Nascita e sviluppo dell’industria automobilistica
I precursori
Scrivere oggi della nascita e dello sviluppo dell’industria automobilistica italiana, in un periodo in cui l’Italia sta perdendo pezzi importanti della propria struttura industriale e il settore automobilistico è ormai un pallido ricordo di quando trainava l’intero comparto produttivo nazionale, può portare facilmente ad assumere un tono elegiaco, o semplicemente falso, nel ricostruire le vicende umane e tecnologiche che hanno portato le nostre industrie automobilistiche, nel corso del Novecento, a essere le seconde o terze in Europa. Nel 2003 la più grande fabbrica automobilistica nazionale produceva ancora 1.026.000 auto, la metà circa di quanto produceva all’inizio degli anni Novanta. Nel 2012, secondo i dati dell’Associazione europea dei costruttori d’auto, le automobili prodotte dalla Fiat sono state 397.000. Dunque un declino evidente, incontestabile, che si inserisce in un ridimensionamento del nostro patrimonio manifatturiero tale da rendere difficile distoglierne gli occhi per volgerli al passato, con uno sguardo obiettivo e lontano da visioni catastrofistiche, da un lato, e ricostruzioni romantiche, dall’altro.
In Italia, infatti, nulla è mai stato facile o indolore. Ad accorgersi dell’importanza del nuovo veicolo a motore, inventato in Francia dall’ingegnere lorenese Nicolas-Joseph Cugnot (1725-1804), che realizzò un carro a vapore tra il 1769 e il 1770, furono in pochi. Tra questi, Carlo Biscaretti di Ruffia (1879-1959), fondatore del Museo nazionale dell’automobile e tra i massimi storici dell’automobilismo, autore di libri fondamentali per conoscere la storia della motorizzazione in Italia, il quale fu subito convinto che
l’automobile ha fornito all’uomo uno strumento che, accelerando il ritmo della produzione ed evitando disperdimenti di tempo causati dalla lentezza dei trasporti, ha creato impensate possibilità di ricchezza e di benessere (Biscaretti di Ruffia 19774, p. 3).
Il veicolo di Cugnot rimase un caso isolato per molti anni; soltanto a Ottocento inoltrato cominciarono a diffondersi i risultati delle ricerche di molti studiosi in altri Paesi, come Siegfried Marcus, Nikolaus August Otto, Gottlieb Daimler, Carl Friedrich Benz, che porranno le basi del veicolo moderno.
Si trattava infatti di trovare un modo di adeguare rapidamente il sistema di trasporti alle nuove possibilità offerte dalla rivoluzione industriale del 19° sec., in grado di mettere a disposizione dei popoli una massa sempre crescente di beni. Un nuovo mezzo di locomozione sicuro e veloce, che permettesse alle industrie di diffondere per il mondo questa enorme quantità di prodotti, destinati a trasformare radicalmente il modo di vivere, s’imponeva con urgenza.
Vi fu una mobilitazione generale, in ogni Paese europeo, di tecnici, inventori e studiosi, che in un primo tempo si dedicarono a perfezionare gli esperimenti già compiuti sulle proprietà del vapore acqueo e sulla sua utilizzazione per la trazione. Nacque così, sul finire dell’Ottocento, il motore a vapore leggero, relativamente economico e poco ingombrante, destinato ad animare il nuovo veicolo, rendendolo capace di buone prestazioni. Ma la vera rivoluzione ebbe inizio con l’avvento del motore a scoppio, che assunse rapidamente il primato, relegando il motore a vapore e il motore elettrico (sviluppatosi nel frattempo) in una posizione di assoluto subordine.
In questo contesto, l’Italia seguiva a distanza, non tanto per mancanza di uomini di genio, ma per l’enorme fatica necessaria a costruirsi una struttura economica e industriale di pari livello con il resto d’Europa (dati ANFIA, Associazione Nazionale Fra Industrie Automobilistiche). Nel suo sviluppo pesò infatti una struttura essenzialmente agricola, la cronica povertà di materie prime e la penuria di capitali indispensabili per l’impianto di stabilimenti destinati alla lavorazione del ferro e alla produzione dell’acciaio. Nonostante questo, poté vantare grandi precursori, come il bolognese Luigi Pagani, che riuscì a costruire nel 1830 una «Locomotiva a vapore applicabile a diversi usi»; a Torino, sei anni dopo, iniziarono gli esperimenti del capitano del Genio Virginio Bordino (1804-1879), ingegnere meccanico, che progettò cinque veicoli a uso militare mossi dalla forza del vapore. Nell’elenco, vanno annoverati anche i tricicli a vapore costruiti da E. Riva, a Foggia, nel 1873, e da Enrico Pecori, a Erba, nel 1891. L’Italia fu all’avanguardia anche nello sviluppo del motore a scoppio: nel 1879 Giuseppe Murnigotti da Martinengo conseguì un brevetto per l’applicazione di un motore a gas su un veicolo a ruote, anticipando in questo modo molti studiosi, sia francesi sia tedeschi. Con una differenza però, rispetto alla Francia e alla Germania: non vi è infatti certezza che al progetto abbia fatto seguito la realizzazione.
Veri e propri precursori, però, non solo per la parte teorica, ma anche per le ricadute concrete e pratiche dei propri studi, sono stati due grandi scienziati, padre Eugenio Barsanti (1821-1864) e Felice Matteucci (1808-1887). Furono loro infatti a costruire, negli anni dal 1851 al 1858, un motore atmosferico, illustrato in ogni particolare in una Memoria segreta depositata presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze nel 1853 e resa pubblica dieci anni dopo. In essa si stabilivano alcuni principi basilari del motore a scoppio. Riportiamo qui di seguito le parole usate precisamente nella Memoria, che spiega l’obiettivo degli studiosi e la loro lucida visione:
Impiegare come forza motrice la combinazione detonante del gas […] trasformare il moto istantaneo prodotto dalla detonazione in moto regolare, successivo, uniforme […] trovare il mezzo di ottenere il miscuglio detonante al miglior prezzo possibile.
Di quattro possibili procedimenti immaginati per questa trasformazione i due inventori dichiararono di adottare «pel costruendo motore» il terzo: «la formazione del vuoto nella camera del cilindro e l’utilizzazione della pressione atmosferica per compiere la fase di lavoro utile», quindi l’attuazione di un motore atmosferico a pistone libero funzionante a semplice effetto. I due scienziati italiani conseguirono regolare brevetto il 28 aprile 1854: una data fondamentale per il motore a scoppio e che assegna loro una priorità a lungo negata e ora universalmente riconosciuta. Sui loro studi si basarono il franco-belga Jean-Joseph-Étienne Lenoir, il tedesco Otto, il francese Alphonse Beau de Rochas e, in ultimo, i tedeschi Benz e Daimler.
Altra grande figura di precursore, poco riconosciuto e raramente ricordato, è il professore veronese Enrico Bernardi (1841-1919). Fu capace di progettare e costruire una piccola vettura perfettamente funzionante, ricchissima di anticipazioni e soluzioni originali. Si tratta della prima automobile costruita in Italia, anche se ancora a tre ruote. Bernardi non fu anticipatore soltanto nel campo della meccanica, ma anche in quello della fotografia: condusse infatti innovative ricerche nell’ambito della fotografia tridimensionale e di quella a colori.
Il periodo pionieristico
Anche la legislazione vigente in Italia all’epoca non era d’aiuto a un armonico sviluppo industriale. Era ancora in vigore una legge del Regno di Sardegna del 1855, entrata a far parte della successiva legislazione italiana (1865), che proibiva la costruzione di una strada importante tra due località già unite da una linea ferroviaria. Solamente nel 1904 fu approvata la prima legge a favore della mobilità su strada, che prevedeva fondi per l’organizzazione di servizi automobilistici nei luoghi impossibili da raggiungere con la ferrovia: con il sottinteso che dove esistevano le ferrovie i fondi non venivano erogati. Ciò naturalmente favorì un notevole sviluppo della rete ferroviaria, che nel 1905 fu nazionalizzata e progressivamente elettrificata; ma scoraggiò, per molti decenni, un potenziamento e miglioramento della rete stradale.
Non deve stupire quindi che, alla fine dell’Ottocento, in Italia, sia in numeri assoluti sia in numeri relativi alle altre nazioni europee, la quantità di vetture circolanti fosse davvero esigua. La prima automobile venduta e circolante fu la Peugeot tipo 3 consegnata nel gennaio 1893 a Gaetano Rossi di Schio (titolare delle Industrie Lanerossi). Dovette passare un anno perché arrivasse in Italia la seconda vettura, una Panhard & Levassor, acquistata dal marchese Carlo Ginori di Firenze. È vero che anche in Italia gli appassionati si moltiplicavano, tanto che alla fine dell’Ottocento gli importatori non erano più in grado di soddisfare le richieste. Furono proprio gli importatori a far nascere le prime industrie nazionali, che inizialmente costruivano automobili su licenza straniera, utilizzando officine meccaniche, o fabbriche di biciclette, per una sorta di produzione accessoria.
I tricicli presentati dalla Prinetti & Stucchi, per es., montavano motori De Dion, come anche il quadriciclo a motore della Edoardo Bianchi di Milano (nota fabbrica di biciclette); a Torino, l’ingegnere David Federman costruiva su licenza le Daimler. Non giovava a incoraggiare altri industriali italiani a cimentarsi in un campo così attraente da un lato, ma nel contempo così impegnativo, l’esempio della Miari e Giusti che, nonostante commercializzasse l’ottima vetturetta Bernardi, di progettazione interamente italiana, non riusciva a sfondare. I 111 veicoli circolanti in Italia nel 1899 diventarono 2174 nel 1905 e 7762 nel 1910. Nell’anno dell’entrata in guerra (1915) i veicoli circolanti erano quasi 25.000: un risultato incoraggiante, viste le premesse, ma in grande ritardo rispetto all’Europa, ritardo che si colmò soltanto un cinquantennio più tardi.
A Torino, il motorismo si sviluppò più rapidamente e più solidamente che altrove in Italia, potendo disporre di molti vantaggi: abbondanza di energia idraulica (e poi idroelettrica) a bassi costi, grazie alla presenza di quattro fiumi; vicinanza a collegamenti ferroviari con la nazione più progredita d’Europa, la Francia; presenza dell’industria del legno, che favorì l’insediamento delle carrozzerie automobilistiche; esistenza di una manodopera specializzata, formatasi nelle numerose fabbriche d’armi della città; nascita di scuole specializzate, tra cui la Scuola di ingegneria, fiore all’occhiello della nuova classe dirigente; agevolazioni fiscali di vario tipo, buoni trasporti pubblici e, non da ultimo, la capacità delle amministrazioni locali di creare le migliori condizioni per far ritrovare alla città una sua identità dopo il trauma della perdita di ruolo politico. Per questi motivi, e altri ancora, Torino sarebbe cresciuta con l’automobile e per l’automobile: prova ne è sia il numero di vetture circolanti, il più alto d’Italia, sia la quantità di fabbriche automobilistiche costituitesi tra il 1898 e il 1908, 47, contro le 32 di Milano, le 8 di Roma, le 5 di Genova.
L’entusiasmo per l’automobile contagiò molti giovani ingegneri usciti dal Politecnico, come Alberto Balloco, Giulio Cesare Cappa, Aristide Faccioli, Giovanni Enrico, Guido Fornaca, Enrico Marchesi, Emanuele Rosselli, ma anche esponenti del mondo industriale e borghese quali i fratelli Giovanni Battista (1860-1912), Giovanni (1865-1948) e Matteo (1870-1941) Ceirano, Michele Lanza (1868-1947), Giovanni Agnelli (1866-1945), Roberto Biscaretti di Ruffia (1845-1940), Emanuele di Bricherasio (1869-1904), Cesare Goria Gatti (1860-1939), tutti determinati a rischiare le proprie capacità e i propri capitali nella nuova industria del secolo.
Tra i primi industriali a tentare la nuova strada vi fu l’imprenditore Michele Lanza. Erede di un’affermata Manifattura di candele steariche e Fabbrica di sapone (fondata nel 1832), e portato per lavoro a recarsi spesso a Parigi dove ebbe modo di vedere e ammirare il nuovo mezzo di locomozione, decise di progettare e costruire, nel 1895, la prima vera automobile a quattro ruote realizzata in Italia. Tre anni dopo decise di dare una forma più prettamente industriale alla sua iniziativa, aprendo una Fabbrica di automobili e continuando a ideare e studiare prototipi sempre diversi. Non si fermò a questo: brevettò (1899) un nuovo tipo di carburatore, fondò, il 1° dicembre 1898, insieme a Biscaretti di Ruffia e Goria Gatti, l’Automobile club; e infine, diede vita, quattordici giorni dopo, alla rivista «L’automobile», primo periodico del genere in Italia. Fu per l’Italia, nel suo slancio iniziale, ciò che furono Louis-René Panhard ed Emile Levassor per la Francia, Daimler e Benz per la Germania. La sua azienda ebbe vita breve (chiuse nel 1903), ma intanto una via era tracciata: l’intento di costruire un’automobile in grado di coprire almeno cento chilometri senza pannes (termine che significa guasti, allora in voga) era chiaro, e sul suo esempio si mossero altri coraggiosi sperimentatori e industriali. Lo stesso Agnelli fu impressionato dai suoi risultati, che non poco pesarono sulla sua decisione di dare vita, insieme ad altri soci, a una compiuta realtà industriale.
Dalla Fiat in poi
La fondazione della FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino), infatti, scaturì non solo dallo spirito di iniziativa di benestanti torinesi, ma anche dall’attenta valutazione del mercato e delle sue potenzialità.
Non si trattò della semplice messa in comune di capitali. Si era già condotta, l’anno prima (1898), un’esplorazione del mercato con una società fondata da Emanuele di Bricherasio, Pietro Fenoglio, Cesare Goria Gatti, Attilio Caligaris, insieme a Giovanni Battista Ceirano, uno dei migliori meccanici disponibili sulla piazza. Si trattava della Ceirano & C., 6000 lire di capitale interamente versato, direttore tecnico il geniale ingegner Faccioli, autore della vetturetta Welleyes di 3,5 CV. Nell’aprile del 1899 la vetturetta era già pronta per essere presentata alla Settimana automobilistica di Torino, e convinse. Convinse soprattutto altri possidenti e benestanti che era giunto il momento di impegnarsi sul serio. Fu dunque fondata un’altra società, con 800.000 lire di capitale sociale, fu scelto il terreno, 12.000 m2 in corso Dante; si rilevarono per 30.000 lire tutti i brevetti e le attività della Ceirano & C., compresa la vetturetta, e l’11 luglio 1899, a palazzo Bricherasio, in via Lagrange, fu firmato l’atto costitutivo della Fiat.
Fin dalle origini, Agnelli fu della Fiat la mente coordinatrice e direttrice, in quanto era l’unico tra tutti ad avere una chiara visione della strada da percorrere sul piano industriale. Egli decise di combattere energicamente qualsiasi tentativo di indirizzo artigianale o sperimentale che potesse sfociare in dispersioni di energie rispetto al suo obiettivo: l’affermazione di una grande impresa automobilistica. Seppe utilizzare al meglio sia l’abbondanza di capitale disponibile sia la propria capacità imprenditoriale per guidare la società verso un solido successo commerciale.
Sulla scia della nascita della Fiat nacquero innumerevoli altre industrie automobilistiche, soprattutto a Torino. Tre di esse furono costituite da valenti piloti Fiat, come Vincenzo Lancia (1881-1937), che aprì la sua azienda nel 1906; e, con minor fortuna, Felice Nazzaro (1881-1940) e Luigi Storero (1868-1955).
Su Vincenzo Lancia è difficile non soffermarsi. Geniale inventore, valente meccanico, asso del volante, diede vita a una casa automobilistica che volle e seppe esprimere il meglio del progresso tecnico. Numerosi furono i brevetti d’invenzione che gli vennero rilasciati, e le creazioni pratiche del suo ingegno. Fra i primissimi ritrovati va menzionata la disposizione dei cilindri-motore a V, con un’apertura della V differente dai valori usati dagli altri costruttori (brevetto del 1° luglio 1915 concernente la disposizione a V stretto, che caratterizzò i motori Lancia sino al modello Fulvia del 1965). Per non parlare della scocca portante, altra grande priorità Lancia presentata al mondo nel 1922: per la prima volta venne proposto un veicolo a struttura portante metallica dove un sistema a guscio sostituiva il tradizionale châssis (termine francese in uso per indicare il telaio), ponendo fine (nei decenni successivi) a quella scissione progettuale tra telaio motorizzato e carrozzeria ‘portata’ che in tutto il mondo aveva caratterizzato l’automobile delle origini. Altre aziende nate a Torino in quello stesso periodo furono Aquila Italiana, Junior, Diatto, FIAT Ansaldi, Gallia, Itala, Padus, Rapid, Rosselli, Scat, Spa, Stae, Standard, Taurinia, e non sono tutte.
Milano, sotto molti aspetti, non fu da meno di Torino. Tanti i nomi di costruttori, progettisti e innovatori da ricordare, come Luigi Brigatti, Alessandro Carcano, Luigi Figini, i fratelli Oreste, Vincenzo e Antonio Fraschini, Corrado Frera, Cesare Isotta, Federico Johnson, Luigi Meda, Giuseppe Ricordi e molti altri. Ugualmente numerose le fabbriche nate dall’iniziativa di questi uomini, come Edoardo Bianchi, che doveva poi raggiungere grande rinomanza con le sue automobili e i suoi motocicli, Carcano, Devecchi & Strada, Figini, Frera, Isotta & Fraschini, Officina Majocchi, Officine Meccaniche, Otav, Prinetti & Stucchi, Ricordi & Molinari, Serpollet Italiana, Sive, Turinelli, Züst (l’antesignana della OM).
Tra tutte spicca la fabbrica fondata nel 1910 come Anonima lombarda fabbrica automobili (ALFA), che venne assorbita agli inizi della Prima guerra mondiale dalla Soc. ing. Nicola Romeo, assumendo la nuova denominazione Alfa Romeo.
Ci troviamo in quello che, a posteriori, è stato definito il periodo della produzione artigianale dell’automobile, che si estese dalla fine dell’Ottocento al 1920 circa, fu caratterizzato da automobili dal prezzo molto elevato, tale da renderle inaccostabili per la quasi totalità della popolazione, e nel contempo dalle ottime prestazioni, concepite però senza porre alcuna attenzione ai costi. Anche le auto più economiche erano vendute al corrispettivo di circa 100 volte il prodotto interno lordo annuo pro capite. Si trattava di automobili non soltanto care, ma anche lontane dal garantire un servizio affidabile e irreprensibile, tanto che quasi sempre l’acquisto di un’auto comportava anche l’assunzione di uno chauffeur-mécanicien (autista-meccanico). Erano ‘pezzi unici’ sia per come erano prodotte (l’azienda costruttrice consegnava prevalentemente al cliente il solo telaio nudo), sia per come il cliente interveniva nei dettagli costruttivi, nella scelta della carrozzeria, nella dotazione di accessori. Tanto più unici in quanto la produzione artigianale impediva il diffondersi dell’intercambiabilità dei pezzi, un concetto produttivo che si sarebbe affermato solo dopo la Prima guerra mondiale. Una così rudimentale tecnologia di produzione, che esigeva continui ‘aggiustaggi’ (ossia adattamenti di ogni pezzo alla sua sede), inesorabilmente conduceva a elevare il costo finale del prodotto auto; così come la necessità di utilizzare personale altamente qualificato rallentava il processo di espansione delle aziende anche a fronte di un mercato in crescita.
Pur con queste evidenti limitazioni di produzione e di tecnologia, le aziende automobilistiche in Italia erano passate da 26 nel 1899, con un capitale complessivo investito pari a circa 6 milioni di lire italiane dell’epoca, a 61 nel 1907, di cui più di trenta tra Torino e Milano (con un capitale investito di oltre 100 milioni di lire italiane e concomitante crescita di molte attività economiche collaterali, quali fabbriche di carrozzerie, pneumatici, cerchioni per ruote, fanali, serbatoi, accessori vari; cfr. Medici 1976). Nel 1914 in tre grandi industrie automobilistiche torinesi (Fiat, Itala e Spa) si superarono i 1000 addetti. A queste tre vanno aggiunte, per importanza, notorietà ed eccellenza di prodotto, Alfa Romeo, Aquila Italiana, Bianchi, De Vecchi, Diatto, Isotta Fraschini, Lancia, Nazzaro, Rapid, Scat, Storero, Züst, anche se non tutte disponevano di un ciclo di lavorazione completo. Ma tutte concorsero ad aumentare la produzione automobilistica italiana dalle 3080 unità prodotte nel 1904 alle 5280 del 1911, alle 6670 del 1912 e alle 9210 del 1914.
La prima grande svolta nella storia dell’automobile si colloca intorno al 1910, quando a Parigi furono esposti i risultati dell’unificazione produttiva di attività precedentemente separate, come costruire châssis e ‘carrozzare’ il veicolo. L’industria automobilistica si orientò gradualmente verso la vettura prodotta in serie e consegnata già carrozzata al cliente. Il primo veicolo italiano che rispose a questa nuova organizzazione del lavoro, in cui al carrozziere era demandato un ruolo di creativo e di partner industriale, è del 1912. È la Fiat Zero, progettata da Carlo Cavalli, e carrozzata dai fratelli Farina, Giovanni e Giovanni Battista (1893-1966), quest’ultimo il futuro ‘Pinin’ Farina.
Tra le due guerre
Negli anni della Prima guerra mondiale (1914-18) le industrie europea e americana si convertirono alla produzione bellica: uno sforzo immane, pari solo a quello che l’armistizio del novembre 1918 e l’annullamento di tutte le commesse militari impose successivamente per riconvertirsi a una produzione di pace. Per fare fronte alla mancata manutenzione di tutti gli impianti pubblici negli ultimi quattro anni, al ripristino delle strade, alle nuove esigenze della popolazione civile, occorreva infatti uno sforzo riorganizzativo altrettanto duro e impegnativo, ma che, opportunamente sfruttato, poteva tramutarsi in un trampolino di lancio per la giovane industria automobilistica. La ripresa della vita civile non poteva non passare attraverso la riattivazione dei trasporti e delle vie di comunicazione, soprattutto in Italia dove le ferrovie erano largamente insufficienti. La guerra, d’altra parte, aveva addestrato a maneggiare motori migliaia di autieri e dimostrato la superiorità dei trasporti automobilistici su quelli ferroviari e sul traino a cavalli: più di centomila soldati italiani erano stati addetti ai trasporti automobilistici, senza contare le decine di migliaia di piloti e meccanici d’aviazione. Tutti questi uomini rappresentavano un immenso potenziale di mercato, trasversale rispetto a ogni ceto sociale, e per la maggior parte risultavano ormai dotati di elementari competenze meccaniche che rendevano superflua la figura dello chauffeur.
Miope fu all’inizio la politica dello Stato: dal governo si continuò a profondere centinaia di milioni di lire per il risanamento di bilancio delle ferrovie, aumentando nel frattempo i dazi sulla benzina e la tassa di circolazione. Aggiungiamo difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, scioperi selvaggi effetto di una tensione sociale esplosiva, serrate delle industrie, disoccupazione crescente. La Fiat fu accorta nel presentare al pubblico nel 1919 una macchina rivoluzionaria, la 501, che diede all’Italia la formula per battere la concorrenza americana, rappresentata dalla Ford T ormai diffusa anche in Europa. Era più elegante, più potente, più rifinita della spartana creatura di Henry Ford. Prodotta in decine di migliaia di esemplari, fece risalire le esportazioni Fiat dalle 2310 autovetture del 1919 alle 7865 dell’anno successivo.
La 501 è la prima vettura italiana a entrare di diritto nel secondo periodo storico della produzione automobilistica, quello della diffusione di massa, ovvero dagli anni Venti agli anni Ottanta circa del Novecento. In questo periodo l’automobile si trasformò in un mezzo di trasporto economico e affidabile, indirizzato a un pubblico via via più vasto, anche grazie a sistemi di produzione e di organizzazione del lavoro radicalmente trasformati.
La base del nuovo sistema produttivo fu il raggiungimento della completa intercambiabilità di ogni componente: eliminando a mano a mano ogni operazione di aggiustaggio, il montaggio si semplificava molto e se ne abbreviava la durata. La produzione di componenti intercambiabili permetteva di fornire ai clienti pezzi di ricambio facilmente sostituibili. Lo stesso lavoro alle linee si semplificò, e questo fu causa/effetto di un crescente utilizzo di manodopera non specializzata, con conseguente crescita dei volumi produttivi. L’automobile usciva perciò dalla fase di sudditanza rispetto ai bisogni e alle esigenze di un’élite esclusiva che se ne serviva per il proprio divertimento: sia pure con lentezza stava diventando un oggetto di uso quotidiano, utile allo svolgersi delle proprie attività. Era nato il concetto di ‘utilitaria’.
In Italia, però, a causa della storica arretratezza socioeconomica, questo avvenne con maggiore ritardo che altrove e non fu un processo né indolore né lineare. Al Salone dell’automobile di Milano del 1925, svoltosi alla Fiera campionaria in aprile, era presente in forze l’intera industria automobilistica italiana. Ossia: Alfa Romeo, Bianchi, Fadin, Isotta Fraschini, Pavesi, Saba, San Giusto (Milano); Ansaldo, Aurea, B.N., Ceirano, Chiribiri, Diatto, Edit, Fast, Ribetti, Lancia, Fiam, Fiat, Fod, Itala, Spa, Tau (Torino); Barison (Livorno), O.M. (Brescia), SAM (Legnano), Scirea (Monza), S.I.C. (Chiavari). Una compagine di ventotto marche diverse, con prodotti di assoluta eccellenza noti in tutto il mondo, quali la Itala 61, la Ceirano S 150, la Isotta Fraschini 8A, o più modestamente le Chiribiri Monza e Milano, o il tipo Unico Fod.
Fu questo anche il periodo di maggior sviluppo del ruolo e dell’immagine dei carrozzieri: la stagione delle vetture fuori serie di cui furono maestri le carrozzerie come Stabilimenti Farina, Zagato, Bertone, Savio o Touring, quest’ultima fondata a Milano nel 1926 da Felice Bianchi Anderloni (1882-1948), già aperta verso una nuova organizzazione industriale e in dialogo più stretto con la grande azienda. Una varietà di marche, nomi, modelli, carrozzieri e qualità di costruzione che però non deve trarre in inganno rispetto al reale andamento del comparto industriale.
Nel 1925 circolavano in Italia 84.826 autovetture, per un totale di 117.555 veicoli. Poche, pochissime: la densità media equivaleva a un’auto ogni 450 abitanti. Nel 1924, negli Stati Uniti la densità era di 7 abitanti per auto, in Gran Bretagna di 71 abitanti ogni auto, in Francia di 90 abitanti per auto. Le automobili prodotte in Italia erano 45.800, quelle esportate quasi 30.000, circa il 60%, un’altra riprova del debole e anemico mercato interno. Alla fine dell’anno la benzina costava 2,74 lire al litro, di cui 86 centesimi per oneri fiscali (il 31%), più che in tutto il resto d’Europa. I problemi del settore automobilistico erano tanti, e non si intravedeva alcuno spiraglio. La stampa specializzata rilevava da tempo l’assenza di una vetturetta utilitaria italiana, una tassazione esagerata, l’elevato costo di esercizio delle vetture sul mercato, il pessimo stato della rete stradale, una decennale carenza di attenzione da parte delle autorità governative a creare condizioni favorevoli alla diffusione dell’automobile.
All’estero, dal dopoguerra in poi, la moda dei cyclecars (veicoli leggeri a tre ruote, a metà strada tra la motocicletta e l’automobile) attecchì molto più che da noi. In Francia ne producevano la Salmson, l’Amilcar, la Citroën, e quest’ultima prometteva agli italiani una torpedo pratica e veloce a 17.000 lire. Il discrimine, infatti, tra vettura elitaria e vettura utilitaria si attestava intorno alle ventimila lire: al di sopra era un sogno, al di sotto poteva essere una realtà raggiungibile.
In Italia una vettura media, ossia di cilindrata compresa tra i 1600 cm3 e i 2500 cm3, costava tra le 30 e le 50.000 lire. Il listino delle dieci fabbriche italiane più importanti rivela che nel 1929 il prezzo più basso era di 15.700 lire per uno spider di serie di 990 cm3 di cilindrata; quasi tutto il resto della produzione era superiore alle 20.000 lire, per toccare le 140.000 con il telaio Isotta Fraschini 8. Certo, i cyclecars costavano notevolmente meno, ma offrivano anche meno, in fatto di affidabilità, comfort, prestazioni, durata. In Italia, per es., si costruiva la Temperino, che godette di una discreta fortuna tra il 1921 e il 1923; un paio d’anni dopo arrivò la FOD (Fonderie Officine De Benedetti) che, tra il 1925 e il 1927, mise sul mercato una vetturetta da mezzo litro di cilindrata con soluzioni modernissime, particolarmente interessanti per l’ampio sviluppo delle parti di telaio e motore in fusione. Tra l’una e l’altra azienda si collocò una serie di altre marche artigianali, che si ponevano il medesimo obiettivo: produrre una vetturetta di poco prezzo.
Si arrivò così al nodo della questione: il basso prezzo obbligava a rinunce impraticabili, per es. all’impianto elettrico, al gruppo differenziale o alla quarta ruota (non di scorta), dando vita a veicoli a tre ruote dalla stabilità incerta. Inoltre, a tutte queste iniziative, anche quelle più valide, fecero difetto un valido appoggio commerciale e un’organizzazione in grado di propagandarle efficacemente.
La Fiat provò ad attrezzarsi convenientemente, dando vita all’imponente stabilimento del Lingotto, un mastodonte su cinque piani di 796.000 m3. All’interno, linee di montaggio d’avanguardia, progettate per una produzione in grandi numeri. La vettura che ne usufruì per prima fu la 509, che la pubblicità definì «la macchina di grande successo per la piccola borghesia italiana». Per la prima volta fu impostata una campagna pubblicitaria in grande stile, a cui diede un originale contributo anche lo scrittore Gabriele D’Annunzio, vate della scena letteraria italiana.
Nel dicembre del 1925 l’illustre poeta chiese un’automobile in regalo (o «un automobile», visto che in Italia ancora non le si era attribuito un genere definito) al senatore Agnelli. Questi intuì i vantaggi di un dono, e non esitò a spedire a Gardone una cabriolet 509. D’Annunzio inserì nei ringraziamenti una frase destinata a diventare celeberrima:
La Sua macchina mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza (Dal Vittoriale, «Rivista Fiat», 1926, 1, pp. 12-15).
E così Agnelli ebbe un’ulteriore carta mediatica in mano per propagandare la sua auto, femminile a tutti gli effetti, destinata a un pubblico di giovani e intraprendenti guidatrici.
Nonostante tutti gli sforzi, la 509 rimase una vettura tutt’altro che realmente utilitaria. La versione berlina costava 18.500 lire, con una tassa annuale di circolazione di 366 lire, e questo mal si combinava con gli stipendi di allora. Una cifra del genere significava cinque anni del salario di un operaio specializzato, o due anni di un piccolo artigiano, di un professionista alle prime armi, o di un dipendente pubblico. La Fiat si sforzò negli anni di abbassare i prezzi di vendita all’osso, offrendo la berlina a 17.800 lire. Ma era pur sempre molto. I costi di produzione, d’altronde, non permettevano una diminuzione dei prezzi al pubblico tale da incentivarne davvero la diffusione: la carrozzeria era di costruzione prevalentemente manuale; la meccanica tutt’altro che semplificata; lo châssis era composto di elementi imbullonati e chiodati che richiedevano anch’essi un montaggio manuale. La 509 fu una delle ultime vetture a imporre un assemblaggio con largo utilizzo di manodopera specializzata: di lì a qualche anno questi sistemi risultarono superati, ed esordirono nuovi metodi con largo impiego di presse e stampaggio.
L’arrivo delle utilitarie
Se il comparto industriale italiano, all’inizio degli anni Trenta, era ancora strutturalmente fragile e in una condizione di dipendenza dall’aiuto di Stato (l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, fu fondato nel 1933), non ci si poteva aspettare niente di più di quello che successe quando l’onda lunga della crisi di Wall Street, del 1929, rimbalzò in Europa dagli Stati Uniti, facendo strage delle imprese più precarie.
Troppi, senza una solida base tecnica e finanziaria, si erano lanciati nell’impresa di costruire automobili, incoscienti delle difficoltà a cui sarebbero andati incontro. Molte aziende s’infransero dolorosamente di fronte alla concorrenza di organismi più forti, come Fiat, Lancia, Alfa Romeo, in grado di costruire prodotti eccellenti e di impiantare una rete commerciale e di postvendita molto efficace e, soprattutto, di favorire la spinta all’internazionalizzazione, condizione necessaria scaturita dalla ristrettezza del mercato nazionale e dall’omogeneità delle caratteristiche sociali degli acquirenti. Questo a maggior ragione in Italia, in cui il mercato interno, come abbiamo visto, era particolarmente ristretto.
Produrre per esportare diventò un obiettivo comune a Fiat, Itala, Lancia, Alfa Romeo: tanto più che la domanda non si differenziava granché, tra Paese e Paese (proprio per l’omogeneità sociale degli acquirenti). Si può tranquillamente affermare che le opportunità di sviluppo di una casa automobilistica, in Italia, risultarono strettamente legate alla sua capacità di far assumere alle esportazioni il ruolo di fattore trainante della propria offerta. Ma questo non poteva essere fatto facilmente da piccole imprese, a cui mancava la struttura essenziale di vendita, di assistenza, di trasporto, di relazioni, per potersi lanciare sui mercati esteri. Ciò invece spiega la posizione egemone rapidamente assunta dalla Fiat nel quadro dell’industria automobilistica nazionale.
La crisi d’altronde colpiva tutti i Paesi. La produzione automobilistica mondiale, tra il 1929 e il 1931, si ridusse esattamente della metà: da sei milioni a tre milioni di auto. In America il calo di produzione era stato del 30% tra il 1930 e il 1931 e altrettanto decisamente erano diminuite le esportazioni.
Molte furono le ricette. È plausibile che ad Agnelli fosse capitata sott’occhio la traduzione del nuovo volume di Ford (Moving forward, 1930), apparso in italiano nel 1931 con il titolo Perché questa crisi mondiale?. Vi erano ripetute le convinzioni già efficacemente espresse nella sua autobiografia (My life and work, 1924) di qualche anno precedente, con in più il continuo riferimento alla crisi economica che stava massacrando le economie di tutto il mondo. Presupposto del fordismo industriale era la convinzione che i problemi derivassero da uno squilibrio tra capacità produttiva e ridotto potere d’acquisto causato da «una mancata attenzione alla formazione della capacità di consumo» (Berta 2009, p. 73). Per sostenere tale capacità, una soluzione c’era, semplice e immediatamente applicabile: l’elevata remunerazione del lavoro. E Agnelli, in un’intervista rilasciata nel giugno 1932 alla United press americana, disse, ripercorrendo la medesima logica:
Mi si domanda cosa penso della crisi. Penso innanzitutto che nessuna crisi fu mai tanto vasta e profonda. Questa colpisce tutto il mondo. Non è una delle solite crisi periodiche, cosiddette cicliche, ma è una crisi che tocca tutta la struttura dell’economia mondiale, e se la soluzione dovesse essere lasciata al naturale gioco delle forze economiche, dovremmo aspettare molto tempo (cit. in Amadelli 1989, p. 12).
Agnelli, dunque, indicò una via rooseveltiana al risanamento: riduzione delle ore di lavoro (per aumentare l’occupazione) e aumento dei salari (per rialzare i consumi). Era convinto che non si potesse delegare la soluzione «al naturale gioco delle forze economiche», se non si voleva passare attraverso autentici ‘cataclismi’ (Berta 2009, p. 74). L’intervista non fu mai pubblicata su un giornale italiano. Erano considerate idee americaneggianti, troppo distanti dalle strategie governative. Come disse l’onorevole Ezio Maria Grey il 4 maggio 1929 alla Camera, gli alti salari avrebbero
reso irrisorio il benessere degli operai che si vedono quegli stessi alti salari ritolti da un assetto industriale che con le tentazioni infinite della vendita a rate induce l’operaio ad uno spendere quotidiano non corrispondente alle sue possibilità (cit. in Amadelli 1989, p. 13)
Però Agnelli e Benito Mussolini, pur nella poca simpatia reciproca, trovarono una comune via d’uscita. Agnelli lanciò sul mercato, dopo decenni di attesa, una vetturetta economica e brillante, dal costo accessibile a più ampi strati della popolazione; Mussolini congelò la tassa di circolazione, provvedimento già reso molto popolare da Adolf Hitler in Germania. La vetturetta economica, ossia la Fiat 508 Balilla presentata al Salone di Milano del 1932, non era più rimandabile, a fronte di un crollo delle esportazioni che occorreva a tutti i costi compensare, almeno in parte, con l’ampliarsi del mercato interno.
L’Italia, infatti, per quasi tutti gli anni Venti aveva esportato circa il 60% della sua produzione: ancora il 61% nel 1927, ma solo il 41% nel 1930, il 21% nel 1932, il 17% nel 1933. In virtù della recessione mondiale, furono presi dappertutto dei provvedimenti doganali a protezione delle rispettive produzioni nazionali che diedero il colpo di grazia al flusso di importazioni/ esportazioni. In Italia, dalle 19.185 vetture esportate nel 1930, si passò alle 11.940 unità l’anno successivo: un crollo di quasi il 50%, pesante anche in termini di valore per la continua discesa del costo unitario delle automobili. Divenne chiaro che le industrie automobilistiche sopravvivevano soltanto in presenza di un forte mercato interno. Finora, la capacità di assorbimento del mercato interno italiano era stata trascurabile: nel 1932 circolavano circa 257.000 autoveicoli, compresi autocarri e autobus (uno ogni 161 abitanti); di questi, 188.331 erano automobili (una ogni 210 abitanti). Cifre risibili, in confronto al milione e 700.000 vetture circolanti in Francia, al milione e mezzo della Gran Bretagna, alle 700.000 unità della Germania.
Anche i numeri della produzione non si discostavano da questo trend. In Italia, il volume produttivo del comparto automobilistico era sceso tra il 1926 e il 1927 (da 60.500 a 50.700 unità), era stato quasi stabile nei due anni successivi (53.900 e 51.900), era ridisceso drasticamente nel 1930 (41.900 vetture prodotte). In Inghilterra e in Francia, invece, era salito costantemente, sia pure di poco. In cinque anni, tra il 1926 e il 1930, la produzione britannica era passata da 180.000 autovetture a 238.000; in Francia, da 190.000 a 230.000.
Questa era la situazione che sgomentava gli industriali italiani, in prima fila Agnelli, e rendeva impaziente Mussolini che faceva pressione per avere la sua ‘auto del popolo’. Per questo motivo il progetto 508 di Antonio Fessia (1901-1968), tra i responsabili della Progettazione Fiat, fu portato a termine nel giro di pochi mesi, in tempo per la presentazione della vettura al V Salone dell’automobile di Milano del 1932. Per la prima volta una vettura italiana costava intorno alle diecimila lire. A questo si aggiunse l’intervento di Mussolini, che prolungò l’esenzione dalla tassa di circolazione al 30 giugno 1933 per le vetture utilitarie nazionali nuove di fabbrica, intendendosi per utilitarie le macchine con potenza fino a 12 cavalli e prezzo fino a dodicimila lire. Analogo dono veniva fatto, grazie a un disegno di legge presentato dal ministro della Guerra Pietro Gazzera, agli acquirenti di autocarri nuovi per merci, di trattori agricoli e di autoinnaffiatrici, purché di fabbricazione italiana.
Nonostante questo, il prezzo effettivamente era ancora alto, troppo alto per la maggioranza della popolazione italiana. Non a caso lo stesso senatore Agnelli, nel corso di una relazione alla presenza degli azionisti Fiat, affermò:
La Balilla, con il suo significativo successo, è caposaldo dell’incremento automobilistico nazionale e anche nell’avvenire essa avrà parte importante nella gamma di produzione FIAT. A essa si aggiungerà nel futuro una piccola due posti che sia atta a dare maggiore diffusione all’automobilismo in Italia, ri-
spondendo così alle necessità preminenti del mercato ovunque caratterizzato dal sopravvento della vetturetta economica (cit. in Amadelli 1989, p. 17).
Già parlava dunque di una piccola due posti, la futura Topolino, ad appena un anno dalla presentazione della Balilla. Alla fine del 1932 in Italia circolavano circa diecimila Fiat 508 (su una produzione di circa 12.000). Un buon risultato, considerando che di 509 ne erano state costruite in un anno appena duemiladuecento. Un risultato quasi ininfluente ai fini però di un’effettiva diffusione dell’automobile in Italia, dove la situazione di crisi mondiale fu ulteriormente peggiorata dalle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia: l’Italia fu colpita proprio nel suo punto di forza, le esportazioni, facendo mancare le materie prime essenziali. L’industria automobilistica barcollò, ma resse meglio di altri settori industriali, compensando la contrazione del mercato interno con l’aumento della produzione militare e riuscendo miracolosamente a mantenere un buon livello di esportazione da parte di tutti i costruttori: Fiat in prima battuta, ma anche Alfa Romeo, Bianchi, Lancia e Maserati (50% della produzione totale). La Fiat, anzi, nel 1937 fu in grado di annunciare di aver superato i 50.000 dipendenti.
L’ultima fiammata dell’industria automobilistica italiana, prima di sprofondare nella produzione bellica, fu la grandiosa officina di Mirafiori, costruita a Torino dalla Fiat su progetto di Vittorio Bonadé Bottino (1889-1979), una vera e propria città nella città, inaugurata nel 1939 e che si estendeva su un’area di un milione di metri quadrati.
Nel frattempo i tecnici Fiat, guidati ora da Dante Giacosa (1905-1996), posero mano, per la 508, al motore 1100, uno dei più longevi nella storia dell’automobile mondiale. Fabbricato in serie a partire dal 1937 per la Balilla, fu continuamente migliorato, montato sulla 1100/103 fino al 1962, quando aumentò a 1220 cm3, per tornare nel 1966 alla cilindrata primitiva fino alla fine del 1969; intanto però, trasformato in motore da competizione, fu applicato alla Cisitalia; disposto trasversalmente, fu anche il motore della Autobianchi Primula. Una longevità e una versatilità che rendono onore all’eccellenza tecnica e ingegneristica italiana.
Il decennio della ricostruzione
Il primo decennio dopo la Seconda guerra mondiale, dal 1947 al 1957, fu caratterizzato da un collettivo bisogno di ritorno alla normalità. Si cominciava a risorgere da un tragico periodo di distruzione e morte e, pur tra difficoltà tutt’altro che superate, si riaffacciava l’aspirazione a un mezzo di trasporto individuale. A questo bisogno risposero due geniali espressioni della creatività italiana: gli scooter Vespa e Lambretta. La Vespa, progettata da Corradino D’Ascanio (1891-1981) e prodotta dalla Piaggio dal 1945, a carrozzeria portante e forma tondeggiante, costava l’equivalente di due mesi di salario di un impiegato. Dal suo progetto fu sviluppato un veicolo da lavoro a tre ruote, di grande successo e longevità, l’Ape. La Lambretta invece, con struttura portante tubolare, fu ideata da Pier Luigi Torre (1902-1981) e realizzata nel 1947 dalla Innocenti, fino allora una fabbrica di tubi. Fu grazie a questi due scooter che gli italiani ritrovarono la via alla motorizzazione, a cui negli anni seguenti diedero definitiva risposta le due più famose utilitarie Fiat, la 600 del 1955 e la Nuova 500 del 1957, entrambe progettate da Giacosa.
All’insegna della speranza si era anche aperta la prima edizione del Salone dell’automobile del dopoguerra, a Torino, nel 1948, alla presenza del presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Nel ricordare quell’occasione, l’allora già noto carrozziere Farina sintetizzò in una frase il suo concetto base di bellezza automobilistica: «Avevo imparato che, nel lavoro, conta molto più togliere che non aggiungere; infatti, di superfluo sappiamo che ce n’è dappertutto» (cit. in Pansera 1993, p. 101). In questo risiede il tratto caratteristico della progettazione italiana, contrapposto alle forme barocche e ridondanti dell’automobile americana. Ed è a Pinin Farina, insieme a Giovanni Savonuzzi (1911-1986), Piero Dusio (1889-1975) e Giacosa, che si deve quella Cisitalia ormai universalmente considerata l’apripista della diffusione nel mondo dell’Italian style: la 202. Presentata nel settembre del 1947, passò quasi in sordina; ma nell’autunno del 1951 fece il suo ingresso al Museum of modern art di New York, per la mostra Otto automobili, come esempio di scultura in movimento. Da questo archetipo si può affermare che derivarono la Fiat 1100, le Alfa Romeo Giulietta spider e Giulietta Sprint disegnate rispettivamente da Farina e da Nuccio Bertone, l’Alfa Romeo 1900, e persino alcune delle Ferrari e Maserati più belle degli anni Cinquanta.
Dalla ricostruzione agli anni del boom
Nel secondo dopoguerra l’emigrazione italiana all’estero non rallentò, anzi: 250.000 persone emigrarono nel 1954, e la media si alzò ancora negli anni successivi. Alla traversata degli oceani (iniziata nel 19° sec.) cominciò a sostituirsi l’emigrazione in Europa (Germania, Svizzera, Belgio, Francia); ma ad assumere proporzioni colossali furono le migrazioni interne. Fra il 1955 e il 1970, quasi 25 milioni di italiani spostarono la propria residenza. A vuotarsi per prime furono le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni. Fra il 1951 e il 1961 la popolazione aumentò di tre milioni, ma il 70% dei comuni italiani perse abitanti (Crainz 1996, p. 103). In compenso, però, il reddito nazionale netto passò dai 17.000 miliardi del 1954 ai 30.000 miliardi del 1964: quasi un raddoppio in dieci anni. Nello stesso periodo il reddito annuo pro capite aumentò da 350.000 lire a 571.000 lire. Gli occupati nell’industria passarono dal 32% al 40% (nel terziario dal 28% al 35%). Fra i primi anni Cinquanta e i primi Sessanta gli investimenti industriali aumentarono di quasi due punti percentuali (dal 4,5 al 6,3 del reddito nazionale lordo) e la produttività industriale dell’84%. All’interno dell’Europa la produzione italiana contava per il 9% nel 1955, per il 12% nel 1962. Si producevano autoveicoli ed elettrodomestici: da 370.000 a un milione e mezzo di frigoriferi in quattro anni, 1959-63, e da 88.000 televisori nel 1954 a 634.000 nel 1963 (Crainz 1996, p. 83). Il frigo è il primo elettrodomestico ad addolcire la fatica quotidiana delle donne; più tardi arriverà la lavatrice.
Fu soprattutto nelle campagne che la convulsa trasformazione dell’Italia diventò visibile a occhio nudo: tre milioni di occupati in meno (da 8 a 5) tra il 1954 e il 1964; quasi quattro in meno se si considerano gli anni dal 1951 al 1965. La meccanizzazione fu da record: 36.000 trattori nel 1938, 300.000 nel 1961, 600 mietitrebbie nel 1956, 15.000 nel 1965 (quasi tutti veicoli Fiat, il cui slogan in quegli anni era «Terra mare cielo», a evidenziare una produzione che riguardava tutti gli ambiti della meccanizzazione). La mietilegatrice ridusse di 40 volte il tempo di lavoro, tanto da rovesciare la definizione del fenomeno da ‘campagne senza agricoltura’ in ‘agricoltura senza campagne’ proprio per il diffondersi di processi di produzione intensiva che i veicoli agricoli a motore permettevano in misura sempre più estesa. Il sistema della mezzadria scomparve in una generazione: tra il 1951 e il 1964 i mezzadri si dimezzarono (da due milioni a uno) e vent’anni dopo non esistevano più (Crainz 1996, pp. 87, 98).
Per un mondo che scompariva, un altro si componeva in maniera confusa, disordinata, squilibrata: gli occupati nell’edilizia, per es., passarono da 1.100.000 nel 1951 a 2.100.000 nel 1964; le case ultimate furono 148.000 nel 1953, 275.000 nel 1958, 450.000 nel 1964. Una vistosa terziarizzazione cominciò a contraddistinguere la vita lavorativa delle metropoli e altrettanto massiccio fu l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. Il concetto stesso di metropoli nacque in questi anni: le città con oltre 100.000 abitanti erano 26 nel 1951, 45 nel 1971. Le abitavano, a questa data, 16 milioni di italiani. Milano era una di queste, insieme a Roma e a Torino. Nel 1960, nel capoluogo milanese, il 13% di abitazioni era privo di acqua potabile, il 24% di servizi igienici con acqua corrente, il 42% di bagni tout court, e il 51% non disponeva del riscaldamento centrale (Crainz 1996, pp. 125 e segg.). Eppure i consumi salirono, paradossalmente più quelli di lusso che quelli primari, più le automobili del vitto. La sola possibilità di accedere ai nuovi consumi diventò altrettanto importante dell’accesso effettivo a essi. Per fare un esempio, a comprare «Quattroruote» (primo numero mensile nel 1956) erano più spesso coloro che non possedevano una vettura e che magari non sapevano nemmeno guidare di quelli che l’automobile l’avevano comprata davvero. Ma anche per l’automobile i tempi stavano velocemente cambiando. Nel 1950 il nostro parco circolante superò le 340.000 automobili. Già nel 1969 circolavano in Italia nove milioni di autovetture. E negli anni Novanta le grandi disparità tra i diversi Paesi europei in termini di numero di automobili si annullarono: la motorizzazione italiana si sviluppò con grande ritardo, ma raggiunse comunque e superò gli altri in pochi anni.
Il dato che meglio esprime la diffusione è il numero di automobili per abitanti, più che il numero complessivo di auto. In Italia la soglia dei dieci abitanti per automobile fu raggiunta nel 1965, uguagliando un rapporto conseguito negli Stati Uniti quarant’anni prima (1924), con la Ford T. Già nel 1955, con la Fiat 600, il rapporto prezzo/reddito scese finalmente a 1,6. Con la Nuova 500 le cose migliorarono ancora e nel 1965 il rapporto scese ulteriormente (0,6), a conferma dell’ipotesi che la diffusione dell’automobile poté iniziare soltanto quando il prezzo dell’automobile più venduta scese nettamente al di sotto di un anno di reddito pro capite: cosa che in Italia capitò grazie alle due utilitarie Fiat degli anni Cinquanta.
Analogamente crebbero i dati della produzione di autoveicoli: 38.798 nel 1941, 145.553 nel 1951 (nel 1950 l’Italia per la prima volta aveva superato le 100.000 auto prodotte in un anno), 759.140 nel 1961, 1.817.019 nel 1971 (dati ANFIA). Di questa crescita fu assoluta protagonista la Fiat che nel 1956 copriva il 90,9% del mercato italiano. Fu una motorizzazione selvaggia, come tanti altri aspetti della modernizzazione che contraddistinse l’Italia del secondo dopoguerra. Senza dimenticare i grandi squilibri che questo sviluppo portò con sé, dalla scomparsa delle culture montana e contadina all’abbandono delle campagne, all’offesa al paesaggio, alla mancanza di pianificazione e controllo di queste fasi convulse, non si può non rilevare una miseria millenaria per la prima volta in arretramento, una scolarizzazione sempre più estesa all’intera popolazione, una qualità della vita in oggettivo e soggettivo miglioramento. Per la prima volta si era rotto un orizzonte basato rigidamente su bassi redditi e bassi consumi e prendeva corpo un sistema basato sulle ‘aspettative crescenti’. Fu un vero e proprio processo liberatorio: liberazione dalla povertà, dall’immobilità, dal bisogno, una liberazione che partiva proprio dalla rottura dello stretto rapporto fra consumi e bisogni essenziali. Dunque un processo pieno di luci e ombre, progressi e contraddizioni, drammi personali e collettivi, cambiamenti epocali stipati nell’angusto spazio di qualche anno.
Tra le luci, la realizzazione dell’Autosole, ossia dell’Autostrada del Sole, un’arteria che collegò finalmente l’Italia da Nord a Sud. Un’opera ciclopica, realizzata dal 1956 al 1964, otto anni in cui furono realizzati 755 km di autostrada, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi, alla media di 94 km di strada realizzati all’anno. Una media che nessuno al mondo riuscì a eguagliare.
Luci e nascite gloriose. Nel 1946 Enzo Ferrari (1898-1988), che nel 1929 aveva fondato la scuderia a cui l’Alfa Romeo delegava la gestione della propria attività sportiva, fondò a Maranello (paesino dell’Emilia che grazie a questa fabbrica diventerà noto in tutto il mondo) l’azienda alla quale diede il proprio nome, la Ferrari. Diventerà l’icona dell’eccellenza, della velocità, del lusso e della linea italiana. Il progetto della prima vettura, opera di Gioacchino Colombo (1903-1987), nacque nell’estate del 1945; l’esordio in corsa fu del maggio 1947; la prima vittoria di due settimane dopo: prima riga di un albo d’oro che diventerà monumentale. Al centro della storia della Ferrari c’è il suo fondatore, Enzo, che disse di non essersi mai considerato un progettista, né tanto meno un inventore. Bensì soltanto un ‘agitatore’: agitatore di uomini e di problemi tecnici. Uomo dotato di caratterialità fortissima, di volontà indomabile, di determinazione assoluta e anche di grande ironia, è uno dei migliori simboli dell’Italia del secondo Novecento.
La Ferrari non è l’unica azienda automobilistica che ha fatto grande la zona emiliana. Dalla fine degli anni Quaranta a tutti gli anni Sessanta Modena ha rappresentato il principale centro europeo per la costruzione di automobili da corsa e da granturismo, con un processo giunto a maturazione in un periodo abbastanza breve, dall’inizio degli anni Trenta con la scuderia Ferrari alla fine di quel decennio con il trasferimento della Maserati da Bologna a Modena e l’emergere della scuderia Stanguellini.
I primi anni del dopoguerra videro un rinnovato fervore in tutte le aziende modenesi; a Modena giungevano giornalisti da tutto il mondo; la presenza delle case modenesi, nelle gare di Formula 1 come in quelle di durata, era costante e spesso coronata dal successo. Alle marche già citate, nel 1947 si aggiunse la Osca, fondata a Bologna dai fratelli Bindo, Alfieri, Ettore ed Ernesto Maserati, e nel 1963, a Sant’Agata Bolognese, Ferruccio Lamborghini (1916-1993) diede vita a un’altra azienda destinata a storia gloriosa. Fu un periodo entusiasmante che ha inciso profondamente nel modo di vedere le corse e le aziende che vi partecipavano da parte di schiere di appassionati di tutto il mondo. Nel 1957 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi suggellò questa singolare concentrazione di marchi d’eccellenza visitando Modena e le due case più note, Ferrari e Maserati.
Radiografia del dopo boom
Dal 1957 al 1966 la produzione automobilistica italiana sul totale della Comunità economica europea crebbe dal 14,1% al 20,5%; sul totale europeo, negli stessi anni, dal 9,4% al 15,3%; sul totale della produzione mondiale dal 3% al 6% (Minola 1967, p. 4). Nel decennio, l’esportazione automobilistica italiana si sviluppò apprezzabilmente in senso assoluto – in misura maggiore le autovetture, minore gli autoveicoli industriali –, ma meno di quanto si fosse incrementata la produzione, evidentemente per effetto della forte richiesta del mercato interno. Solo nel 1964, in parallelo con un andamento recessivo del mercato italiano, si registrò un sensibile aumento dell’esportazione per la maggiore disponibilità del prodotto e l’intensificato sforzo esportativo dei produttori. Nel 1966 le esportazioni costituirono il 29% dei veicoli prodotti, mentre nella Germania Federale avevano superato il 50%, e in Gran Bretagna e Francia si collocavano tra il 35% e il 40% circa (Minola 1967, p. 5). Però nel 1966 la Fiat occupò solidamente il primo posto degli esportatori di autoveicoli sia nella Germania Federale sia in Francia e mantenne, a notevole distanza dagli altri, il primo posto nelle immatricolazioni totali del Mercato comune (Fiat 29%, Volkswagen 15,5%, Opel 12%, Renault 11,5%, Citroen 11%, Ford D 10%; Minola 1967, p. 6) . Sul mercato interno, invece, le immatricolazioni di autoveicoli esteri erano pari all’11% dell’assorbimento totale italiano. Se si parla invece di investimenti dell’industria automobilistica nazionale, questi passarono dai 115 miliardi del 1961 ai 92 del 1966. L’esportazione di prodotti auto nel 1966 rappresentò il 7,4% dell’esportazione totale italiana (5020 miliardi) e il 28,8% della produzione del settore.
A produrre tutto questo, erano, nel 1966, 8 aziende di cui due riunite in un gruppo che assicurava circa il 90% della produzione totale (Fiat, con una produzione di 1.110.701 veicoli; Autobianchi, 37.422;), tre di potenzialità assai più limitata, se pur di alto impegno qualitativo (Alfa Romeo, con 59.971 auto all’anno; Lancia, 36.988; Innocenti, 35.967), e tre di piccole dimensioni, ma caratterizzate da una specializzazione sportiva (Ferrari, 665 auto l’anno; Maserati, 494; Iso, 210 vetture). Il grado di sfruttamento della capacità produttiva massima (ossia la produzione realizzabile con il pieno sfruttamento degli impianti a orario di lavoro normale) era dell’80-85%. Il mercato nazionale assorbiva oltre il 71% delle vetture prodotte (Minola 1967, pp. 10 e segg.).
L’industria automobilistica non fu l’unica ad avere un passo travolgente. Altrettanto impetuosa fu la crescita dell’industria italiana degli elettrodomestici (frigo, congelatori, condizionatori, lavapanni, lavastoviglie, commercialmente inesistenti sul nostro mercato 10-15 anni prima), che nel 1966 produsse per circa 220 miliardi di lire, dando luogo a una notevole corrente di esportazione e creando migliaia di posti di lavoro. Questi 220 miliardi corrisposero nel 1966 a una produzione di quasi 5 milioni di unità, un dato che la pose al terzo posto nel mondo dopo gli Stati Uniti e il Giappone (Minola 1967, p. 14). Affermazione resa possibile dalla forte domanda interna che permise elevati investimenti in impianti sempre più efficienti, dai quali la produzione usciva in grandi quantità e a basso costo, vale a dire con le inscindibili caratteristiche necessarie per l’aggressività nell’esportazione. L’andamento del settore può considerarsi una buona spia anche per il settore automobilistico: se l’uno è in crescita, lo è anche l’altro, se il secondo è in recessione, il primo è in crisi, un parallelo valido anche in anni odierni.
Passarono pochi anni e il mercato si confermò stabilmente, stretto saldamente nelle mani di un’unica azienda, la Fiat, che nel 1969 lanciò il più elevato numero di modelli nuovi: la 128 berlina e familiare, la 130, la Dino 2400, la 124 sport coupé, le Autobianchi A112, Primula 65C, coupé S, A111; nello stesso anno acquistò la Lancia e il 50% del capitale Ferrari.
L’Italia si stava trasformando in nazione motorizzata e imparava a conoscere anche la congestione del traffico, le code in autostrada, l’aria irrespirabile nei centri urbani. Lentamente si adeguò anche la legislazione sulla sicurezza stradale: nel 1970 diventò obbligatoria l’assicurazione su tutte le vetture e dal 1988 decorse l’obbligo, pochissimo osservato, dell’uso delle cinture di sicurezza.
Le crisi petrolifere e il sistema Toyota
Negli anni Settanta il mercato dei Paesi industrializzati mutò in maniera radicale, avviandosi rapidamente alla sua maturità. Non più un mercato di prima motorizzazione, come quello dei Paesi emergenti, bensì un mercato di sostituzione di automobili diventate obsolete. Perso il suo fascino iniziale di prodotto d’alta tecnologia e di status-symbol, l’automobile si confermava strumento indispensabile per la vita quotidiana, che deve convincere per qualità e affidabilità. A complicare il quadro intervennero però fattori del tutto inaspettati.
Risale al 1973 la prima crisi energetica, a segnare l’inizio di un periodo di aumento continuo dei prezzi del carburante. Il costo del petrolio passò dai due dollari al barile dei primi anni Settanta ai 40 dollari al barile alla fine del decennio. La produzione mondiale di vetture si contrasse (nel 1975 si produssero cinque milioni di automobili in meno rispetto a due anni prima; in Italia, circa 500.000 in meno, da un milione e ottocentomila a un milione e trecentomila). Nel 1974 nacquero le domeniche a piedi, ma erano palliativi di fronte a una crisi economica grave, che riguardava ben di più della quota, pur rilevante (10% sul totale della popolazione attiva) di lavoratori coinvolti direttamente o indirettamente nel settore automobilistico. Si trattò, infatti, di una crisi innescata anche da una perdita di produttività e da una disaffezione crescente degli acquirenti verso i marchi nazionali. La quota di auto italiane sul totale delle immatricolazioni scese nel 1980 al 58,5%: furono immatricolate 895.000 vetture di produzione nazionale, contro 635.000 vetture di produzione estera (nel 1968 la percentuale era dell’84,8%, 920.000 contro 177.000).
Fu però la seconda crisi petrolifera del 1979 a imprimere un nuovo indirizzo all’organizzazione del lavoro. Ebbe inizio in quegli anni un’altra, ennesima rivoluzione all’interno delle fabbriche, di cui nuovamente fu traino l’industria automobilistica, e che può essere collocata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. La crisi derivante dal rialzo dei prezzi petroliferi indirizzò le aziende verso una generalizzata riduzione dei volumi di produzione dei singoli modelli, a favore di un maggior frazionamento dell’offerta, in piena contraddizione con uno dei principi base della produzione di massa, l’aumento dei volumi produttivi.
Prese dunque piede una diversa organizzazione del lavoro, definita produzione snella, che ricalcava quella messa a punto dalla casa giapponese Toyota per far fronte a un mercato interno capace di assorbire soltanto poche migliaia di unità per modello: il metodo just in time. L’azzeramento dei magazzini, la produzione in stretta funzione della richiesta del mercato, una maggiore flessibilità nella suddivisione delle mansioni all’interno delle officine, con l’allestimento di linee di lavoro costituite da postazioni fisse nelle quali vengono svolte operazioni di montaggio diverse, generalmente più articolate di quanto potesse avvenire lungo una catena di montaggio convenzionale, furono i tratti distintivi di questa nuova fase. Con una diversa suddivisione del ciclo produttivo diventò possibile mantenere le singole fasi del processo produttivo in attività continua, adeguando la produzione alle reali richieste del mercato.
Analogo sforzo innovativo fu fatto sul prodotto, mirando a migliorare consumi, sicurezza, abitabilità, oltre che linea e immagine, dei vari modelli offerti dai costruttori. Cominciò a fare i primi passi l’elettronica; in campo progettuale, il passaggio dal tavolo da disegno al CAD (Computer Aided Design), risultò altrettanto fondamentale, anche sul piano del contenimento dei costi, di quello che era stato il passaggio dal motore a vapore a quello a scoppio.
I benefici sul mercato furono evidenti, innanzitutto in termini di volumi produttivi: la produzione di automobili in Italia nel 1988 (1.884.000 auto) segnò un nuovo record, superando il picco del 1973 (1.823.000), rimasto ineguagliato per quindici anni. Per sette anni consecutivi il Paese nel suo complesso registrò una crescita economica del 3% e questo fece sì che dal milione e 400.000 auto immatricolate nel 1979 si passasse ai due milioni e 300.000 del 1989. A questo risultato concorsero tutte le aziende presenti sul mercato. Fiat riprese a crescere dal 1982 e Autobianchi dal 1984; Lancia anticipò tutti nel 1980 con un aumento di produzione dell’83% rispetto all’anno precedente grazie alla Delta; infine, l’Alfa Romeo, l’unica casa a continuare a esportare più del 40% della sua produzione, riprese la crescita dal 1983. Si dimostrò vincente una strategia basata su un rapido rinnovamento dei modelli e sull’ampiezza della gamma offerta, più che sul contenimento dei prezzi: dal 1970 al 1990 i costruttori italiani triplicarono il numero delle versioni a parità di modelli prodotti, e introdussero modelli di gran successo, come la Uno (1983), la Croma e la Thema (1985), la Tipo e la 164 (1987), la Dedra (1989), la Tempra (1990). Nel 1989 in Italia si immatricolarono 2.296.784 automobili, di cui 1.365.000 italiane (Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Autobianchi, Innocenti, Maserati, Ferrari, De Tomaso, Lamborghini) e le restanti straniere.
Il giro d’affari del settore, all’affacciarsi degli anni Novanta, era vorticoso: 205.000 dipendenti diretti, senza contare l’indotto costituito da meccanici, gommisti, carrozzieri, benzinai, ricambisti, casellanti ecc.; 42.000 miliardi spesi dagli italiani per i costi di esercizio dei loro veicoli. L’industria automobilistica italiana, ormai, era un colosso, dominato da un’unica grande azienda in posizione monopolistica, nella quale erano confluiti quasi tutti i marchi italiani ancora in attività. Fiat, infatti, oltre a Lancia e Ferrari, acquisì anche l’Alfa Romeo nel 1986, l’Innocenti nel 1990 e il 49% della Maserati nel 1993. Eppure qualcosa cominciava a scricchiolare.
Nel 1991 in Italia per la prima volta le auto estere superarono le Fiat: furono il 54% delle immatricolazioni (nel 1973 erano il 26,8%). L’anno prima si era già registrato, anch’esso per la prima volta, un saldo negativo tra import ed export. Il mercato era drogato dalle nuove regole in materia di emissioni: nel 1992 la corsa all’acquisto delle auto con marmitta catalitica fece toccare al mercato nazionale il record di immatricolazioni, 2.389.395 auto nuove. Da allora il calo sarà continuo fino al nuovo record del 1997 (2.393.607), del 2000 (2.411.990) e del 2001 (2.418.226), grazie agli incentivi sulle rottamazioni. Ma di questo grande volume di vendite si avvantaggiarono più le marche straniere (64,5% del mercato nazionale nel 1999, 71,9% nel 2004) che le marche italiane.
Automobile: fine di un’era?
La storia degli ultimi anni è materia troppo incandescente per poter essere trattata in un volume con finalità di analisi storica. Si può solo accennare a degli elementi che paiono emergere con maggiore forza dal magma dell’attualità, tenendo conto del fatto che gli ultimi venticinque anni hanno cambiato il mondo dell’auto, più di ogni altra epoca da quando l’auto esiste. Innanzitutto le vicende politiche ed economiche di questi lustri hanno reso difficile parlare dell’auto come di un prodotto nazionale. Lancia prodotte da Chrysler negli Stati Uniti, Ford prodotte da Fiat in Polonia, Peugeot-Citroën prodotte da Mitsubishi nei Paesi Bassi, Toyota prodotte in Messico da Mazda, sono solo alcune realtà del nostro nuovo mondo globalizzato. Fusioni e acquisizioni, in tutto il mondo, sono state ricorrenti, alcune fallite (Daimler-Chrysler, BMW-Rover), altre riuscite (Peugeot-Nissan), altre criticate (Fiat-Chrysler), ma tali da ridurre notevolmente il numero di costruttori, a fronte di un aumento delle vetture prodotte nel mondo da 50 a 80 milioni/anno. Le aspettative dei clienti si sono ampliate grandemente, articolandosi in modi diversi, a seconda dei mercati, ma con un comune denominatore: la crescente sensibilità verso l’ambiente e la sicurezza, che nel corso degli anni ha fatto maturare un atteggiamento etico mai visto prima e che ha spinto svariati costruttori a impegnarsi sul fronte delle vetture ibride. Motori del mondo sono diventati Germania e Cina: la Germania fornisce un’auto su due in Europa e un’auto su cinque nel mondo, la Cina è ormai una realtà industriale inarrestabile, tale da diventare il primo mercato mondiale.
In Italia, il declino del settore automobilistico è innegabile. La Fiat registra un crollo delle quote di mercato interno che pare non avere rallentamenti: dal 57,8% del 1989 al 46,2% del 1994 al 32% del 2008 al 29,7% del novembre 2012 («La Repubblica. Auto», 5 dicembre 2012). I dati parlano di una crisi profonda che tocca non solo l’auto, ma l’intero settore industriale italiano. Nel 1970, nel solo Piemonte, l’industria rappresentava il 40% del PIL (Prodotto Interno Lordo); oggi, poco più del 20% (dati Unioncamere 2012). Uno stravolgimento produttivo, ma anche culturale e psicologico. Il comparto auto soffre in Italia di un mercato maturo, saturo, in cui le vendite sono scese da due milioni e mezzo del 2007 a un milione e quattrocentomila (di cui oltre il 70% di produzione straniera) del 2012: un milione e centomila vetture in meno in cinque anni. Nel 2011 si sono vendute più biciclette che auto: 1.750.000 bici e 1.748.000 auto («La Repubblica», 1° ottobre 2012). Un dato isolato di questi ultimi anni è illuminante: nel 1993 la Fiat contava 260.000 dipendenti; dieci anni dopo, centomila lavoratori in meno; nel 2011 i dipendenti Fiat erano 141.000 di cui in Italia solo 63.000.
Non c’è più un’Italia dell’auto, come invece l’Italia è stata per tutti gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta del Novecento. I dati negativi si accavallano e si dibattono questioni, come il trasferimento di Fiat negli Stati Uniti, che sarebbero state impronunciabili qualche decennio fa. L’automobile ha cessato di essere strumento di crescita sociale, di occupazione, di emancipazione personale, di orgoglio e appartenenza. È diventata invece, tra progressiva perdita del potere d’acquisto delle famiglie, costante aumento del prezzo dei carburanti e dei pedaggi autostradali, crescita del costo delle assicurazioni, un bene di lusso, o comunque molto costoso.
Ma l’automobile è, per sua stessa definizione, qualcosa in movimento, e che racchiude un mondo di competenze, di energie, di passioni che nessun altro oggetto industriale del Novecento contiene. È il prodotto finale di tecnologia, innovazione, design, studio dei mercati, capacità imprenditoriale e progettuale, evoluzione dei materiali, processi produttivi; si avvale della scienza, ma anche della psicologia e dell’etica. Ogni automobile nuova è una diversa visione del mondo. Nel Novecento, in Italia in particolare, è stata il motore dell’economia e di gran parte dei rivolgimenti sociali, ambientali ed economici. Pare impossibile non riconoscerle, ancora una volta, un grande avvenire davanti a sé.
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