Abstract
Viene analizzata storia ed evoluzione nei compiti e nelle funzioni della North Atlantic Treaty Organization (NATO), organizzazione internazionale istituita nel 1949 con il Trattato di Washington. L’ampliamento e la modifica delle mansioni originarie dell’Organizzazione attraverso i Concetti Strategici sono oggetto di attenzione, così come la prassi in scenari di guerra e situazioni di forte instabilità politica (Afghanistan, Balcani, Corno d’Africa, Medio Oriente, Nord Africa).
La North Atlantic Treaty Organization (NATO) è un’organizzazione internazionale a carattere regionale creata in seguito alla firma a Washington del Trattato dell’Atlantico del Nord (Patto atlantico o Trattato di Washington) il 4 aprile 1949 (entrato in vigore il 24 agosto 1949). I membri fondatori sono Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito (l’Organizzazione conta attualmente 29 Stati membri).
Il testo del Patto Atlantico venne reso pubblico prima della firma il 18 marzo 1949, in modo da preparare l’opinione pubblica mondiale. L’Organizzazione nacque in piena Guerra Fredda (1947-1981) come alleanza militare in chiave anti-sovietica tra Stati dell’Europa Occidentale e del Nord America (Stati Uniti e Canada), volta a prevenire o reprimere un possibile attacco nei confronti della Germania Ovest o dell’Austria. L’accordo, infatti, prevedeva una risposta militare (quasi) automatica nell’eventualità di un’aggressione dell’URSS in Europa, America del Nord, Algeria, contro un’isola dell’Atlantico al Nord del Tropico del Cancro, contro una nave o un aeromobile di uno Stato membro.
Nell’idea dei fondatori, l’Organizzazione doveva altresì costituire la base per un dialogo continuo ed una stretta cooperazione tra i Paesi membri su questioni politiche, economiche ed altri temi non militari.
A partire dalla Conferenza di Mosca (1947), dove non fu possibile trovare un punto di incontro tra gli Alleati sul futuro status della Germania, i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si iniziarono ad incrinare.
Gli alleati europei temevano un’espansione ad Occidente dell’URSS ed erano consapevoli della necessità del sostegno militare statunitense per mantenere la loro sicurezza. Infatti, Bevin, l’allora Ministro degli affari esteri britannico (universalmente riconosciuto come il padre fondatore del Trattato di Washington) propose all’allora Segretario di Stato americano, Marshall, la stipula di un patto di mutua difesa sul modello dell’Atto di Chapultepec del 1945 (precursore del Trattato interamericano di assistenza reciproca, o Patto di Rio), che prevedeva un impegno difensivo tra gli Stati latino-americani. Infatti, il piano Marshall (European Recovery Program – ERP) non era ritenuto sufficiente a salvare l’Europa dalla minaccia sovietica. Tuttavia, all’epoca, i piani strategici di difesa statunitensi prevedevano una linea di difesa che si fermava ai Pirenei ed alla Manica. Bevin era consapevole che un primo passo per arrivare ad un accordo con gli USA consisteva nella stipula di un trattato di mutua sicurezza tra i Paesi dell’Europa Occidentale. Il 17 marzo 1948 venne stipulato un patto di mutua difesa tra Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Lussemburgo (il Patto di Bruxelles) istitutivo dell’Unione Europea Occidentale (UEO). Tale accordo prevedeva un’assistenza militare automatica in caso di aggressione contro uno degli Stati parti.
Il nuovo sistema di alleanze che si venne a creare al termine della Seconda Guerra Mondiale alla base dell’UEO fu l’inevitabile corollario dell’inizio “ufficiale” della Guerra Fredda nel 1947. Fino a quell’anno, infatti, i trattati di alleanza in Europa (il Trattato franco-sovietico del 1944 e il Trattato franco-britannico del 1947) erano stati stipulati esclusivamente in chiave anti tedesca.
Fin dalla firma del Patto di Bruxelles era insita l’idea di costituire un meccanismo di assistenza militare tra Europa e Stati Uniti (in effetti la pre-condizione della controparte statunitense per iniziare i negoziati su tale materia era la costituzione di un sistema di difesa in Europa).
Dalla parte degli Stati Uniti, la nota Risoluzione Vandenberg adottata dal Senato USA l’11 giugno 1948 – in risposta all’inizio del blocco di Berlino da parte dell’URSS – autorizzò il Governo USA a concludere in tempo di pace alleanze militari al di fuori del continente americano. Pertanto, gli USA acconsentivano a divenire membri di organizzazioni o accordi regionali di mutua difesa per l’esercizio del diritto di legittima difesa collettiva previsto all’art. 51 della Carta dell’ONU (v. Legittima difesa). Tale Risoluzione, in linea con la dottrina Truman, costituì un cambio radicale della politica estera americana, tradizionalmente votata all’isolazionismo (Dottrina Monroe). La rielezione di Truman alla presidenza USA nel novembre 1948 creò un clima favorevole alla conclusione del Trattato. Un comitato permanente di esperti, presieduto dal Generale Lovett elaborò e sottopose ai Governi interessati un progetto di accordo, che venne poi approvato e firmato a Washington.
Aderirono successivamente al Trattato Grecia e Turchia (1952), e Repubblica Federale di Germania (1955). La risposta sovietica all’incorporazione della Germania Ovest nella NATO fu il Patto di Varsavia (Treaty on Friendship, Cooperation and Mutual Assistance, 14 maggio 1955), stipulato tra Unione Sovietica, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria, Romania, Albania e Germania Est.
Nel marzo 1966 il Generale De Gaulle annunciò l’intenzione della Francia di ritirarsi dalla struttura militare dell’Alleanza e in conseguenza le forze militari alleate e i quartier generali alleati vennero rimossi dalla Francia. Allo stesso modo, il colpo di Stato militare a Cipro ed il susseguente arrivo di truppe turche sull’isola comportò il ritiro delle forze greche dalla struttura militare integrata dell’Alleanza. La Grecia comunque acconsentì a rientrare nella struttura militare nell’ottobre 1980. È importante sottolineare che nonostante il ritiro di Francia e Grecia del proprio personale militare dai comandi integrati, nessuno di questi Paesi cessò di essere Parte al Trattato, che rimase, pertanto, non colpito da tali avvenimenti politico-militari.
In seguito alla caduta del muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia e la dissoluzione dell’URSS, è venuta meno la principale ragion d’essere dell’Organizzazione, che, di fronte al rischio di scomparire, ha saputo rimodularsi attraverso l’adozione di tre dottrine strategiche (nel 1991, nel 1999 e nel 2010) ed aprirsi a Paesi dell’ex blocco sovietico attraverso la politica della porta aperta.
Finalità principale dell’Organizzazione è assicurare la pace e la sicurezza nella Regione Atlantica attraverso l’istituzione di un sistema di sicurezza collettivo (Preambolo). Infatti, il Trattato di Washington costituisce un accordo di legittima difesa collettiva, un’alleanza militare contro un’aggressione da parte di uno Stato nemico (art. 3). In origine, si trattava di un’organizzazione per l’esercizio dell’autodifesa collettiva ai sensi dell’art. 51 della Carta dell’ONU (versione moderna delle alleanze classiche tra Stati come, ad esempio, il Trattato Franco-Sovietico di Mutua Assistenza del 1935).
Gli articoli cardine sono il 4 («Consultazione in caso di minaccia di aggressione») ed il 5 («Risposta ad un’aggressione»). Ai sensi dell’art. 4, le parti si consulteranno qualora una di esse si senta minacciata da uno Stato terzo. Tale articolo è stato invocato cinque volte (ben quattro volte dalla Turchia e dalla Polonia nel 2014 in risposta all’annessione russa della Crimea).
Tuttavia, in caso di aggressione l’assistenza militare non è del tutto automatica. In presenza di tale eventualità, un attacco armato contro uno Stato membro in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come diretto contro tutte le Parti (casus foderis), le quali potranno assistere lo Stato aggredito intraprendendo immediatamente, individualmente o di concerto con le altre Parti, le misure giudicate necessarie («as it deems necessary»), compreso (eventualmente) l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza dell’Atlantico settentrionale (art. 5).
Lo Stato aggredito in primo luogo può rispondere in legittima difesa individuale o collettiva ai sensi dell’art. 51 della Carta dell’ONU («Legittima difesa individuale e collettiva») e dell’art. 5 del Trattato di Washington che prevede che «ciascuna parte … intraprenderà subito, individualmente e d’accordo con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire ed assicurare la sicurezza nella regione dell’Atlantico del Nord» (art. 5).
Tale meccanismo opera, pertanto, in via sussidiaria e temporanea rispetto al meccanismo previsto dal Capitolo VII della Carta dell’ONU («Azioni rispetto ad una minaccia alla pace, violazione della pace, o atto di aggressione»), in quanto è il Consiglio di Sicurezza l’organo dell’ONU incaricato di intervenire in seconda battuta in soccorso del Paese aggredito.
Nella prassi dell’Organizzazione, l’Articolo 5 è stato invocato una sola volta in risposta agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center. In quel caso, il Consiglio di Sicurezza, il 2 ottobre 2001, stabilì ufficialmente che l’attacco contro le Torri Gemelle perpetrato da membri del gruppo terroristico Al Qaeda (ospitato dal regime dei Talebani in Afghanistan) dovesse essere considerato come un attacco contro il territorio degli Stati Uniti.
In risposta, vennero adottate misure collettive tra cui l’operazione Eagle Assist (2001-2002), con l’obiettivo di pattugliare lo spazio aereo sopra gli USA e l’operazione Active Endeavour con lo scopo di monitorare la navigazione nel Mediterraneo al fine di individuare e prevenire attività terroristiche.
Il Trattato di Washington dedica una sola disposizione alla struttura della NATO: si tratta dell’art. 9, che recita «The Parties hereby establish a Council, on which each of them shall be represented, to consider matters concerning the implementation of this Treaty. The Council shall be so organised as to be able to meet promptly at any time. The Council shall set up such subsidiary bodies as may be necessary». Pertanto, il Consiglio Atlantico (North Atlantic Council – NAC), a cui partecipa un rappresentante per ogni Stato membro, è l’organo principale dell’Organizzazione ed ha il potere di istituire organi sussidiari e discutere di tutte le questioni riguardanti l’attuazione del Trattato (in particolare, la facoltà di adottare misure di attuazione del Trattato). Le decisioni più importanti prese dal NAC concernono l’attivazione dell’art. 5 in caso di attacco armato contro un Paese membro, e l’adozione dell’Activation Order con cui le truppe nazionali messe a disposizione dai singoli Paesi passano direttamente sotto comando NATO.
Tale organo può riunirsi a diversi livelli (Capi di Stato o di Governo, Ministri degli esteri o della difesa, rappresentanti permanenti) a Bruxelles, quartier generale dell’Alleanza, e le decisioni sono adottate per consensus. Al fine di pianificare al meglio le sue attività, il NAC ha creato una serie di comitati che agiscono sotto la sua direzione: il Gruppo di Pianificazione Nucleare ed il Comitato per la pianificazione della difesa sono di gran lunga i più importanti.
L’ufficio del Segretario Generale non è menzionato nel Trattato, ma è stato formalmente istituito nel 1952 dal NAC al fine di dotare l’Organizzazione di una struttura burocratica efficiente. Il Segretariato è composto da un Segretario Generale e da quattro vice-segretari. Il Segretario – proveniente per prassi da un Paese europeo – viene designato dai Governi degli Stati membri e resta in carica per quattro anni. Rappresenta la massima carica esecutiva in seno all’Organizzazione ed è posto a capo della complessa struttura organizzativa della NATO (oltre a presiedere il Consiglio Atlantico).
L’Assemblea parlamentare – organo non previsto dal Trattato di Washington – è stata istituita informalmente nel 1954 (inizialmente sotto il nome di “Parliamentarians Conference”). Vi partecipano le delegazioni parlamentari dei Paesi membri ed è composta da 257 delegati selezionati tra i parlamentari nazionali.
La struttura militare, posta in essere all’indomani della nascita dell’Organizzazione attraverso atti di esecuzione del Trattato, prevede un comando unificato, le forze militari assegnate su base permanente all’Organizzazione e un sistema di basi militari (ricordiamo, ad esempio, le basi NATO in Italia di Aviano, Sigonella e Vicenza).
La struttura militare integrata al cui vertice vi è un Comitato militare (Military Commitee – MC), composto dai Capi di Stato maggiori delle forze armate dei Paesi membri (con l’eccezione dell’Islanda che non possiede un proprio esercito), costituisce la più elevata autorità militare dell’Organizzazione. Il Comitato militare ha il compito di decidere le politiche e le strategie, le dottrine strategiche che devono essere elaborate ed adottate, le misure concrete da intraprendere in caso di crisi internazionale o aggressione contro uno Stato membro. Il Comitato militare presiede i due comandi strategici: l’Allied Command Operations (ACO, Mons, Belgio) e l’Allied Command Transformation (ACT, Norfolk, USA), che fanno parte della Struttura di Comando della NATO (NATO Command Structure – NCS). L’ACO, posto sotto il comando del Supreme Allied Commander Europe (SACEUR), è responsabile per la pianificazione e l’esecuzione di tutte le operazioni militari della NATO dirette dal NAC. L’ACO è composto da un quartier generale strategico, il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE) con sede a Mons, insieme ai due Joint Force Commands (JFS) a Napoli e Brunssum. L’ACT è posto sotto il comando del Supreme Allied Commander Transformation (SACT), che esercita le proprie funzioni dal quartier generale di Norfolk. Le principali funzioni dell’ACT includono attività di formazione, addestramento e la promozione dell’interoperabilità nell’ambito dell’Alleanza.
In seguito alla riunione dei Ministri della difesa della NATO del 15 febbraio 2018 è stata decisa una profonda riforma e modernizzazione nella struttura di comando della NATO alla luce del mutato contesto geopolitico.
La NATO ha previsto varie modalità di cooperazione con Stati che in passato rientravano nella sfera di influenza sovietica, che non prevedono esclusivamente l’adesione, tramite forme di partenariato gestite a livello bilaterale o multilaterale volte a rafforzare il processo di confidence building tra Organizzazione e Paesi terzi.
Nel tempo, l’Organizzazione ha ampliato la propria membership, in virtù della politica della porta aperta, mediante l’adesione al Trattato di numerosi Stati dell’est Europa che precedentemente facevano parte del blocco sovietico e del Patto di Varsavia
Le condizioni per l’adesione sono stabilite con una formulazione alquanto generica dall’art. 10 del Trattato: lo Stato candidato deve soddisfare alcuni criteri (rispettare i principi del Trattato, tra cui il rispetto della democrazia e dello stato di diritto, e contribuire alla sicurezza dell’area del Nord-Atlantico). Criteri addizionali sono stati previsti sulla base di uno studio della NATO sull’allargamento del 1995 (Study on NATO Enlargement), in base al quale i potenziali candidati devono dimostrare, ad esempio, di possedere un sistema politico democratico funzionante basato su un’economia di mercato, di garantire un equo trattamento delle minoranze, di impegnarsi alla risoluzione pacifica delle controversie e di manifestare la volontà di fornire un apporto militare alle operazioni NATO. Tuttavia, nella prassi, il requisito dello Stato democratico non è stato sempre rispettato, alla luce dei due casi controversi relativi al Portogallo (membro fondatore nonostante la dittatura di Salazar) ed alla Turchia (ammessa nel 1952 con il primo round di allargamento dell’Organizzazione).
La NATO ha sviluppato un approccio step-by-step che avvicina progressivamente i potenziali candidati all’adesione. La decisione sull’adesione viene presa all’unanimità; gli Stati membri godono pertanto di un diritto di veto e hanno la facoltà di porre condizioni per l’ingresso di un determinato membro. Ad esempio, la Turchia si è opposta all’ingresso di Cipro a causa della controversia in atto con la Grecia sullo status di Cipro del Nord, e la Grecia ha manifestato una ferma opposizione all’adesione dell’ex Repubblica di Macedonia per la controversia sul nome ufficiale dello Stato macedone.
Sono previste due fasi per la pre-adesione: tale processo ha inizio con l’adesione dei candidati alla Partnership for Peace (PfP) e può essere seguito da un Individual Partnership Action Plan (IPAP). Passo successivo è rappresentato dal dialogo intensificato (Intensified Dialogue), che può eventualmente sfociare in un Membership Action Plan (MAP). Il MAP prevede la presentazione di rapporti annuali per verificare i progressi verso il soddisfacimento delle condizioni di adesione.
La partecipazione al MAP ha aiutato a preparare l’adesione di dieci Paesi che sono stati ammessi alla NATO nel secondo round del processo di allargamento dopo la fine della Guerra Fredda (il primo round di allargamento ha permesso l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria nel 1999). Questi sono: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia (2004); Albania e Croazia (2009); Montenegro (2017). Ventidue Paesi, tra cui Bosnia Erzegovina ed ex-Repubblica di Macedonia sono iscritti al Programma.
Dopo aver completato il procedimento di allargamento ai Paesi dell’Est Europa, l’Organizzazione è sempre più proiettata ad Oriente (cd. NATO Orientale) mediante vari programmi di cooperazione con Paesi dell’area del Caucaso e dell’Asia Centrale.
Il programma Partnership for Peace (PfP) coinvolge Paesi della fascia che si estende dall’Europa dell’Est fino al Caucaso e all’Asia Centrale. Tale programma è stato varato nel 1994 al vertice di Bruxelles del Consiglio Nord Atlantico, in cui venne formalmente lanciato un invito ai Paesi già membri del Patto di Varsavia ed alle ex-Repubbliche sovietiche a prendere parte ad una serie di accordi di cooperazione militare, che non avrebbero implicato necessariamente un’immediata adesione all’Organizzazione. Secondo il PfP Framework Document (vertice di Bruxelles), l’Organizzazione si impegna ad entrare in consultazione con i Paesi partner se uno di questi percepisce una minaccia diretta alla sua integrità territoriale, indipendenza politica o sicurezza. Obiettivo di tale Programma è aiutare Stati spesso da poco indipendenti a costruire una solida base democratica, a mantenere la stabilità politica e a modernizzare le proprie forze armate. Il Consiglio di partenariato euro-atlantico (ora Euro-Atlantic Council) è l’organismo preposto alla gestione del programma di partenariato. Tale programma prevede una stretta cooperazione con l’Organizzazione sotto il profilo militare, tuttavia gli Stati che aderiscono al programma non sono vincolati dall’obbligo di mutua difesa previsto dall’articolo 5 del Trattato.
Le relazioni con la Russia sono formalmente iniziate nel 1997, anno della stipula del NATO-Russia Founding Act e sono improntate ad un doppio binario: da un lato, vi è un dialogo diretto con la Russia; dall’altro lato viene fornita una garanzia di sicurezza a Stati minacciati da Mosca (Georgia, Repubbliche Baltiche, Ucraina,) e viene promossa una politica di integrazione euro-atlantica dei Balcani sulla base della politica della porta aperta.
In seguito all’annessione unilaterale della Crimea da parte della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina (2014) e del sostegno russo ai separatisti filo-russi nell’ambito della guerra civile nell’Est dell’Ucraina (Guerra del Donbass) iniziata nel 2013, le relazioni NATO-Russia sono ai minimi storici. Infatti, tutte le forme di cooperazione civile e militare in atto – incluso il principale forum di consultazione, il Consiglio congiunto permanente NATO-Russia – sono state sospese.
Altre forme di cooperazione su base bilaterale o multilaterale con Paesi non-membri ed esterni alla tradizionale area di influenza dell’Organizzazione sono stati posti in essere in linea con quanto previsto dal Nuovo Concetto Strategico (NCS) di Lisbona del 2010, che ha sottolineato la necessità di instaurare forme di collaborazione con Paesi oltre la zona euro-atlantica. Infatti, le operazioni militari in Libia ed Afghanistan, Paesi al di fuori della sua immediate region, così come la necessità di reagire alle minacce emergenti come il terrorismo, la proliferazione nucleare, la pirateria e i cyber attacchi, hanno incentivato il dialogo della NATO con Paesi geograficamente distanti.
L’Euro-Atlantic Partnership Council è un forum multilaterale per il dialogo e la consultazione su questioni politiche e di sicurezza tra Stati membri della NATO e Paesi partner (tra cui Stati del Caucaso, come Armenia ed Azerbaijan, e dell’Asia Centrale, come Kazakistan e Turkmenistan). L’EAPC fornisce la cornice politica per la cooperazione dell’Alleanza con Paesi partner nell’area Euro-Atlantica e per le relazioni bilaterali tra la NATO e singoli Stati nell’ambito del Programma PfP.
Altri programmi di cooperazione su base multilaterale riguardano l’area del Mediterraneo sulla scorta del convincimento che la sicurezza dell’Europa dipenda dalla stabilità dei Paesi del Nord Africa e dell’Asia Occidentale che si affacciano su tale mare. Questi sono la Partnership mediterranea (NATO’s Mediterranean Dialogue), tra NATO e Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco, Tunisia e l’Istanbul Cooperation Initiative (ICI), che coinvolge quattro Paesi del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, Bahrein, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Programmi di cooperazione bilaterali sono stati posti in essere con Afghanistan, Australia, Colombia, Giappone, Iraq, Mongolia, Nuova Zelanda, Pakistan, Repubblica di Corea.
Gli eventi rivoluzionari che ebbero inizio in Europa dell’Est nell’autunno del 1989 hanno determinato un ampio processo di trasformazione e di adattamento dell’Organizzazione al nuovo scenario geopolitico.
Infatti, in seguito al crollo del muro di Berlino ed alla dissoluzione dell’URSS, dell’ex-Jugoslavia e del Patto di Varsavia è venuta meno la ragion d’essere dell’Organizzazione. È stato necessario, pertanto, un “rimodellamento” dei compiti e delle funzioni dell’Alleanza che non è avvenuto tramite una revisione formale del Trattato, ma tramite l’adozione di dottrine strategiche, che hanno mostrato la sua flessibilità ad adattarsi al nuovo contesto strategico.
Il primo concetto strategico, che risale al 1950 (venne rivisto nel 1952 in seguito alla Guerra di Corea), era basato sull’idea di operazioni militari su larga scala a difesa dell’area Atlantica. A partire dal lancio dello Sputnik il 4 ottobre 1957 (il vettore che rendeva possibile il trasporto della carica nucleare) e dal sorpasso sovietico nella corsa agli armamenti, il concetto strategico della NATO adottato nel 1957 è stato imperniato sulla rappresaglia massiccia ed improntato al ricorso immediato all’arsenale nucleare anche in risposta ad un attacco convenzionale. Tuttavia, l’applicazione di tale strategia rischiava di scatenare un conflitto nucleare di proporzioni tali da causare la mutua distruzione. La rappresaglia massiccia si basava infatti sul presupposto che l’altra parte non utilizzasse a sua volta l’arma atomica, perché ciò avrebbe comportato il reciproco annientamento. A partire dal 1968, la NATO ha pertanto optato per una dottrina più modulata, che prevedeva una risposta graduata ad un eventuale attacco da parte di uno Stato nemico fino ad arrivare in ultima istanza alla risposta mediante l’utilizzo di armi nucleari (cd. risposta flessibile). Tale strategia è durata fino alla fine della Guerra Fredda quando è venuto meno il confronto bipolare tra USA e URSS.
Il primo concetto strategico post Guerra Fredda (Londra, 1991) si focalizzava – alla luce del mutato scenario geopolitico – su un approccio più ampio alla cooperazione ed alla sicurezza. Per la prima volta l’Alleanza prevedeva la possibilità di interventi militari fuori area (out of area) – quindi al di fuori del quadrante Atlantico – previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, in presenza di situazioni di instabilità politica ed economica che potessero avere ripercussioni per la sicurezza degli Stati membri. Nella prassi successiva, nel contesto della guerra civile nell’ex-Jugoslavia, la NATO, qualificandosi come “braccio armato” dell’ONU, ha svolto operazioni coercitive implicanti l’uso della forza nei Balcani ed ha assunto funzioni di peace-keeping.
Il concetto strategico elaborato a Washington nel 1999 (Nuovo Concetto Strategico della NATO) – in risposta alla crisi del Kosovo – prevedeva la possibilità di interventi militari non in risposta ad un’aggressione diretta contro uno Stato membro (Non Article 5 Operations) e ribadiva la possibilità di operare fuori area. D’altronde, già secondo uno dei padri fondatori della NATO, Theodore C. Achilles, non vi era alcun dubbio che le operazioni militari dell’Alleanza potessero essere condotte al Sud del Tropico del Cancro. Tale lettura è stata confermata nell’ambito della riunione dei Ministri degli affari esteri della NATO che si è tenuta a Reykjavik il 14 e 15 maggio 2002; il comunicato finale, infatti, stabiliva espressamente che «to carry out the full range of its missions, NATO must be able to field forces that can move quickly to wherever they are needed, sustain operations over distance and time, and achieve their objectives».
Al fine di fornire “copertura” giuridica all’intervento militare contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, la dottrina strategica del 1999 ha previsto la possibilità di effettuare operazioni militari per fini umanitari non solo out of area ma anche senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Infatti, la NATO si è auto-attribuita il ruolo di attore globale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, abilitata ad intervenire non più sulla base di un mero criterio geografico, bensì ovunque vi siano crisi (quindi non solo le classiche situazioni di conflitto armato) le cui ripercussioni possano avere effetti negativi sulla sicurezza dei Paesi membri anche al di fuori del sistema di sicurezza collettivo previsto dall’ONU.
Il 19-20 novembre 2010, nel corso del vertice dei Capi di Stato o di Governo a Lisbona, l’Organizzazione si è dotata di una nuova dottrina strategica. Il documento costituisce uno strumento di adattamento dell’Organizzazione al nuovo contesto geopolitico post 11 settembre: la minaccia del terrorismo internazionale e l’inadeguatezza dei tradizionali mezzi militari di risposta a tale fenomeno, il processo di allargamento ad Est alle ex-Repubbliche Sovietiche, il nodo delle relazioni con la Federazione Russa in seguito all’indipendenza del Kosovo ed alla crisi russo-georgiana, i rapporti con l’UE volta a dotarsi di una propria politica di difesa e di sicurezza comune e con l’ONU.
Tale documento prevede sviluppi significativi per l’azione della NATO, in quanto ne estende il campo di azione alle nuove minacce alla pace e alla sicurezza internazionali, quali la proliferazione dei missili balistici (par. 8), la proliferazione di armi di distruzione di massa (par. 9), il terrorismo internazionale (par. 10), le crisi regionali (par. 11), i cyber attacchi (par. 12), la sicurezza energetica (par. 13), lo sviluppo di nuove tecnologie, come le armi al laser, l’armamento elettronico e le tecnologie che impediscono l’accesso allo spazio (par. 14), le questioni ambientali, tra cui i cambiamenti climatici e la diffusione delle malattie infettive (par. 15). Inoltre, fenomeni come la pirateria marittima, il crimine organizzato, il riciclaggio di denaro, il commercio illegale di droga, la tratta di esseri umani, seppur non espressamente citati nel NCS, sono strettamente collegati alle minacce elencate nel documento di Lisbona.
La principale novità del NCS risiede nel riconoscimento che tali minacce non possono essere affrontate esclusivamente con strumenti convenzionali, quali il ricorso all’uso della risposta militare, ma necessitano di strumenti di tipo diplomatico, economico, politico, culturale, rientranti nel cd. soft power.
In tale documento viene riconosciuto il ruolo centrale della cooperazione con le Nazioni Unite. Infatti, il paragrafo 2 richiama la responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.
Le tre funzioni principali della NATO – alla luce della nuova dottrina strategica (par. 4, lett. a, b, c) – sono: la difesa collettiva, la gestione delle crisi internazionali e la cooperazione nel settore della sicurezza. Infatti, come sottolineato dallo stesso documento di Lisbona, la minaccia di un attacco convenzionale contro il territorio di uno Stato membro appare un’ipotesi, allo stato attuale, poco realistica. Obiettivo prioritario dell’Organizzazione rimane comunque quello della protezione del territorio degli Stati membri da eventuali attacchi armati da parte di Paesi nemici. La deterrenza, basata sulla combinazione di forze nucleari e convenzionali costituisce l’architrave del meccanismo di difesa della NATO. Infatti, la NATO rimane un’alleanza nucleare (par. 17) basata sulla garanzia delle forze nucleari strategiche degli alleati (par. 18). Infatti, vi sono testate nucleari non strategiche ancora custodite presso basi militari USA in Europa (Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi, Turchia).
La gestione delle crisi regionali con potenziali ripercussioni sulla sicurezza internazionale ha assunto un ruolo centrale nelle attività dell’Organizzazione. Dal momento che le minacce non convenzionali (terrorismo, pirateria, contrabbando di droga) tendono a proliferare in situazioni di crisi regionali e in presenza di Stati deboli o prossimi al collasso (failed o failing States), il ruolo della NATO diviene centrale in contesti di crisi regionali con potenziali ripercussioni sulla sicurezza internazionale.
Il par. 4, lett. b), del NCS fa riferimento all’utilizzo sia di strumenti militari che civili prima, durante e dopo i conflitti. Pertanto, l’Organizzazione ha facoltà di intervenire al fine di prevenire un conflitto (conflict prevention), durante lo svolgimento del conflitto mediante una combinazione di mezzi diplomatici e militari al fine di farlo cessare (peace-keeping e peace-enforcement), ed infine nella fase successiva al fine di evitare l’insorgere di un nuovo conflitto (peace-building).
Le operazioni militari di gestione delle crisi hanno comportato una modifica dello scenario di guerra in cui si trovano ad operare le truppe dell’Alleanza, che non è quello tradizionale di guerra aperta. I militari delle forze NATO sono prevalentemente impiegati in missioni di peace-keeping con profili civili, azioni di stabilizzazione e lotta alla guerriglia (cd. counterinsurgency), che rientrano nell’ampia nozione di peace-support and crisis-management operations.
La volontà dell’Organizzazione di far fronte a tale tipo di operazioni militari venne esplicitata per la prima volta nel corso del meeting ministeriale di Oslo del NAC (4 giugno 1992), quando i Ministri degli esteri annunciarono la loro volontà di «support on a case by case basis in accordance with their own procedures, peacekeeping activities under the responsibility of the Conference on Security and Cooperation in Europe». Ciò includeva la possibilità di rendere disponibili risorse ed expertise dell’Alleanza per le operazioni di peace-keeping dell’allora CSCE.
A partire da dicembre 1992 l’Alleanza espresse, inoltre, la propria disponibilità a prestare supporto a operazioni di peace-keeping sotto la direzione e l’autorità del Consiglio di Sicurezza. L’assistenza all’ONU nell’attuazione di risoluzioni correlate all’ex-Jugoslavia era già iniziata nel luglio 1992 quando imbarcazioni NATO erano state coinvolte in attività di monitoraggio nel Mar Adriatico a supporto dell’embargo ONU nei confronti dell’ex-Jugoslavia (Risoluzioni 713 e 757).
Il documento di Lisbona prospetta la possibilità di impiego della forza armata al di fuori dell’ipotesi originaria di aggressione, quindi in presenza di minaccia di aggressione con missili balistici, terrorismo cibernetico, sabotaggio di vie di rifornimento energetico (gasdotti, oleodotti), attacco con armi chimiche o batteriologiche. Pertanto, oltre agli interventi “classici” a difesa di Stati sottoposti ad attacco armato o su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, si profila una terza categoria di interventi. Si tratta di risposte a minacce alla pace ed alla sicurezza non convenzionali che mettono a repentaglio la sicurezza non di un singolo Stato ma dell’Alleanza nel suo insieme, come nel caso di attacco terroristico su larga scala. Il par. 4, lett. a) del NCS recita «NATO will deter and defend against any threat of aggression, and against emerging security challenges where they threaten the fundamental security of individual Allies or the Alliance as a whole». Quindi, alla luce delle dottrine strategiche, la NATO può intervenire militarmente non solo in caso di legittima difesa collettiva o su mandato dell’ONU, ma ovunque i propri interessi essenziali siano chiamati in causa, sulla base di una sorta di mandato globale.
Infine, nel settore della cooperazione in materia di sicurezza, il par. 4, lett. c) pone l’attenzione sulle forme di partnership che può istituire l’Organizzazione con Paesi terzi. I settori di cooperazione individuati sono quelli del controllo degli armamenti, della non-proliferazione e del disarmo.
Dal punto di vista operativo, la NATO è impegnata in differenti scenari di guerra e nell’amministrazione di territori in situazioni post-conflittuali.
La prassi post-Guerra Fredda dell’Organizzazione ha visto una serie di interventi militari sotto varie forme (creazione di no fly zones, peace-keeping, peace-enforcement, peace-builing, bombardamenti aerei) previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (tranne nel caso del Kosovo). Pertanto, la NATO si può configurare come organizzazione regionale nel contesto del Capitolo VIII della Carta dell’ONU, in quanto, a parte l’Unione africana, anch’essa impegnata in operazioni militari sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza, la NATO è diventata il vero e proprio “braccio armato” del Consiglio di Sicurezza.
Il primo scenario di guerra in cui si è trovata ad operare l’Organizzazione è quello dei Balcani. Il 31 marzo 1993 il Consiglio di Sicurezza adottò la Risoluzione 816 autorizzando la creazione di una no-fly zone sulla Bosnia-Erzegovina, teatro di una guerra civile che vedeva contrapposti serbi, croati e bosniaci. Tale Risoluzione autorizzava gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per assicurare il rispetto della zona di interdizione aerea. In attuazione di tale Risoluzione, la NATO lanciò l’operazione Deny Flight a partire dal 12 aprile 1993, che ampliò progressivamente il proprio mandato originario fino a fornire supporto aereo alle truppe dell’ONU in Bosnia e a condurre attacchi aerei contro obiettivi militari. L’operazione ha poi dato vita al primo coinvolgimento ufficiale in un combattimento nella storia dell’Organizzazione: il 28 febbraio 1994 nell’ambito dello scontro a fuoco nei cieli sopra la città di Banja Luka vennero abbattuti caccia nemici, e nel mese di aprile 1994 aerei NATO per la prima volta bombardarono obiettivi a terra in un’operazione militare nei pressi di Goradze.
La partecipazione della NATO ad operazioni militari dimostrò la capacità di adattamento dell’Organizzazione al nuovo scenario geopolitico (ad esempio, si segnala l’operazione navale congiunta NATO-UEO Sharp Guard del 1993 per l’attuazione dell’embargo ONU sull’esportazione di armi verso l’ex-Jugoslavia).
La cooperazione tra la NATO e l’ONU spianò la strada a nuove azioni militari congiunte (anche se fonte di tensione a causa della presa in ostaggio di alcuni Caschi Blu dell’ONU), tra cui l’operazione Deliberate Force, una massiccia campagna di bombardamenti aerei in Bosnia che rivestì un ruolo chiave nel porre fine al conflitto. Condotta in stretta cooperazione con interventi di terra condotti dall’ONU attraverso l’UNPROFOR (forza di peace-keeping con compiti di assistenza umanitaria e tutela dei civili e mandato ampliato all’uso della forza) tra il 30 agosto e il 20 settembre 1995, tale azione bellica coinvolse 400 aerei e 5000 soldati.
L’operazione ha contribuito alla trasformazione dell’Organizzazione post-Guerra Fredda più di ogni altro evento. Con la firma degli Accordi di Dayton che sancirono la fine della guerra civile bosniaca (1992-1995) e la nascita di due entità statali (la Repubblica federale della Bosnia-Erzegovina e la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina), la NATO venne incaricata di attuare gli aspetti militari dell’Accordo. Come previsto all’Annesso 1A (Military Aspects of the Peace Settlement) la NATO ha dato vita a due missioni di stabilizzazione della pace (IFOR – Implementation Force, cui è succeduta l’operazione SFOR – Stabilization Force).
La NATO, inoltre, contribuisce alla Kosovo Force (KFOR), stabilita sulla base della Risoluzione 1244 (1999) e del Military-Technical Agreement between NATO and the Federal Republic of Yugoslavia and Serbia (firmato ed entrato in vigore il 9 giugno 1999). Istituita ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’ONU al termine della campagna aerea della NATO contro il regime di Milošević, la KFOR è un’operazione di peace-enforcement con l’obiettivo di prevenire rinnovate forme di ostilità e minacce contro la popolazione albanese del Kosovo da parte delle truppe serbe, stabilire un ambiente sicuro and assicurare la sicurezza pubblica e l’ordine, demilitarizzare il Kosovo Liberation Army e fornire supporto allo sforzo umanitario internazionale. In seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo del 2008, la NATO ha inoltre acconsentito a mantenere la propria presenza militare sul territorio sulla base della Risoluzione 1244 (1999), con particolare riferimento all’attuazione dell’Accordo Belgrado-Pristina (2013) che ha avviato un processo di normalizzazione delle relazioni tra i due Stati.
La NATO è stata altresì presente nell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (operazioni Task Force Fox e Allied Harmony) con l’obiettivo di controllare il disarmo volontario degli insorti dell’Albanian National Liberation Army (NLA) e promuovere il processo di pace.
Secondo teatro di guerra dell’Organizzazione è rappresentato dall’Afghanistan con l’operazione ISAF (International Security Assistance Force), sotto il suo comando dal 2003 al 2014, che rappresenta la prima campagna militare dell’Alleanza (totalmente) al di fuori dell’Europa. Tale azione bellica, qualificabile come operazione di peace-keeping con mandato ampliato all’uso della forza (in quanto prevedeva la possibilità di utilizzo della forza al di fuori dell’ipotesi di legittima difesa) fu istituita dal Consiglio di Sicurezza ai sensi della Risoluzione 1386 (2001), e posta sotto il comando operativo della NATO. L’obiettivo di tale missione era quello di fornire supporto all’autorità del Governo centrale afgano al fine di creare un ambiente favorevole al funzionamento delle istituzioni democratiche e il consolidamento dello stato di diritto nel quadro degli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. Infatti, in seguito al rovesciamento del regime dei Talebani in Afghanistan, colpevole di prestare rifugio ed assistenza logistica al movimento terroristico Al Qaeda autore degli attentati alle Torri Gemelle, venne avviato un processo di ricostruzione di istituzioni democratiche nel Paese. In particolare, l’ISAF, il cui mandato era inizialmente limitato ad assicurare la sicurezza a Kabul ed alle aree circostanti, ed è stato poi esteso a tutto il territorio afgano (Risoluzione 1510), ha aiutato l’Autorità Provvisoria Afgana nella creazione di un esercito professionale afgano che potesse garantire la sicurezza del Paese in modo autonomo. In seguito all’assunzione della piena responsabilità per la sicurezza delle Forze Nazionali Afgane per la Sicurezza e la Difesa, l’ISAF ha terminato il proprio mandato ed è stata sostituita nel 2015 dalla missione NATO Resolute Support con funzioni di addestramento delle forze militari afgane.
La più controversa missione militare della NATO, dopo i bombardamenti della Serbia del 1999, è quella del 2011 in Libia. Sulla base della Risoluzione 1973 (2011) il Consiglio di Sicurezza, agendo nel quadro del Capitolo VII della Carta, qualificò le atrocità di massa commesse dal regime del Colonnello Gheddafi contro i ribelli e la popolazione civile come «crimini contro l’umanità». Il Consiglio di Sicurezza dichiarò una no-fly zone sulla Libia ed autorizzò l’utilizzo di «tutti i mezzi necessari», incluso l’uso della forza, per proteggere la popolazione civile. La NATO intervenne militarmente in attuazione della Risoluzione 1973 a capo di una coalizione di Stati conducendo una serie di operazioni aeree e navali (Operazione Unified Protector 19 marzo-31 ottobre 2011). L’operazione ha sollevato critiche a posteriori in quanto da intervento a tutela della popolazione civile si è trasformato de facto in un intervento volto a rovesciare il regime libico, lasciando il Paese in una situazione di forte instabilità politica (è in atto una guerra civile dal 2014).
Dal 2008 al 2016 la NATO ha condotto operazioni antipirateria nel Golfo di Aden e al largo del Corno d’Africa garantendo la sicurezza di una delle più importanti rotte marittime mondiali (il passaggio per il Canale di Suez). In primo luogo, in risposta ad una richiesta del Segretario Generale dell’ONU, forze navali NATO hanno scortato navi del World Food Programme (WFP) nella loro navigazione lungo il Golfo di Aden (Operazione Allied Provider). In seguito, la NATO ha lanciato l’operazione antipirateria Allied Protector, con l’obiettivo di migliorare la sicurezza delle rotte marittime commerciali al largo del Corno d’Africa. A partire dal 2009 e fino al 2016, la NATO ha condotto l’operazione Ocean Shield al largo del Corno d’Africa, che ha aiutato ad incrementare il livello generale di sicurezza nella regione. La NATO ha lavorato in stretta collaborazione con altri attori operativi nella regione, inclusa l’UE (Operazione Atlanta), gli USA (Combined Task Force), e Stati quali Cina, Russia, Giappone.
La massiccia presenza di queste forze navali internazionali ha costituito un forte deterrente nei confronti delle attività dei pirati.
La NATO post-11 settembre, con quasi trenta Paesi membri ed un mandato globale, è profondamente differente rispetto all’alleanza regionale dei dodici membri originari creata nel 1949. Questi cambiamenti non sono solo il risultato della fine della Guerra Fredda e delle nuove minacce alla sicurezza, ma riflettono la capacità di adattamento dell’Organizzazione, già evidente in seguito all’adesione della Germania Ovest negli anni ‘50. Il Nuovo Concetto Strategico (Lisbona) ha determinato la definitiva trasformazione dell’Alleanza Atlantica da organizzazione di autodifesa collettiva ad organizzazione con competenze generali in tema di sicurezza che possa operare dovunque i suoi interessi siano minacciati in presenza di situazioni di crisi potenzialmente lesive alla pace e alla sicurezza dei Paesi membri. Infatti, le nuove competenze previste nel documento di Lisbona spaziano dalla classica difesa del territorio da minacce esterne, a operazioni di peace-keeping, peace-enforcement e peace-building, dalla lotta al terrorismo internazionale alla pirateria marittima, fino alla difesa cibernetica. Alla luce della prassi autorizzatoria del Consiglio di Sicurezza, la NATO si può pertanto considerare come una sorta di braccio armato dell’ONU capace di esercitare, oltre alle originarie funzioni di mutua difesa collettiva, le funzioni proprie delle organizzazioni regionali previste dall’art. 53 della Carta dell’ONU, per di più al di fuori della propria sfera regionale di intervento.
La tendenza in atto volta ad incentivare forme di cooperazione con Paesi ben al di fuori dell’area Euro-Atlantica (Partners across the Globe) denota un’ulteriore trasformazione in fieri: una NATO Orientale o globale con compiti di polizia internazionale, un’organizzazione di sicurezza con un mandato globale aperta all’adesione di Paesi ben al di fuori della sfera geografica originaria individuata all’art. 6 del Trattato.
In conclusione, l’attuale contesto geopolitico suggerisce delle linee di indirizzo sul futuro dell’Organizzazione. La crisi ucraina e la conseguente risposta della NATO che si è concretizzata nell’aumento della propria presenza militare in Paesi confinanti con la Russia mediante lo spiegamento di truppe da combattimento in Polonia e nei tre Paesi Baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) (Readiness Action Plan, 2014 e decisione del Summit di Varsavia, 2016) dipingono nuovi scenari. Infatti, il ritorno alla strategia della deterrenza al fine di scoraggiare la Russia dal perpetrare azioni militari contro i Paesi confinanti, le turbolenze in atto in Nord Africa e la risposta alle minacce ibride alla sicurezza rappresentano il banco di prova della nuova NATO.
Fonti normative
Trattato del Nord Atlantico, Washington DC, 4 aprile 1949; Nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica, Roma, 8 novembre 1991; Nuovo Concetto Strategico dell'Alleanza Atlantica, Washington, 24 aprile 1999; Nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica, Lisbona, 20 novembre 2010.
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