Natura
Il termine latino natura, passato nelle principali lingue moderne, conserva nella propria etimologia, da nasci, "nascere", l'antica idea di generazione, crescita (affine al greco ϕύσις), ossia di genesi e assetto del mondo fisico, nozione variamente persistente pur nel mutare dei contesti. Tuttavia, l'uso corrente del termine, come pure l'uso scientifico, filosofico, giuridico, estetico, letterario, testimoniano una polisemia ampia e differenziata, che al primo significato associa per estensione quello di un principio di regolarità, costanza, conformità a leggi, indipendenti da ogni artificio umano, riguardo sia al mondo organico degli individui e delle specie viventi, sia al mondo inorganico studiato dalla scienza che già i greci chiamarono 'fisica'. La metafora pregnante della natura contiene, come un palinsesto, le stratificazioni delle sue immagini più remote alle quali occorre risalire, dato che anche le nostre cognizioni attuali hanno radice in un'interazione tra uomo e natura iniziata in tempi immemorabili.
l. Antichità
Da quando Homo sapiens tracciò sulle pareti delle caverne i segni delle proprie percezioni dell'ambiente circostante, proiettò fuori di sé un'immagine antropomorfa o zoomorfa delle forze naturali, legata ai miti della creazione. La ripartizione dello spazio nei quattro o più punti cardinali, i fenomeni meteorologici, le apparenze celesti, la flora, la fauna, erano parti di un tutto animato, fonte di ansie e timori, entità misteriose a cui i popoli senza scrittura tributavano un culto propiziatorio. Antropologi ed etnologi hanno molto discusso su come il dilemma natura/sovrannaturale si presentasse nelle religioni arcaiche, accompagnando la genesi delle funzioni razionali da un fondo oscuro di rappresentazioni prelogiche. Probabilmente, la personificazione emotiva di potenze benevole od ostili, nei culti della vegetazione e nelle remote mitologie astrali, ha preceduto ogni netta distinzione tra la sfera della natura e quella del miracolo, del sacro, del magico. Si può soltanto immaginare un trapasso graduale e assai articolato tra i due momenti: il rapporto collettivo, intensamente vissuto nelle società primitive, con le entità occulte del mana, i tabu e le presenze magiche, da un lato; d'altro lato, le prime rappresentazioni razionali di un Universo fisico creato da una causa prima e governato da cause seconde in qualche misura autonome; o, in altri termini, tra le innumerevoli forze vitali che la mentalità animista proietta in natura e le leggi causali di un cosmo ordinato, pur soggetto all'eccezione del miracolo.
Alle origini del pensiero greco, secondo le testimonianze di Aristotele e i frammenti superstiti dei cosiddetti fisiologi dell'area ionica, nel 6° secolo a.C. si pose in forma razionale il quesito dell'ἀρχή o principio dei processi della natura - inizio, divenire, fine - rispettivamente identificato da Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito in singole entità o corpi come l'acqua, l'infinito, l'aria, il fuoco. Ai naturalisti ionici, come pure ai presocratici della Magna Grecia, Pitagora, Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento, la tradizione dossografica attribuisce, sull'incerta linea di confine tra i miti immemoriali della creazione e arcaiche credenze religiose, massime, poemi e scritti Sulla natura, tema che implica comunque una ricerca razionale su ciò che persiste o fa da sostrato all'incessante vicissitudine delle cose. I pitagorici postularono arcane corrispondenze tra le figure regolari dell'aritmogeometria, le note della scala musicale, le forme naturali e i moti armonici dei corpi celesti. Nei poemi iniziatici di Parmenide e di Empedocle (6° e 5° secolo a.C.), insieme con le concezioni dell'Uno, il problema del movimento, le forze cosmiche antagoniste, si delineano le nozioni dei quattro corpi - terra, acqua, fuoco, aria - che Aristotele fisserà come elementi fondamentali del mondo fisico.
Una teoria alternativa riguardo all'ἀρχή della natura era stata formulata nel 5° secolo a.C. da Anassagora di Mileto. Tra le varie dottrine fisiche e cosmologiche che gli sono attribuite, uno scritto Sulla natura fissava il principio di causalità ("nulla si può generare dal nulla"), introducendo la divisibilità all'infinito delle sostanze, moltiplicando le sostanze primarie, composte di particelle omogenee (omeomerie), che si mescolano variamente nelle cose, dove alcune prevalgono di volta in volta, sì che "in ogni cosa c'è parte di ogni cosa". Una teoria decisamente quantitativa e meccanicista della natura, con esclusione delle qualità, fu elaborata, nella seconda metà del secolo, nella colonia ionica di Abdera dagli atomisti Leucippo e Democrito, i quali postularono due soli principi reali in natura: i corpuscoli originari insecabili (ἄτομοι), entità materiali ma ipotetiche e non percepibili ai sensi, soggette al gioco alternativo del caso e della necessità; e il vuoto (κενόν), condizione stessa della molteplicità e del movimento. Sullo sfondo di questa grande semplificazione, essi spiegarono la diversità, la composizione e le vicissitudini di tutti i fenomeni fisici, risultanti da modificazioni di proprietà quantitative o geometriche: forma, peso, solidità, disposizione, posizione. Un moto disordinato di particelle che rimbalzano, si scontrano e mutano direzione precede la formazione del cosmo; la costituzione di vortici è il primo atto delle aggregazioni di parti simili, che si saldano nelle masse sferiche dei corpi celesti; la vita e la stessa anima umana sono anch'esse il prodotto del moto meccanico di atomi mobilissimi, ignei, leggeri. Dai corpi già formati si distaccano gli effluvi che vengono a colpire i sensi e a provocare le sensazioni; la conoscenza e il giudizio, derivanti dalla percezione e dall'esperienza, sono a loro volta moti di atomi.
Socrate, accusando di materialismo Anassagora e gli altri 'fisiologi', reagì alle loro ricerche. Il personaggio che ci è noto come interlocutore dei dialoghi platonici oppone loro un interesse esclusivo per i valori dell'etica e i concetti universali della logica. Ma più propriamente platonici sono gli sviluppi del netto dualismo gnoseologico che comporta la distinzione dell'anima dal corpo, la svalutazione delle impressioni sensibili e dell'opinione, la ricerca di archetipi universali e necessari, modelli eterni di tutto ciò che muta e si trasforma nel dominio illusorio dei fenomeni. Poiché le sensazioni sono inaffidabili, secondo Platone una conoscenza sperimentale della natura è per definizione preclusa al filosofo. La cognizione delle idee o forme si raggiunge non per la via induttiva che dai fenomeni procede alle cause, ma mediante il metodo dialettico che ascende per via puramente intellettuale e contemplativa ai sommi archetipi ideali e ai valori supremi dell'etica. Come in un effimero gioco di ombre, nel famoso mito della caverna, il filosofo abbagliato dal sole della verità può appena intravedere le forme evanescenti delle cose che appaiono in natura, 'copie' imperfette delle idee. L'anima, chiusa nel carcere del corpo e nella cerchia illusoria dell'opinione, può avviarsi alla conoscenza delle idee evocando per 'reminiscenza' - come lo schiavo del Menone riguardo a certe proposizioni geometriche - verità che già possiede inconsapevolmente.
Miti d'origine orfica e pitagorica, come le vite anteriori, la caduta nel mondo, la metempsicosi, colmano le aporie di questa teoria della conoscenza e giustificano l'iniziazione ai misteri della natura: il soldato Er, nella Repubblica, ha la rivelazione del sistema astronomico viaggiando nel regno delle ombre. Il filosofo pitagorico protagonista del Timeo narra il mito della genesi del cosmo dalle mani di un demiurgo, che ha per modello l'idea eterna e immutabile alla quale si ispira generando il tempo, lo spazio, gli elementi, i corpi celesti, i viventi, il flusso del divenire. La figurazione simbolica di Platone antepone alla creazione del cosmo i valori estetici e numerologici. L'ordine, la bellezza, l'attività, l'intelligenza insite nell'anima del mondo precedono e determinano l'azione delle cause seconde. L'opera del demiurgo consiste nel manipolare plasticamente l'anima del mondo in perfette forme geometrico-musicali: la sfera che tutto include, le successive partizioni in anelli rotanti (l'equatore e l'eclittica di un sistema geostatico) secondo proporzioni armoniche accuratamente calcolate. I quattro elementi dei presocratici si ripresentano connessi con strutture geometriche di complessità crescente: alla materia informe compete il triangolo; al fuoco il tetraedro; all'aria l'ottaedro; all'acqua l'icosaedro; all'etere, il quinto e il più sottile degli elementi, compete il dodecaedro, ossia il solido più prossimo alla sfera. A questo mito è connessa la teoria dei cinque solidi regolari o 'perfetti', che sarà ripresa in forma analitica negli Elementi di Euclide, e di lì passerà in tanta parte dell'aritmogeometria astronomica, figurativa, musicale fino al pieno Rinascimento. L'impronta della scuola pitagorica domina, nel Timeo, le distanze tra le sette sfere planetarie, l'avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni e degli anni. Platone simboleggia con enigmi difficilmente decifrabili l'incolmabile distanza che sussiste tra il modello ideale del cosmo e la realtà fenomenica dei corpi celesti rotanti attorno alla Terra. L'astronomia di osservazione è uno studio di oggetti materiali inferiori ai loro modelli, indegno del filosofo, che ha come compito esclusivo la sublime sapienza dei puri rapporti numerici. A tale sapienza appartiene l'arcana contemplazione dei moti armonici degli astri, accennata nell'enigmatica visione di Er (Repubblica, 616 e segg.), che regolano la nascita, la trasmigrazione e i destini delle anime umane nel tempo, "immagine mobile dell'eternità". L'armonia e bellezza del cosmo come vivente opera d'arte, l'arcana corrispondenza tra i moti degli astri e le vicende umane, il primato dell'anima e delle idee, la separazione della mente dalla mano, sono aspetti dell'immagine animista della natura destinata a nutrire a lungo sia la tradizione neoplatonica, sia il sapere occulto della magia e dell'ermetismo. D'altro lato, la tradizione neopitagorica e neoplatonica, nelle sue numerose varianti, favorì anche l'investigazione sperimentale del mondo fisico, suggerendo la geometrizzazione della materia e dello spazio, il rifiuto del 'senso comune' dettato dall'apparenza fenomenica, l'eliocentrismo e, soprattutto, la credenza in un dio che 'geometrizza in eterno', cioè nella substruttura matematica della natura e delle sue leggi.
Nel 4° secolo a.C., Aristotele, discepolo e critico dell'idealismo platonico e del primato pitagorico dei numeri e delle forme geometriche, formulò un'immagine essenzialmente qualitativa della natura: quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido) si combinano variamente tra loro e si solidificano nei quattro elementi; questi, in un mondo fisico non creato e senza origine nel tempo, sono distribuiti in uno spazio anisotropo, cioè in una gerarchia di luoghi naturali orientati verso un 'alto' e un 'basso' assoluti. Nelle sfere concentriche del mondo sublunare, sedi privilegiate dai quattro elementi, che costituiscono l'infimo ricettacolo della generazione e corruzione, i moti imperfetti - rettilinei, curvilinei o misti - agitano confusamente le misture delle qualità e delle sostanze, ma tendono spontaneamente a ricondurre ciascun elemento verso la sua sfera propria: la terra verso la sfera terrestre, l'acqua verso la sfera acquea e così via. I concetti di movimento, materia, tempo, spazio si adattano a un cosmo chiuso, ordinato, geocentrico, nel quale tuttavia la tendenza di ciascuna cosa a collocarsi al suo posto e di ciascun posto a recepire la sua propria cosa resta sempre incompiuta a causa delle perpetue perturbazioni che influenzano i processi terrestri. La sfera sopralunare è radicalmente distinta dal mondo fisico sottostante; è pervasa da una 'quinta essenza' (o etere), qualificata secondo un più alto genere di perfezione dai moti circolari delle altre sfere celesti, conchiusi su sé stessi, che al pensiero geometrico greco apparivano i soli moti perfetti. La definizione "la natura è principio del movimento e del mutamento" (Fisica, 184a) non è comprensibile se non si tiene conto delle premesse della logica, della psicologia e della metafisica aristoteliche: la categoria somma del pensiero e dell'essere - la sostanza - e i suoi attributi o predicabili; le quattro cause (materiale, efficiente, formale, finale); la distinzione tra potenza e atto, e il perpetuo tendere di tutte le cose dalla potenza all'atto, dalla materia alla forma. Infatti il moto non è soltanto locale: investe l'intero mondo fisico come processo universale di 'attuazione' delle potenzialità della materia, sotto l'influenza delle quattro cause e di una complessa gerarchia di forme. Esterno al complesso delle sfere è il puro atto di pensiero, principio e causa finale di tutte le cose, che suscita in tutte le cose il desiderio di imitarlo, dando luogo al movimento circolare eterno, che muove il primo mobile e le sfere sottostanti: "Il primo principio, il primo fra tutti gli esseri, è immobile, e infonde il primo movimento che è eterno e uniforme" (Metafisica, 12, 8, 1073a). Il dio di Aristotele non è creatore, ma puro atto impersonale e impassibile nel suo empireo. Senza di esso la natura mancherebbe della propria chiave di volta; ma, fissati i presupposti della fisica e della metafisica, il filosofo riconosce la difficoltà di una conoscenza esatta ed esaustiva del macrocosmo. Ammette, al contrario, la validità dell'osservazione diretta nel dominio della generazione e corruzione più prossimo all'uomo: "Quanto alle cose corruttibili, piante e animali, conoscerle è più facile perché ci viviamo in mezzo […]. In tutte le cose della natura c'è qualcosa di mirabile" (De partibus animalium, 644b). Dunque, per l'autore della Historia animalium, del De partibus animalium, del De generatione animalium e degli altri trattati di storia naturale, la conoscenza di quest'infima parte del mondo fisico è frutto dell'osservazione, dell'accurata distinzione e classificazione delle forme. Soprattutto nell'ambito delle specie viventi Aristotele pose a suo modo le basi delle ricerche di fisiologia, morfologia, anatomia comparata, tassonomia; anche se le sue osservazioni sullo sviluppo e sull'ereditarietà non rinunziavano al presupposto metafisico di una forma interna di natura psichica, e le sue distinzioni di generi e specie rispondevano a criteri classificatori fissati a priori.
Nella descrizione dell'assetto dei cieli, il progressivo consolidamento del sistema geostatico finì per espellere le concezioni alternative, avanzate da alcuni pitagorici, e per fissare un'immagine dogmatica della natura. Aristotele aveva adattato alla sua metafisica i modelli di sfere omocentriche costruiti da due matematici contemporanei, Eudosso (29 sfere) e Callippo (33 sfere), che sembravano in grado di 'salvare i fenomeni', cioè di dare una spiegazione soddisfacente non solo dell'euritmia dei moti planetari, ma anche delle loro traiettorie in più punti devianti dalla perfezione della sfericità. Le intelligenze motrici dei pianeti e del Sole erano inserite nelle sfere quintessenziali, e ritenute responsabili della regolarità dei moti. In età alessandrina la ricerca astronomica introdusse nuovi metodi di calcolo e nuove ipotesi: Aristarco di Samo (310-250 a.C.), misurando le distanze angolari tra Terra, Sole e Luna, riprese l'ipotesi semieliocentrica: "Le stelle fisse e il sole sono immobili, mentre la terra si muove intorno al sole in un cerchio" (riferito da Archimede in Arenario). Eratostene (276-196 circa a.C.) poté confermare la sfericità della Terra e dare una misura approssimata delle sue dimensioni, oltre che fissare i punti di riferimento dell'astronomia d'osservazione (poli ed equatore celesti, eclittica, fascia zodiacale); un catalogo di stelle, la durata dell'anno solare e il fenomeno della precessione degli equinozi furono stabiliti da Ipparco di Nicea (190-120 circa a.C.). Ma nonostante i progressi dei metodi matematici e dell'astronomia d'osservazione, il peso del senso comune più elementare finì paradossalmente per garantire, insieme con l'autorità di Aristotele, la prevalenza della fisica qualitativa, gerarchica, obbediente alle premesse della 'scienza prima' metafisica. La sintesi enciclopedica di Claudio Tolomeo alessandrino, detta Grande sintassi e ribattezzata dai dotti arabi Almagesto, risalente agli anni 120-150 d.C., suffragava la correttezza dell'ipotesi geocentrica con un'ampia messe di argomentazioni meccaniche, astronomiche, matematiche e musicali. La centralità della Terra era provata dalla caduta dei gravi e dall'uniformità dei fenomeni celesti: le irregolarità dei moti planetari trovarono spiegazioni sempre più raffinate in una macchina celeste composta di espedienti ingegnosi, eccentrici epicicli deferenti, introdotti ad hoc per 'salvare i fenomeni'. Il sistema raggiunse una precisione tecnica rispettabile, e soprattutto consentì di salvaguardare l'autorità gerarchica del metafisico e della sua filosofia 'prima', relegando l'astronomo matematico in un ruolo accessorio e subordinato. Come scrisse Simplicio, il commentatore di Aristotele: "È compito della filosofia esaminare l'essenza del cielo e degli astri. L'astronomia non ha alcun titolo per occuparsi di simili questioni prime.
L'astronomo deriva dal filosofo i principi supremi secondo i quali i moti degli astri sono regolari, uniformi, costanti" (Commento al De coelo). Non diverso sarà il dogmatismo del Simplicio interlocutore peripatetico nel Dialogo sui massimi sistemi di Galilei. Non si può trascurare il ruolo essenziale che l'idea di natura ebbe nell'ambito della ricerca morale. I filosofi cinici, stoici ed epicurei articolarono variamente il problema del nesso tra leggi di natura e convenzioni umane, vita conforme a natura e artificio. Negatore della conoscenza razionale e dei miti religiosi, Diogene cinico, attivo nella seconda metà del 4° secolo a.C., ricercava l'uomo autentico o naturale nell'ascesi interiore. Zenone e Crisippo, capiscuola dell'antica Stoa (3°-2° secolo a.C.), tornarono a immergere l'ideale della virtù e della vita conforme a natura in una concezione cosmica prossima all'anima mundi platonica: la visione panteista della 'simpatia' universale che lega le parti del Tutto, in cui sono dominanti entità vitali come il pneuma, il fuoco, e le ragioni seminali, donde tutte le cose nascono e si sviluppano secondo un andamento ciclico. La ragione umana riflette sulle 'nozioni comuni' dettate dalla natura e innate, ritrovando in sé stessa sia le cause nascoste dei fenomeni del mondo fisico, sia le regole supreme dell'etica, grazie alle quali il microcosmo dell'animo umano è paradossalmente l'immagine più fedele del macrocosmo, e la finalità della vita consiste, secondo l'etica stoica, nel perseguire la virtù in piena coerenza e armonia con la natura. Su valori diversi e per certi aspetti opposti è modellato il sistema materialistico di Epicuro (341-270 circa a.C.) e di Lucrezio (1° secolo a.C.); del primo restano unicamente due lettere dedicate alla gnoseologia e all'indagine naturale, oltre a una raccolta di massime morali, che si completano con il De rerum natura del seguace latino, al quale erano note altre fonti attualmente perdute. L'etica del piacere, che valse a Epicuro l'esecrazione dei benpensanti di ogni età, è in realtà un esercizio terapeutico o catartico, volto a ricercare in natura la cura di ogni sofferenza e il segreto della felicità. La gnoseologia sensista, o 'canonica', e la fisica degli atomi si proponevano di svelare le vere cause dei fenomeni naturali e di liberare l'umanità dalle sue ansie ataviche, dal timore della morte e delle potenze occulte di cui le credenze mitico-religiose l'hanno resa schiava. In luogo dell'antropomorfismo dei miti della creazione, l'ipotesi meccanicista di Democrito offriva la spiegazione razionale fondata sugli atomi e sul vuoto, che Epicuro modificò in qualche punto: la gravitazione degli atomi verso un 'basso' assoluto, la loro tendenza a deviare dalla traiettoria più breve (clinamen), il numero non infinito delle loro forme. Accolte nel poema di Lucrezio, tali varianti limitavano, mediante l'ammissione di eventi casuali e fortuiti, l'assetto deterministico della natura e le sue ferree leggi (foedera naturae). Il poeta latino, nei suoi versi carichi di intense emozioni naturalistiche, accentuò il significato liberatorio e pragmatico della fisica epicurea. La sua descrizione materialistica delle origini umane, dello stato di natura e della formazione delle prime società propose una netta alternativa alla Genesi mosaica, destinata ad avere molta fortuna nel pensiero giusnaturalistico. Nella cultura romana, l'adozione della concezione greca della natura, soprattutto dello stoicismo e dell'epicureismo, dette frutti di una certa originalità sul piano morale e giuridico, grazie all'opera di Varrone, Cicerone, Seneca; mentre la Naturalis historia di Plinio il Vecchio recuperava da innumerevoli scrittori antichi una vasta e fantasiosa descrizione enciclopedica dell'ambiente geografico e naturalistico in tutte le sue dimensioni, compresi il sistema astronomico e i lusus naturae. Ancora a Cicerone e ai protagonisti della giurisprudenza romana confluita nel Corpus iuris di Giustiniano si deve l'elaborazione dei principi dello ius naturale, intesi come norme assolute di equità e giustizia 'iscritte in natura', fonti dello ius civile e dello ius gentium e perenne modello di confronto per la legislazione e la pratica forense.
Durante l'eclissi della scienza e della filosofia greca, accolta e coltivata dagli arabi ma caduta nell'oblio nell'Occidente latino tra il 5° e il 12° secolo d.C., la cultura teologica e filosofica cristiana non elaborò nuove cognizioni di tipo scientifico e naturalistico, pur attingendo da un numero ristretto di fonti classiche le discipline del trivio e del quadrivio: l'enciclopedia di Marciano Capella, i manuali di Boezio e Cassiodoro, il commento di Calcidio al Timeo di Platone e quello di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone, i compendi d'incerta paternità come il Liber de causis e il corpus degli scritti attribuiti a Dionigi Aeropagita. Questi ultimi assicurarono, nei secoli in cui fiorì la speculazione teologica dei Padri e dei maestri della Scolastica, la continuità della tarda tradizione neoplatonizzante derivante da Proclo, Giamblico, Plotino, entro la quale il mondo fisico si presentava come teofania, stadio inferiore di una gerarchia metafisica di forme ed emanazioni ('ipostasi') dell'Essere, che dall'alto della mente divina e dell'anima mundi degradano verso l'anima umana, nel mondo delle creature animate e della Terra, fino a trovare il proprio limite estremo nell'oscuro dominio della materia. Nella metafisica cristiana, il concetto greco di ϕύσις si smaterializzò, diventando parte integrante della meditazione teologica. "Dio è natura non creata, ma creatrice", scrisse Agostino, iniziatore delle classificazioni gerarchiche de divisione naturae che si posero il compito di suddividere in tre, quattro o più momenti il ciclo creativo che fa discendere dall'opera di Dio i singoli gradi delle creature. In questa grande scala dell'essere i fenomeni del mondo sensibile figurano come mirabilia o esempi dell'onnipotenza divina, e insieme come simboli del dramma universale della caduta, del peccato e della redenzione. La metafora agostiniana dei due libri, la natura e la Scrittura, strumenti paralleli di edificazione per il fedele, aprì la via alla ricerca sistematica di segni e chiavi di lettura tra le due forme della rivelazione, e il confronto nutrì sia le innumerevoli opere di esegesi scritturale della genesi mosaica del mondo creato, sia i bestiari, erbari, lapidari prodotti da scrittori, pittori e scultori, il cui prezioso linguaggio espressivo si caricava di significati morali e allegorici. L'esegesi mistico-allegorica del mondo creato si sviluppò nei modelli della trattatistica, come il De natura rerum di Isidoro di Siviglia e il De universo di Rabano Mauro, mentre la concezione neoplatonizzante dell'emanazione culminò nella quadripartizione del monaco irlandese Giovanni Scoto Eriugena; questi, suddividendo il concetto di natura nei quattro momenti dialettici di una vasta teofania - la natura che crea ma non è creata (Dio), la natura che è creata e che crea (le idee), la natura creata che non crea (il mondo fisico), la natura che non crea e non è creata (la materia) -, assorbì la natura nel suo creatore, relegando il mondo sensibile in un ruolo puramente fenomenico e simbolico.
Un primo ritorno al sapere naturalistico classico di Aristotele, Galeno, Tolomeo, Lucrezio attraverso la mediazione dei dotti arabi rilanciò, nella cosiddetta rinascenza del 12° secolo, un più vivace sentimento della natura, concepita come forza attiva e creatrice meritevole di indagine autonoma. I promotori della philosophia naturalis - i maestri della scuola episcopale di Chartres, Bernardo, Teodorico, Bernardo Silvestre - presero le distanze dalla speculazione teologica, associando l'interpretazione della Genesi al mito pagano del Timeo. Guglielmo di Conches, nel dialogo De philosophia mundi, non esitò a far propria l'ipotesi lucreziana degli atomi, sottraendo la formazione degli elementi e la nascita degli organismi viventi al racconto allegorico della Bibbia. Nel varco aperto dalle vivaci polemiche tra i maestri di Chartres e i loro critici si fecero strada altre suggestioni, da sempre latenti in età medievale, provenienti dal Corpus hermeticum (databile fra il 2° e il 3° secolo d.C.), dall'astrologia, dalla magia e dall'alchimia. Nel 12° e 13° secolo l'intensa attività di traduzioni indirette dall'arabo e dall'ebraico dei testi di Euclide, Tolomeo, Aristotele e dei loro commentatori, provenienti soprattutto dalla Spagna, impresse una profonda svolta alla riflessione teologica, imponendo ai teologi del mondo latino scelte e confronti sempre più serrati con le varie tradizioni del platonismo e dell'aristotelismo.
A metà del 13° secolo, la distinzione tra natura e sovrannaturale, cause seconde e causa prima, il recupero della nozione stoica di ratio seminalis e di un principio d'individuazione attribuito alla materia, dovuti a Bonaventura da Bagnoregio, agevolarono nei maestri della Scolastica un sistematico confronto con la fisica e la metafisica di Aristotele. Nette distinzioni concettuali furono introdotte da Alberto Magno tra i corpi naturali, con i loro stati di moto e quiete, e i prodotti artificiali; tra i moti semplici del corpo e i moti volontari dell'anima; tra la metafisica e la teologia da un lato, la fisica dall'altro, scienza aristotelica della potenza e dell'atto, delle sostanze e delle forme, sapere razionale e autonomo rispetto alla rivelazione. Nella sistemazione di Tommaso d'Aquino giunse a maturazione la dicotomia tra il dominio della fede e quello della ragione, e insieme l'esigenza di un perfetto accordo tra i dogmi della rivelazione e le verità razionali della fisica, che non cessava di definirsi ancilla theologiae. Nel grande compromesso dottrinale dell'Aquinate si realizzò l'innesto tra la conoscenza discorsiva delle cose naturali, riservata alla sensibilità e alla ragione, e la conoscenza di Dio, anch'essa affidata a 'prove' razionali ma assistita dalla fede. L'assetto tolemaico del sistema astronomico fu consacrato come elemento essenziale dell'immagine del mondo creato: la natura tornava a presentarsi, in termini aristotelici, come 'principio di moto e di quiete', gerarchia di sostanze e forme, processo di passaggio dalla potenza all'atto, non animato dal desiderio del motore immobile, ma soggetto alle leggi provvidenzali di un Dio concepito come prima persona del dogma trinitario. Il razionalismo neoaristotelico dell'Aquinate e dei suoi seguaci fu presto insidiato dalla libera ricerca filologica, etica e religiosa degli umanisti del 15° secolo. Le certezze del metodo scolastico entrarono in crisi sotto l'urto di un profondo rinnovamento di mentalità, cui contribuirono la sensibilità per il mondo classico di un pioniere come F. Petrarca; l'originale misticismo speculativo di N. Cusano, nutrito di conoscenze geometriche; la diaspora dei dotti bizantini in Italia dopo la caduta di Costantinopoli; l'importazione e lo studio diretto dei codici greci, che reintrodussero nella cultura europea la filosofia, la matematica, la geometria, la statica, l'ottica, l'astronomia, la medicina, la fisiologia, l'anatomia, la botanica antiche. Si può dire che il primo passo della rivoluzione scientifica non consisté tanto nell'adozione di nuovi metodi di ricerca e di sperimentazione, quanto nel recupero filologico di queste fonti, che imponevano la riscoperta del mondo fisico attraverso gli occhi degli antichi. Si è molto discusso di recente sul contributo che al mutamento del clima intellettuale può aver recato il parallelo recupero dell'ermetismo tardoantico, con le pratiche dell'astrologia, dell'alchimia e della magia. L'Asclepio, il Pimander e gli altri trattati del Corpus hermeticum, affidati da Cosimo il Vecchio alle cure di M. Ficino insieme con i codici di Platone, Plotino e altri testi iniziatici, introdussero un lievito di eterodossia nella speculazione teologica, che ricercò in quei testi spuri la continuità di una rivelazione antichissima, la prisca sapientia di Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Filolao, Platone, Plotino. Le oscure immagini della cosmogonia panteista attribuita alla parola dell'egizio Ermete erano intonate a una concezione animistica della natura, che esaltava la centralità dell'uomo, il vincolo tra microcosmo e macrocosmo, le segrete corrispondenze tra tutte le cose, la numerologia.
Depositario del linguaggio misterioso delle forze naturali era ritenuto il mago, con la sua capacità di 'sposare il cielo e la Terra', evocare le potenze divine e diaboliche, riprodurre con procedure segrete i più enigmatici processi della natura e piegarli al proprio volere. Gli scritti di Ficino e di Giovanni Pico diffusero in Europa la vulgata di Platone e il sincretismo ermetico della pia philosophia, fonti e commenti in latino del naturalismo magico a cui attinsero filosofi non ignari di matematica e della nuova scienza come G. Della Porta, T. Campanella, G. Bruno in Italia, Le Fèvre d'Étaples e J. Clitchove in Francia, J. Reuchlin e H.C. Agrippa di Nettesheim in Germania, R. Fludd e i platonici di Cambridge in Inghilterra. Il naturalismo ermetizzante e occultista, con i suoi ingredienti numerologici, esercitò una potente suggestione in molti campi: arti figurative, musica, fisiognomica, astrologia giudiziaria, medicina, teologia, non escluse le scienze destinate a una rapida emancipazione: ottica, astronomia, chimica. È innegabile che tra la metà del 16° e buona parte del 17° secolo vi fu una giustapposizione di mentalità: i velleitari sogni di potenza del mago, le procedure empiriche dell'alchimista, le conoscenze tecniche dell'astrologo convissero in qualche misura con le teorie e le pratiche dei protagonisti della prima rivoluzione scientifica.
La teoria secondo la quale 'paradigmi' o improvvise svolte metodiche si susseguono nella conoscenza della natura semplifica gli intricati percorsi del metodo sperimentale in età moderna. Già tra il 15° e il 16° secolo, ai margini della cultura teologica e speculativa tramandata nelle scuole, artigiani e costruttori di macchine, matematici, astronomi, anatomisti, botanici, architetti e altri 'pratici' sottrassero gradualmente ampi settori dell'investigazione della natura al predominio della metafisica e al principio d'autorità. Un ristretto numero di dirette osservazioni astronomiche erano state sufficienti a N. Copernico per modificare la gerarchia del sapere nel De revolutionibus orbium coelestium libri sex (1543), sottraendo il sistema del mondo ai dogmi della metafisica tolemaico-aristotelica, e argomentando una teoria cinematica dei moti della Terra e dei pianeti attorno al Sole. La ricerca anatomica e fisiologica di A. Vesalio, G. Fabrici d'Acquapendente, R. Colombo, W. Harvey modificò in profondità con elementi meccanicistici l'immagine della 'fabbrica del corpo umano' tramandata dall'autorità di Aristotele e Galeno. In Leonardo da Vinci le intuizioni teoriche, le invenzioni meccaniche, le dissezioni anatomiche fecero da sfondo a una tecnica artistica che era di per sé uno strumento di sperimentazione sul corpo della natura vivente. Dai laboratori e dai cantieri si diffusero le pratiche architettoniche e le macchine da costruzione, idrauliche, militari, escogitate dagli ingegneri del Cinquecento. Alla fine del secolo, studiando le attrazioni di piccoli magneti, W. Gilbert intuì il geomagnetismo e l'attrazione terrestre. Il cannocchiale che Galileo puntò sulla Luna, sulla Via Lattea, su Giove e i suoi satelliti fu un frutto della tecnica dei costruttori olandesi di occhiali più che dall'ottica teorica. La consapevolezza metodica dell'obsolescenza dell'immagine della natura fondata sui concetti aristotelici di potenza, atto, forma, sostanza, processo, e la necessità di sottoporre la natura alla 'vessazione' degli esperimenti per costringerla a dare risposte a precisi quesiti dell'uomo, suo 'ministro e interprete', fu teorizzata, nel 17° secolo, da F. Bacon nel Nuovo organo e nella Grande instaurazione (entrambi del 1620). Da un diverso punto di vista, nel Discorso sul metodo (1637), nei Saggi (1637) e nei Principi di filosofia (1644) Cartesio si ispirò al modello delle 'lunghe catene di ragioni' dei matematici - cioè alle procedure geometriche di Euclide e alla propria analisi pionieristica delle curve algebriche - per anticipare le leggi ipotetiche di un'immagine razionale della natura, distinta in due sole sostanze: res cogitans e res extensa. Nonostante l'innovazione metodica, l'opera di questi due pionieri della nuova scienza conserva notevoli impronte dell'ideale pansofico dei filosofi sistematici antichi e dei maghi rinascimentali, contro i quali pure reagivano. La tensione profetica che attraversa i progetti enciclopedici di Bacone, il suo ideale di un futuro regnum hominis, il mito di una nuova Atlantide interamente fondata sulle scoperte della scienza rispecchiano le aspettative millenaristiche suscitate dalla mentalità puritana, ma suggerirono anche feconde direzioni d'indagine e i criteri collegiali di investigazione della natura, poi adottati nel 1660 dai soci fondatori della Royal society.
Cartesio, pur servendosi di un rigoroso criterio meccanicistico fondato sull'ipotesi corpuscolare e sul metodo dimostrativo della geometria, nutrì l'illusione di portare rapidamente a compimento una descrizione esaustiva a priori di tutti i fenomeni della fisica terrestre e celeste, incluse la materia vivente, la fisiologia umana e animale, l'embriologia, la psicologia, la morale. Nonostante questi tentativi, la prima rivoluzione scientifica non garantì l'accettazione di una sicura metodologia sperimentale, né l'abbandono dei 'romanzi di fisica'. L'ambizione di tracciare, come gli antichi, disegni globali di filosofie della natura sopravvisse al fallimento della grande mécanique cartesiana; inversamente, frammenti di sistemi filosofici tradizionali sorressero le ipotesi di lavoro dei seguaci del metodo sperimentale. Il linguaggio formale della geometria e dell'analisi matematica, con le sue implicanze ontologiche (per es. i 'solidi platonici'), consentì a J. Kepler (Keplero) di escogitare modelli di armonie cosmologiche e musicali, con i quali giustificare i moti eliocentrici dei pianeti, e successivamente 'deformare' in figure ellittiche regolari, per via di osservazione e di calcolo, le traiettorie circolari ancora presenti nella cinematica di Galileo. Un fisico matematico come Ch. Huygens si concesse fantasiose meditazioni sui mondi extraterrestri, e lo stesso coinventore del calcolo infinitesimale G.W. Leibniz fu artefice di un estremo tentativo di compromesso speculativo tra il concetto aristotelico di sostanza e le forze della nuova dinamica, nel quadro di un'ambiziosa filosofia naturale. Anche dopo l'avvento della sintesi di I. Newton, filosofie globali della natura furono tentate, nel Settecento, da metafisici come Ch. Wolff, matematici come R.G. Boscovich, naturalisti come L. Leclerc de Buffon. Molto controversa è la strategia dei richiami di Galileo a Platone - sia a proposito del mito della caduta dei pianeti nelle loro orbite, sia dell'idea della natura come libro 'scritto in lingua matematica' - sulla quale fondò il rigetto globale della ϕύσις peripatetica, che argomentò nei minimi dettagli nel Dialogo sopra i massimi sistemi (1632) e nei Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze (1638). La polemica contro Aristotele si compendia in un'obiezione suprema: aver capovolto il corretto processo induttivo, costruendo la 'fabbrica' del mondo secondo i precetti di un''architettura' arbitraria, irrigidendo il più rozzo senso comune nelle forme a priori di una metafisica precostituita.
La nuova scienza del moto eliminava totalmente la dicotomia tra moto e quiete, moti naturali e violenti, retti e curvilinei diretti verso il basso e verso l'alto, unificando cielo e Terra in un'unica meccanica governata dalle medesime leggi. La prima legge fu l'accelerazione costante del moto di caduta libera dei gravi in condizioni ideali, che Galileo formulò con un esperimento mentale e tentò di verificare sperimentalmente. La statica di Archimede influenzò in profondità le sue ricerche di idrostatica e meccanica, anche se in realtà la semplificazione razionale della scienza del moto fu graduale e non priva di remore concettuali. Galileo formula con grande chiarezza il concetto di sistema inerziale e il connesso principio di relatività, con l'immagine del moto rettilineo uniforme di un 'gran navilio', che tuttavia ha luogo su una superficie sferica, la crosta terrestre. Il residuo dell'antico privilegio del moto circolare si avverte anche in un altro esperimento mentale, che descrive il moto rettilineo uniforme su un piano 'né acclive né declive', ossia finito e tangente alla superficie terrestre. Galileo abbozzò il principio d'inerzia in questa forma provvisoria; tracciò una netta distinzione tra qualità primarie e secondarie; adottò l'ipotesi della struttura corpuscolare della materia. In luogo di una descrizione esaustiva delle forze della natura, ebbe fede nella loro costanza e regolarità:"La natura è inesorabile e immutabile, e mai non trascende i termini delle leggi impostegli, come quella che mai si cura che le sue recondite cagioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini" (Lettera a Cristina di Lorena, 1615). Le prove del moto terrestre illustrate nel Dialogo erano esperimenti mentali efficaci soprattutto per controbattere le prove contrarie di Tolomeo. La teoria delle maree e quella delle comete svolta nel Saggiatore (1623) erano invece ipotesi semplicemente 'erronee', che dimostrano il carattere provvisorio delle leggi galileiane, ancora prive di un soddisfacente fondamento dinamico. Paradossalmente gli 'errori' sistematici di cui era disseminata la descrizione tutta ipotetica della res extensa non impedirono a Cartesio, con la sua geometrizzazione a oltranza del mondo fisico, di generalizzare il principio d'inerzia, destinato a fungere da premessa alle leggi della fisica classica. Sacrificando i passaggi intermedi, il compimento della prima rivoluzione scientifica si identifica con la sintesi di Newton, 'legislatore' della dinamica, dell'ottica, dell'astronomia, del calcolo. L'apparente semplificazione che egli introdusse, limitando le premesse della filosofia naturale a un ristretto numero di quelli che definì 'principi matematici', presuppone scelte metodiche complesse, che furono approfondite in manoscritti mai dati alle stampe dall'autore.
La netta distinzione tra i fenomeni e le loro cause - comprese la struttura fisica della luce e la paradossale actio in distans della legge di gravitazione universale - fu l'esito di una sospensione del giudizio accuratamente elaborata nei confronti di Cartesio e degli altri autori di fisiche ipotetiche, e destinata ad assicurare contro ogni obiezione gli assiomi del moto, il sistema di riferimento del tempo e dello spazio assoluti, la natura corpuscolare della materia. La regola che afferma l'uniformità della natura, 'semplice e sempre consona a sé stessa', rinvia a una molteplicità di presupposti concettuali, ontologici, religiosi che Newton ebbe il merito di tenere separati dai teoremi della dinamica, dalla descrizione fenomenica dei moti celesti e dalle analisi sperimentali dell'Ottica (pubblicata in inglese nel 1704, in latino nel 1706). In tal modo l'universo delle leggi fisiche si emancipò dalla metafisica, mentre le convinzioni religiose e le congetture incontrollabili furono relegate da Newton in alcuni testi marginali e negli inediti, insieme con le sue segrete ricerche di alchimia, e con numerose ipotesi - bandite in pubblico - sulla natura delle forze, sulla struttura della materia e dell'etere. La sintesi newtoniana sembrò aver ridotto con successo le più importanti forze della natura a una sola legge dinamica: le traiettorie di masse soggette a forze d'attrazione delle quali, note le condizioni iniziali, è possibile prevedere tutti gli stati futuri. Se anche le cause delle forze erano ignote, restava la speranza di estendere in breve tempo la formula matematica dell'inverso dei quadrati, o poche altre leggi analoghe, ai restanti fenomeni naturali. Non solo gli studiosi di fisica, astronomia, ottica, ma anche chimici, biologi, economisti, antropologi e perfino psicologi adottarono le 'regole' del metodo e si illusero di applicare il modello attrattivo ai rispettivi campi di ricerca. Rinasceva così, in altra forma, l'antica aspirazione di cogliere l'unità e la costanza della natura, intesa non più come sostanza in cui ineriscono accidenti, ma come sistema meccanico di leggi.
Nel 18° secolo, I. Kant costruì, negli anni giovanili, un'ambiziosa ipotesi cosmogonica con l'illusione di ricostruire il passato dell'universo newtoniano. Il punto di partenza della sua critica della ragione fu il tentativo di risolvere il discusso problema degli assoluti di Newton, spazio e tempo, definendoli forme a priori della sensibilità. Le cause e le leggi della natura diventavano funzioni dell'Io trascendentale, legislatore della natura; e solo in tal senso "Natura è l'esistenza delle cose in quanto definite da leggi generali" (Prolegomeni, § 14). Il progetto di una metafisica della natura, intorno alla quale Kant si affaticò senza successo in vecchiaia, comportava l'illusione di ristabilire una volta per tutte la sovranità della filosofia rispetto alla fisica sperimentale di Newton, intesa come stadio conclusivo dell'indagine sul mondo fisico. Anche le filosofie romantiche della natura resuscitarono un'effimera nostalgia per il primato della pura speculazione ed evocarono i fantasmi della magia e dell'occultismo. Nella ricerca scientifica, per quasi tutto il 19° secolo, la coincidenza tra l'immagine newtoniana del mondo e la natura stessa apparve indiscutibile. La fisica classica sembrò in grado di estendere le proprie premesse e di assimilare entro il modello corpuscolare-meccanicistico, con modifiche marginali, altri sistemi di leggi rispondenti a nuove discipline: l'elettricità di A. Volta e A.M. Ampère, la chimica di A.L. Lavoisier e J. Dalton, i progressi dell'ottica fisica di Th. Young e A.J. Fresnel, la termodinamica, la teoria del campo magnetico, l'elettromagnetismo. Tuttavia, le modifiche parziali minarono progressivamente l'immagine complessiva della natura 'semplice e consona a sé stessa', fino a quando la scoperta della radioattività naturale mise in crisi il modello dell'attrazione tra masse, che risultò inapplicabile alla fisica subatomica.
All'inizio del 20° secolo, la rivoluzione relativistica trasformò i presupposti concettuali della dinamica - tempo, spazio, massa, principio d'inerzia, azione a distanza, gravitazione - anticipando in sede teorica e provando sperimentalmente che la validità delle leggi di Newton, in assenza di un sistema di riferimento assoluto, non va oltre una prima approssimazione. La rivoluzione quantistica finì per revocare in dubbio le stesse certezze del determinismo, introducendo leggi statistiche in grado di prevedere i comportamenti complessi di onde, corpuscoli e particelle elementari, senza tuttavia escludere, tra le situazioni iniziali e le situazioni finali, eventi fortuiti e processi stocastici la cui connessione causale è sfuggente e oggetto di congetture. Dopo un secolo di crescita esponenziale di teorie, discipline, scoperte e soprattutto di tecnologie, addetti e investimenti destinati alla ricerca scientifica, non può meravigliare il fatto che i punti di vista su quella che, forse per inerzia consuetudinaria, si definisce ancora 'natura' appaiano frammentati in molteplici prospettive disciplinari, e che i sottostanti modelli epistemologici, gli strumenti d'indagine, i segmenti di esperienza non consentano la ricomposizione di un'immagine unitaria del mondo fisico attorno a noi e della nostra posizione rispetto a esso. Questa situazione appare ricca di ambiguità e di dilemmi all'interno della stessa comunità scientifica: si discute con insistenza sulla complessità delle leggi di natura, o si finisce per considerare con scetticismo il criterio stesso di riducibilità a leggi, la rigorosa causalità dei processi ancora sconosciuti; si pone l'accento sull'apparente discontinuità tra i diversi livelli di fenomeni (per es. i comportamenti di particelle elementari sempre nuove, la biochimica dei sistemi viventi, il body-mind problem e via dicendo). L'antico dilemma del caso e della necessità è tutt'altro che bandito dalla ricerca, e si ripresentano in altra forma alternative non nuove: sia la fiducia nella conquista più o meno imminente di verità ultime, tali da segnare l'epilogo dell'impresa scientifica; sia la prospettiva di una ricerca senza fine, nella quale i successi parziali si approssimano asintoticamente al traguardo di una conoscenza integrale del mondo fisico, per non parlare dell'organo stesso della conoscenza, la mente, a un tempo giudice e parte in causa. Non sono mancati, nel corso delle rivoluzioni scientifiche del Novecento, i profeti di sventura che hanno interpretato le crisi dei fondamenti, la complessità e i dilemmi della conoscenza della natura non come crisi di crescenza, ma come segni di un fallimento radicale della ragione scientifica. La denuncia di un'irreparabile ὕβρις contro la natura ha coinvolto in una confusa condanna la ricerca sperimentale e teorica, gli usi perversi della tecnologia, le loro ricadute sull'habitat umano, la conoscenza delle risorse naturali e il loro sfruttamento indiscriminato. In tal modo, il divario tra una razionalità scientifica in continua crescita e un'etica tuttora impari ai difficili compiti imposti dalla scienza diffonde un senso epocale di smarrimento; incoraggia le filosofie che mirano a chiudere il cerchio dell'avventura scientifica, tornando alle origini, indicando percorsi retrogradi, evocando dal profondo pozzo del passato le ansie dei primitivi nei confronti dell'ignoto e la nostalgia dell'ignoranza.
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