Nascere in Grecia tra rito e mito
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La nascita è forse l’unico evento della vita familiare esclusivamente gestito dalle donne: comuni mortali e potenti dee si affacciano sulla scena del parto per assistere madre e bambino in un momento delicatissimo, in cui il confine tra la felicità di una nuova vita e il pericolo di una morte prematura è incertissimo. Ogni istante richiede di essere affrontato in modo appropriato: è necessario sollecitare la protezione divina, specialmente quella della dea Artemide, ma anche purificare la casa e integrare il bambino al focolare domestico.
“Vorrei tre volte trovarmi in battaglia piuttosto che partorire una sola”. Con queste parole la Medea di Euripide (rappresentata nel 431 a.C.) conclude la sua lucida critica della condizione femminile ad Atene. E non ci sorprende constatare che l’esperienza del parto sia assimilata a quella della guerra: nell’antica Grecia l’alta mortalità legata a quest’evento rende la nascita uno dei momenti più temibili. Al tempo stesso tuttavia, dare alla luce un figlio è considerato il fine dell’esistenza femminile, mentre morire senza aver avuto questa sorte è considerata una sciagura che interrompe la continuità della stirpe e priva la donna della propria realizzazione.
Tali considerazioni spiegano perché la gravidanza e il parto sono avvertiti come un momento critico, nel quale più che mai la futura madre è tenuta a porsi sotto la protezione degli dèi. La divinità che più di ogni altra presiede a questo evento è Artemide, dea della caccia e degli spazi non abitati, spesso affiancata a o identificata con Ilizia, divinità che tutela la fase conclusiva del parto con l’espulsione del feto: è ad Artemide dunque che le donne si rivolgono perché conceda un parto felice e allontani una morte dolorosissima, e sempre a lei sono consacrati dopo la nascita i vestiti indossati durante il travaglio. Può forse apparire paradossale ai nostri occhi che proprio Artemide – una dea che, come Atena ed Estia, ha scelto di essere vergine (parthenos) in eterno (Callimaco, Inno ad Artemide, 18-25) – sia considerata protettrice di parti e bambini. Per comprendere meglio quest’associazione bisogna tenere conto del fatto che nella cultura greca bambini e adolescenti, cioè coloro che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, sono considerati più prossimi al mondo della natura selvatica, cui presiede appunto Artemide, che alla vita civilizzata e organizzata della città.
Il processo che consente di raggiungere l’età adulta è infatti concepito come un graduale addomesticamento dei giovani, che li renderà adatti ad assumere i ruoli di cittadino-soldato e di moglie-madre all’interno della polis. Per questo Artemide porta spesso l’epiteto di hemeresia, cioè "colei che doma, addomestica". Questo legame della dea con l’età della giovinezza e il mondo della natura selvatica, è confermato dal fatto che, se essa è protettrice di tutti gli animali, sono soprattutto i cuccioli a esserle sacri: i cacciatori non possono ucciderli se non per fargliene offerta, perché “i piccoli lattanti di tutte le fiere selvatiche le sono cari” (Eschilo, Agamennone, 142-143). Nessuna meraviglia dunque che la dea che veglia su cuccioli, bambini e adolescenti presieda anche alla nascita di una nuova vita.
Artemide inoltre controlla e rende permeabili le frontiere tra lo spazio civilizzato della polis e quello della natura selvaggia che la attornia: è infatti una divinità dei margini, che abita le eschatiai, le zone di confine tra i due mondi. Proprio in virtù di questa specifica funzione, la dea è invocata nei momenti in cui si attua un passaggio pericoloso che richiede all’uomo di confrontarsi con ciò che è ferino e selvaggio, per poi ritornare al mondo della civiltà. È questo il caso non solo della caccia, che spinge il cacciatore a inselvatichirsi come le sue prede, vivendo nei boschi come gli animali, ma anche della guerra, in cui il soldato si deve confrontare con una violenza sconosciuta all’interno delle mura cittadine: prima della battaglia è uso infatti sacrificare ad Artemide una capra in prima fila, davanti al nemico.
Ed è proprio lei a essere invocata nei momenti di massimo pericolo bellico, non per combattere al fianco degli uomini, ma per salvarli quasi miracolosamente, in quanto Hegemone ("guida") e Soteira ("salvatrice"). E proprio questa presenza di Artemide sul campo di battaglia ci riporta alle parole di Medea, che paragonano guerra e parto: anche nel momento di dare alla luce una nuova vita, infatti, la donna è chiamata ad affrontare una prova in cui la sua vita è messa in pericolo e in cui, a causa del dolore, la femminilità sembra sconfinare in una dimensione ferina. Infine, Artemide intrattiene un legame speciale con le levatrici. Si racconta infatti che la sorella gemella di Apollo sia nata senza arrecare alcun dolore alla madre Letò e che, venuta alla luce per prima, l’abbia aiutata a partorire il fratello. La piccola Artemide sarebbe stata insomma la prima ostetrica (maia)! Già le fonti antiche (Platone, Teeteto, 149 b-c) fanno notare che le donne che svolgono la funzione di levatrici presentano una certa similarità con questa figura divina: proprio come la dea, che è eternamente vergine, anche la maia si colloca per così dire al di fuori del mondo della generazione, poiché è tradizione che essa sia una donna in menopausa.
Callimaco
Artemide si rivolge al padre Zeus al quale chiede la verginità eterna e il dominio sui monti e la caccia
Inno ad Artemide, vv. 18-25
E dammi tutti i monti. Delle città assegnami
quella che vuoi. Di rado Artemide scende in città.
Sui monti avrò dimora, e visiterò le città degli uomini
solo quando, da acute doglie tormentate,
mi invocheranno in aiuto le donne; a loro soccorso,
quando nacqui, mi assegnarono le Moire,
poiché nel parto mia madre – e ancora portandomi in grembo –
non patì doglie, ma senza sforzo mi depose dalle sue membra.
Callimaco, Inni, Epigrammi, Ecale, a cura di. G. B. D’Alessio, Milano, BUR, 1996
Platone
Le levatrici
Teeteto, 149 b-c
"Pensa a tutto ciò che riguarda le levatrici, e comprenderai facilmente ciò che voglio dire. Sai infatti che nessuna donna che ancora abbia l’età per concepire e procreare, fa la levatrice per le altre, ma lo fanno quelle che sono incapaci di generare."
"Certo, lo so."
"All’origine di questa norma dicono che vi sia Artemide, perché pur non avendo mai partorito, ha avuto in sorte di presiedere al parto. Non ha concesso alle donne sterili di fare la levatrice, perché la natura umana è troppo debole per apprendere un’arte che riguarda cose delle quali non abbia fatto esperienza; ma a quelle che sono incapaci di generare a causa dell’età, la dea ha dato questo incarico, onorandole per la somiglianza che hanno con lei."
Platone, Teeteto, trad. redaz.
È opportuno soffermarsi un attimo sulla figura della levatrice, perché essa occupa un ruolo sociale di primaria importanza nell’universo femminile: considerata nel mondo greco con estremo rispetto, essa appare depositaria di conoscenze indispensabili e al tempo stesso misteriose, che riguardano il corpo della donna e in particolare la sua potenza generatrice. Di solito fonda la sua autorevolezza sull’esperienza, anche se soprattutto in età imperiale può essere una "professionista" che ha ricevuto una formazione specifica. Essa presenta tuttavia significative differenze con l’attuale figura dell’ostetrica, perché le sue competenze vanno ben al di là del giorno del parto: la sua presenza è infatti richiesta anche prima della nascita, nel momento in cui si combinano i matrimoni, perché si pensa che sia in grado di riconoscere le coppie potenzialmente più fertili, e dopo il parto, per tutto ciò che riguarda il nuovo nato. Ai nostri occhi tuttavia il sapere della levatrice, come in generale quello della medicina antica, si mescola continuamente a quelle che oggi definiremmo pratiche magiche.
Le prescrizioni da osservare durante il parto, delle quali la levatrice è considerata l’esperta, costituiscono un esempio particolarmente interessante di tale mescolanza: durante il travaglio ad esempio, si ritiene che debbano essere sciolti tutti i nodi (ad esempio quelli di capelli, vesti e sandali), per evitare che la loro presenza influenzi il feto, tenendolo "legato" all’interno dell’utero e impedendogli così di uscire dal ventre materno. Questo tipo di credenza ci fornisce un perfetto esempio di pensiero fondato sul principio della cosiddetta magia "simpatica", secondo il quale "il simile agisce sul simile". Si crede infatti che la presenza di nodi nella stanza del parto costituisca un’influenza negativa che impedisce lo scioglimento dei "nodi" del ventre della gestante, in particolare quello rappresentato dal cordone ombelicale, "il quale, al momento della nascita può bruscamente trasformarsi da legame di salvezza per il bambino in nodo pericolosissimo per l’esito del parto".
Sorano
Le malattie delle donne
Quindi, per lasciare libero il flusso del respiro, converrebbe sciogliere la cintura delle partorienti e liberare il petto da ogni fasciatura; bisognerebbe sciogliere anche i capelli, non per dar retta al pregiudizio comune secondo il quale il parto delle donne non vuole subire alcun nodo, ma per la stessa ragione detta sopra forse anche lo scioglimento dei capelli produce la giusta elasticità della testa.
Laura Cherubini, Strix. La strega nella cultura romana, Torino, UTET, 2010
Il medesimo tipo di associazione analogica è all’origine dell’uso di alcuni minerali come amuleti destinati a proteggere madre e nascituro: la galattite, di color bianco, per esempio, è utile a ridare il latte alla puerpera, mentre l’aetite, che contiene al suo interno un’altra pietra come se fosse incinta, è utile alla salute delle donne gravide.
Il lincurio invece, poiché si crede derivato dall’urina di lince, un animale notoriamente dotato di una vista eccezionale, è ritenuto utile per guardarsi, appunto, dai demoni che minacciano bambini e puerpere: si tratta insomma di una pietra che "vede" le minacce invisibili all’occhio umano.
Con questi mezzi ci si propone di allontanare non solo le difficoltà e le malattie legate al parto, ma anche i demoni femminili intenzionati a nuocere al bambino: si tratta di mostri infanticidi, spesso concepiti come fantasmi, e protagonisti di storie di maternità fallita, che incarnano la paura di una morte prematura del neonato.
Il più famoso è senz’altro Lamía, una bellissima regina che, avendo perso tutti i figli a causa della gelosia di Era, si trasforma in un mostro che rapisce e divora i bambini; mentre a Gellò, morta prima di sposarsi, gli abitanti dell’isola di Lesbo attribuiscono le morti improvvise dei neonati; Mormò infine, sembra identificarsi con una donna corinzia che avrebbe divorato i propri figli. Nel mondo greco dunque, la figura femminile si conferma protagonista dell’evento della nascita non solo nel suo aspetto positivo, di datrice di vita, e impersonato dalla madre e dalla levatrice, ma anche in quello negativo, quello di creatura vampiresca che toglie la vita.
L’universo che abbiamo fin qui descritto è un mondo esclusivamente femminile: gli uomini non sono presenti sulla scena del parto. La futura madre infatti, oltre che dalla maia, è assistita da un gruppo di donne prossime per legami di parentela o di vicinato o di amicizia, mentre l’intervento di un medico (iatros) sembra essere relativamente raro. Non esistono d’altra parte nella Grecia classica opere mediche sul parto, considerato evidentemente un monopolio delle levatrici, mentre sembra che il medico Ippocrate usi spesso nei suoi trattati relativi alle malattie femminili terapie e informazioni ottenute proprio da queste "esperte" della nascita. Gli uomini della famiglia sembrano poi categoricamente messi da parte: il corpo femminile in questo momento è infatti considerato qualcosa di indecente e contaminante, che deve rimanere nascosto.
D’altra parte, questa non è una particolarità del mondo greco: gli uomini sono assenti dalla stanza del parto in moltissime culture.
Il momento della generazione, fisiologicamente precluso all’uomo, resta uno dei rari eventi che sfuggono al suo controllo. Forse proprio per questo è interessante notare come nello spazio del mito il momento della nascita conosca nella mitologia greca un non trascurabile protagonismo maschile.
Il padre degli dèi, Zeus, avrebbe partorito ben due dei suoi figli: Atena, nata dal suo capo, dopo che il dio aveva inghiottito la dea Metis incinta, e Dioniso, nato dalla sua coscia, dopo che la sua sfortunata madre, Semele, era morta folgorata dallo splendore divino del suo amante. Anche Afrodite sarebbe stata generata senza intervento femminile, dalla schiuma prodotta dai genitali tagliati di Urano in balia delle onde. E, a ben guardare, persino la prima donna, Pandora, è un prodotto dell’arte del dio Efesto. Sembra dunque che i Greci abbiano proposto nel mondo degli dèi un ideale di generazione maschile in grado di compensare la loro esclusione da questo mondo prettamente femminile.
“Non c’è essere più imperfetto, misero, nudo, informe, impuro (miaron) dell’uomo visto al momento della nascita. Solo a lui, praticamente, la natura ha assegnato una via non certo pura (katharen) verso la luce, ma al contrario è coperto di sangue, di sporcizia, più simile a qualcuno che viene ucciso piuttosto che generato, e per nessuna ragione sarebbe conveniente toccarlo, prenderlo in braccio, baciarlo e abbracciarlo se non per colui che gli è legato da amore naturale”. L’opinione di Plutarco nel trattato Sull’amore per i figli (469c; trad. it. in Maurizio Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, 1998, p. 76) ci offre l’occasione di confrontarci con una visione della nascita assai diversa da quella contemporanea: pur non tacendo i gesti d’affetto che il bambino ispira ai genitori, il parto è infatti considerato soprattutto come un momento sconveniente, che a causa del sangue e dei liquidi emanati dal corpo femminile è una fonte di impurità paragonabile alla morte.
L’inizio e il termine della vita sono infatti per gli antichi Greci due eventi assai prossimi, attraverso i quali la contaminazione irrompe nella vita familiare. Pertanto, anche dopo la nascita, come dopo un funerale, è necessario purificare coloro che hanno partecipato all’evento: per questo motivo, in primo luogo la puerpera e il neonato sono sottoposti a un bagno che elimini sangue e sporco. L’importanza di questo primo contatto con l’acqua è ben visibile anche nei miti: si racconta che la dea Rea abbia fatto scaturire la fonte Neda per lavare il piccolo Zeus, e che la sorgente Kissúsa in Beozia abbia preso il suo colore rosso vino perché vi era stato immerso Dioniso, dio del vino, mentre si mostrano in diversi luoghi le acque che avrebbero accolto i gemelli Apollo e Artemide.
Non è un caso che ad assistere le nascite divine siano per lo più le ninfe, esseri particolarmente legati alle acque dolci e alle sorgenti.
Ma la purificazione non si limita alla puerpera e al neonato: in seguito, probabilmente nel quinto giorno dalla nascita, durante il rito degli Amphidromia vengono purificate le mani delle donne che hanno assistito al parto, per eliminare la contaminazione dovuta al contatto con il corpo della partoriente.
Gli Amphidromia svolgono anche un’altra importante funzione, quella di dare inizio al percorso di inserimento del nuovo nato in seno alla famiglia e alla società: nel corso di questo rito il bambino viene trasportato di corsa intorno al focolare domestico, un luogo che per gli antichi Greci è sacro perché rappresenta il centro della casa, protetto dalla potente dea Estia. In questo modo si intende creare un forte legame di appartenenza tra il nuovo nato e lo spazio familiare del quale entrerà a fare parte. Solo dopo questo momento, è possibile imporgli un nome, un evento che viene celebrato con un grande banchetto cui partecipano parenti e amici.
Tuttavia, non per tutti i bambini la sorte è così benevola: il frutto di una nascita indesiderata è infatti abbandonato al di fuori dello spazio domestico. Tale pratica, che riceve il nome di "esposizione" (ekthesis), è diffusa in tutto il mondo antico, e non comporta alcuna sanzione morale, per quanto ai nostri occhi sia assimilabile a un vero e proprio infanticidio. Il bambino viene rifiutato nel caso di deformità fisiche evidenti, ma anche per difficoltà economiche, o perché nato al di fuori di un matrimonio, e in ogni caso come soluzione alla mancanza di ogni pratica contraccettiva efficace. Mentre gli Amphidromia mettono il bambino al centro dello spazio familiare, le pratiche di esposizione hanno il proposito di espellerlo da quel medesimo spazio: il neonato è infatti portato lontano dalla casa, spesso in luogo isolato, a volte (soprattutto nei racconti mitici) con segni di riconoscimento che svelano il desiderio di ritrovarlo successivamente, ma nella consapevolezza che, se nessuno lo raccoglie, esso è destinato a morte certa.
L’esposizione rappresenta una sorte molto frequente per gli eroi del mito, e in questi casi il luogo dell’abbandono è spesso rappresentato dallo spazio non civilizzato per eccellenza, quello selvaggio della montagna: il piccolo Edipo, per esempio, è portato sul monte Citerone, nei pressi della città di Tebe, per ordine del padre Laio, al quale l’oracolo di Delfi aveva predetto che sarebbe morto per mano del figlio. In questo caso, all’abbandono si aggiunge la mutilazione: i piedi del piccolo vengono infatti forati, con l’intento di renderlo storpio. Anche l’eroina Atalanta è abbandonata sul monte Partenio, in Arcadia, per ordine del padre, scontento della nascita di una femmina. Tuttavia, la bimba sopravvive grazie a un’orsa, animale sacro alla dea Artemide, che la allatta e la cresce. Ugualmente allevato da un’orsa è Paride, abbandonato sul monte Ida, dopo che la madre Ecuba aveva sognato di partorire una fiaccola che avrebbe distrutto Troia. Infine, una capra – Amaltea – avrebbe accudito anche Zeus, nascosto dalla madre Rea nell’isola di Creta, sul monte Ida, perché il padre Crono non lo divorasse come gli altri figli. Nel mito dunque l’abbandono rappresenta la prima prova da superare per il piccolo eroe: riuscire a sopravvivere a un ambiente ostile, spesso grazie all’aiuto di un animale, ne segna il destino eccezionale. La nascita, dunque, si configura come un momento determinante per stabilire l’identità del bambino da adulto, e nel mito essa rappresenta in particolare il preannuncio di un futuro straordinario.