kafka, Musil, Svevo, Proust e Joyce), bensì i romanzi che restaurano il soggetto e la sua capacità di porsi quale centro di valori, di trovare un senso alla vita o di cercarlo con eroico impegno morale. Se nel Journal di Jules Renard (1887-1910) le annotazioni atomistiche rivelano l'epifania di esperienze non inserite in un modulo spirituale preesistente, la narrativa - e in genere la letteratura - del ventennio fra le due guerre tende a ricostituire un'unità del mondo e della persona, sia pur problematiche, in chiave morale. Il trauma della prima guerra mondiale, che dà la stura a un'innumerevole letteratura, spinge a porsi le domande ultime sul bene e sul male, sul destino dell'uomo, e a ridare quindi una grandezza, sia pur tragica e fragile, all'individuo. In chiave cristiana e cattolica, è ad esempio Bernanos a fare del romanzo uno strumento di rappresentazione, di indagine e di denuncia del male, mentre Malraux restaura l'epica nella raffigurazione della speranza rivoluzionaria, vissuta anche quale esaltante avventura (La condition humaine, 1933).
Si tratta forse degli ultimi anni in cui la letteratura ha potuto procedere affiancandosi, in certo modo, alla storia e alla politica, cercando di offrire delle risposte analoghe - anche se nei modi propri all'arte - a quelle che l'impegno concreto forniva alle tragiche domande poste agli uomini negli anni del fascismo, del nazismo, dello stalinismo, della guerra di Spagna, della seconda guerra mondiale e della resistenza. Si tratta degli ultimi anni nei quali lo scrittore ha potuto guardare alla realtà, senza tradirla e senza tra- dirsi, da una prospettiva sostanzialmente solidale con quella del politico o del militante. Dalla guerra di Spagna ritratta da Bernanos alla battaglia di Stalingrado ritratta da Nekrasov sembra che vi possa o vi debba essere un'omologia tra realtà storica e realtà letteraria, non solo sul piano direttamente sociale ma anche su quello individuale: dal Journal d'un curé de campagne (1936) di Bernanos sino all'opera di Camus, nella quale l'appassionato confronto con l'assurdità e l'estraneità dell'esistenza acquista, per lo stesso impegno del loro assurdo, un segno positivo, che s'afferma pure nella negatività e nella rivolta. Questa è stata forse l'ultima letteratura umanistica ossia disperatamente fiduciosa nell'individuo - in quell'individuo che già Jules Romains aveva rappresentato, nella sua saga narrativa Les hommes de bonne volonté (1932-1941), quale mera condensazione provvisoria della ‟vita unanime" e che il più moderno pensiero sociologico (da Veblen alla Scuola di Francoforte) tentava di difendere proprio facendo i conti con la sua riduzione, nel capitalismo avanzato, a larva di se stesso e a precaria concrezione dei processi sociali.
L'uomo in rivolta di Camus è uno degli ultimi eroi individuali possibili, dopo che Döblin con Berlin Alexanderplatz (1929) e John Dos Passos con Manhattan transfer (1925) e con la trilogia U.S.A. (1930-1936) avevano realizzato una totalità epica quale collage degl'infiniti dettagli minimi, ripresi fotograficamente, che compongono la collettività, e dopo che Pilnjak si era valso di una tecnica non dissimile per raffigurare la gigantesca epopea individuale dei piani quinquennali sovietici. La più rivoluzionaria letteratura del Novecento è invece sfasata rispetto alla positività che poteva esprimersi nella Terza Internazionale o nel Fronte Popolare; la sua anima apocalittica la rende inattuale e anacronistica sul piano storico, spiritualmente contemporanea della catastrofe della Comune di Parigi o di un futuro desolato e postumano. Negli anni venti e trenta l'interiorità solitaria combatte la sua ultima schietta battaglia e postula, come nell'opera di Miguel de Unamuno, le sue irriducibili e anarchiche antinomie morali e religiose. Più tardi questa sintesi di spiritualità e realismo sarà impossibile e scadrà, nell'inutile romanzo medio del secondo dopoguerra, in una consolatoria letteratura di consumo, triviale perché travestita in nobili panni. Gli indifferenti di Moravia (1929) possono rappresentare la miseria morale della borghesia italiana con una fedeltà realistica - realistica sino al disgusto - che nei realismi o neorealismi del dopoguerra potrà essere solo epigonale. Lady Chatterley's lover (1928) di Lawrence fa scandalo con la sua accentua- zione del sesso, ma sembra credere alla possibile riconquista, da parte dell'uomo, di una positiva e incorrotta naturalità.
Già nel ventennio fra le due guerre si sviluppa invece una letteratura visionaria e apocalittica, che fa propria la negazione assoluta come unico modo di essere fedeli al vero volto dell'uomo deformato dalla storia : dei tre ‛pazzi' polacchi che scelgono di ‛vivere ai margini', Bruno Schulz sogna la regressione, l'infanzia bloccata quale unica verità in un mondo che soffoca la crescita armoniosa dell'uomo; Witkiewicz raffigura l'apocalissi europea in una fantasia atroce e grottesca, mentre Gombrowicz stravolge ogni pretesa norma in un'esilarante e crudele deformazione. Sadeq Hedāyat, persiano vissuto a lungo in Francia, unifica e dissolve realtà esterna e personalità individuale in un'ombra angosciosa (Būf-e Kūr, La civetta cieca, 1930). L'unica verità che la vita rivela è la nausea : Roquentin, l'antieroe sartriano del romanzo La nausée (1938), scopre la trascendenza negativa delle cose, trascendenza verso il basso, ‟audessous de toute explication" (v. Kahler, 1953, p. 25): la diversità delle cose si rivela illusoria, l'individualità è appena un'ingannevole parvenza che cela un'identità universale indifferente e fungibile, lo stesso individuo è un prodotto in serie, riproducibile dal meccanismo sociale. Lo straniamento esistenziale viene peraltro messo a fuoco, come disse lo stesso Sartre, già da Miroslav Krleža (soprattutto nel romanzo Povratak Filipa Latinovicza, Il ritorno di Filip Latinovicz, 1932), scrittore croato che dallo sfacelo dell'impero asburgico trae una preveggente intuizione delle successive apocalissi incombenti sull'Europa.
La verità poetica sembra oscillare fra due forme antitetiche e complementari di dissoluzione del grande stile e del senso: fra l'incolore nausea di Sartre e il virulento vomito, linguistico ed esistenziale, di Cèline. Nel suo ‟monologo interminato" (v. Contini, 1977, p. 790) Céline ritrae furiosamente la vita - specie nel Voyage au bout de la nuit (1932) - come un disperato, abietto e sanguigno flusso corporeo, in un sarcastico cinismo che aggredisce l'esistenza per non esserne aggredito e concepisce la modernità quale patologica lacerazione, salvo porvi rimedio, con l'autolesionismo dell'anarchico reazionario, esasperandola ulteriormente.
Il ventennio fra le due guerre ha visto il tramonto dell'Europa e la sua detronizzazione da centro del mondo - detronizzazione celata dalle panacee classicheggianti, dall'ignoranza di ciò che accadeva altrove (a cominciare dalla Russia), dalle ingenue fedi nell'impegno letterario o in modelli estranei (come quello americano per Pavese e Vittorini). Più che la letteratura ufficialmente riconosciuta, è stata ‟l'altra letteratura" (v. Quadrelli, 1977) a capire la tragedia, la letteratura segreta e ignorata, irriducibile agli schemi dominanti: in Italia, ad esempio, Giacomo Noventa, il poeta classico e anticlassicistico che ha compreso l'unità negativa della storia moderna, aldilà delle sue tensioni interne, quale processo livellatore dei valori. Ma forse nessuno ha interpretato e vissuto questo tramonto occidentale come la generazione bruciata degli americani sradicati ed esuli a Parigi, ai quali è toccato il compito - come diceva Bishop di Hemingway - di scrivere il dramma ‟della scomparsa dell'anima umana" (v. Kazin, 1942; tr. it., vol. II, p. 146) ma anche, occorre aggiungere, di incarnare, con ebbrezza e struggimento, il momento di quella scomparsa.
È stato Fitzgerald a dire, con una febbrile intensità in- tessuta di iridescente futilità, la poesia della vita che va in frantumi e s'innamora perdutamente della propria perdizione, una poesia affascinata dalla propria giovinezza e dalla coscienza che questa non ha un domani, travolta dal fascino della rovina e dalla verità della rovina (Tender is the night, 1934; The great Gatsby, 1925). La saga di Fitzgerald è quella della totalità che si disperde nei suoi frammenti e che vive questa disgregazione con l'appassionata fatuità di una festa che finisce. La narrativa di Fitzgerald è una poesia rivolta all'esterno, ‟verso un mondo fatto di domeniche a Long Island" (v. Kazin, 1942; tr. it., vol. II, p. 149); una poesia che vorrebbe trasfondersi tutta nella vita, come l'arte per Dewey si trasfonde in quei processi del vivere e del formare quotidiano nei quali d'altronde il suo ritmo è prefigurato. Fitzgerald sfiora quest'indistinzione di vita e stile, ma la qualità ditale vita dissipata e distruttiva è di una tenerezza inebriante; l'atomismo vitale di Hemingway, eccezionalmente sensibile all'energia fisica, è una serie di frasi perfette ‟simili a ponti gettati nel buio" (ibid., p. 172) di una vita spezzata in emozioni prive di significato. Lo stile che domina questo nichilismo è identico al coraggio che lo sfida, per attestare continuamente la vitalità dell'io incalzato, impavido nella sua volontà di non arrendersi al nulla, ma incapace di vivere il proprio superamento in termini che non siano quelli del nulla e della morte (The sun also rises, 1926; Death in the afternoon, 1932; The first forty-nine stories, 1938). Battersi con le cose diviene il modo di accettarle e di godere la loro insensatezza, di annegare quella coscienza della loro contraddizione della quale l'avanguardia cercava invece di fare l'essenza stessa di una nuova arte.
4. Avanguardia e rivoluzione
Se l'età moderna vive se stessa, sovente e volentieri, quale età della morte dell'arte, l'avanguardia interpreta e denuncia quest'ultima quale assassinio dell'arte. Le poète assassiné (1916) di Apollinaire è il grido che prende atto di questo omicidio, aggravato per motivi abietti: è l'organizzazione capitalista del lavoro che esautora completamente il lavoro poetico, è la produzione borghese che schiaccia il ‛fare', il poiein artistico, sia integrandolo nelle sue spire sia emarginandolo come un inutile relitto. Poiché il poiein, il lavoro poetico, è un fare connaturato e fuso con la vita stessa del poeta, è una produzione totalmente calata nella struttura mentale e sensibile dell'artista, quest'ultimo non può non vivere la crisi e il superamento della propria attività fantastica se non quale distruzione della sua stessa personalità. L'avanguardia è la risposta a questo tramonto dell'individuo e allo scontro fra individuo e società industriale, fra l'arte e la realtà che la nega. I poeti assassinati reagiscono in vario modo, dal terrorismo disperato alla distruttiva e autodistruttiva mimetizzazione con l'apparato tecnologico che li soffoca, ma l'amplissimo ventaglio delle loro diverse risposte ha sempre un elemento comune: il feroce rifiuto dell'aura sublime e nobilitante che la società riserva falsamente all'arte, dopo averla messa fuori gioco e resa innocua. Nel magazzino e nella fabbrica universale l'artista cercherà di gettare una bomba oppure di entrare, con i suoi mezzi, a far parte della sua direzione tecnica, ma si rifiuterà comunque di essere il custode e il cicerone del museo, il maggiordomo di quel circolo ricreativo aziendale che la produzione destina all'arte tradizionale, affinché essa - ossequiata perché inutile - sia l'ornamento dello spirito spalmato sulla facciata del mercato. Talora l'avanguardia reagirà con la distruzione, come ad esempio nel dadaismo e in altre forme successive, che vedranno nell'attività scombinatoria e nel disturbo dei canali della comunicazione (ossia nell'alterazione del senso) l'unico spazio possibile della propria libertà : lo sberleffo di Palazzeschi, il codice del suo Perelà (Il codice di Perelà, 1911) scompigliano allegramente ogni possibilità di utilizzazione sensata. Altre volte l'avanguardia reagirà invece, come nel futurismo, facendo proprie le tecniche della produzione industriale e cercando di trasformare quella modernità che minaccia la poesia (le macchine, la massificazione e così via) nella sostanza della poesia stessa. L'avanguardia si proclamerà sempre, per definizione, rivoluzionaria, salvo intendere la rivoluzione - assai diversamente - ora quale terrorismo anarchico, ora quale progetto sociale alternativo, ora quale mera trasformazione tecnologica: il volto della rivoluzione potrà così apparire talora l'insurrezione della Comune, talora il socialismo, talora il capitalismo avanzato.
In tutti i casi, a venir posto in crisi - nelle forme più di- verse - è il protagonista tradizionale dell'arte, il soggetto individuale. Già Lautréamont aveva affermato che la poesia doveva essere fatta da tutti e non da uno solo ; il surrealismo si proporrà di ‟conquistare per la rivoluzione le forze dell'ebbrezza" (v. Benjamin, 1934; tr. it., p. 68) ossia di liberare le forze dell'inconscio collettivo - represse nell'individuo socialmente determinato e recuperabili nei processi fantastici - nella scarica rivoluzionaria. Il Manifeste du Surréalisme (1924) teorizza l'automatismo psichico quale trascrizione immediata e involontaria dei processi del profondo, sottratti al controllo della razionalità codificata, e quale accostamento arbitrario e immotivato di cose lontane non mediate dalla logica. Il récit de rêves e l'écriture automatique propugnati da Breton mirano a liberare dalle strutture psicosociali il sussurrante flusso di pensieri e desideri che scorre profondo ; follia, allucinazione, sogno ed enigma rappresentano il manifestarsi di questa grande corrente, il cui prorompere assomiglia indifferentemente a una rivoluzione sociale o a un amplesso.
Nadja, il romanzo di Breton uscito nel 1928, rappresenta la piena dissoluzione del racconto (l'incontro fra l'autore e la ragazza per le strade di Parigi) nell'imprevedibilità del meraviglioso e nella sconnessione dei nessi logici e narrativi. L'amour fou (1937) prosegue la scomposizione del soggetto in un fluttuante spazio di desideri, interrogazioni e illuminazioni, quasi nella gestazione di un'indefinita e multipla creatura nuova che coincide con la scrittura. L'accostamento di immagine e suono elimina il senso inteso come costrittivo: il poeta scompare nel funzionamento del linguaggio. Due apparenti contrari, immediatezza e impersonalità, vengono incessantemente coniugati, mentre a essere eliminato e quel terzo momento ch'era l'individuo, forma personale e concreta dell'idealità universale. Qui invece l'immediatezza nega ogni significato che la trascenda, ma anche ogni connotato di un'individualità permanente nel mutamento: gesti, pulsioni e la stessa fisicità non appartengono più all'individuo, ma a una sorta di corpo collettivo, di flusso pulsionale indeterminato. Come la statua di neve dei popoli artici o le pitture di sapone sul vetro di cui parla Mukařovský, il gesto - che diverrà l'azione erotica realmente praticata nel Living theater o la scansione fisica del body language - esalta l'individuale per liberarlo da ogni norma generale, ma lo annega in una fenomenologia psichica e corporale indistinta, nella quale non c'e' più persona, un io e un tu, ma un colloidale noi o un magma aldilà d'ogni persona verbale, anche plurale. Già nell'espressionismo è ben presente questa dilatazione dell'io, che trova una grande voce ‛classica' nella regressione di Gottfried Benn al sogno marino, al muco d'alga o al golfo di mare ancora ignaro di dolorosa individuazione. La lirica del portoghese - e plurilingue - Pessoa vive tutta della propria schizofrenia, di una struttura che - ha scritto stupendamente Zanzotto (v., 1977, p. 187) - appare necessaria e insieme arbitraria, schizoide e pronta a cedere alla propria pluralità ma anche a organizzarsi. Al di sotto di questa struttura, la poesia - dice Zanzotto, che ha peraltro raggiunto egli stesso dei notevolissimi risultati in questa direzione - va alla ricerca di una lingua non scritta né scrivibile, ‟petèl infantile [...] gorgoglio somatico [...] oralità eterna, la quale è anche contatto fisico, immediato con la madre" (ibid., p. 188).
Nella prima avanguardia tali tensioni restano al livello alto del grande pathos, di una protesta che nega il grande stile confrontandosi con esso; nella seconda avanguardia, specie in Francia, esse si realizzeranno in un'immediatezza appiccicosa, nell'erotizzazione indistinta della scrittura trasversale fattasi corpo o fatta dal corpo.
C'è naturalmente anche un altro noi, predicato da un'altra avanguardia. Col suo saggio Krušenie gumanizma (Crollo dell'umanesimo, 1919) Aleksandr Blok saluta nella massa ‟il custode dello spirito della musica" e ‟l'erede della grande cultura umanistica" (v. Strada, 1969, p. 162) che periva con la fine del vecchio individualismo; Majakovskij esalta la libertà individuale, ma per rifondere il pronome ‛Io' nel pronome ‛Noi', l'individuo nei 150.000.000 del suo poema omonimo (1919-1920). Questa posizione è tuttavia non già la dissoluzione del soggetto, bensì l'attesa messianico-rivoluzionaria di un uomo nuovo, liberato dall'alienazione sociale e soprattutto da quella forma suprema di alienazione che è la contrapposizione, esasperata nella società tardo-borghese, fra individuo e collettività. La Russia, - Messia dei giorni a venire cantato da Bélyj e simbiosi rivoluzionario-cristiano-asiatica celebrata da Blok (Dvenadcat', I dodici, 1918; Skify, Gli Sciti, 1918) - presta il volto a questa grande speranza di un'umanità rigenerata. Il dibattito che si accende in Russia subito dopo la rivoluzione investe non solo il rapporto fra arte e proletariato, ma quello fra individuo e società, singolarità rivoluzionaria e nuovo ordine sociale, incarnato dalla rivoluzione ormai vittoriosa e presto sderotizzata nella sanguinosa tirannide burocratica di Stalin. Tra chi affidava al proletariato il compito di esprimere una nuova cultura di classe e chi, come Trotzki, vedeva invece il proletariato destinato a realizzare, dopo il transitorio periodo di lotta della sua dittatura, una cultura universalmente umana scevra di ogni limite di classe, si profilava la vittoria di una restaurazione classicistica ovvero staliniana.
La questione - che è stata indagata con straordinaria acutezza da Vittorio Strada - coinvolge principalmente il problema dell'eredità culturale, la poetica del romanzo e il ruolo dello scrittore: tre aspetti di un'unica realtà, quella dell'arte rivoluzionaria e del suo destino. Il quesito circa l'eredità culturale poneva il problema della grande arte borghese del passato, della necessità di rifiutarla oppure di prenderla a modello in contrapposizione a quella sperimentale. Su questi temi s'impernia il grande dibattito sull'espressionismo del 1934, protrattosi sino al 1938. Da una parte vi erano coloro i quali scorgevano, come Lukàcs, nell'arte d'avanguardia un prodotto della disgregazione irrazionalista e della barbarie della società tardo-capitalista e quindi un'arte incapace di uscire dalla frantumazione di cui era vittima; essi dunque propugnavano una narrativa realistica e tradizionale, che riprendesse la lezione del grande romanzo borghese ottocentesco, trasformando il suo realismo critico in realismo socialista.
Fu questa la linea che finì per trionfare nell'epoca staliniana: la restaurazione dell'epica realistica e dell'eroe positivo, del romanzo che rappresenta la tragedia storica senza venirne travolto ma estraendone un senso fiducioso del futuro, il racconto che trascende nella sintesi le contraddizioni. Da questa matrice nasce il romanzo storico, genere chiamato per eccellenza a risolvere classicamente il dissi- dio fra individuale e particolare: ad esempio il Pëtr Pervyj (Pietro I, 1929-1930, 1933-1934 e 1944-1945 di Aleksej Tolstoj) il quale affronta il tema del progresso che avanza sul sacrificio brutale dei singoli, dello spirito universale che per le sue costruzioni non si perita, hegelianamente, di far spreco di popoli e di generazioni, della lotta rivoluzionaria che, come aveva detto Lenin a proposito del titanico zar e come dice Deutscher di Stalin, procede con mezzi barbari contro la barbarie (v. Deutscher, 1966 , tr. it., p. 717; v. Strada, 1969, p. 148). Su questa linea si sviluppa il romanzo realistico sovietico, in un ventaglio che va dall'epopea della costruzione del nuovo mondo al pathos eroico-patriottico alla più servile e ottimistica apologia dei crimini staliniani. È la narrativa dei grandi piani quinquennali, edificante ma non priva di autentico dramma nello scontro fra storia e natura, fra la rivoluzione e la taiga russa nella quale essa penetra implacabile ; sono romanzi epico-realistici come Tichi i Don (Il placido Don, 1928-1940) di Šolochov, o i vari romanzi stalinisti, i cui autori finiranno spesso per cadere vittime dell'ortodossia da essi propugnata, rispetto alla quale nessuno è mai abbastanza ortodosso, come doveva sperimentare pure Drieu la Rochelle in relazione al fascismo francese cui egli aveva aderito. Da questa restaurazione nasce, oltre a una narrativa destinata all'oblio o all'abiezione, una grande discussione sul romanzo - genere deputato a essere il portavoce sintetico dell'universale - come quella avvenuta a Mosca nel 1933-1934, nella quale Michail Bachtin oppone alla teoria lukacsiana del romanzo storico-realistico, legato ai modelli ottocenteschi, una poetica del romanzo quale genere della contaminazione degli stili e quindi del continuo, realmente rivoluzionario ricambio dei valori.
Ai classicisti della rivoluzione consolidata si opponeva- no i fautori di una rivoluzione permanente o non ancora avvenuta, i messianici profeti della speranza e dell'utopia, come Ernst Bloch, che si volgevano all'arte più aperta al fantastico e all'indeterminato, al ‟mondo non ancora timbrato". Al modello classico borghese venivano così contrapposti tutti gli altri modelli possibili, da quello delle culture extraeuropee alle voci dei gruppi emarginati e rifiutati (arti minori, espressioni dei malati mentali e dei ghetti urbani, e così via). La rivoluzione doveva essere la voce della particolarità ribelle, del desiderio rimosso, della fantasia umiliata e sola capace di ricreare il mondo, estraendo da esso le sue possibilità latenti. Questa prospettiva chiama a raccolta, nella lotta rivoluzionaria, tutta la letteratura negativa antiborghese, mutando di segno ‟la contraddizione intima dell'avanguardia ottocentesca e [...] il suo limite invalicabile" (v. Petronio, 1976, p. 62); ossia quella protesta che l'intellettuale borghese, inorridito dalla crudeltà del capitalismo ma incapace di proporgli un'alternativa politico-sociale, rivolge contro quella stessa borghesia che l'ha generato e che egli vive ed esperimenta in sé, ‟in corpore vili", trasfigurandola in un'eterna condizione umana (ibid., pp. 61, 62, 68). Eppure sarà da questa negazione totale - e dalla sua paradossale rivalutazione, e contrario, del momento sovrastrutturale che nascerà la grande arte moderna, quella che nega l'uomo esistente affinché egli non trionfi definitivamente su ciò che egli potrebbe e dovrebbe essere (Adorno).
All'antitesi esemplificata nei due nomi di Lukàcs e Bloch, il dibattito sull'espressionismo, ovvero sull'avanguardia, affianca un'altra voce, quella di Brecht, modello del poeta impegnato (v. Mittner, 1975). Brecht difende l'arte sperimentale ponendo l'accento sul lato tecnico della produzione artistica ch'essa mette a nudo, sul lavoro poetico e sulla possibilità di salvarlo dall'alienazione borghese aggiornandolo tecnicamente e mettendolo a disposizione del proletariato, affinché lo stesso progresso tecnico, e anche le sue crisi, ricevano un significato storico e umanistico. Voce della speranza rivoluzionaria, Brecht è stato nel suo teatro ma pure nella sua lirica - uno scrittore epico nell'accezione anche generale del termine ossia uno scrittore della totalità umana e vitale, proprio perché ha saputo smontare l'uomo onde rimontarlo e riattivarlo in senso umanistico, perché ha saputo accettare a fondo le trasformazioni tecnologiche senza fascinazione né disagio, senza accettarle come un fato né aborrirle come un'apocalissi ma considerandole un cantiere di possibilità, da usare a fini emancipatori ostacolandone l'uso a fini repressivi. In Brecht l'avanguardia tecnologica (che in altri casi - ad esempio nel futurismo - oscilla tra infatuazione regressiva per l'organizzazione industriale in quanto tale e suo impiego esplosivamente rivoluzionario) giunge alla più alta coscienza liberatoria. La figura dell'autore come produttore, teorizzata da Benjamin nel 1934, è uno dei più alti tentativi di unire realmente, in solidale attività rivoluzionaria, spirito e tecnica - anche se questa verità positiva, per essere autentica, ha bisogno del suo rovescio, di quel lato oscuro e ‟malinconico" che spingeva Benjamin a meditare sull'angelo incalzato dal vento rovinoso della storia, a immaginare una scienza delle ghirlande che circondano il vuoto, a vedere nelle rovine dell'epoca l'allegoria dell'irreparabilmente perduto.
La disputa sui modelli letterari s'identifica con quella sul ruolo dell'intellettuale. Al I Congresso degli scrittori sovietici del 1934, Ždanov aveva lanciato la formula staliniana dello scrittore quale ingegnere d'anime, ossia dello scrittore-guida e progettatore della vita che forma le masse, senza partecipare direttamente dei loro immediati problemi ma vedendone il senso - o imponendo loro un senso - per cosi dire dall'alto, da una posizione privilegiata dalla divisione del lavoro. Se Bloch aveva detto che gli scrittori, rispetto alle masse, sono solo compagni più informati su certe questioni, l'ingegnere d'anime è invece un pastore rispetto al gregge, oggettivamente portatore di una verità che non può, operativamente, non scindersi in due verità, una per i pochi e una per i molti. La storia della letteratura e dell'ingegneria narrativa sovietica dagli anni venti agli anni quaranta è la storia del consolidarsi di questa duplicità - e della morte, per omicidio e/o suicidio - della rivoluzione. Si tratta di una regressione paurosa rispetto ai grandi passi che la letteratura del Novecento ha compiuto proprio nell'ambito del rapporto fra intellettuali e masse. Fin nel 1906, lo splendido romanzo Martin Kačur dello scrittore socialista sloveno Ivan Cankar aveva narrato la biografia di un intellettuale che vuole scuotere il suo popolo dal suo torpido letargo, ma comprende che l'unico modo per farlo veramente è quello di mescolarsi in esso partecipando direttamente della sua vita, e per obbedire a tale funzione - tragica perché l'epoca non è matura per essa - s'identifica con la massa arretrata, sino a perire nella sua arretratezza.
Negli anni venti e trenta è soprattutto dalla Cina che giunge - con Lu Hsün e altri autori - l'esempio di una concezione e di una pratica veramente rivoluzionaria del ruolo dell'intellettuale e dello scrittore. Con i suoi lucidissimi saggi e con i suoi racconti lucidamente aperti alle tenebre, Lu Hsïn accompagna la nascita e lo sviluppo del pensiero rivoluzionario cinese, conservando l'autonomia della poesia da ogni direttiva di partito ma ponendo la sua posizione privilegiata di scrittore al servizio del popolo e cioè cooperando - con la poesia - alla soppressione di ogni privilegio e quindi anche del proprio stesso privilegio di letterato, del privilegio insito nella letteratura preservata dalle miserie del popolo - cioè dell'universale preservato dalle miserie del particolare. Ma questa poesia, che è pronta a sacrificarsi alla liberazione dell'uomo e a educare gli oppressi anche alla rivolta contro se stessa, non si subordina ad alcuna politica bensì eleva, contro la fittizia unità strategica imposta dalla politica, la voce della necessaria scissione. I grandi racconti di Lu Hsün, capolavori di fermezza e di sottile saggezza, sono la testimonianza di un intellettuale che di continuo s'immerge nella massa e ne riemerge, conservando l'autonomia poetica non per amore dell'arte ma per amore di quella libertà che la poesia può servire solo restando fedele a se stessa. E una poesia che non è mai edificante, come non lo è il romanzo Hsiang-tzu (Il ragazzo del ricsciò, 1935) di Lao She, che denuncia l'oppressione mostrando com'essa si traduca nell'abiezione delle stesse vittime.
Se il classicista e staliniano ‟ingegnere d'anime" ricostruisce un falso universale, una falsa totalità, l'avanguardia si rivolge, nel ventennio fra le due guerre, alla scoperta e all'emancipazione delle particolarità ribelli a Parigi, ad esempio, il fervore creato dal surrealismo e dalla sua contestazione della razionalità borghese-occidentale permette a una nuova generazione di intellettuali negri - africani o martinicani - di prendere coscienza di sé, di ribellarsi al- l'integrazione culturale ossia alla colonizzazione spirituale e di ritrovare la propria identità soffocata, in un recupero delle proprie origini che cerca una propria particolare strada (non occidentale) all'universalità dell'uomo dalla negritudine ancora tradizionale (Senghor) all'africanismo rivoluzionario, l'intellettuale negro - ad esempio Aimé Césaire - parte alla scoperta di un'identità che lo liberi dalla versione coloniale del rapporto padrone-servitore; solo la creazione artistica, ossia la formazione di un'universalità ‛diversa', infrange quella gerarchia.
Anche in Russia non sono gli ingegneri d'anime, e forse neppure i meritori ma compromessi (politicamente e artisticamente) scrittori come Gor′kij che dicono una parola di libertà, bensi le voci della dissonanza e della lacerazione: Babel che canta la guerra rivoluzionaria, ma non senza sgomento per l'incedere sanguinoso della storia che distrugge l'epica ebraica e familiare della sua Odessa; il grande Bulgakov che guarda alla storia anche con gli occhi dei vinti (Belaja Gvardija, La guardia bianca, 1924-1925) e oppone ‟alla maschera della storia il volto della luce" (v. Bazzarelli, 1976, p. 172), creando col suo Master i Margarita (Il Maestro e Margherita, ed. compl. postuma 1969) un grottesco, doloroso e totale poema della redenzione umana. La poesia e la libertà parlano con la voce stroncata e repressa di Mandel′štam o di Pasternak, con gli esperimenti dei cubofuturisti che inseguono il sogno di una poesia transmentale - e perciò universale anche se legata ai valori fonetici della lingua russa - o con la ‛fattografia' degli scrittori i quali vogliono cogliere - smontare e rimontare - i fatti, afferrandone però il senso e le contraddizioni. Con la geniale tecnica costruttivista della ‛bio-intervista', Sergei Tret'jakov pubblica nel 1930 Teng Shih-hua, 'autobiografia scritta da un altro' ovvero biografia di un intellettuale cinese, che lo scrittore russo registra obiettivamente e compone letterariamente nel quadro, straordinario e vero, di un uomo e di un continente - la Cina - che stanno nascendo alla libertà. Il libro di Tret′jakov è l'acquisizione alla coscienza europea di un'esperienza ‛altra', non coartata in alcun modello precostituito dall'universale ma trasmessa all'universalità - e alla comprensione - nella sua diretta peculiarità. È questo il punto centrale di una Weltliteratur contemporanea che voglia evitare Scilla e Cariddi, l'universalità a modello unico e la peculiarità irrelata. Alcuni dei grandi libri del nostro secolo sono nati da questa mediazione non costrittiva del diverso e del lontano, come il citato Black Elk speaks: being the life story of a holy man of the Oglala Sioux (1932), l'autobiografia del vecchio stregone indiano dettata all'americano John O. Neihardt, che ricorda alla letteratura occidentale che cosa può e deve essere la letteratura, l'epica che non è mai di un uomo solo perché ‟È la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare, e di noi bipedi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell'aria e tutte le cose verdi".
È in questa direzione che l'avanguardia ha cercato di uscire da quell'impasse, che non poteva non derivarle, come ha osservato Fortini, dal suo ripudio della categoria della mediazione, ossia - per usare le parole di uno splendido saggio di Tito Perlini (v., 1967, p. 73) - dalla sua ‟assunzione di una conflittualità che rifiuta la conciliazione e perciò la dialettica come sforzo di superamento dei contrasti" per respingere la falsa totalità del positivo e cioè la realtà esistente (quella organizzata dalla società capitalista) che si spaccia per totalità vera. L'avanguardia storica ha negato la società disumana e il ruolo sublime ch'essa assegnava all'arte neutralizzandola, e cioè ha compiuto il suicidio dell'arte, per la consapevolezza della propria incompatibilità con la società che ‟degrada di fatto a merce" la sua sacralità (ibid., p. 80). I grandi artisti della prima avanguardia hanno distrutto lo stesso futuro dell'arte, rifiutando la falsa totalità sociale; funamboli su una corda tesa sull'abisso e acrobati dell'esistenza come i personaggi di Wedekind, hanno scelto il salto mortale e la caduta a capofitto, capovolgendo la vitalità nella feroce distruzione della vita, come il coltello di Jack lo Squartatore che sventra alla fine Lulù, personificazione dell'eros anarchico (F. Wedekind, Die Büchse der Pandora, 1904). La seconda avanguardia, priva del pathos del grande rifiuto, ripete un'esperienza già fatta. Per Fortini essa si condanna a una mimesi, vanamente ironico-dissacratoria, della società capitalista totale e ne riproduce proprio la razionalità tecnologica e lo scientismo manageriale che sopprimono la libertà e l'arte; secondo Perlini, invece, tale rifiuto del proprio stesso Grande Rifiuto costituirebbe, per l'avanguardia contemporanea, l'unico modo di reagire al sistema totale, che ingloba tutto e quindi anche il rifiuto che gli viene rivolto. Solo storcendosi nella beffarda autoderisione, l'utopia potrebbe sfuggire alla morsa del potere.
Certo anche nel secondo dopoguerra l'avanguardia che ha dimostrato di saper difendere l'utopia sia dall'ingenuo (e facilmente integrato) pathos della ribellione sia dalla mimesi razionalistico-manageriale (integrabile ancora più facilmente), è quella che ha unito radicale distruzione del futuro dell'arte e tragico umorismo. Ponte fra la prima e la seconda avanguardia, Beckett ha raggiunto l'orlo estremo del rifiuto e della terra bruciata, senz'illudersi su alcun potere della parola ma senza rinunciare alla verità - ogni volta nuovamente conquistata - dell'assenza e del senso cui essa, negandolo, rimanda. Le deformità o i rifiuti umani di Beckett sono pur sempre una taciuta promessa di felicità, disperata e umoristica perché lucidamente conscia di essere disperata. Appena questa verità diviene modulo seriale, si ha Ionesco, ossia un consolatorio poeta dell'assurdo, un notevolissimo artefice di sostanziale consenso sociale. Un passo ancora in questa direzione, e la compiaciuta - tecnocratica - confusione dei codici diviene puro ornamento del mercato, industria culturale complice e ripetitoria - come rivela l'inutile storia o cronaca della seconda, terza e quarta avanguardia che continuano a susseguirsi, appariscenti e irrilevanti. Non la mediazione dialettica o il suo rifiuto, ma la medietà ossia l'ironico e manniano o sveviano equilibrio fra le contraddizioni insuperabili è la strada che si offre ancora a una letteratura contemporanea non dimentica dell'umano, in una stagione in cui l'umano non si lascia più misurare col solo metro del pensiero occidentale e quindi nemmeno con la dialettica: già Goethe, del resto, e proprio parlando con Hegel, nel 1827, proponeva qualche rimedio a chi fosse eccessivamente malato di dialettica. La più grande letteratura che ha affrontato la realtà ci è venuta, non a caso, dai libri che hanno raccontato il tremendo urto col suo volto più terribile, senza mediarlo dialetticamente ma semplicemente consegnandolo alla testimonianza: dalle memorie di Nadežda Mandel′štam sull'inferno staliniano (Vospominanija, Memorie, 1970) alle lettere di George Jackson dal carcere razzista di San Quintino (Blood in my eye, 1972).
5. Il dopoguerra
La letteratura del secondo dopoguerra nasce, almeno in Europa, parecchi anni dopo la fine della guerra: essa infatti continua a lungo a vivere di rendita, a proseguire filoni e motivi già affermatisi negli anni quaranta o a sbandierare improvvise novità che di fatto ricalcano, con modifiche più apparenti che reali, posizioni letterarie precedenti. Realismo e neorealismo in Italia, letteratura delle rovine e poi grottesca satira del miracolo economico in Germania, letteratura vista e praticata in chiave di impegno sociale o quale artificio formale intenzionalmente irreale: le cronache, le dispute e le mode che animano il dibattito culturale, spesso con vistosi fenomeni di regressione, ricalcano - nel migliore dei casi - avventure già avvenute. Gli eventi capitali degli ultimi trent'anni di letteratura sono costituiti, più che dall'apparizione di nuove opere e correnti realmente vitali, dal ricupero e dalla riscoperta della grande letteratura tra la fin de siécle e gli anni trenta e, soprattutto, dallo spostamento del centro culturale: l'Europa si riduce a provincia epigonale e appartata dalla poesia mondiale, mentre è da altri continenti geografici e culturali - il Sudamerica, gli Stati Uniti, i paesi usciti dal colonialismo - che giungono le nuove parole poetiche o la rinnovata e originale ripresa della tradizione occidentale. Il predominante influsso di discipline quali sociologia, antropologia e soprattutto linguistica induce a considerare l'opera letteraria non tanto quale frutto d'un lavoro individuale, bensì quale concrezione impersonale delle possibilità insite nelle strutture linguistiche. L'anonimato della produzione, del pubblico e della comunicazione si dilata, sia pure in un cumulo di differenze sempre più graduate, ma sfumate sino a risultare impercettibili. La critica diventa analisi della comunicazione letteraria (v. Corti, 1976) e delle variazioni che le strutture formali sovraindividuali vengono a subire lentamente nel tempo (v. Segre, 1974).
Il soggetto individuale - il soggetto dell'enunciazione e quello dell'enunciato, quello del racconto e quello che racconta - tende sempre più a svanire, a ridursi a forma vuota o a flatus vocis linguistico: il Pierrot di Raymond Queneau (Pierrot mon ami, 1942) è l'incarnazione quasi mitica di un'esistenza impersonale, un luogo geometrico di eventi occasionali e gesti anonimi, il perfetto ‛nessuno', la personificazione del man ovvero della ciarla sociale priva di individualità e di giudizio. Nel nouveau roman di Alain Robbe-Grillet le cose si svincolano completamente da ogni senso e riluttano a ogni categoria interpretativa, si limitano a ‛esistere' aldilà d'ogni significato e a offrirsi, slegate e fortuite eppure geometricamente ordinate (perché solo l'angoscia, ossia una sovradeterminazione di senso, conferirebbe loro il volto del disordine) allo sguardo (Les gommes, 1953; Le voyeur, 1955). Anche questo sguardo è però lo sguardo di un ‛nessuno', che non interferisce quindi nella muta e impersonale presenza degli oggetti. Per Michel Butor è la fenomenologia collettiva, con la sua catena di reazioni reciproche, che fornisce il tessuto di una registrazione impersonale la quale si sofferma alternativamente sui suoi singoli dettagli, come fa pure lo spagnolo Camilo José Cela nel suo romanzo La colmena (1951); nella Modification (1957) Butor assorbe la narrazione nella verifica delle minimali trasformazioni che hanno luogo all'interno di un soggetto, il quale però è un tu, una seconda persona pronominale e cioè un altro. In Germania, Uwe Johnson rappresenta la divisione fra i due Stati tedeschi cogliendola, similmente, all'interno delle strutture linguistiche entro le quali si danno corpo le differenze, generali e anonime, fra le due Germanie (Mutmassungen über Jakob, 1959). Nathalie Sarraute fissa - ad esempio nel romanzo Le planétarium (1959) - la ‛sottoconversazione' ovvero i subacquei movimenti del linguaggio sottesi al dialogo quotidiano, ch'essi tingono di grettezza ma soprattutto livellano nell'anonimo. Le Clézio reagisce a tale impersonalità con un febbrile e illimitato verbale dell'esperienza (Le procès-verbal, 1963), ma il suo eroe, alla fine, si chiude nell'afasia.
La letteratura ripiega - specie in Francia e in Germania - sulla descrizione della descrizione (Ph. Sollers), sulla penna che descrive se stessa mentre sta scrivendo (H. Heissenbüttel), nella verifica tautologica delle proprie possibilità linguistiche, ma tale esercizio si converte - soprattutto in Francia, intorno alla rivista ‟Tel Quel" - nella pratica della scrittura quale attività fisica, pulsionale e rivoluzionaria, che rimette in moto le energie erotiche e immaginarie represse nella società. Il maggio francese del ‛68 proclamerà il potere dell'immaginazione e la scarica liberatoria delle scritte sui muri, pratica creativa emancipata da ogni ordine - anche dalla coscienza individuale - come quella erotica, in una vagheggiata e fallita rivoluzione permanente che finisce per annegare nell'iterazione programmata la vantata spontaneità centrifuga. L'insegnamento rivoluzionario di Sartre e la trasgressione di Genet (Notre-Dame des Fleurs, 1946; Journal du voleur, 1949) si presentano, rispetto a questa disgregazione del soggetto, come due simboli classici - nel modello positivo e nell'integrale assunzione della sordida colpa - di un formato individuale ancor integro.
Il massimo sforzo di realizzare quest'annichilimento del soggetto e insieme di rovesciarlo nella sua apoteosi sarà compiuta dalla letteratura beat americana - Kerouac, Burroughs, Ginsberg - col suo miscuglio forsennato e inarticolato di estasi e anarchia, mistica e rivolta. Dinanzi al potere assoluto dei mass media il grido d'orrore del poeta si confonde con ‟l'esclamatività irrazionale e santificante dell'accettazione incondizionata" (v. Amoruso, 1975, p. 28) e la fuga si azzera nella mimesi gelatinosa di quel mondo stesso da cui si vuole fuggire, così come le immense autostrade di On the road (1957) di Jack Kerouac portano i personaggi sempre in fuga a ritornare, freneticamente, sempre al punto di partenza. L'immenso e desolato paesaggio americano diviene il volto di una giungla artificiale e insieme primordiale, amorfa e onnicomprensiva, indifferenziata e brulicante, sempre stordita in un'eccitazione sessuale mai determinata e stancamente disponibile al piacere. È un moto perpetuo ed esaltato il quale si risolve in una stagnante immobilità che il poeta, ribelle e affascinato, adora con un monotono profluvio di parole agitate, violente e dolcissime. La parola si abbassa totalmente al livello dell'immediatezza, fa tutt'uno con l'umidiccia e promiscua immediatezza dei corpi sudati, delle scatole di latta, della ciarla senza senso e senza fine. Questa specie di circolo vizioso della vitalità che si nega esasperandosi, trova nella droga il suo polo aborrito e celebrato, l'agente di quella formicolante dilatazione dell'io che si sperpera a ventaglio - come scrive uno dei profeti della letteratura allucinogena, il francese Michaux - in un continuo ‟uscire multiplo" da se stessi, in un ‟uscire che non cessi" (v. Michaux, 1966; tr. it., p. 273). La realtà al neon stordisce ma anche affascina l'avanguardia: non a caso quella viennese, la ‟Wiener Gruppe", sognava una rivoluzione estetica che usasse la tecnologia della réclame (insegne luminose, paracarri illuminati) per comporre e lanciare di continuo messaggi puramente poetici. Il verso lunghissimo, che si confonde con una prosa ritmata da una monotona ridda d'immagini eccitate, è il simbolo di quest'indistinzione tra forma e amorfo, individuo e massa, consenso e rifiuto, orgia e depressione, inno e invettiva, misticismo e protesta. Un proliferante e insieme fiacco linguaggio sembra inghiottire le autonome espressioni individuali, come un juke-box inghiotte le monete e sforna le canzoni ; quest'inarticolata gommosità entro cui l'io si perde è in realtà il volto uniforme di una rigida gerarchia sociale che fagocita, col miraggio di una scomposta anarchia, il soggetto. La vita si aliena inserendosi nelle precostituite strutture linguistiche, come ha mostrato l'austriaco Peter Handke nei suoi calibratissimi e demistificanti congegni narrativi e teatrali; se l'avanguardia è anche ricerca della vita non corrotta dalla ‟gonorrea" della lingua (v. Wiener, 1967, p. XVII), essa finisce spesso per identificare invece promiscuamente vita e linguaggio, gesto e parola, realtà svisata in una ressa di vaghi simboli e segno privato delle proprie rigorose proprietà sostitutive e vagamente vitalizzato.
L'eclissi dell'individuale si manifesta soprattutto nella letteratura di consumo, che fiorisce e dilaga con tanto più vigore quanto più si dissolvono le gerarchie e i confini di valore. In luogo del romanzo giallo e poliziesco, riflesso ottocentesco di un mondo retto dall'ordine e dalla misura del dare e dell'avere etico-sociale, subentrano generi quali la fantascienza, utopia negativa che popola l'universo di angoscia e crudeltà e comunque di dimensioni irriducibili alla ragione umana, oppure i fumetti, apologia dell'ordine esistente e sua traduzione in universale e immediato consumo. Il romanzo giallo è una delle ultime forme nelle quali l'eroe individuale prende congedo dal mondo: il Poirot di Agatha Christie, il Maigret di Simenon o il Philip Marlowe di Raymond Chandler sono degli individui che sembrano avviarsi malinconicamente a uscire dalla scena, dopo aver fornito un ultimo esempio delle antiche virtù stoiche del soggetto: pacata intelligenza analitica, coraggio personale, intimità domestica, elegiaca e virile solitudine. Superman non è invece un individuo, ma uno standard. La fantascienza annuncia l'apocalittica fine della letteratura individuale (Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, 1953) e di qualsiasi particolarità personale: il flaneur, l'uomo che ama passeggiare per le vie della città, è un anomalo delinquente nel mondo della macchina e viene eliminato (R. Bradbury, The pedestrian, 1951); Damon Knight immagina che quattro esploratori si fondano in un'unica forma protoplasmatica (Four in one, 1953); Theodore Sturgeon ipotizza la concrezione di un gruppo di diverse creature in un unico essere (More than human, 1953); Frank Herbert rappresenta dei piloti che integrano i loro tessuti cerebrali in un cervello elettronico, che è poi la Divinità (Destination void, 1966).
Mitologia del XX secolo, la fantascienza esprime le angoscie collettive di un futuro arcaico, ignaro dell'umano: creature automatiche o felinoidi, accoppiamenti tra forme vitali e meccaniche incompatibili, universi concentrazionari e cosmi dell'emarginazione, malinconica era del robot (Asimov). L'universo della fantascienza è un universo irreale e immobile, come gli sportelli senza fine della fittizia Old town da cui l'eroe di Philip K. Dick non può fuggire (Time out of joint, 1959). È un mondo statico sotto la frenetica cinesi, in cui nulla può veramente accadere - se non il progressivo assorbimento dell'uomo nel robot - perché nulla ha senso. Veri poeti come il polacco Stanislaw Lem e soprattutto Kubrick, il regista di 2001: A space odissey (1968), hanno raccontato l'unica vera avventura possibile in questo mondo in cui si annuncia, come nel finale del film di Kubrick, l'apparizione dell'‛oltre-uomo' ossia di un nuovo modello antropologico: l'unica avventura è quella a senso contrario, l'umanizzazione della macchina che inizia, come il cervello elettronico di Kubrick, a provare passioni, a deviare dal programma, a commettere errori. E stato uno scrittore di fantascienza, Kurt Vonnegut, a scrivere una delle più belle parabole del senso inesistente: alla fine del suo romanzo The sirens of Titan (1959) il protagonista scopre che tutta la nostra realtà, storica e naturale (l'Himalaya e la chiesa di San Pietro, la Crocifissione e la battaglia di Canne) non è che un alfabeto, un arbitrario e convenzionale sistema di segni - privo di sostanza come ogni sistema di segni - elaborato dagli abitanti di altre galassie per trasmettersi, nello spazio, futili messaggi.
Questo malinconico trionfo dell'insensatezza - e della parola che la sanziona - coesiste con la fiducia, ribadita da più parti, nella letteratura quale espressione e costituzione dell'identità, individuale e nazionale. Gli ultimi venti o trent'anni hanno visto la Weltliteratur arricchirsi di una svariatissima serie di letterature particolari e locali, nelle quali piccoli gruppi etnici minoranze nazionali, isole culturali si sono date autonomia e identità. Dalla lirica occitanica ai romanzi delle isole Faeröer alla poesia degli indios Piaroa, la letteratura si batte per ricostruire, contro l'ombra dell'identico, il variegato atlante umano della terra. Nazioni che s'affacciano alla ribalta del loro ruolo storico e della loro unità statale hanno trovato nella narrativa la loro epica ossia il momento fondante e unificatore della loro identità, com'è accaduto per la Iugoslavia con Na Drini Cuprija (Il ponte sulla Drina, 1943) di Ivo Andrić.
La narrativa ha svolto un ruolo di primo piano specialmente nei paesi africani, accompagnando il difficile itinerario dell'intellettuale negro alla propria identità (confusa spesso dalla molteplicità delle generalità dell'individuo, scisso fra il suo nome tribale, il nome datogli dai missionari e il nome civile) e alla propria libertà. Il romanzo storico Chaka (1925) del basuto Thomas Mofolo, biografia dell'omonimo re zulù assurto a simbolo del demonismo del potere, è un esempio tragico delle contraddizioni dello scrittore negro: cristiano, Mofolo si staccò nettamente dai vincoli culturali tribali, ma non abbastanza per non venire osteggiato dai missionari e boicottato dai bianchi, sino a chiudersi nell'amarissimo silenzio deluso di chi si trova in una terra di nessuno. La narrativa africana esprime la protesta antirazziale (ad esempio il sudafricano Peter Abrahams con The path of thunder, 1948), le disgregazioni che il colonialismo e la decolonizzazione portano nel tessuto tradizionale, il complesso rapporto di attrazione-repulsione per la civiltà bianca, come quello di Bernard Binlin Dadié con Parigi (Un négre a Paris, 1959), la rievocazione di un'infanzia identificata con la natura aggredita dalla civiltà e il cammino dalla tradizione alla modernità, dal recupero del retaggio tribale (negritudine) alla coscienza rivoluzionaria (africanismo), affermato soprattutto nel convegno culturale panafricano di Algeri del 1969. La narrativa africana ha dato, nella concretissima storicità della sua situazione, intense parabole di quel dissidio fra tradizione e modernità che sgretola oggi l'identità di ognuno e che ad esempio Chinua Achebe ha raffigurato con possente stringatezza epica nella tragica storia degli Okwonko, una famiglia Ibo in cui si incarna il lacerante momento della transizione (Things Fall apart, 1958). Questi temi si sono talora tradotti - ad esempio nei romanzi di Camara Laye, della Guinea, e di Mongo Beti, del Camerun - in un geniale linguaggio narrativo, sintesi di vivido realismo e fantasia surreale ignara di causalità spaziale e temporale, esempi di una letteratura africana che trova se stessa attraverso e oltre l'esperienza europea: Le regard du roi (1954) di Camara Laye, storia di un bianco kafkianamente prigioniero dell'incomprensibile cultura negra, fonde animismo africano e spettralità esistenzialista, romanzo picaresco e allegoria sociale.
Un'altra cultura negra, quella degli Stati Uniti, è stata protagonista del più recente romanzo occidentale e del conflitto fra universalità-integrazione e ribellione irrelata. La prima vera voce della narrativa negro-africana moderna era stata quella di Richard Wright, accusa e rappresentazione dell'emarginazione negra che si era affidata, per ribellarsi all'oppressione bianca, essenzialmente alla cultura bianca, dal comunismo all'esistenzialismo a Dostoevskij. La liberazione individuale e sociale non sembrava elaborare, nonostante la forza poetica dello scrittore, una pro- pria cultura ; è Ralph Ellison, col suo romanzo The invisible man (1952), a scrivere la parabola dell'uomo e dell'intellettuale inesistente, che gli altri non vedono : un uomo che è il negro nella società americana ma anche l'intellettuale nella società tout court o più semplicemente il singolo nell'esistenza alienata, in una felice sintesi fra adesione alla propria particolarità culturale negra e universalità dei modelli culturali. In quegli anni forse soltanto Salinger ha espresso con altrettanta efficacia la crisi americana (The catcher in the rye, 1951 ; Nine stories, 1953). Dopo Ellison, James Baldwin abbandona il distacco da scrittore classico per vivere il dramma negro dall'interno del corpo stesso, in un furibondo lirismo erotico e straziato. Anche per quel che riguarda la tragedia negra, le più grandi testimonianze poetiche che la illuminano non vengono però dalla letteratura ma dal documento diretto della vita tragicamente vissuta e perduta: l'autobiografia di Eldridge Cleaver, il leader delle ‛pantere nere', o quella di Malcom X o di Bobby Seale, le lettere dal carcere di George Jackson.
Se nel secondo dopoguerra si parla tanto, e dovunque, di crisi o di morte della letteratura, c'è invece un intero continente, geografico e storico, nel quale la letteratura non solo vive un suo secolo d'oro ma assolve à una funzione mitica di fondazione della civiltà: il Sudamerica, o meglio il mondo latino-americano. Se la letteratura spagnola del Novecento è stata grande soprattutto nella poesia lirica, la letteratura latino-americana ritrova la grandezza del romanzo, anzi dell'epica, del racconto senza fine che ricostruisce di continuo la totalità del mondo. Nella grande varietà delle situazioni politico-sociali dei diversi paesi, vi sono alcune premesse comuni a tutta la prodigiosa fioritura della narrativa latino-americana: la stratificata pluralità di culture e la struttura agraria, basi da sempre dell'epica, la compresenza dell'arcaico e dell'ultramoderno, dell'elemento primitivo e di quello tardo-capitalistico; la babele di stirpi e di linguaggi, una vastissima zona dell'ignoto ancora da esplorare con la parola e con la fantasia; una situazione rivoluzionaria irrisa da cento scacchi ma non ancora narcotizzata dal cerchio magico del sistema totale che ingloba ogni rivoluzione; la coesistenza di elementarità e alessandrinismo, di tabula rasa culturale e retaggio sovraccarico di cultura. Vi è soprattutto, alla base della narrativa latino-americana, un fecondo e paradossale contrasto fra un'elementarità sociale e una cultura individuale eclettica e raffinatissima, enciclopedica e metafisica, che trapianta le più antiche linfe europee su un tronco indigeno composito e rigoglioso.
Forzando un po' i termini del problema, si potrebbe dire che la cultura tradizionale dell'Occidente si è oggi rifugiata nei grotteschi incroci latino-americani, e che questa letteratura si divide idealmente in due blocchi. Da una parte c'è un uomo solo, un grande scrittore epigonale che dice la struggente malinconia per l'assenza della vita e la vanità della carta che inutilmente la insegue: Borges. Aedo dei sobborghi bonaerensi e giocatore d'azzardo con l'astratto e con l'infinito, Borges è il poeta della letteratura che ha sostituito la vita, della pagina che ha assorbito l'esistenza, della metafora che supplisce l'avventura vitale; la sua dottissima opera letteraria è animata dalla nostalgia per la vita vera che sta oltre la pagina, per la semplicità quotidiana che si sottrae all'artificio verbale, per la fuggitiva individualità che svanisce nell' incessante mutamento del mondo. Borges compie il miracolo di creare la poesia dell'aridità, la poesia dell'assenza della poesia, ‟l'imminenza di una rivelazione che non si produce", l'incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dire il loro segreto. È la poesia di un'attesa delusa perché quel segreto non viene detto e resta nell'ombra. Consapevole che tale delusione è oggi il destino della letteratura, alla quale non è dato trasmettere valori, essere depositaria della tradizione e avere dunque un pubblico di ascoltatori cui narrare storie dense di significato, Borges finge un'ibrida contaminazione fra poesia e saggistica, si spaccia per un commentatore o chiosatore di storie altrui onde poter continuare a raccontare come se il narratore avesse oggi ancora il suo pubblico e come se non esistesse la crisi dell'epica, ch'egli può sperare di eludere soltanto camuffandola da recensione erudita, nota bibliografica, comunicazione scientifica e disquisizione teologica-nascondendo dunque, con la mistificazione, l'assenza della verità.
Dall'altra parte ci sono i grandi epici sudamericani, circondati da quella pienezza di vita rimpianta da Borges: Asturias, Carpentier, Sabato, Lezama Lima, Guimarães Rosa, Garcia Màrquez, Cortàzar, Roa Bastos, Scorza e altri e altri ancora, anelli di una tradizione in piena fioritura. La loro epopea intreccia affresco sociale e destino individuale, protesta politica e interrogativo religioso, iperbole sensuale e catalogo astratto, catasto del potere e archivio del cuore, mito e storia; in essa la letteratura torna a essere gioco non antitetico all'impegno, metafora della continuità vitale e vita stessa. È un'epica che si muove con sovrana libertà dalle coordinate temporali, unendo l'atemporalità o la dilatazione cronologica dei poemi antichi a quelle intersecazioni fra tempo del raccontare e tempo di ciò che viene raccontato che, già nel 1889, Bergson postulava quali strutture fondamentali del nuovo romanzo moderno (Essai sur les données immédiates de la conscience). Il tempo, in Cien ãnos de soledad (1967) di Gabriel Garcia Màrquez, passa e non passa, si coagula e si dilata nell'iterazione di una vita disperata ma sempre piena di senso, così come il nome dei protagonisti, i Buendía, è moltiplicabile all'infinito non nella fungibilità dell'anonimo bensì nella coralità dell'epica. Il capolavoro assoluto della letteratura latino-americana - e uno dei massimi del secolo - Grande sertão (1963) di João Guimarães Rosa, rivolge la sua originalissima invenzione linguistica all'indagine dell'inesauribile, malinconica e inebriante trama della vita, fondendo esperimento narrativo e avventura umana, discontinuità temporale genialmente mimata nel flusso romanzesco ed eternità del sentimento, ricerca faustiana e struggimento di una vita che l'uomo attraversa nella polvere e nella fuga, come i jagunços attraversano a cavallo il desolato altipiano. Grande Sertão è l'esempio di un'opera d'arte perfetta che unisce novità strutturale e classicità di sentire, universalità del senso e dispersione nella caducità dei particolari, autonomia del significante che permette di ritrovare il significato, parole immaginosamente coniate che ritrovano il colore delle veredas e l'erba piegata dal vento. È un'odissea, uno di quei grandi poemi dello spirito umano che parte per tornare a casa e fonda il mondo in questa sua peripezia.
Gli epici sudamericani sono più lontani dall'Europa, nella loro totalità, di quanto lo siano scrittori provenienti da civiltà apparentemente più remote ma afferrate nelle stesse spire della società occidentale. Junichiro Tanizaki, il grande narratore giapponese, imprime ai suoi romanzi tutta l'imperturbabile sottigliezza formale della sua tradizione, la continua giustapposizione di nuovi episodi intorno al centro del racconto e l'impassibilità calligrafica, ma il suo erotismo crudele e implacabile è il risultato di una concezione che vede l'incontro fra tradizione e modernità quale una ferita lacerante e che sente la modernità stessa quale patologica ossessione. La perversione erotica, cara ai grandi scrittori giapponesi come Tanizaki e Mishima, è l'incarnazione di una società violentemente e brutalmente modernizzata, che non può non stravolgere nell'ipersensività morbosa la sua raffinata civiltà dei sensi e del corpo. Come nella grande letteratura europea - almeno da Baudelaire, ma soprattutto dopo l'industrializzazione che ha intrecciato arcaicità e futuribile nella violenza della moderna metropoli primordiale - il romanzo giapponese è l'espressione (nei suoi modi particolarissimi) di questa malattia del moderno, nella quale è il male - il male nel senso sadiano e dostoevskijano - a esercitare il ruolo fondamentale e a essere il portatore della verità. Se Tanizaki ritrae tutto ciò sulla pagina (Shisei, Il tatuaggio, 1906; Fūten rōjin nikki, Il diario di un vecchio pazzo, 1962), Yukio Mishima, dopo aver rappresentato l'acre simbiosi di ethos cavalleresco da samurai e disumanità industriale con una eccitata ma tersa maestria narrativa (Kinkakuji, Il padiglione d'oro, 1956), ha rivolto su di sé, col suo spettacolare harakiri attuato dinanzi alle telecamere, la febbrile ossessione della volgarità moderna, affrontata con la radicalità e l'eccitazione dell'estetismo decadente. E l'estetismo, con la sua fusione di tecnica ultramoderna e sacralità feudale - entrambe distorte nella prospettiva di una società intesa quale proliferazione cancerogena - che ha afferrato con torbida chiarezza, dai decadenti francesi a quelli nipponici, le insanabili contraddizioni della modernità. Anche in Europa, in anni recenti, l'intellettuale ha cercato, sadianamente e dostoevskijanamente, nel male - nell'infrazione al divieto, nel proibito, nella trasgressione a tutte le norme morali - l'unica possibilità di libertà da una razionalizzazione dominante a tutti i livelli (Bataille, Klossowski, Daumal).
Accanto a questa linea luciferina, la letteratura europea ha cercato altre difese: nella regressione viscerale a un'istintualità prestorica, linguaggio balbettante in un grembo ancora indifferenziato nel quale si rifugia l'io distorto che non vuol crescere, per non deformarsi in un modo ancor peggiore (Günter Grass, Die Blechtrommel, 1959); nel profluvio delirante e lucidissimo di parole che si riversano sul mondo, come avviene nei notevolissimi libri dell'austriaco Thomas Bernhard (Verstörung, 1967); nella radiografia scheletrica e spietata della perversa negatività quotidiana, come nei romanzi dell'inglese Ivy Compton-Burnett, e nell'ombra inesorabile e affabile che corrode i racconti della danese, e scrittrice inglese, Karen Blixen; nella simultaneità mistico-sensuale della tetralogia di Alessandria di Lawrence Durrell, ennesima dissoluzione della vicenda nel pluriprospettivismo temporale e dell'individuo nel ciclo della generazione (Alexandria Quartet, 1957-1960). La letteratura europea più recente sembra dominata dal senso dell'irreparabile crisi della rivoluzione, fagocitata dal sistema stesso contro cui essa combatte: il Marat/Sade di Peter Weiss (1963) mostra l'irriducibile conflitto fra momento anarchico e momento politico della rivoluzione, bloccata nell'irrealtà del manicomio.
La risposta a questa crisi viene cercata, nell'opera degli svizzeri tedeschi Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt, in un'inflessibile indagine morale dell'io, entro il quale si riproducono tali paralisi, o in un radicalismo religioso e demistificatore della storia. Il fallimento della primavera praghese crea, con l'esilio e la repressione, una letteratura della delusione politica che si rifà, con Hrabal, alla tradizione tipicamente ceca della grottesca e umanissima spettralità quotidiana, già incarnata negli anni trenta dai racconti stringati e ciarlieri di Karel Čapek, mentre il dissenso sovietico (Solženicyn, Sinjavskij, la letteratura clandestina del samizdat) ripropone l'antitesi fra morale e politica, fra ethos e kratos. Dinanzi a un universale sempre più uniforme e perciò minaccioso, si è assistito inoltre a una rinascita del dialetto e della peculiarità più irriducibile. Harry Martinson, poeta svedese premio Nobel nel 1974, ha difeso il regionalismo quale essenza stessa della poesia e difesa della sua individualità contro ‟l'usura della comprensione generale" (v. Martinson, 1975, p. IV). Hugh Mac Diarmid, che ha scritto di non volere la rosa di tutto il mondo ma la piccola rosa bianca di Scozia, ha fuso indissolubilmente internazionalismo comunista e particolarismo scozzese, contro il livellatore cosmopolitismo dell'identico.
Nel dialetto, scrostato da ogni pittoresco folclore vernacolo, si cerca di salvare quei valori della calda vita - la casa, gli affetti lanci, l'amicizia, il vino nel bicchiere - che riluttano all'espressione nella media e ufficiale lingua canonizzata, la quale, se li dice, li falsifica nello stereotipo dell'autentico e della posticcia spontaneità. Il dialetto appare la voce della poesia in quanto voce minore, travolta ma non integrata dalla storia, tenue e roca parola del minimo e dell'insignificante, del marginale e del rimosso. Ma tale ruolo è possibile finché il dialetto non è entrato in alcun rapporto col linguaggio del dominio e quindi non si è inserito, nemmeno in funzione antagonistica, nel meccanismo dialettico della mediazione, che lo integra nella logica del potere o lo rinchiude in una riserva del folclore. Ed ecco allora lo scrittore che non usa il dialetto quotidiano della sua comunità, ma ne recupera o se ne inventa un altro, come Biagio Marin col suo gradese in parte medievale in parte immaginario. È la ricerca dell'espressione ‛contro' la comunicazione standardizzata; la grande poesia contemporanea è poesia sradicata e ‛altra' rispetto al contesto comunicativo che la circonda, è il tedesco scritto da Celan a Parigi, il suo silenzio opposto alla chiacchiera e alla gerarchia del discorso. Uno dei più grandi narratori viventi, Isaac Bashevis Singer - autore di vigorosi romanzi epigonali ma anche di stupendi racconti sospesi fra realtà e fantasia - dice di scrivere in una ‟lingua morta" (v. Singer, 1965) e cioè in quello jiddisch che egli vede, come lingua letteraria, votato a una lenta estinzione e che è la lingua di ciò che è stato distrutto e non esiste più se non nella traslucida irrealtà della parola, come gli shtetlach, i borghi ebraico-polacchi distrutti ed esistenti ormai solo nei suoi racconti. Lo scrittore jiddisch, ha detto Singer, è come uno spettro, che vede ma non è veduto, è lo spirito del racconto che si nasconde fra le rovine della realtà ebraica frantumata e che parla solo un purissimo linguaggio-espressione, vivendo in anticipo ciò che sta toccando o sta per toccare a ogni letteratura.
Questo spazio fantastico sospeso fra la casa di studio del padre rabbino e la strada formicolante di passioni ha permesso a Singer di essere, nei suoi racconti (Short Friday, 1964; Gimpel the fool, 1957; The Spinoza of the Market Street, 1961) il poeta della vita e della legge, di un'imperturbabile rappresentazione della totalità, ambigua perché cela il punto prospettico da cui essa parte. Singer ritrae il caos e l'ordine, la tenerezza e la perversione, la luminosa presenza del significato e l'acre putredine del nulla. Simile all'autore dell'Ecelesiaste, egli spazia dai dettagli fisiologici alle cose ultime, senza far capire se parli dal punto di vista della fede o della disillusione. Quest'apertura su tutta la realtà avvicina Singer ai grandi scrittori impersonali e anonimi del passato, che assomigliano a tutti e a nessuno perché si fanno indifferenti ventriloqui dei personaggi e delle vite più diverse, e imparziali portavoce di tutte le corde del vivere. Scrittore dantesco e poeta della tenera e demonica passionalità del corpo, Singer dimostra che senza il giudizio sulla vita l'arte non può conoscere quel grande respiro epico che va pure aldilà di quel giudizio, come avviene nel suo splendido racconto-parabola The unseen (1957).
Ogni letteratura, con la dimensione temporale della sua articolazione linguistica, ricorda certo alla vita la sua natura mortale, come le vecchie grammatiche polverose la ricordavano all'assistente intisichito di Melville, ma la letteratura ricorda anche alla vita la sua possibilità di salvare nella durata quella caducità dell'individuale : ‟La lettera- tura - diceva Lu Hsün - infine è scritta con l'inchiostro, e scritte col sangue sono solo le macchie di sangue. Queste naturalmente colpiscono più della letteratura, sono più semplici e chiare ; però facilmente si scoloriscono, facilmente si cancellano. Su questo punto, bisogna lasciare che la letteratura vanti la propria superiorità, come le bianche ossa nelle tombe dall'antichità fino a oggi guardano eterne il rosa sulle guance di una ragazza" (San hsien chi, Tre ozi, 1932; ed. la prima volta 1927; tr. it., p. 151).
[Diamo qui di seguito, fra parentesi tonde, accanto ai nomi degli autori le cui opere sono state citate nel corso dell'articolo, i nomi dei traduttori italiani delle cui traduzioni ci siamo avvalsi: E. Ady (P. Santarcangeli), J. L. Borges (M. V. Dazzi), H. Broch (A. Ciacchi), J. Conrad (P. Jahier, C. e M. Pavolini, M. L. Rissier Stonemann), J. Joyce (F. Cancogni, O. de Angelis, C. Pavese), Fr. Kafka (E. Pocar), Lu Hsün (E. Masi), Th. Mann (B. Arzeni, E. Castellani), H. Melville (C. Pavese), H. Michaux (I. Margoni), Fr. Nietzsche (S. Giannetta, F. Masini, M. Montinari), M. Proust (O. Capponi), R. M. Rilke (V. Errante), R. Walser (E. Castellani). - La bibliografia è stata curata da Anton Reininger, che l'autore ringrazia anche per la collaborazione prestata nel corso della stesura dell'articolo].
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