Nascita e sviluppo delle nuove forme di devozione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La genesi delle immagini devozionali cristiane trova radici in un vasto e diversificato repertorio che va dai ritratti funerari alle precedenti icone pagane. Nella transizione da un ambito di devozione privata a un culto ufficiale, le immagini vanno assumendo una connotazione imperiale nel lessico formale e nella relativa liturgia che si struttura secondo drammatici rituali.
Alla crescente penetrazione della religione cristiana nella società romana corrisponde una progressiva e capillare assimilazione delle antiche forme rituali pagane da parte della nuova religione che, quando non riesce a debellarle, se ne appropria riadattandole alla propria dottrina. Ne offrono un esempio noto i calendari: nella Depositio martyrum del Calendario Filocaliano del 354, la celebrazione della natività del Sol Invictus, il 25 dicembre, è sostituita con il Natale.
Ancora alla fine del V secolo le antiche tradizioni pagane resistono anche presso i cristiani e papa Gelasio deve battersi per impedire che i fedeli prendano parte al festeggiamento dei Lupercali. Questi fenomeni di resistenza e assimilazione ovviamente coinvolgono anche i rapporti con le immagini. L’intransigente divieto di raffigurare il Dio degli ebrei e in seguito dei cristiani, per sconfiggere ogni forma di idolatria, deve presto fare i conti con i costumi della società romana che, a ogni livello e strato, trova un forte elemento identitario proprio nelle immagini. Le gerarchie della Chiesa cristiana delle origini si mostrano tolleranti verso le illustrazioni della storia sacra a carattere catechetico, ma non possono esimersi dal biasimare quelle che giudicano, probabilmente a ragione, autentiche forme di idolatria. Epifanio, dal 367 vescovo di Salamina, si indigna nel constatare la presenza di un velum dipinto con l’effigie di Cristo o di un santo nella chiesa di un villaggio palestinese e ne impone la rimozione. Negli stessi anni Eusebio di Cesarea è costretto a opporre un rifiuto alla richiesta di un’immagine di Cristo da venerare da parte della sorella dell’imperatore Costantino, Costanza. A dispetto degli sforzi degli ecclesiastici, i fedeli di uno sperduto centro palestinese e la sorella dell’imperatore sono accomunati dalla stessa incoercibile devozione verso le immagini sacre.
Su quali siano i prodromi e i modelli ispiratori di queste immagini di culto perdura un vivace dibattito. Si discute se e quanto abbiano inciso il bagaglio figurativo e cerimoniale imperiale, o piuttosto la preesistenza di icone pagane, o, ancora, la tradizione del ritratto funebre o, in definitiva, come e quanto queste diverse pratiche si siano ibridate e siano alla fine confluite insieme, fondando nuove forme di culto. Di certo esiste un cospicuo gruppo di icone tardoantiche raffiguranti divinità pagane, rinvenute ad al-Fayyum, in Egitto, e trasferite presso il Museo Egizio di Berlino. Quando è stato possibile ricostruire la natura del loro sito di provenienza, è emerso che una quota significativa proviene da contesti privati. In parallelo, le prime testimonianze di sacre immagini cristiane tramandate dalle fonti rinviano all’iniziativa di singoli fedeli o di comunità scismatiche, estranee alla chiesa ufficiale. Dunque, le icone di santi e divinità cristiane si affermerebbero in continuità con le analoghe immagini di culto pagano, come i sarcofagi cristiani proseguono la tradizione di quelli pagani.
Eppure anche nella pittura funeraria cristiana si assiste a uno slittamento semantico delle immagini: il ritratto funebre da immagine commemorativa si tramuta in tributario di riti. È un processo alimentato dal contemporaneo progredire di due fenomeni: la facoltà di caratterizzare le tombe cristiane con ritratti individuali al posto delle precedenti figure simboliche e il crescente culto dei santi. Già nel sarcofago di Adelfia, di età costantiniana, i volti dei coniugi cristiani sono descritti con una certa accuratezza fisiognomica. Più di un secolo dopo, un arcosolio nella galleria principale della seconda catacomba napoletana di San Gennaro ospita il ritratto del presbitero Proculo affiancato da alti candelabri con ceri accesi e da ghirlande di fiori pendenti, a testimonianza di riti e offerte funerari, secondo un repertorio che, mutatis mutandis, somiglia molto a quello di una nostra qualsiasi tomba contemporanea. Il dipinto di Proculo si limita a fissare in pittura gli elementi di un rito privato o attesta una speciale venerazione destinata a uno speciale defunto? È un’ambiguità che accompagna la genesi delle immagini votive dei santi generando confusione anche nei fedeli dell’epoca. La risposta può dipendere dalla combinazione di molti fattori: dall’ufficialità dell’iniziativa, dalla fama del defunto, dalla ricezione della comunità. Il legame tra il ritratto del santo e la sua sepoltura è comunque cruciale. Nella seconda metà del IV secolo la tomba della martire Agnese, nelle omonime catacombe romane, è a più riprese risistemata e decorata su iniziativa papale. Risale probabilmente a uno di questi interventi una lastra marmorea, oggi murata lungo lo scalone di accesso della chiesa, con l’immagine di una fanciulla in posa di orante, identificabile come la santa. L’effigie di Agnese presso la sua tomba in un assetto liturgico ne certifica la speciale dignità e sollecita la devozione dei fedeli. Quando sulla tomba di sant’Agnese viene eretta una vera e propria basilica, su patrocinio di papa Onorio I, la rappresentazione della martire emigra nella calotta dell’abside, da dove incombe in abiti regali, rigida, frontale e remota sul fondo d’oro, come un’autentica enorme icona in mosaico. Sulla sua immagine, nel punto nodale dell’edificio sacro, non possono non convergere gli sguardi dei fedeli.
Nella basilica eretta sulla tomba di san Demetrio a Tessalonica, ricostruita nel VII secolo dopo un incendio, le pareti e i pilastri si vanno riempiendo di pannelli votivi che moltiplicano a dismisura l’effigie del santo titolare. Sono in genere pannelli in mosaico che adottano un variegato formulario, ma condividono una costante: la presenza dei ritratti di devoti che si affidano all’intercessione del santo. Il suo gesto supplice non è più inteso a impetrare la salvezza della propria anima, ma a intercedere per quella dei fedeli, e per questo le sue mani spesso sono dorate, a sottolinearne il potere taumaturgico.
Le tombe dei martiri catalizzano anche le sepolture degli adepti, fiduciosi di potersi assicurare una protezione nell’aldilà grazie al loro santo intervento. Questa pia speranza trova un’efficace visualizzazione nel pannello dipinto tra 527 e 528 nella basilichetta custode delle spoglie mortali dei santi Felice e Adautto, nelle catacombe di Commodilla, a Roma. La devota Turtura è ritratta inginocchiata ai piedi di una maiestatica Madonna con Bambino in trono, al cui cospetto provvede a introdurla affettuosamente uno dei due santi, in piedi al fianco della Vergine, mentre l’altro, dalla parte opposta, assiste immoto. Per proprietà transitiva il ritratto del santo, purché autentico, va assumendo uno speciale carisma.
Nel Sancta Sanctorum, la cappella privata dei pontefici, si veneravano come reliquie due piccole immagini dei santi Pietro e Paolo. Credute i due autentici ritratti dei principi degli apostoli che, secondo la leggenda, papa Silvestro I aveva mostrato a Costantino, in realtà sono realizzate attorno all’800. Il Sancta Sanctorum custodiva anche una cassettina reliquiario, datata circa al 600, contenente terra e pietre dei luoghi sacri della Terra Santa, meta di pellegrinaggi. Sul coperchio sono illustrate immagini raffiguranti episodi e luoghi biblici che ne qualificano il contenuto e, forse, riproducono altrettante icone venerate in loco: la Natività, il Battesimo, la Crocefissione, più grande e al centro, le Marie al Sepolcro e l’Ascensione. Si ribadisce il nesso reliquia/immagine, ma compare anche il fenomeno di replica e circolazione delle raffigurazioni iconiche al seguito dei pellegrini.
L’irresistibile ascesa delle icone cristiane porta alla strutturazione di un nuovo linguaggio simbolico che attinge al bagaglio iconografico espressivo del potere temporale e riesce a compendiare più temi. La più antica icona di san Pietro, attribuita al VII o all’VIII secolo e custodita nel monastero di Santa Caterina al Monte Sinai, presenta il santo davanti a una nicchia, qualificato dalle chiavi, simbolo del suo potere apostolico, e dalla croce del suo martirio. La possente fisicità e il suo acceso colorito ci assicurano di essere in presenza di un vero ritratto, del tipo potenzialmente visibile sulla sua tomba. In alto, astratti su uno sfondo azzurro che ne enfatizza la dimensione sovratemporale, stanno tre clipei con i busti del Cristo, in posizione dominante al centro, e, ai lati, della Vergine e di san Giovanni, testimoni del suo sacrificio. La divina auctoritas del Cristo si fa garante delle capacità taumaturgiche di Pietro. È una formulazione di immagine che deriva in maniera lampante dai dittici consolari, come evidenzia il confronto con il dittico del console Giustino (Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Frühchristliche-Byzantinische), del 540, cronologicamente non distante dall’icona sinaitica. Anche qui l’effigie del console con gli attributi della propria carica è sormontata da busti clipeati. I tondi laterali ospitano i ritratti della coppia imperiale, fonte della sua legittimità, mentre quello centrale è dedicato al Cristo, consacrato come massima autorità.
Le icone cristiane da immagini devozionali private vanno assumendo i crismi dell’ufficialità. La leggenda dell’icona del Cristo di Camuliana, un villaggio della Cappadocia, riassume le tappe di questo percorso. L’immagine si sarebbe miracolosamente formata da sé per contraddire lo scetticismo di una donna, refrattaria a credere a un dio invisibile, e, in seguito, si sarebbe duplicata, sempre miracolosamente. Una delle due immagini, dopo il 560, sarebbe stata condotta in processione per raccogliere i fondi necessari all’erezione di una chiesa. Per la prima volta un’icona è protagonista di un rituale riservato alle effigi imperiali. Sull’onda della sua fama l’icona di Camuliana è trasferita a Costantinopoli ed entra a far parte del novero dei difensori soprannaturali della capitale, tanto che Eraclio nel 622 la porta con sé sul campo di battaglia nella campagna bellica contro i Persiani. Speciale prerogativa dell’icona di Camuliana, e della sua replica, è l’essere immagini acheropite, non dipinte da mano umana. Questa eccezionale condizione mette al sicuro i fedeli dal rischio di idolatria, laddove i falsi idoli sono fabbricati da comuni mortali, ma, soprattutto, ribadisce la doppia natura del Cristo che si è incarnato e dunque dispone del proprio aspetto umano consentendone la traduzione in effigie.
Alla medesima esigenza di visualizzare il mistero dell’incarnazione devono corrispondere le più antiche immagini di Madonne con il Bambino. Alcune di esse vengono fatte risalire alla mano dell’evangelista Luca, che avrebbe realizzato un ritratto dal vivo della Madre di Dio con il Figlio. Così si assicura a queste icone l’indispensabile requisito dell’autenticità e, anzi, si accreditano addirittura esse stesse come reliquie. È incerto quando sia nata la leggenda del ritratto di Luca, ma nel corso dell’VIII secolo gode ormai di piena diffusione, tanto da essere usata come argomento contro gli iconoclasti. Le icone mariane sopperiscono all’assenza di reliquie corporali. Qualche volta si riesce a ottenere dalla Terra Santa una reliquia di contatto, come il mantello della Vergine, recuperato dal suo presunto sepolcro e, forse all’epoca di Leone I, inviato nella capitale orientale, dove trova posto nel quartiere delle Blacherne. Le icone della Vergine e il suo sacro mantello, entrambi ugualmente rappresentativi della sua persona, si associano all’immagine acheropita del Cristo nella difesa di Costantinopoli durante l’assedio degli Avari del 626. La Vergine diventa il palladio di Costantinopoli, garante della sua inespugnabilità. Poco tempo prima l’imperatore Maurizio fa sostituire sul proprio sigillo l’immagine della Nike con un’effigie di Maria. I sigilli imperiali tra il 695 e il 720 mostrano la Madonna a figura intera che sostiene il Bambino sul braccio sinistro. Si tratta dell’iconografia mariana più diffusa sia in Occidente che in Oriente, nota a partire dalla metà dell’XI secolo come Odighitria, in connessione con il monastero costantinopolitano di Hodegon che ne serbava l’esemplare più illustre. È abbastanza frequente che un’icona prenda il nome dal luogo in cui è venerata.
L’imperversare dell’iconoclastia (726-843) nella capitale bizantina comporta la perdita di tutte le icone precedenti. A testimonianza delle icone di età pre-iconoclasta rimangono un gruppetto di splendide tavole presso il monastero di Santa Caterina al Monte Sinai, fondato dall’imperatore Giustiniano, e un cospicuo numero di esemplari a Roma. Le antiche icone romane della Vergine a Roma appaiono in stretto rapporto con gli edifici sacri che le ospitano, assumendo l’allure di “titolari del tempio”. La Madonna con Bambino del Pantheon sembra corrispondere a un’immagine di fondazione legata alla consacrazione, in alternativa alle reliquie. Dovrebbe infatti risalire alla conversione dell’edificio pagano in chiesa dedicata a Maria e a tutti i martiri avvenuta nel 609, durante il pontificato di Bonifacio IV. L’immagine si qualifica per l’impostazione monumentale, forse in origine ancora maggiore, se davvero era a figura intera, e corrisponde al tipo definito per praticità Odighitria. Risultano meno chiare le origini delle altre icone mariane. La datazione dell’altrettanto imponente Madonna con Bambino proveniente dalla chiesa di Santa Maria Antiqua oscilla tra gli anni Trenta del VI secolo e il secolo seguente ed è complicata dal dibattito circa l’epoca dell’ufficiale conversione in chiesa di quello che era solo un vestibolo del palazzo imperiale.
L’icona è oggi custodita nella chiesa di Santa Francesca Romana, anticamente Santa Maria Nova, dove sarebbe stata trasferita al seguito dei monaci costretti ad abbandonare la prima sede danneggiata dal terremoto dell’847. L’antico dipinto è stato riscoperto sotto gli strati pittorici successivi in seguito a un restauro moderno e ha quindi preso il nome di Imago Antiqua. LImago Antiqua potrebbe essere una significativa testimonianza dello stretto legame tra l’immagine di culto e la propria comunità. È ancora più enigmatico il caso della Madonna con Bambino di Santa Maria Maggiore, in seguito conosciuta come Salus Populi Romani. L’antica pittura è infatti occultata dal rifacimento di XII secolo, ma se ne presume una datazione al VII-VIII secolo o, addirittura, agli inizi del VI, nel qual caso risulterebbe la più antica. Di certo è la più venerata, protagonista molto presto di importanti liturgie che la associano all’icona del Salvatore del Laterano. Quest’ultima è fin dalle origini conservata presso la residenza papale. Quando i Longobardi scatenano un’offensiva contro Roma, papa Stefano II la fa portare in processione a difesa della città, come era accaduto con il Cristo Acheropita costantinopolitano del quale l’esemplare romano ricalca anche il nome, corrompendolo in acheropsita. La figura dell’Acheropita lateranense è ridotta a una larva. Già nel X secolo doveva essere così sciupata che, stando a un’iscrizione, papa Giovanni X dispone che ne sia ridipinto il volto su una nuova pezza di tela. Successivamente Innocenzo III la fa rivestire con la riza d’argento che ancora oggi la ricopre quasi per intero, ostacolandone la visione. Nella sola occasione in cui è stato possibile ispezionarla è stata giudicata un’opera romana eseguita tra la fine del V secolo e la prima metà del seguente, raffigurante un Cristo assiso su un trono. È possibile farsi un’idea del suo aspetto dalle numerose repliche medievali sparse nel Lazio, tra Tarquinia, Sutri, Velletri, Capranica, Trevignano, Viterbo e Casape. Tra queste, l’immagine del Salvatore nella tavola centrale del trittico del Duomo di Tivoli, attribuita agli esordi del XII secolo, è forse la più antica. A stimolare la riproduzione dell’Acheropita lateranense può aver concorso il diffondersi della processione dell’Assunta, di origine romana.
L’Acheropita lateranense e la Salus Populi Romani sono gli attori principali della solenne processione celebrata il 15 agosto, giorno dell’Assunta, probabilmente a partire dall’VIII secolo. L’istituzione della festività dell’Assunta si deve a papa Sergio I, responsabile dell’introduzione nel calendario romano delle ulteriori festività mariane della Natività e della Purificazione. La prima descrizione della processione dell’Assunzione si ha solo al tempo di papa Leone IV, ma si doveva trattare di una prassi ormai consolidata. Con la partecipazione corale di tutta la cittadinanza romana, raggruppata lungo il tragitto secondo criteri gerarchici, l’icona del Cristo a mezzanotte esce dalla propria residenza presso il Laterano per recarsi a visitare l’icona della Madre, la Salus Populi Romani, a Santa Maria Maggiore, dove giunge all’alba, quando il sole sorgente allude all’Assunzione della Vergine. Il percorso è scandito da tappe, e la sosta davanti alla chiesa di Santa Maria Nova ne è uno dei momenti culminanti: qui l’icona del Cristo incontra per la prima volta l’immagine della Madre, probabilmente l’Imago Antiqua. Le due immagini sono affiancate, ben in vista, e gli astanti, secondo una sapiente regia drammatica, intonano un inno concepito come un dialogo tra Madre e Figlio, incentrato sul ruolo di intermediazione presso il Salvatore della Vergine, Madre dei Romani, per la loro salvezza. L’evento nel segno delle immagini in rappresentanza dei divini protettori sancisce l’unità della comunità romana. Sono gli esordi di un cerimoniale liturgico destinato a durare per secoli a Roma e in altre cittadine laziali.