Nascita e funzionamento delle fondazioni di territorio
Risale al tardo Medioevo la creazione di istituti bancari per il popolo, che svolgevano una funzione creditizia con una speciale attenzione a tenere bassi i costi e a riversare gli avanzi a beneficio del territorio. Essi potevano fare questo perché il capitale iniziale veniva donato dalla società civile o in qualche caso conferito dalle autorità locali e poi si autoaccumulava con la destinazione a riserva di gran parte degli utili. Si trattò in primo luogo dei monti di pietà, il cui primo esempio sorse a Perugia nel 1462, e successivamente delle casse di risparmio, la prima delle quali fu creata in Germania nel 1765. Quando dopo l’unificazione dell’Italia l’attività bancaria seguì nuove norme, a lungo si restò in dubbio se considerare questi istituti come ‘opere pie’ o come istituti bancari veri e propri. Con la l. 15 luglio 1888 nr. 5546 venne riconosciuto alle casse di risparmio lo status giuridico di istituti di credito, permettendo anche ai monti di pietà una conversione nella medesima direzione qualora avessero assunto la forma di ‘banche del monte’, attraverso l’affiancamento al tradizionale prestito su pegno anche dell’attività tipica delle casse di risparmio. Tali istituti, tuttavia, potevano continuare a distribuire gli utili che avanzavano rispetto alle riserve a beneficio di attività filantropiche. Alcuni di questi istituti assunsero grandi proporzioni, come la Cassa di risparmio delle provincie lombarde (CARIPLO) di Milano o il San Paolo di Torino, ma la diffusione in Italia di esemplari di piccole dimensioni fu capillare fino all’Italia centrale, già prima dell’unificazione, come si può vedere nella tabella 1.
La loro incidenza sull’attivo bancario si attestò precedentemente alla Prima guerra mondiale a 1/4, mentre scese a 1/6 in epoca fascista, per risalire a 1/4 negli anni Sessanta (Arria 1983). Fu con la legge bancaria del 1936 (r.d.l. 12 marzo 1936 nr. 375) che Banco di Napoli, Banco di Sicilia, BNL, San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e Banco di Sardegna furono confermati o trasformati in enti di diritto pubblico, mentre continuava a restare incerto lo stato giuridico delle casse di risparmio che finirono per essere considerate enti pubblici economici, in contraddizione rispetto alla loro origine promossa in larga misura dalla società civile. A partire dal 1938, comunque, a causa della natura pubblica delle erogazioni filantropiche delle casse, i vertici delle stesse vennero nominati dal governo all’interno di una rosa proposta localmente. Questo assetto rimase invariato fino alla nuova legge bancaria del 1990 (l. 30 luglio 1990 nr. 218), nota come ‘legge Amato’.
La nascita di questa legge ‘rivoluzionaria’ deriva dai contenuti di un libro bianco della Banca d’Italia del 1988, in cui si prefigurava la soluzione che venne in effetti adottata. Va detto che il libro bianco della Banca d’Italia era stato formulato prima che si parlasse di privatizzazioni e aveva tre obiettivi: l’adozione della veste giuridica di Società per azioni (S.p.A.) da parte delle casse di risparmio e banche del monte, indipendentemente da chi ne fosse il proprietario; la facilitazione di processi di concentrazione bancaria; una nuova regolamentazione dei gruppi creditizi, cui veniva permesso di esercitare credito sia a lungo termine sia a breve, prevalentemente attraverso la fusione di banche commerciali con istituti di credito speciale (Merusi 2000; Clarich 2001).
La legge prevedeva la trasformazione diretta dell’ente creditizio in S.p.A. quando (ed erano ben pochi casi) erano riconoscibili i proprietari. In tutti gli altri casi, l’azienda bancaria veniva conferita a una nuova S.p.A. esercente il credito, il cui capitale era attribuito al soggetto scorporante, che acquisiva la denominazione di ente conferente (Corsico, Messa 2011). Quest’ultimo aveva il compito di amministrare la partecipazione azionaria nella banca, denominata conferitaria, destinando i proventi derivati dall’attività bancaria alla realizzazione dei tradizionali scopi filantropici. In sostanza, l’operazione serviva a separare le due anime delle casse/banche del monte: quella filantropica restava in capo alle fondazioni, mentre quella commerciale veniva assorbita dalla S.p.A. Non si trattava, tuttavia, di far dismettere da parte dell’ente conferente la partecipazione nella conferitaria, ma semplicemente di distinguere le due operatività, e neppure si parlava di processo di privatizzazione.
Profilandosi però ben presto la necessità di avviare privatizzazioni all’interno dell’economia italiana, che includessero anche le banche ‘pubbliche’, con la successiva ‘direttiva Dini’ del 18 novembre 1994 si accelerò la dismissione incentivata da parte degli enti conferenti, ormai avviati a diventare vere e proprie fondazioni, della loro partecipazione azionaria nella banca conferitaria, per attuare una diversificazione degli investimenti da parte delle fondazioni e lasciare al contempo libere le nuove banche S.p.A. di trovare un proprio assetto ottimale all’interno delle aggregazioni bancarie private che si andavano formando. Anzi, la previsione era che in cinque anni tutti gli enti conferenti dovessero perdere la loro partecipazione di controllo nella banca conferitaria. È solo con questo passaggio che si avviò un vero processo di privatizzazione delle casse/banche del monte (Le fondazioni bancarie italiane verso l’attività di grant-making, 1996). Ciò che a lungo restò non chiarito era la natura delle fondazioni che si erano venute a creare. Molti giuristi si pronunciavano infatti a favore della natura pubblica delle nuove fondazioni, sia per le funzioni di utilità pubbliche che erano state loro attribuite dalla ‘legge Amato’, sia per i controlli pubblici a cui erano sottoposte. Dopo la dismissione delle loro partecipazioni azionarie, si arrivò a dubitare persino dell’opportunità di mantenerle in vita.
Fu Carlo Azeglio Ciampi che nel 1998 fece approvare una nuova legge (l. 23 dic. 1998 nr. 461), che ebbe un iter molto travagliato, con la quale si riconosceva alle fondazioni natura privatistica, con piena autonomia gestionale e statutaria, distinguendole chiaramente dalle loro controllate bancarie. La loro uscita dalla proprietà delle banche conferitarie veniva però ulteriormente sollecitata, mentre gli scopi sociali delle fondazioni vennero ridefiniti: non solo utilità sociale, ma anche promozione economica del territorio, oltre che del volontariato. I settori di intervento identificato furono sei: ricerca scientifica, arte, assistenza, beni culturali e ambientali, istruzione e sanità. La legge imponeva anche che il patrimonio delle fondazioni dovesse essere impiegato in modo da ottenere «un’adeguata redditività», mentre almeno il 50% del reddito doveva essere destinato al finanziamento degli interventi nei settori dichiarati statutariamente rilevanti.
Quanto alla governance, oltre a un organo di amministrazione e di controllo, ne fu aggiunto uno di indirizzo. Una rettifica del 1999 (d. legisl. 17 maggio 1999 nr. 153) rendeva obbligatoria la dismissione della banca conferitaria, ma non fu questo l’ultimo intervento in materia (Le casse di risparmio tra localismo e dispecializzazione, 1998). Infatti, prima ci fu un rinvio per le fondazioni ‘piccole’ (meno di 200 milioni di euro al 2001), quindi nel 2003 l’ammissione di legittimità del controllo della banca da parte di tali fondazioni. Con Giulio Tremonti, nel 2002 vi fu un ultimo tentativo di riportare le fondazioni a un ruolo eminentemente pubblicistico (Capriglione 2002), ma la sentenza nr. 300 del 2003 della Corte costituzionale sgombrò definitivamente il campo da queste pretese, collocandole «tra i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali». Ancora, con la sentenza nr. 301 del medesimo anno, si chiarì che la componente ‘pubblica’ non poteva avere la maggioranza nell’organo di indirizzo delle fondazioni, specie in quelle di origine associativa. Inoltre, veniva permesso il controllo proprietario congiunto da parte di più fondazioni all’interno di un singolo istituto bancario.
Questa soluzione riportò le fondazioni alle caratteristiche originarie delle casse/banche del monte, che erano istituti promossi da soggetti diversi, ma che condividevano due dimensioni comuni: non erano di carattere mutualistico, perché i soggetti promotori erano ‘terzi’ rispetto ai soggetti che usufruivano dei servizi, e funzionavano sulla base del loro statuto. Le leggi nazionali, come si notava sopra, oscillarono poi tra il collocarli fra le opere pie e il riconoscerne la valenza commerciale, ma fu solo negli anni Venti e Trenta che progressivamente la loro natura era scivolata verso il pubblico, senza che mai (nemmeno nella legge bancaria del 1936) ciò fosse esplicitamente dichiarato (Losana, in Fondazioni bancarie, 2011). La sentenza del 2003 non fu un esito scontato (Marcenò, in Fondazioni bancarie, 2011). Come ha spiegato lucidamente Gustavo Zagrebelsky, all’epoca presidente della Corte costituzionale, che emanò quelle sentenze: «Si è attinto dalla giurisprudenza costituzionale anteriore, nell’utilizzare questa espressione [le fondazioni come “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”]. Se ne sono lasciate da parte altre, pur correnti, come “terzo settore”, “privato sociale”, “società civile”, “non profit”, “pubblico libero”, “economia civile”: espressioni non coincidenti e, soprattutto, pregiudicate da teorie e ideologie. “Libertà sociale”, oltre che appartenere al patrimonio lessicale della Corte, lascia maggiore possibilità di concettualizzazione. La Corte si è limitata a porre una linea di distinzione rispetto alle “funzioni pubbliche” e alla “pubblica amministrazione”, intesa in senso lato, e a sottolineare contemporaneamente il carattere di “utilità sociale” delle funzioni delle fondazioni. Si tratta, dunque di una dimensione della vita collettiva, che non si lascia ridurre alla “grande dicotomia”, di cui parlava Norberto Bobbio, tra il settore pubblico, il luogo della gestione autoritativa di interessi collettivi, e il settore privato, il luogo del libero perseguimento di fini d’interesse individuale. Si parla perciò di “terzo settore” […]. In breve, si è di fronte a soggetti giuridici a) privati, b) dotati di un proprio patrimonio, gestito in modo non speculativo, c) operanti per la cura di interessi non politici ma, ugualmente, generali o collettivi, propri delle comunità di riferimento, al di fuori di qualsiasi intento o scopo di lucro e d) facenti parte di una trama di relazioni nella quale si esprime l’autonomia auto-organizzatrice della società. Né Stato, né mercato ma socialità» (Zagrebelsky, in Fondazioni bancarie, 2011, p. 237).
L’ultimo nodo controverso, quello della vigilanza su queste fondazioni, venne sciolto con il d.l. 31 maggio 2010 nr. 78, che l’attribuì non senza contrasti al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Questo iter istituzionale molto originale ha reso attive in Italia 88 fondazioni di origine bancaria (talora chiamate ex-bancarie), che hanno dato avvio a sperimentazioni locali di promozione del benessere comune attraverso soggetti diversi dagli enti pubblici, secondo il principio di sussidiarietà. Si tratta delle uniche fondazioni italiane grant-making di tipo ‘generalista’, con un consistente patrimonio proprio, che distribuiscono fondi a favore di soggetti non-profit e di istituzioni pubbliche. Non tutti i commentatori sono stati concordi nel riconoscere alla tortuosa evoluzione politico-giuridica che le ha generate caratteristiche di coerenza e di lungimiranza.
Allargando lo sguardo a livello internazionale, si può dire che vi è stata almeno un’alternativa: quando in Francia si propose il medesimo problema di riforma delle casse di risparmio, il governo francese preferì farle transitare sul modello della cooperativa di credito, una forma bancaria molto utilizzata in quel Paese per privatizzare banche pubbliche, come il Crédit Agricole. Il tempo dirà se la soluzione italiana è stata migliore di quella francese o viceversa. Quel che è certo è che il caso spagnolo, invece, in cui alle casse di risparmio non si provvide per tempo a dare una nuova configurazione nell’epoca della globalizzazione, è stato foriero di fallimenti generalizzati e di una forte incertezza sul ruolo di tali banche.
Va infine menzionato che nel 2012 le fondazioni di origine bancaria hanno volontariamente deciso di darsi un ‘codice etico’ per contrastare un uso men che trasparente delle risorse e rispondere alle molte critiche di collateralismo politico, che da varie parti erano state loro mosse. Si tratta della Carta delle Fondazioni, approvata il 4 aprile 2012 dall’assemblea dell’Associazione di fondazioni e di casse di risparmio S.p.A. (ACRI). Fra gli aspetti più qualificanti di questa Carta, vi sono il criterio di sussidiarietà orizzontale richiamato nella prima pagina, gli 11 principi di governance della prima sezione (autonomia, responsabilità, rappresentatività, autorevolezza e competenza degli organi, indipendenza degli organi, trasparenza, incompatibilità e ineleggibilità, autorevolezza e competenza delle nomine in società controllate e partecipate, stabilità e continuità, economicità, cooperazione con altre fondazioni) e i principi per la valutazione delle iniziative da promuovere (trasparenza, imparzialità e non discriminazione, comparazione, accesso all’informazione, economicità, adattabilità).
Ciò che immediatamente colpisce chi analizzi la configurazione delle 88 fondazioni di origine bancaria esistenti oggi sul territorio nazionale è la loro distribuzione geografica fortemente squilibrata e la loro polarizzazione dimensionale: ci sono fondazioni di imponenti dimensioni a fronte di realtà minuscole. I due casi ai poli estremi sono dati dalla Fondazione CARIPLO, con quasi 6,5 miliardi di euro di patrimonio (il 15% del totale) e dalla Fondazione Monte di pietà di Vicenza, con meno di 2 milioni di patrimonio. Il peso della diversa storia e della diversa cultura delle varie aree italiane è in questa configurazione assolutamente preponderante. Si può sostanziare questa affermazione con l’aiuto delle tabelle 2 e 3. Nella tabella 2 sono elencate nominativamente le fondazioni per dimensione del loro patrimonio, divise in 5 gruppi. Il primo gruppo, quello delle fondazioni grandi, ne comprende 18 (ossia il 20% del totale), che contano un patrimonio pari a poco meno di 3/4 del totale, rivelando una fortissima concentrazione dimensionale.
Passando alla tabella 3, dove le fondazioni sono elencate per area geografica, si notano chiaramente due altre caratteristiche. In primo luogo, emerge che la maggior parte delle fondazioni sono localizzate al Nord, dove si concentra il 3/4 del patrimonio totale. Il Centro ha una presenza significativa di fondazioni, anche se in generale di minori dimensioni, mentre il Sud ne totalizza solo 11, con il 5% del patrimonio totale. In secondo luogo, pochi sono i casi regionali di fondazioni molto concentrate (la Lombardia soprattutto, con due sole grandi fondazioni, e in parte anche il Veneto), mentre è più comune la diffusione di fondazioni medio-piccole sul territorio (soprattutto in Emilia-Romagna, che conta il maggior numero in assoluto di fondazioni, ben 19, ma anche in Friuli, Toscana, Marche, Umbria).
Il Piemonte è un caso a sé, perché ha tre grandi fondazioni, ma presenta anche una forte diffusione sul territorio di enti di dimensione medio-piccola.
Poiché le fondazioni non sono sorte per un volere pianificatorio dello Stato e nemmeno per la volontà di imprenditori privati, ma sono state generate dall’accumulazione di risparmio realizzato nel corso dei secoli dalle varie aree italiane, è del tutto spiegabile come mai ci si ritrovi in questa situazione. La grande vivacità bancaria del Centro-Nord italiano a partire dal Medioevo è testimoniata dalla diffusione di monti di pietà e casse di risparmio anche in piccoli Paesi, che talora avevano tutti e due questi istituti a dispetto delle loro limitate dimensioni. Il decollo economico di numerose città del Nord ha poi rafforzato la capacità di risparmio delle classi medie, ingrandendo le dimensioni dei locali istituti di credito, comprese casse e banche del monte. La diffusione della piccola-media impresa ha fatto sì che il decentramento bancario fosse funzionale e permettesse la longevità e l’autonomia di molti istituti, che ancora oggi sono orgogliosi di mantenere le loro radici locali.
Il Sud è rimasto completamente tagliato fuori da tutto questo. Innanzitutto, la banca è sempre stata marginale, in parte per condizioni economiche non fiorenti, ma soprattutto perché non vi è stata quella libertà associativa, quella coltivazione delle autonomie comunali e quella cultura del bene comune invece diffuse al Centro-Nord. Se è vero, come si tende a ritenere, che al momento dell’unificazione del Paese le condizioni materiali del Sud (PIL pro capite) non erano così diverse da quelle del Centro-Nord, si può allora misurare la differenza culturale e istituzionale del Sud rispetto al resto del Paese. Mentre nel periodo dell’unificazione al Sud esistevano solo i tre banchi pubblici (Napoli, Sicilia, Sardegna), oltre a una serie di ‘monti’ che funzionavano però in natura (monti frumentari), nel resto del Paese c’era un pullulare di piccoli istituti di credito popolari per lo più fondati dalla società civile, attraverso una raccolta iniziale di fondi donati, oltre ad alcune banche commerciali incorporate come S.p.A. Tali istituti non solo abituarono la popolazione al risparmio, ma giocarono un ruolo insostituibile nel finanziamento delle piccole e meno piccole attività sul territorio, accumulando riserve che li rendevano sempre più solidi e radicati, pur talora nell’esiguità del loro raggio d’azione.
Si tratta di una diversità istituzionale che non si riuscì a colmare dopo l’unificazione, a eccezione degli Abruzzi, dove esistono ben 4 delle 11 fondazioni meridionali. Nacque anche altrove al Sud qualche cassa di risparmio, ma la loro solidità fu sempre incerta; persino i tre banchi pubblici meridionali ebbero vicissitudini tanto travagliate da portarli alla fine del 20° sec. all’acquisizione da parte di banche settentrionali. La limitatezza della loro capacità accumulativa sull’arco del tempo è rivelata dal piccolo patrimonio che le loro fondazioni si sono ritrovate a gestire all’interno del processo di trasformazione delineato sopra (si veda ancora tab. 2).
Si passi ora ad analizzare il processo di dismissione delle azioni delle conferitarie da parte degli enti conferenti. Nel suo complesso, esso viene delineato nella tabella 4, dove si nota chiaramente che il processo di dismissione delle partecipazioni di controllo si blocca nel 2003, mentre quello della totale uscita dalla banca conferitaria si blocca nel 2006. Ma questo quadro aggregato nasconde una realtà molto diversificata e intrecciata. Si dia innanzitutto uno sguardo alle 14 fondazioni che ancora detengono partecipazioni di controllo nella loro conferitaria. Si tratta delle fondazioni di: Bolzano, Rimini, Ravenna, Cesena, Cento, Ferrara, Volterra, Fermo, Chieti, Asti, Saluzzo, Fossano, Savigliano, Bra. Si nota subito che il grosso di queste fondazioni non è ricorso all’intervento pubblico in Piemonte e in Romagna, dove è forte il localismo. Inoltre, se si guarda alle partecipazioni inferiori al 50% si vede che 20 fondazioni hanno ancora una presenza significativa nelle loro conferitarie, collocandosi tra il 20 e il 50%.
Ma la presenza congiunta delle fondazioni nel capitale di istituti bancari che si sono fusi è molto significativa. In generale, le fondazioni hanno confermato la loro natura di investitori non di breve periodo, condividendo gli indirizzi strategici delle banche partecipate. Hanno così sostenuto le scelte del management volte ad accrescere il grado di patrimonializzazione delle banche, con la rinuncia ai dividendi e con la sottoscrizione degli aumenti di capitale e di prestiti obbligazionari. Dall’avvio della crisi finanziaria internazionale nel 2008 al 2011 le fondazioni hanno messo a disposizione delle principali banche nazionali 7121,2 milioni di euro (6 miliardi per gli aumenti di capitale e 1,1 miliardi in obbligazioni convertibili), consentendo loro di conseguire i maggiori coefficienti patrimoniali richiesti dalla European banking authority (EBA). In tal senso le fondazioni hanno contribuito al sostegno del sistema creditizio nazionale che, a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi, non è ricorso al sostegno pubblico se non marginalmente e non ha gravato sulla collettività. Il ruolo svolto dalle fondazioni nei confronti delle banche partecipate è stato apprezzato anche dalla Banca d’Italia, che in diverse circostanze ha sottolineato la positività della presenza dell’azionista fondazione nel capitale della banca.
Nel gruppo bancario Intesa-San Paolo sono presenti CARIPLO, San Paolo di Torino, Banco di Napoli, Banca nazionale delle comunicazioni, Casse di risparmio di Ascoli Piceno, Città di Castello, Civitavecchia, Foligno, Pistoia e della Lucchesia, Rieti, Spoleto, Terni e Narni, della Provincia di Viterbo, Venezia, Firenze (che a sua volta aveva incorporato Mirandola), Banca del monte di Parma, Cassa dei risparmi di Forlì e della Romagna, Bologna (con Cardine, che aveva concentrato le Casse di Padova e Rovigo, Udine e Pordenone, Gorizia). In totale, queste fondazioni raggiungono il 25% del capitale sociale. In Unicredit Group, sono presenti le Casse di risparmio di Palermo, Torino, Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, Treviso-Cassamarca, Trieste, Trento e Rovereto, Modena, Carpi, Perugia, Roma, Reggio Emilia, e la Banca del monte di Bologna e Ravenna. Le relative fondazioni hanno una partecipazione del 10%. Le altre fondazioni sono sparse in molti altri gruppi minori, in generale a proprietà italiana, che aggregano banche di diversa natura, di solito (ma non sempre) su base regionale. L’eccezione principale è data dalle Casse di Parma e Piacenza, e della Spezia, che sono state acquisite dal Crédit Agricole.
Al di là delle partecipazioni nelle conferitarie, esiste poi la categoria dell’investimento collegato alla missione delle fondazioni (MRI, Mission-Related Investment). La legge impone alle fondazioni di investire secondo criteri di prudenza e diversificazione, per conservare il valore del patrimonio e ottenere un’adeguata redditività; esse possono avere partecipazioni in società e, se sono strumentali alla loro attività, anche il controllo delle stesse. Possono anche investire una quota non superiore al 15% del patrimonio in beni immobili destinati a reddito. Le fondazioni hanno dato corso a partnership con soggetti attivi nel campo del microcredito e della finanza etica; hanno fatto investimenti finalizzati allo sviluppo economico del territorio di riferimento (soprattutto infrastrutture). Nei bilanci del 2010, tali investimenti si attestavano al 6% del totale. Se ne veda una suddivisione per settori nella tabella 5. Qualche commento sarà utile.
Nel settore sviluppo locale è inclusa la partecipazione azionaria di 1050 milioni di euro che 65 fondazioni detengono dal 2003 nella Cassa depositi e prestiti riformata. Attraverso questa partecipazione vengono finanziate opere pubbliche di varia natura. Le fondazioni detengono, inoltre, partecipazioni dirette in società che hanno forti legami con il territorio, per es. Atlantia S.p.A., alcune autostrade e aeroporti, municipalizzate, fiere, terme. Già sono stati menzionati microfinanza e fondi etici; a essi si aggiungono teatri, enti artistici, musicali ed espositivi. Le fondazioni sostengono, inoltre, interventi edilizi per l’istruzione e per l’housing sociale, anche attraverso il sostegno a enti nazionali come il Fondo investimenti per l’abitare (FIA), promosso dalla Cassa depositi e prestiti, e sono presenti anche in società di ricerca. L’esempio più interessante è il Fondo Toscana innovazione, partecipato dalle 11 fondazioni toscane e dalla Regione. Questi MRI aiutano le fondazioni ad attivare una presenza continuativa e strategica.
Infine, è importante menzionare l’iniziativa che le fondazioni hanno preso per bilanciare, anche se assai parzialmente, la carenza di fondazioni al Sud. Si tratta della Fondazione con il Sud, creata nel 2006 come Fondazione per il Sud dall’ACRI in rappresentanza delle 88 fondazioni, dal Forum del terzo settore, dal Coordinamento nazionale dei centri per il volontariato e dalla Compagnia di San Paolo. Questa fondazione, con un patrimonio di 315 milioni di euro e un’erogazione di 27 milioni (al 2011), ha il compito di promuovere e rafforzare l’infrastrutturazione sociale delle regioni dell’Italia meridionale. Promuove iniziative di economia civile, di partecipazione attiva al welfare di comunità, sperimentando progetti e interventi innovativi. Tra il 2007 e il 2011 ha finanziato 188 progetti esemplari, 75 programmi di sostegno al volontariato e ha dato avvio alle prime tre fondazioni di comunità del Mezzogiorno (Fondazione della Comunità salernitana, di Comunità di Messina, di Comunità del centro storico di Napoli).
Le fondazioni di origine bancaria non sono state pensate come operating, in quanto si ispirano al principio di sussidiarietà e quindi si concepiscono come a supporto del territorio. Si tratta dunque di fondazioni grant-making, che tuttavia hanno sviluppato nel corso del tempo capacità strategiche assai consistenti. Da un lato, alcune di esse si sono adoperate per creare community foundations, capaci di aggregare varie realtà non-profit di territorio; dall’altro, altre fondazioni hanno accolto o addirittura promosso significativi progetti di miglioramento infrastrutturale o di progetti coordinati sui territori dove operano. Ma si proceda con ordine, offrendo in primo luogo un quadro aggregato delle erogazioni e andando poi ad approfondire linee di intervento locali di particolare significatività.
Come si può vedere nella tabella 6, le erogazioni delle fondazioni hanno pesantemente risentito della crisi internazionale del 2008-11. Esse, infatti, sono costantemente cresciute fino al 2007, per poi contrarsi leggermente già nel 2008, imboccando una precipitosa discesa in seguito, fino al livello poco sopra il miliardo del 2011, che costituisce i 2/3 dell’ammontare raggiunto nel 2007. Sempre dalla tabella, si può vedere che sia i dividendi da conferitaria sia i risultati da gestioni patrimoniali e quelli da investimenti finanziari hanno subito diversi tracolli. I livelli erogativi, benché diminuiti, non hanno risentito di un impatto proporzionale per l’utilizzo di accantonamenti. Anche se fortemente taglieggiate dalla crisi, le erogazioni si mantengono comunque su livelli davvero ragguardevoli, se si tiene conto che in Italia non c’era mai stata una tradizione significativa di fondazioni grant-making. Il 91% degli importi vengono erogati nella regione di appartenenza. Nel 2011, al Nord-Ovest è stato destinato il 38% delle erogazioni; il 33% è andato al Nord-Est, il 22% al Centro e il 7% al Sud e alle Isole. Si conferma naturalmente anche sul lato delle erogazioni l’enorme sperequazione territoriale della presenza di questi enti a danno del Sud.
Un’analisi per settori di intervento viene qui offerta solo per il 2011 nella tabella 7. Tale suddivisione varia sì di anno in anno, ma solo marginalmente, e quindi si può ritenere rappresentativo il quadro offerto nel 2011. È il settore artistico e dei beni culturali che raggiunge la quota più ragguardevole, arrivando a circa 1/3 del totale. Seguono i settori sociali (volontariato, assistenza e salute pubblica) e quelli dell’istruzione e ricerca. Tutti gli altri settori ricevono contributi molto più limitati. Va ribadito che la distribuzione settoriale comprende anche le iniziative congiunte portate avanti da più fondazioni. È di straordinario interesse passare in rassegna alcune delle iniziative principali promosse dalle fondazioni, ribadendo che si tratta solo di esempi che non possono coprire esaurientemente il territorio, soprattutto per le fondazioni di maggiori proporzioni. I rapporti dell’ACRI e i siti delle varie fondazioni offrono un interessantissimo materiale di studio, che attende ancora di essere adeguatamente sfruttato per stilare una tipologia delle attività delle fondazioni e della loro efficacia.
Non sono infatti i ‘freddi’ numeri capaci di dar conto della ricchezza delle iniziative di territorio che non solo sono finanziate, ma vengono accuratamente accompagnate dalle fondazioni, le quali si offrono spesso di svolgere un ruolo di ‘regìa’ per mettere insieme società civile, enti locali ed enti nazionali allo scopo di arrivare a quella ‘massa critica’ necessaria per realizzare iniziative significative. Proprio per comprendere questo ruolo svolto dalle fondazioni, si passerà a illustrare dapprima le cosiddette ‘partnership di sistema’, che si realizzano talvolta attraverso il consorzio di alcune fondazioni e talaltra attraverso l’iniziativa dell’ACRI.
Un esempio di questo secondo approccio è la Fondazione con il Sud, cui s’è già sopra fatto cenno. Un altro esempio è l’accordo quinquennale ACRI-Volontariato del 2010, volto a stabilizzare il sostegno delle fondazioni al volontariato, che viene erogato in base alla l. 11 ag. 1991 nr. 266, ma subisce grandi oscillazioni, e a correggere la squilibrata distribuzione territoriale delle fondazioni sul territorio. Le fondazioni che vi hanno aderito sono 78. Di particolare interesse è il progetto R’Accolte, finalizzato alla catalogazione e messa in rete delle opere d’arte di proprietà delle fondazioni, che ha raccolto presentemente 57 fondazioni e che si sta allargando.
Guardando alle iniziative consorziate, si ravvisa un particolare dinamismo in Piemonte. Nel 2010 è stato costituito il Fondo regionale per il microcredito, che riunisce Regione Piemonte, Unioncamere, Compagnia di San Paolo e Fondazione di Cuneo ed è gestito da Finpiemonte S.p.A. Il fondo garantisce l’80% dei crediti che verranno erogati dagli istituti convenzionati a soggetti privi di garanzie reali che intendono avviare un’idea imprenditoriale o un’attività di lavoro autonomo. La Fondazione Piazza dei mestieri, sostenuta dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione Cassa di Torino, oltre che dalla Regione Piemonte, dalla città di Torino e dalla Compagnia sviluppo imprese sociali S.p.A. (COSIS), ha ristrutturato due edifici allo scopo di ospitarvi centri di aggregazione polivalenti per giovani: orientamento, percorsi di alternanza, formazione professionale, attività culturali, sportive e ricreative, multimedialità, percorsi di innovazione.
In Emilia-Romagna nel 2007, insieme a enti pubblici, alcune fondazioni romagnole hanno fondato l’Istituto scientifico romagnolo per lo studio e la cura dei tumori (IRST), che opera tra Meldola, Forlì e Cesena. Di particolare significato è l’iniziativa delle quattro fondazioni abruzzesi, con la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa (CNA) regionale, la Caritas e Abruzzo fidi, denominata Pro-muoviti Abruzzo, promossa nel 2005, per affrontare il problema dell’imprenditorialità fra immigrati (Felice 2012). Il progetto parte con un percorso formativo, seguito dall’analisi di fattibilità del progetto stesso e dall’accompagnamento in fase di start-up. Le Fondazioni toscane e la Fondazione Cassa di risparmio di Biella hanno avviato nel 2010 l’associazione Osservatorio dei mestieri d’arte (OMA) con l’obiettivo di sostenere questi mestieri attraverso un’articolata attività editoriale, un portale web con blog, conferenze, workshops e didattica.
Vi sono poi iniziative trasversali, come i progetti di cooperazione internazionale rivolti all’Africa subsahariana; il progetto fUNDER 35, volto al sostegno di imprese giovanili in campo culturale; la Fondazione Tender to nave, costituita nel 2011 dalla Marina militare e dallo Yacht club italiano con l’appoggio di 19 fondazioni per aiutare, con un periodo di cinque giorni di navigazione a vela su Nave Italia (il brigantino a vela più grande del mondo), i giovani appartenenti a categorie svantaggiate o a rischio a riacquistare autostima, regole di convivenza e rispetto per gli altri e per l’ambiente. Va infine ricordato che vi sono stati parecchi casi di coordinamento di fondazioni per fronteggiare emergenze (Haiti, terremoto dell’Aquila, terremoto dell’Emilia) o ricorrenze di particolare importanza (150° anniversario dell’Unità d’Italia).
Un approfondimento è utile anche per le community foundations. Queste fondazioni sono originariamente sorte negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., per organizzare e canalizzare fondi filantropici erogati da banche, trust e singoli individui facoltosi a favore di quelle attività ritenute socialmente utili per migliorare una comunità locale; solo alla fine del 20° sec. si sono diffuse al di fuori degli Stati Uniti. In Italia capofila della loro diffusione fu la Fondazione CARIPLO, che nel 1997 decise di creare una fondazione di questo tipo in ciascuna delle province della Lombardia, oltre a Novara e Verbano-Cusio-Ossola (che erano i suoi ambiti operativi) allo scopo di evitare l’amministrazione centralizzata su Milano delle erogazioni su tutto il territorio. Tra il 1999 e il 2006 la Fondazione CARIPLO ha costituito 15 fondazioni di comunità, circa la metà delle 32 esistenti oggi. Esse non si limitano a effettuare erogazioni, ma cercano di creare network che mettano in contatto donatori, investitori, istituzioni e organizzazioni del terzo settore per realizzare opere di utilità sociale a vantaggio di molteplici soggetti del territorio, anche aiutando nella fase di presentazione dei progetti.
Inoltre, la fondazione di comunità ha la responsabilità di seguire la realizzazione del progetto, risolvere i problemi giuridici e burocratici, acquisire i benefici fiscali e pubblicizzare le iniziative. La fondazione gestisce una pluralità di fondi destinati a diverse linee di intervento, anche provvedendo alla messa in esistenza di fondi patrimoniali ad hoc. Oltre alle fondazioni di comunità attivate dalla CARIPLO, c’è quella della Val d’Aosta, due fondazioni a Venezia, la Fondazione della Comunità veronese, di Savona e quella di Imperia, e altre ancora in Veneto e Lombardia. Ben poche sono le fondazioni di questo tipo esistenti al di fuori del Lombardo-Veneto e della Liguria. Si sono già menzionate le tre sorte nel Mezzogiorno a opera della Fondazione con il Sud.
Da ultimo, si prendano in esame alcuni esempi di iniziative realizzate nei vari settori di intervento delle fondazioni in quanto singole. Quello di maggiore spessore, come s’è detto, è il settore dei beni culturali, dove le fondazioni si stanno spendendo nel recupero, conservazione e valorizzazione dei beni architettonici e archeologici. Centri storici, teatri, palazzi, castelli, chiese, monasteri, complessi monumentali stanno risorgendo a nuova vita per merito delle fondazioni, spesso in partnership con altri soggetti, non solo perché vengono ristrutturati e riqualificati gli edifici, ma anche perché le fondazioni si occupano di trovare nuove destinazioni di utilità pubblica: auditori, centri congressi, sedi di centri culturali, sedi di enti pubblici come soprintendenze, direzioni dei beni culturali, musei. Le fondazioni sono poi le maggiori sostenitrici delle attività di teatri, accademie e festival, secondo le vocazioni dei luoghi. Per es., la Fondazione di Firenze sostiene il Maggio musicale fiorentino, la Fondazione di Pesaro il Rossini opera festival, la Fondazione Cassa di risparmio di Parma e Monte di credito su pegno di Busseto il Festival Verdi e così via.
Ma anche musei, biblioteche e mostre ricevono sostegno; per es., il sistema museale di Torino è sostenuto dalla Fondazione Cassa di risparmio di Torino; il Museo della città di Bologna è stato finanziato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Bologna; il restauro della casa natale di Puccini, adibita a museo, è stato promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Lucca. Tale attività viene svolta anche con una speciale attenzione alla valorizzazione turistica, finalità talora sostenuta direttamente, come nel caso piemontese, dove il progetto Le risorse culturali e paesaggistiche del territorio: una valorizzazione a rete è stato finanziato dalla Compagnia di San Paolo. Non mancano casi originali, come il sostegno alla società strumentale Caffè Meletti S.r.l., costituita dalla Fondazione Cassa di risparmio di Ascoli Piceno per la valorizzazione di questo impianto storico (non solo recupero delle attrezzature, ma valorizzazione a scopo di promozione del territorio).
Nel campo della ricerca, le fondazioni si rivolgono soprattutto alle scienze naturali, tecnologiche e mediche, anche con società strumentali, ma vi sono altri importanti progetti, come quello in partnership per la ricerca agro-alimentare denominato Ager. Per istruzione e formazione, le fondazioni si impegnano nell’edilizia, anche attraverso il Fondo immobiliare social and human purpose, ma soprattutto nella promozione di progetti finalizzati ad affrontare problematiche sociali come la dispersione scolastica, l’orientamento, la formazione professionale, oltre a progetti di educazione finanziaria, interventi che favoriscono l’accesso più ampio all’istruzione universitaria. Come esempio, si ricordano il progetto 6+ della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, volto ad aiutare le famiglie di immigrati a mandare a scuola con profitto i loro figli; il progetto di integrazione scolastica dei disabili della Fondazione Cassa di risparmio di Modena; il progetto Job training della Fondazione Cassa di risparmio salernitana; il progetto Giovani della Fondazione Cassa di risparmio di Genova e Imperia.
Nel vasto campo del sociale, ci sono i comparti dell’assistenza, della salute pubblica e del volontariato. Il modello che viene seguito è quello del welfare di comunità, in cui la società civile svolge un ruolo attivo, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale sancito dalla modifica al titolo V della Costituzione del 2001 (l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3). Infatti, le fondazioni hanno teso a non ‘sostituire’ il ruolo del pubblico, ma a complementarlo con azioni qualificanti, anche di stimolo agli enti locali. I principali ambiti di intervento sono stati: la domiciliarizzazione dell’assistenza agli anziani, ma anche la promozione della ‘vecchiaia attiva’, il contrasto al disagio giovanile, il contrasto alle ‘nuove povertà’, l’housing sociale, il sostegno ad attività lavorative di disabili, il contrasto all’esclusione sociale, il recupero del patrimonio edilizio dei centri storici, politiche attive del lavoro, strutture di accoglienza per varie emergenze. L’impegno delle fondazioni a favore del volontariato si concretizza in due linee: il finanziamento dei fondi speciali regionali (l. 11 ag. 1991 nr. 266, a favore dei centri di servizio del volontariato) e l’erogazione diretta di contributi a organizzazioni di volontariato. Come già detto, con l’accordo del 2005, rinnovato nel 2010, i legami tra fondazioni e volontariato si sono ulteriormente rafforzati, anche riequilibrando la distribuzione territoriale dei fondi a vantaggio delle regioni meridionali. Sempre in tema di rapporti tra fondazioni e volontariato, si ricordano le erogazioni a favore di Organizzazioni non governative (ONG) operanti all’estero e i fondi messi a disposizione di varie associazioni per il sostegno delle famiglie in difficoltà.
Nell’ambito della salute pubblica, le fondazioni hanno cercato di favorire una maggiore efficienza dei servizi, attraverso il finanziamento dell’acquisto di apparecchiature diagnostiche e terapeutiche ad alto contenuto tecnologico, di mezzi di trasporto, di ristrutturazione di reparti o di centri di raccolta sangue, ma anche di miglioramento della qualità del personale medico e paramedico, di servizi domiciliari e per disabili. Fra questi interventi, due esempi sono dati dall’importante contributo della Fondazione Cassa di risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, alla ristrutturazione dell’ospedale veronese denominato Borgo Trento, e la realizzazione di un hospice a Torino finanziato dalla Compagnia di San Paolo.
Si farà infine cenno al settore sviluppo locale, la cui finalità è in realtà trasversale a tutte le iniziative delle fondazioni, ma i progetti che vengono inclusi in questo settore riguardano più specificamente i seguenti ambiti: marketing territoriale, attività a favore delle imprese del territorio (start-up, centri polifunzionali, innovazione tecnologica), infrastrutture locali (mobilità viaria, ferroviaria e aeroportuale, strutture turistiche, reti di cablaggio, utilities). Fra gli esempi: il progetto di valorizzazione del brand del Monferrato finanziato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Alessandria; il progetto Carpi fashion system, volto alla promozione dell’innovazione nel distretto della moda di Carpi, sostenuto dalla Fondazione Cassa di risparmio di Carpi; il contributo per l’aeroporto di Perugia, dalla Fondazione Cassa di risparmio di Perugia; la Fiera internazionale del tartufo bianco d’Alba, finanziata dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo.
La novità costituita dallo sdoppiamento delle casse di risparmio e banche del monte in una parte profit e in una non-profit voluto dalla riforma Amato del 1990 ha tardato a mostrare tutte le sue potenzialità. A oltre 20 anni dalla loro creazione le fondazioni di origine bancaria hanno mostrato capacità di darsi un’identità e di saper svolgere ruoli lungimiranti, che vanno al di là della mera erogazione di fondi a pioggia. Molteplici progetti più o meno condivisi sono stati messi in campo attraverso la loro associazione ACRI, così che nelle aree dove esse sono attive la società civile può trovare non solo un finanziatore disponibile a sostenere progetti senza secondi fini, ma anche un partner in grado di far maturare idee, di metterle insieme e dare loro un respiro che il singolo soggetto non potrebbe avere. Le fondazioni da passivi erogatori di finanziamenti sono diventate soggetti catalizzatori di iniziative dei territori e luoghi di progettazione strategica congiunta.
Il rammarico è che la distribuzione di questi enti è basata sull’eredità storica di casse e monti, che vede il Sud (a eccezione dell’Abruzzo) quasi completamente tagliato fuori. Poiché queste fondazioni sono diventate strumento privilegiato per l’attuazione della sussidiarietà orizzontale, un progetto di attivazione di simili enti anche nel Mezzogiorno sarebbe uno strumento privilegiato per sostenere anche in quelle zone la creatività della società civile e l’accumulazione di capitale sociale, essendo le fondazioni realtà che funzionano sulla base di dimensioni comunitarie e non individualistiche o familistiche.
Come scrive Italo Calvino (Il barone rampante, 1957): «Le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone e danno la gioia che raramente si ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace per cui vale la pena di volere cose buone, mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada».
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