Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Anche se gli studi anatomo-patologici si sono a lungo concentrati sulle modificazioni cellulari intrinseche e descrivibili a livello morfologico, il problema principale della genesi del cancro è sempre stato quello di riconoscere la causa o le cause che innescano la sequenza incontrollata di replicazioni cellulari. Fino alla metà degli anni Settanta del Novecento l’idea prevalente è che queste cause siano prevalentemente esterne all’organismo e da ricercare in un qualche ruolo dei virus. Con l’avvento della genetica molecolare è invece stato possibile stabilire le basi genetiche e molecolari del cancro, nonché comprendere le dinamiche a cui vanno incontro le popolazioni di cellule tumorali che rendono così tragicamente efficiente, e difficilmente controllabile mediante le terapie, la degenerazione neoplastica.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dopo la ridefinizione della patologia su basi cellulari, diventa di fondamentale importanza stabilire le cause che innescano la sequenza incontrollata di replicazioni cellulari propria del cancro. Una quantità enorme di ricerche dimostrarono l’esistenza di cancerogeni ambientali e hanno stabilito che raggi X, catrame di carbone, infezione da nematodi, derivati benzenici e numerose altre sostanze, sia artificiali che naturali, sono cancerogene. Nel 1941 si dimostra il ruolo degli androgeni nell’insorgenza del cancro della prostata e, dieci anni dopo, quello di specifici ormoni per quanto riguarda i tumori del seno. Nel 1951 lo studio statistico commissionato dal Medical Research Council britannico sulle possibili cause del cancro al polmone conclude che: “fumare è un fattore, e un fattore importante, nell’insorgenza del cancro al polmone”. Un successivo studio del 1956 dimostrerà che la mortalità per cancro al polmone si riduce significativamente se le persone smettono di fumare.
Fino agli anni Sessanta del Novecento i virus vengono ritenuti fattori importanti e, per alcuni, i principali responsabili del cancro. Il primo a ipotizzare un’eziologia virale per il cancro è, nel 1907, il batteriologo francese Amédee Borrel (1867-1936). Nel 1953 Ludwig Gross (1904-1999) scopre il virus del polioma, responsabile dell’insorgenza del carcinoma della parotide del topo. Nel 1959 Peyton F. Rous annuncia che il sarcoma dei polli è causato da un virus. La capacità oncogena dei virus – oggi pienamente accettata – verrà in seguito confermata dalla scoperta di diversi virus in grado di causare il cancro, sia in condizioni sperimentali che naturali, in diversi modelli animali. Nel 1960 risulta che i fattori che producono il cancro nel virus del papilloma del coniglio risiedono nell’acido nucleico. Nel decennio successivo si stabilisce che il materiale genetico, DNA o RNA, di un virus viene incorporato nel DNA dell’ospite, dove è in grado di codificare delle proteine che controllano la crescita cellulare, provocando la trasformazione della cellula. Gli studi su alcuni virus mostrano che gli agenti virali possono rimanere silenti nei loro ospiti naturali, per manifestare le proprietà oncogene solo dopo una certa età dell’ospite o quando vengono introdotti in altre specie animali. Nel 1964 viene varato il Virus Cancer Program da parte del National Institute of Cancer, terminato nel 1978 dopo la scoperta degli oncogeni. Se fino alla metà degli anni Settanta si ritiene che le cause del cancro siano prevalentemente esterne all’organismo e non si riconosce alcun ruolo alla componente ereditaria, in seguito alla scoperta della struttura del DNA, sulla base della mutagenicità dei raggi X dimostrata da Hermann Muller (1890-1967) nel 1928 – cioè sulla loro capacità di indurre mutazioni genetiche negli organismi con cui vengono in contatto, viene confermata l’ipotesi avanzata da alcuni genetisti secondo cui tutti i carcinogeni sarebbero mutageni.
Nel 1902 il citologo Theodor Boveri (1862-1915) ipotizza, a partire dai propri studi sulla meiosi nel riccio di mare, che il cancro fosse dovuto ad anomalie cromosomiche, in particolare alla perdita e all’acquisizione di cromosomi per segregazione asimmetrica, cioè quando il processo di migrazione dei cromosomi verso i poli opposti delle cellule (durante l’anafase della meiosi) avviene in maniera asimmetrica e quindi irregolare. Quest’ipotesi viene confermata negli anni Sessanta quando, una volta messe a punto le tecniche d’indagine citogenetica, si stabiliva che molte cellule neoplastiche manifestano cambiamenti cromosomici e che tali cambiamenti sono frequentemente di natura clonale. Nel 1983 Carlo Croce, direttore del Kimmel Cancer Center di Philadelphia e Cesare Peschle, direttore del laboratorio di Ematologia e Oncologia dell’Istituto Superiore di Sanità, scoprono che almeno alcune forme di cancro, come il linfoma di Burkitt e la leucemia linfoide, sono innescate da trasferimenti cromosomici; la proliferazione delle cellule avviene quando l’oncogene c-myc si sposta da un’estremità del cromosoma 8, dove normalmente si trova, alla zona del cromosoma 14, che presiede alla produzione di anticorpi. Diverse decine di traslocazioni cromosomiche sono oggi associate allo sviluppo di tumori.
Agli inizi degli anni Sessanta diverse prove sperimentali dimostrano sia che il cancro ha un’eziologia virale, sia che le cellule tumorali sono cellule somatiche mutanti, sia che nell’eziologia del cancro vi è una componente genetica. Tutti questi elementi, apparentemente in contraddizione, hanno trovato una spiegazione unitaria alla luce della genetica molecolare.
Infatti le conoscenze prodotte dalla biologia molecolare circa la regolazione dell’espressione genica consentono di ipotizzare che il cancro sia una “sregolazione” del meccanismo di sintesi proteica. Agli inizi degli anni Sessanta alcuni studi mostrano che i sarcomi umani contengono delle sequenze di RNA omologhe a quelle che si possono trovare nei virus responsabili di un sarcoma del topo, e che le cellule leucemiche umane contengono delle sequenze di RNA omologhe a quelle di una particolare leucemia del topo (leucemia di Rauscher). Gli elementi genetici dei virus tumorali responsabili della trasformazione delle cellule vengono definiti “oncogeni”. Edward Scolnick ipotizza che la formazione di un virus trasformante possa essere dovuta all’acquisizione da parte di questo virus di un qualche tipo di informazione oncogenica di origine cellulare. Robert Huebner e George Todaro formulano invece la teoria che il cancro sarebbe dovuto all’attivazione, spontanea o indotta da agenti chimici di virus oncogeni a RNA silenti, cioè non espressi, presenti in tutti i genomi e trasmessi verticalmente attraverso la madre.
Il primo oncogene viene identificato nel 1970 nel virus del sarcoma di Rous, e indicato con la sigla src, che sta per sarcoma (da allora tutti gli oncogeni vengono denominati con una sigla di tre lettere). Nel 1973 si isola l’“oncoproteina” corrispondente, designata con la sigla p60src, in base alla sua massa molecolare, pari a 60 mila dalton. Le oncoproteine virali svolgono varie funzioni, la più importante delle quali è di attivare la cellula quiescente in cui entra il virus e favorire l’integrazione del materiale genetico virale nel DNA della cellula ospite. Se tra i virus a RNA solo i retrovirus inducono tumori in animali e possono trasformare cellule normali in tumorali in vitro, diversi virus a DNA delle principali famiglie sono oncogeni.
La scoperta degli oncogeni virali sembra dimostrare che all’origine del cancro vi sia un meccanismo molecolare innescato dai virus. Gli studi portati avanti da Michael Bishop e Harold Varmus sui rapporti tra i virus oncogeni e il DNA cellulare portano a scoprire, nel 1976, che cellule normali di pollo contengono un gene di struttura pressoché identica a un gene del virus del sarcoma di Rous, in grado di trasformare le cellule normali infettate in cellule tumorali. Esaminando altri oncogeni presenti nei retrovirus, si arriva a constatare che per tutti esiste il corrispondente omologo cellulare, che viene chiamato proto-oncogene. Ciò prova l’esistenza di sequenze potenzialmente oncogene in ogni cellula eucariotica, sequenze delle quali il genoma di un retrovirus, allo stadio di provirus – cioè quando si trova inserito nel DNA dell’ospite – può impossessarsi mediante ricombinazione genetica. La teoria degli oncogeni implica che gli oncogeni retrovirali derivino da geni cellulari normali (proto-oncogeni), e che un’aumentata espressione dei proto-oncogeni, (un’espressione inappropriata di una forma mutata, funzionalmente alterata di proto-oncogene), indotta dall’azione di agenti cancerogeni o dovuta a eventi spontanei, contribuisca allo sviluppo di tumori maligni. Le proteine codificate dai proto-oncogeni sono risultate coinvolte nella trasmissione e nella trasduzione dei segnali che stimolano la crescita cellulare, nell’attivazione della trascrizione (espressione genica), nel differenziamento cellulare, nell’inibizione e nell’induzione della morte cellulare programmata (apoptosi). L’attivazione di oncogeni provoca quindi, ovviamente, le catteristiche manifestazioni di crescita anomala delle cellule neoplastiche.
Se da una parte la ricerca mostra che il nostro genoma è disseminato di geni potenzialmente in grado di causare il cancro, dall’altra si scopre che possediamo però anche geni potenzialmente in grado di bloccarlo: i geni oncosoppressori (tumor suppressor genes) o antioncogeni. L’esistenza di questi ultimi, in grado di contrastare lo sviluppo tumorale, era già stata intuita sulla base degli studi relativi alla suscettibilità a certe forme neoplastiche, manifestate con maggior frequenza in certe linee familiari rispetto al resto della popolazione. Questo, per esempio, il caso delle persone affette da retinoblastoma. Il gene, chiamato RB, responsabile di questo tumore degli occhi viene identificato nel 1986 da un gruppo di ricercatori dell’Harvard Medical School di Boston guidato da Thaddeus P. Dryja. Ne deriva un nuovo concetto di oncogene: non un gene che se attivato erroneamente induce una trasformazione, ma un gene le cui mutazioni capaci d’indurre tumori sono recessive, ossia un gene che funziona come “soppressore del tumore”. Un famoso gene oncosoppressore è p53, che si trova sul cromosoma 17, e che è un fattore di trascrizione coinvolto in diverse funzioni di controllo e regolazione del ciclo cellulare, della riparazione del DNA e dell’apoptosi. Nel 1989 Bert Vogelstein e suoi collaboratori del Johns Hopkins Oncology Center di Baltimora, dimostrano che nella maggior parte dei tumori umani analizzati il gene p53 risulta mutato; ciò suggerisce che le persone che ereditano mutazioni a livello di p53 siano a elevato rischio di tumori.
Nel 1993 viene descritta una nuova classe di geni coinvolta nell’eziologia del cancro: i geni mutatori (mutator genes) o mismatch-repair genes (MMR). Quando questi geni, i cui prodotti riparano gli errori di accoppiamento, non funzionano appropriatamente, il tasso di mutazioni e di altre anomalie genomiche aumenta, e di conseguenza cresce anche la probabilità che compaiano mutazioni oncogeniche. I difetti a livello dei geni MMR sono per esempio responsabili dell’instabilità dei cosiddetti microsatelliti del DNA ossia di particolari regioni del DNA (loci) particolarmente discriminativi – associata al cancro del colon-retto. Quest’ultimo, come scoperto nel 2000 da Carolyn Discafanie dai suoi collaboratori dell’Oncology and Immunoinflammatory Research di Pearl River, nello Stato di New York, può essere prevenuto attraverso il trattamento combinato di inibitori della via di trasduzione del segnale del fattore di crescita EGF e delle ciclossigenasi, responsabili della produzione delle prostaglandine; tuttavia, rimane incerta la potenziale tossicità dell’uso a lungo termine di queste sostanze.
La prima terapia genica anticancro su un essere umano viene effettuata nel 1991. Nel 1996 un gruppo di ricercatori della società Ciba-Geigy di Basilea, guidato da Doriano Fabbro, ha successo nel trattamento di tumori utilizzando oligonucleotidi antisenso (filamenti singoli di DNA con una sequenza di nucleotidi complementari al DNA codificante) diretti contro il gene codificante la chinasi c-raf, ossia il gruppo di enzimi che provocano il trasferimento di un radicale fosforico dell’ATP su specifici composti accettori, coinvolta nello sviluppo e nel mantenimento di numerose forme tumorali. In questo modo si riesce a ottenere una chiara inibizione dell’enzima; ciò lascia supporre una possibile applicazione sistematica di questo approccio nella terapia di neoplasie. L’Istituto del genoma di Walnut Creek, in California, nel 2000, annuncia di avere scoperto il legame tra i cromosomi 5 e 16 e, rispettivamente, il cancro del colon-retto e la leucemia, il cancro al seno e alla prostata.
La teoria della trasformazione neoplastica su cui oggi converge la maggior parte degli orientamenti della ricerca molecolare viene definita “multifasica”, nel senso che la maggior parte dei tumori è dovuta all’accumularsi di difetti in diversi aspetti del comportamento cellulare, come conseguenza di alterazioni genetiche multiple e successive. Lo sviluppo di un tumore maligno inizierebbe con una mutazione in una cellula, probabilmente staminale, che acquisisce in virtù delle alterazioni genetiche un vantaggio in termini di crescita rispetto alle cellule normali circostanti, andando incontro a un’espansione clonale. Mutazioni successive conferiscono a ogni progenie clonale un vantaggio in termini di sopravvivenza e invasività, determinando cicli successivi di mutazione fino a che non viene definitivamente acquisito il fenotipo maligno.
La maggior parte degli studi hanno mostrato che i geni che controllano le fasi fondamentali del ciclo cellulare, ma soprattutto quelli che controllano la progressione cellulare nella G1 (gap1, ossia la fase in cui la cellula “vive” svolgendo le funzioni per le quali il processo di differenziamento l’ha preposta) e responsabili dell’ingresso nella fase S (ossia di sintesi, durante la quale si verifica la duplicazione del DNA), sono tra i principali protagonisti dell’oncogenesi. Nel 1992 Leland Hartwell e il suo gruppo portano avanti l’idea che un controllo errato del ciclo cellulare determini instabilità genomica con continui riarrangiamenti, associati al cancro. Il controllo dell’apoptosi, che può essere indotta da vari segnali, è un altro aspetto critico che dipende dall’attività regolativa di oncogeni e geni oncosoppressori. Lo sviluppo dei tumori solidi maligni richiede altri tipi di cambiamenti: la perdita d’inibizione del contatto cellula-cellula che riduce la normale replicazione cellulare, un’aumentata motilità responsabile dell’invasione dei tessuti circostanti, una trasformazione a livello delle interazioni dei tessuti trasformati con le cellule adiacenti e la matrice extracellulare, la vascolarizzazione del tumore per consentirne l’apporto nutritivo, una precondizione affinché la massa tumorale possa superare i due-quattro mm di diametro. Negli ultimi anni lo studio dei meccanismi dell’angiogenesi ha nutrito la speranza di poter fermare la progressione del tumore impedendone la vascolarizzazione. Queste alterazioni, insieme ad altre proprietà acquisite dalle cellule neoplastiche, come la capacità di secernere enzimi proteolitici e fattori angiogenici, predeterminano il carattere invasivo della crescita e la successiva metastatizzazione.
Il primo studio sistematico sulla vascolarizzazione dei tumori viene pubblicato nel 1907; nel 1939 si avanza l’ipotesi che i tumori possano rilasciare dei fattori di crescita specifici in grado di stimolare l’accrescimento dei vasi sanguiferi. L’angiologo americano Judah Folkman isola nel 1971 il primo fattore angiogenico da un campione omogenato di un carcinoma. Da allora, sono stati isolati e caratterizzati numerosi fattori angiogenici, e si è visto che le stesse cellule infiammatorie, richiamate in loco dalle cellule neoplastiche attraverso fattori solubili denominati chemochine, secernono a loro volta altri fattori angiogenici. Si è altresì visto che l’ipossia (la riduzione di ossigeno nel sangue arterioso) costituisce un altro fattore che favorisce l’angiogenesi: durante la crescita di un tumore si sviluppano aree di ipossia dove risulta stimolata l’espressione di geni per molecole angiogeniche. Nel 1993 Napoleone Ferrara ha dimostrato che è possibile sopprimere l’angiogenesi e la crescita tumorale in modelli animali mediante un anticorpo diretto contro il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF), scoperto quattro anni prima dallo stesso Ferrara. Una versione umanizzata dell’anticorpo viene sperimentata clinicamente nel 1997 con il nome di Avastin, e nel 2004 la Food and Drug Administration approva il primo farmaco antiangiogenetico per il trattamento dei tumori del colon-retto.
Le caratteristiche morfologiche e biochimiche dei tumori sono estremamente variabili, nonostante la loro origine monoclonale, nota sin dagli studi di Rudolph Virchow (1821-1902), il quale riconobbe che i tumori derivano da un unico progenitore cellulare. Poiché vengono selezionate le proprietà cellulari più vantaggiose in termini replicativi, la progressione tumorale risulta una forma di evoluzione somatica, a spese dell’organismo ospite. L’eterogeneità biologica delle cellule tumorali dipende dalle pressioni selettive esercitate dal microambiente tumorale sui cloni varianti che emergono nel corso dell’espansione. La progressione del tumore è solitamente accompagnata dallo sviluppo di caratteristiche più aggressive a livello del tasso di crescita, dell’invasività, delle metastasi e da cambiamenti morfologici e biochimici. I meccanismi dell’evoluzione somatica dei tumori hanno ovviamente conseguenze importanti sul piano del comportamento clinico e della risposta alla terapia.
Il primo farmaco per la cura del cancro, il methotrexate, risale al 1948. Gertrude Elion e George Hitchings, nel 1951, identificano la 6-mercaptopurina, nuovo agente chemioterapico, efficace contro la leucemia. Nello stesso anno viene realizzata la prima coltura in vitro di cellule tumorali, che saranno usate a lungo per esperimenti di varia natura. Nel 1960 vengono condotti i primi esperimenti di radioterapia, poi ripresi nel 1975, con l’obiettivo di fornire una terapia contro i tumori. Aurelio Di Marco, nel 1971, mette a punto l’adriamicina, che farà parte dei cocktail chemioterapici. Nello stesso anno viene isolato anche il tassolo, un potente antitumorale. Charles Weissmann, nel 1980, ottiene, attraverso tecniche del DNA ricombinante, l’interferone umano, glicoproteina prodotta dall’organismo nella risposta immunitaria in varie situazioni patologiche, comprendenti l’attività di virus e cellule tumorali.