Navigazione
La navigazione è l'arte - oggi la scienza - che ha come oggetto il modo di condurre una nave in porto sana e salva. Questa attività presuppone: 1) la scelta di un bastimento adeguato alle prestazioni richieste nonché alle condizioni idrologiche e meteorologiche della distesa liquida - fiume, lago o mare - in cui si deve effettuare il percorso; 2) la scelta e il mantenimento della rotta che porta a destinazione; 3) l'uso degli strumenti e dei procedimenti tecnici capaci di assicurare l'efficienza e la sicurezza della nave; 4) la competenza e l'accortezza dei navigatori.
I progressi della navigazione si sono realizzati nel corso dei secoli seguendo il ritmo della storia della civiltà, delle scoperte geografiche, dello sviluppo delle relazioni economiche e delle espansioni politiche e demografiche, e infine delle conquiste scientifiche più sofisticate, ma non sono stati acquisiti simultaneamente in tutti i paesi.
Questa evoluzione, dunque, non avendo seguito una cronologia comune, va considerata da diversi punti di vista. Essa è stata accompagnata dalle trasformazioni del suo principale strumento - la nave - nella sua struttura e nel tipo di propulsione, nonché dal perfezionamento delle tecniche nautiche, passate dall'empirismo iniziale agli sviluppi più avanzati della navigazione astronomica.Sebbene ripartite in fasi di ineguale durata, le tappe della storia della navigazione si inseriscono in una traiettoria comune e continua di progresso.
L'arte della navigazione esige sempre, e dovunque, che il suo mezzo di trasporto realizzi un compromesso fra tre condizioni contraddittorie: la sicurezza, la rapidità e la capacità. Ora, le dimensioni, le forme e il tonnellaggio delle navi variano in funzione dei servizi richiesti e della natura dei materiali utilizzati. Ciò vuol dire che i mezzi messi a disposizione dei navigatori dipendono da un certo numero di fattori, i primi dei quali sono il livello di civiltà e l'intensità delle relazioni tra i popoli.
Gli strumenti originari della navigazione furono, a seconda delle regioni, la piroga monoxila scavata in un tronco d'albero, la zattera formata da assi combacianti, il canestro di cuoio o di materiali vegetali montati su un'armatura circolare. In quest'ultimo tipo rientrano sia le imbarcazioni mesopotamiche dell'antichità e quelle attuali delle risaie dell'Estremo Oriente, sia i coracli (curraghs) usati in Irlanda fin dall'alto Medioevo. La zattera, conosciuta ovunque, offre ancora oggi un esempio nella jangada brasiliana fatta di tronchi di balsa, un legno molto leggero e imputrescibile. La piroga poi, anch'essa universalmente conosciuta, ha dato origine al battello lungo, mentre il tipo originario si è conservato nelle società poco evolute, dove serve a traffici di volume ridotto, alla pesca diretta a consumi limitati e a società politiche con un raggio d'azione limitato.
Ciò non vuol dire che la piroga non si presti alla navigazione a lunga distanza, anche fino a 4.000 km nell'Oceano Indiano e nel Pacifico. Gli abitanti degli arcipelaghi, e anche quelli di una grande isola come il Madagascar, hanno utilizzato piroghe a bilanciere lunghe una ventina di metri e accoppiate come nei catamarani. La loro propulsione risultava dallo sfruttamento razionale del vento mediante una vela triangolare, mentre una pagaia serviva a tenere l'imbarcazione sulla rotta, determinata con procedimenti empirici di cui parleremo più avanti.
Ovunque nel mondo le imbarcazioni primitive hanno avuto una continua evoluzione. Le navi lunghe dell'antichità sono i successori della primitiva piroga: l'Egitto dei faraoni ne ha lasciato alcuni modelli scolpiti o dipinti, come le navi della regina Hashepsowe inviate verso il Corno d'Africa all'incirca verso il 1500 a.C. Sono navi lunghe anche la successiva triremi ateniese e le galee romane. Accanto a loro compaiono - come risultato delle trasformazioni derivanti dal commercio mediterraneo - le navi mercantili fenicie, cartaginesi, e infine romane, con una capacità che arrivava a 200 t e una sagoma pesante e rotonda, l'opposto di quella sottile delle navi da combattimento. Queste, dotate di vele quadrate e di più file di rematori, erano assai agili e capaci di bordeggiare, diversamente dalle navi dell'annona che circolavano a bassa velocità tra il Mediterraneo orientale e l'Italia. Prima del suo declino Roma aveva sviluppato linee di navigazione che coprivano tutte le coste europee, lungo le quali - per esempio ad Alessandria, Ostia, Fréjus e Boulogne - i fari servivano da segnale ai naviganti preoccupati di non allontanarsi dalle coste.Nell'Europa mediterranea del Medioevo l'eredità della navigazione greco-romana fu raccolta da Bisanzio, che la cedette poi a Genova, Venezia, Marsiglia. La galea conservò il suo prestigio fino al XVI secolo, mentre il dromone dotato di una vela triangolare, detta latina, terminava la sua carriera sostituito da una nave panciuta, adatta ai carichi pesanti, con castelli a prua e a poppa, di buona tenuta in mare e, di conseguenza, destinata a una funzione commerciale.
L'Europa del Nord seguì un suo proprio destino marittimo nell'ambito di un tipo di navigazione diverso, caratterizzato da condizioni particolari, tra le quali avevano notevole importanza la grandezza degli estuari e le basse profondità lungo le coste del Mare del Nord e soprattutto negli stretti danesi. La navigazione doveva essere insieme fluviale e marittima e la tattica dei Vichinghi, che utilizzavano battelli perfetti per le scorrerie, vi si adattava a meraviglia; costruiti in quercia o pino, assottigliati alle due estremità, lunghi all'incirca 20 m, mossi da una trentina di remi e dotati di un albero amovibile e di una vela quadrata, i drakar, o dragoni, erano navi dalla formidabile velocità. Invece i knarr, più rotondeggianti e più pesanti, ma capaci di bordeggiare, servivano ai trasporti e furono lo strumento delle prime scoperte oltre Atlantico, in Islanda, in Groenlandia, a Terranova e nel Labrador.Caratteristiche delle costruzioni navali del Nord furono le imbarcazioni a fondo piatto, adatte alle basse profondità, nonché un procedimento di assemblaggio delle carene, diverso da quello del Sud, che consisteva nel sovrapporre le assi del fasciame una sull'altra come le tegole di un tetto. Questo metodo, rappresentato nel celebre arazzo di Bayeux che raffigura la conquista dell'Inghilterra da parte di Guglielmo di Normandia (1066), è chiamato 'costruzione a fasciame sovrapposto'. Nel Sud invece si preferiva costruire 'a bordo libero', cioè sistemando il fasciame in modo che combaciasse senza dover calafatare le commettiture. Ciò consentiva un alleggerimento dell'imbarcazione che si traduceva in un aumento della capacità e in un miglioramento della sicurezza.
La navigazione nordica restò a lungo fedele alla costruzione a fasciame sovrapposto, pur se priva di questi due vantaggi. Fu così che i navigatori anseatici misero a punto gli strumenti tipici dei loro viaggi tra il Baltico e le coste atlantiche francesi e iberiche: la kulk (la nave da carico olandese) e poi la kogge. Erano bastimenti pesanti, molto resistenti, in grado di portare grossi carichi di grano, legna, sale, ma poco agili.
L'avvenimento più importante nella storia della navigazione occidentale fu l'incontro delle tecniche del Nord e del Sud alla fine del Medioevo. L'espansione dei traffici genovesi e veneziani fino alla Fiandra, soprattutto a Bruges, negli ultimi due decenni del XIII secolo fece conoscere alle genti del Nord i tipi di galee e gli usi nautici dei meridionali. Nello stesso tempo si diffuse la trasformazione dell'apparecchio di governo: i nordici impararono così a sostituire al remo di governo mobile il timone di Bayonne o 'alla navarresca', una pala che girava intorno a una cerniera fissata al telaio di poppa del bastimento: è il sistema del timone assiale, ancora in uso, che assicura la stabilità della rotta seguita. Questo progresso tecnico si accompagnò alla diffusione di due strumenti ausiliari della navigazione, la bussola e il portolano, di cui parleremo più avanti. Equipaggiandosi così l'Occidente preparava il progresso della sua navigazione e la sua espansione su scala planetaria e superava gli altri tipi di navigazione, alcuni dei quali non erano meno progrediti, specialmente quelli dell'Oceano Indiano e dei mari del Sudest asiatico, dove, d'altra parte, i marinai occidentali avevano già preso contatto con i loro colleghi arabi, iraniani, indiani, malesi e cinesi.
Senza risalire alle esperienze fenicie ed egizie nel Mar Rosso e lungo le coste dell'Africa orientale, è sufficiente ricordare che i Romani conoscevano i segreti più importanti della navigazione verso l'India e in particolare il ritmo dei monsoni, a cui - secondo una leggenda - li aveva iniziati nel I secolo Ippalo. Dopo di allora Roma e poi Bisanzio avevano tratto vantaggio dalle relazioni del porto di Aduli, nel regno di Aksum, con l'India e con Ceylon, come scrivono l'autore del Periplo del mare eritreo e Cosma Indicopleuste, il 'navigatore indiano', nella sua Topografia cristiana (520 circa). La 'via della seta' per terra e per mare cadde sotto il controllo degli Iraniani islamizzati, le cui miniature hanno illustrato la navigazione fino alla Cina, per esempio nelle maqamat di al-Hariri, bozzetti in prosa del XIII secolo. Tutta una letteratura araba ha descritto queste navigazioni di lungo corso, mescolando la leggenda di Sindbad il marinaio alle realtà delle Mirabilia dell'India e dei trattati dei geografi arabi del X secolo. La conferma alle osservazioni di questi ultimi è stata data da viaggiatori successivi, sia cristiani come Marco Polo e Giovanni da Montecorvino (XIII secolo), sia musulmani come Ibn Baṭṭūṭa (XIV secolo). Il dominio sull'Oceano Indiano apparteneva alle navi dell'Islam, specialmente ai sambuchi, la cui prora ha una accentuata inclinazione verso poppa e la poppa un quadro soprelevato: la propulsione è assicurata da un'attrezzatura composta da due alberi molto inclinati in avanti con lunghe antenne e vele trapezoidali. Le carene costruite con tavole di teck assemblate bordo a bordo sono simili agli scafi mediterranei, ma sono tenute insieme con fibre di cocco, particolarmente quelle più solide che provenivano dalle Maldive.
Non c'era nei mari asiatici una dualità tecnica analoga a quella europea, e tuttavia nei cantieri fino alla Cina regnava una vivace attività. Nel 1974 ricerche archeologiche hanno portato alla luce presso Canton un relitto lungo 24 m, diviso in 13 scomparti simili a containers, che dovevano accogliere un carico proveniente verosimilmente dall'Indocina o dall'Indonesia. Oltre a questo tipo corrente si ricordano i modelli descritti da Montecorvino, Polo e Baṭṭūṭa: le grandissime giunche munite di timone con ruota di poppa, dotate di tre o anche quattro alberi con una larga superficie di vele rinforzate con stecche orizzontali.All'interno di queste due tipologie esisteva nei mari orientali una varietà di navi di diversa stazza, presenti ancora nel XX secolo con i nomi di bucio, dau, sambuco, zarug, jalba, praho. Un'osservazione molto interessante dei viaggiatori del XIII-XIV secolo riguarda il ruolo di punti di scalo svolto dai porti indiani nella circolazione marittima: vi si incontravano da una parte i bastimenti arabi provenienti dal Mar Rosso, dal Golfo Persico e dall'Africa orientale, dall'altra le flotte cinesi e malesi. La grande vivacità della navigazione orientale non mancava di stupire gli occidentali e avrebbe potuto porre agli uni e agli altri degli interrogativi sulle rispettive possibilità future. Ce lo fa pensare un'affermazione attribuita a Ibn Majid, che fece da pilota a Vasco da Gama da Lalindi a Calicut. Rivolgendosi ai suoi colleghi - i nakhuda, capitani delle navi arabe dell'Oceano Indiano - consigliava loro di apprendere la lezione dei Franchi, "da cui provengono ora scienza e arte nautica".
Alla fine del XV secolo, mettendo a punto gli strumenti navali necessari per le grandi scoperte, l'Europa poté porsi alla guida dei progressi della navigazione internazionale. Basta osservare le illustrazioni delle carte del Cinquecento per vedervi il trionfo di un nuovo tipo di nave, il tre alberi: innanzitutto la caravella, dalle linee slanciate (40 m), leggera (100 t) e rapida, dotata di vele quadrate ai due alberi di prua, vela latina a quello di mezzana e vela civada al bompresso, molto manovrabile e adatta a bordeggiare, e quindi destinata alle esplorazioni a lunga distanza. I viaggi per trasporto richiedevano navi di grande capienza, capaci di imbarcare una pesante artiglieria: furono le caracche e i galeoni, che compensavano le loro notevoli dimensioni (15 m x 20 m) con la potenza di fuoco. Il grande vascello ebbe la meglio nei due secoli seguenti, mentre declinò la galea. Lo sforzo richiesto fece sviluppare l'attrezzatura: due grandi alberi portavano ognuno 4 vele quadre sovrapposte, mentre l'albero di mezzana ne portava 2 o 3 in sovrapposizione, al di sopra di una grande vela trapezoidale. Si aggiunsero delle piccole vele sul bompresso per aumentare l'agilità e la rapidità delle evoluzioni della nave, e nel XVIII secolo i fiocchi: la ricerca dell'agilità e della velocità sembrava non avere limiti. Le unità andavano diversificandosi (fregata, corvetta, flauto, brick, goletta) e nel XIV secolo fu inventato il tipo più efficiente di tre alberi, il clipper, capace di record eccezionali (18 e 21 nodi). I progressi furono continui: mentre nel 1790 il tre alberi Oceano, da 5.000 t, portava 3.000 m² di tela, nel 1939 il cinque alberi France, da 8.000 t, ne portava 6.000.
La propulsione a vapore ha origini lontane nelle esperienze di Denis Papin (1690) e di Jonathan Hulls (1736), che utilizzarono il vapore acqueo per azionare le ruote a pale sistemate a babordo e a tribordo del centro della nave. Nel 1783 il Pyroscaphe di Jouffroy d'Abbans navigò sulla Saône per tre quarti d'ora, ma l'utilizzazione commerciale dell'invenzione dovette attendere, dopo diversi tentativi, l'organizzazione di un servizio sull'Hudson, la prima traversata della Manica con una nave a vapore nel 1816, e infine, nel 1838, il primo viaggio transatlantico del Sirius. Da allora i miglioramenti si susseguirono, con la trasformazione completa degli scafi, dovuta alla costruzione in ferro, e soprattutto con l'accelerazione della propulsione realizzata, grazie all'elica, prima in Francia con il Napoléon, costruito a Le Havre nel 1841, e poi con il Great Britain, costruito due anni dopo per la traversata dell'Atlantico. La linea della nave fu totalmente modificata, tanto per le navi da guerra che per quelle mercantili. La costruzione della prima corazzata, la Gloire, realizzata nel 1859 da Dupuy de Lôme a Lorient, segnò la fine della marineria a vela.
Oggi, al termine di questa evoluzione, la navigazione dispone di navi che non hanno niente in comune con quelle del passato quanto alla forma, le dimensioni, il tonnellaggio, il sistema di propulsione. Al vapore sviluppato dalla combustione del carbone si sono successivamente sostituiti la caldaia a nafta, il motore Diesel e infine l'energia nucleare. Le navi da guerra hanno compiti nuovi, che richiedono una specializzazione. Quelle mercantili assumono l'aspetto particolare delle enormi petroliere e, cariche di containers, assomigliano a camion per traslochi. Le grandi vie marittime sono ormai così intasate che, per assicurarne l'ordine e la sicurezza, occorre definire itinerari precisi. Inoltre gli utenti delle rotte marittime sono spesso resi anonimi dall'ingaggio di equipaggi di varia provenienza e dal ricorso a bandiere di comodo. Alla varietà originaria si è sostituita oggi una uniformità - basata soprattutto sulla tecnica - che riguarda tutti i paesi.
Se si può considerare la navigazione come un'arte, ciò accade perché essa esige discernimento, abilità e, in una certa misura, intuito nell'interpretazione dei principî e nell'uso delle pratiche apprese dall'esperienza per muoversi in mare quando si è persa di vista la terra. Si tratta concretamente di sapere dove si è, di stabilire la rotta e di seguirla, controllando la velocità.Sul piano storico l'arte del navigare è stata una conquista progressiva, che è passata dal calcolo approssimativo alla navigazione osservata.
I navigatori lasciati unicamente alla loro esperienza, come gli abitanti delle isole del Pacifico o i semplici pescatori che lavorano al largo, sanno empiricamente dove si trovano e quale direzione prendere in base all'osservazione del mare, soprattutto del suo colore, e di tutto ciò che galleggia o che vola, a sensazioni olfattive, all'osservazione del cielo; gli abitanti delle Isole Marshall sanno anche costruire una sorta di carte nautiche con bacchette di legno e conchiglie, i mattang. Se tali pratiche sono possibili per abitanti di isole lontane dal resto del mondo, si può ammettere a maggior ragione che i marinai dell'antichità - per esempio quelli di Tiro - non avessero bisogno di strumenti di navigazione per procedere lungo le rive del Mediterraneo. Gli abitanti del Nord, invece, dovevano possedere un istinto straordinario, quasi una capacità animale, per navigare nell'Atlantico settentrionale.
Alcuni testi - rari in verità - datati intorno alla metà del Cinquecento testimoniano queste pratiche. Ad esempio, in uno relativo alla navigazione verso Terranova, che si trova in un libro commerciale di Rouen del 1540, si legge: "Quando avvisterete grandi stormi di uccellini [...] vi troverete a circa 40 leghe dal Banco; questi uccelli vi scorteranno fino in vista del Banco e quando vi lasceranno potrete gettare lo scandaglio e trovare la terra del Banco". È proprio a questa capacità di osservazione visiva che fanno soprattutto appello gli autori dei portolani, cioè delle guide che elencano minuziosamente tutti i punti di riferimento e le caratteristiche per riconoscere le coste. Diversamente non si spiegherebbe, per esempio, la sicurezza con cui nel 1534 Jacques Cartier navigò in un tempo record per l'epoca - 20 giorni - da Saint-Malo al Canada.
Il navigatore meno equipaggiato risolve dunque implicitamente i due problemi fondamentali della navigazione: 1) saper determinare in rapporto a punti di riferimento fissi - per esempio mede costiere - la rotta seguita e la velocità da adottare; 2) essere in grado di stabilire in qualsiasi momento la propria probabile posizione. Per consuetudine le distanze si esprimono in miglia marine o nautiche (1852 m) e la velocità in nodi (un nodo corrisponde a 1 miglio all'ora). Si tratta di valutazioni basate su un'esperienza secolare.Sia la storia che l'etnologia ci dicono che i calcoli nautici si sono sempre basati sull'osservazione degli astri, praticata scientificamente fin dall'antichità greca, dopo che nel II secolo a.C. Ipparco elaborò le prime effemeridi nautiche e costruì degli astrolabi. Se non si confonde la semplice osservazione delle stelle con la navigazione astronomica vera e propria, si dovrà ammettere la diffusione generale della prima tanto presso gli abitanti delle isole del Pacifico quanto tra i popoli che hanno ereditato la scienza antica. Tra questi rientrano anche coloro che praticavano la navigazione 'araba' nell'Oceano Indiano, associando l'eredità degli antichi e influenze cinesi a esperienze personali acquisite nella navigazione dal Corno d'Africa a Canton.
L'uso dell'ago magnetico per individuare il nord è forse passato dalla Cina all'Occidente attraverso l'Oceano Indiano, anche se i piloti arabi, pur conoscendolo, ne disdegnavano l'uso. L'Occidente conosceva le proprietà della calamita fin dalla fine del XII secolo, ma il suo uso divenne generale sulle navi solo a partire dal momento in cui l'ago magnetico, fino allora poggiato su una cannuccia galleggiante su un po' d'acqua, fu fissato su un perno all'interno di una piccola scatola (bossola, da cui il suo nome). L'invenzione è attribuita a Flavio Gioia di Amalfi, vissuto nella seconda metà del XIII secolo. L'ago si muove al centro di una rosa divisa in settori che corrispondono alle aree geografiche dei venti, le quarte, in numero di 8, 16, e infine 32; nell'Ottocento la divisione in quarte fu sostituita da quella in 360°.
L'eredità lasciata dal Medioevo alle generazioni delle grandi scoperte comprendeva, insieme alla bussola, il prototipo della carta nautica, il portolano. Inventato anch'esso in Italia alla fine del XIII secolo, il portolano rappresenta la posizione geografica dei porti marittimi con le reali distanze reciproche e, insieme alla bussola, era utile per conoscere la posizione delle navi in rapporto alle coste. Il più antico esemplare conosciuto attualmente è la celebre carta pisana conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi.
I portolani conservarono tali caratteristiche fino al XVII secolo, e lo sviluppo del tracciato delle coste e quello della nomenclatura testimoniano i progressi delle linee di navigazione.
La prima generazione dei grandi scopritori, se pure disponeva di tavole astronomiche risalenti al XII e XIII secolo, aveva però ricevuto in eredità dal Medioevo relativamente pochi strumenti utili per i grandi viaggi. Così, per esempio, l'astrolabio terrestre tradizionale, inutilizzabile a bordo, dovette essere sostituito da un astrolabio portatile adattato alla navigazione. I problemi tuttavia erano stati percepiti e furono individuati rapidamente anche i dati per la loro soluzione, che però richiese tempi piuttosto lunghi per essere realizzata.
Il merito della prima generazione di inventori fu di aver cercato simultaneamente le soluzioni per via sia sperimentale che teorica. Osserviamo subito che i navigatori non vi lavorarono da soli ma si avvalsero della ricerca di alcuni scienziati europei: basti pensare ai geografi di Norimberga; anche il gruppo raccolto dal principe portoghese Enrico il Navigatore e chiamato enfaticamente 'Scuola di Sagres', pur se non era una vera e propria università, ebbe tuttavia certamente un ruolo di stimolo.
Sono noti i risultati del 'collegio' di Siviglia, che poté menar vanto del suo più celebre piloto mayor, Amerigo Vespucci. Questo nome evoca, insieme ad altri, l'influenza italiana su ciò che - senza dubbio anacronisticamente - si dovrebbe chiamare la ricerca scientifica e tecnica dell'epoca delle scoperte e che era destinata a fare scuola. L'esempio spagnolo fu seguito in Inghilterra, in Francia e nei Paesi Bassi. Nel corso del XVI secolo si videro fiorire le scuole di idrografia, per esempio a Dieppe, dove l'istituzione doveva in seguito produrre uno dei suoi capolavori, l'Idrografia del gesuita Georges Fournier (1643). Queste scuole formarono molti piloti ed elaborarono, a loro uso, carte e documenti nautici in cui si rettificavano i dati anteriori e si registravano gli apporti delle scoperte frutto dei viaggi degli esploratori. Citiamo le carte nautiche in francese (i routiers), in italiano, castigliano, portoghese e basco, gli 'specchi del mare' olandesi, i pilots inglesi, i Seebuchen tedeschi. La struttura delle carte nautiche restò - fino a G. Mercator - dentro la tradizione dei portolani, ma con una maggiore ricchezza e con la ricerca di ingegnosi sistemi di proiezione; oltre alle opere da collezione i geografi produssero carte di navigazione che erano strumenti di lavoro: può testimoniarlo un dettaglio, la doppia scala di declinazione nella rappresentazione del settore occidentale dell'Atlantico. Il fatto che tali carte servissero quotidianamente sul mare è attestato sia da un'ordinanza del re d'Aragona che, a metà del XIV secolo, imponeva a ogni bastimento che prendeva il mare di munirsi di due carte, sia dall'accanimento con cui corsari e pirati cercavano di impadronirsi delle carte nautiche, suscitando le proteste dei Portoghesi alla Conferenza internazionale di Bayonne del 1537.
Le conoscenze di scienziati e cartografi derivavano dalle informazioni procurate dai navigatori. Sia gli uni che gli altri erano interessati principalmente alle questioni relative a due problemi chiave: la determinazione della posizione delle navi sulla latitudine e sulla longitudine. Fu risolto prima il problema della latitudine. Un esempio del coordinamento tra ricerca intellettuale e pragmatismo è dato dal fatto che Cristoforo Colombo fu il primo a scoprire l'importanza e le leggi della declinazione magnetica. Si può anche ricordare il ruolo della sperimentazione nei progressi della navigazione portoghese in due momenti essenziali. Nel primo caso, grazie all'osservazione delle correnti e dei regimi degli alisei e controalisei nell'Atlantico centrale, fu trovata la celebre volta, una larga curva verso ovest della rotta di ritorno dal Golfo di Guinea verso le Azzorre, che permetteva di evitare i venti contrari lungo le coste occidentali africane, davanti al Marocco, e di dirigersi al largo per riprendere la rotta per Lisbona. Nel secondo caso l'insegnamento fornito dall'esperienza dei viaggi di scoperta fu la navigazione in latitudine. All'osservazione tradizionale della stella polare venne ad aggiungersi quella dell'altezza del Sole al suo passaggio sul meridiano (la 'linea meridiana'), che permetteva - con l'aiuto di tavole astronomiche, contenute per esempio nei regimentos portoghesi - di determinare la latitudine. Da ciò derivarono due possibilità: 1) la navigazione a latitudine costante, verso est o verso ovest, testimoniata dalla rotta seguita da Colombo al ritorno dal suo primo viaggio e dagli itinerari di Verrazzano nel 1524; 2) la possibilità di conoscere la propria posizione in latitudine là dove è impossibile l'osservazione della stella polare, cioè nell'emisfero sud, il che apriva alla navigazione tutti i mari australi. Ora, lo studio dei testi ha mostrato che nel corso della loro avanzata verso sud i navigatori portoghesi sono sempre scesi a terra per effettuare le loro osservazioni, che non potevano fare a bordo non essendo ancora in uso le carte piane. Gli inizi della navigazione astronomica risalgono quindi a una data più recente di quanto si pensasse, in ogni caso non anteriore al XVI secolo.
Per la determinazione della longitudine si dovette attendere il XVII secolo. Nel XVI secolo si era capito che il calcolo sarebbe stato possibile solo quando si fossero avuti i mezzi per confrontare l'ora della zona sotto osservazione con quella del luogo di partenza. La longitudine sarebbe risultata dalla differenza tra queste ore. La stima approssimativa della velocità forniva un metodo per calcolare il tempo trascorso. L'orologio a polvere - la clessidra - poteva indicare il tempo trascorso, ma la sua relazione con la distanza percorsa poté essere stabilita solo nel XVI secolo con l'invenzione del solcometro: una corda di canapa graduata da nodi equidistanti e lasciata scorrere in mare per un tempo misurato da una clessidra. D'altronde era stata acquisita già da tempo l'esperienza dello sfasamento orario lungo la circonferenza terrestre. Ne è un esempio celebre la meraviglia di Pigafetta, il narratore della circumnavigazione intrapresa da Magellano: agli scampati giunti alle Isole di Capo Verde, che chiedevano che giorno fosse, fu risposto che era giovedì, cosa di cui furono sbalorditi - scrive Pigafetta - perché per loro era mercoledì.
Sia sul piano della navigazione che su quello dell'attrezzatura navale il Settecento, l'età delle esplorazioni, risponde efficacemente al Cinquecento, l'età delle scoperte, e ne conferma definitivamente i progressi. Il fatto che il grande vascello a vele raggiungesse la perfezione in concomitanza con la soluzione del problema della longitudine indicava che era giunta l'ora del dominio completo dei mari da parte dell'uomo. Le ricerche sulla navigazione andavano di pari passo con i progressi dell'ottica e dell'industria del vetro. La difficoltà di avere una visione simultanea delle stelle e della linea dell'orizzonte, a causa del movimento della nave dovuto al mare agitato, portò all'invenzione di apparecchi a doppia riflessione su specchi: prima l'ottante, chiamato così perché il suo lembo rappresentava un ottavo di angolo giro, poi il sestante che, ampliandone la capacità, doveva diventare, a partire dal 1757, lo strumento universale per misurare le altezze degli astri.
Una feconda emulazione animava le officine dove si fabbricavano gli strumenti indispensabili alla navigazione, soprattutto in Francia e in Inghilterra; questa, grazie a J. Ramsden, alla fine del Settecento dominava il mercato internazionale.In questi stessi paesi la navigazione era ormai divenuta una scienza che destava l'attenzione delle più alte istituzioni sotto l'egida delle Accademie delle scienze. L'Osservatorio di Parigi, fondato da Colbert nel 1672, tre anni prima di quello londinese, pubblicava ogni anno le tavole della Connaissance des temps, continuate poi dal Bureau des longitudes, istituito nel 1795. A Londra il Board of longitude ne seguiva l'esempio pubblicando, a partire dal 1714, il National almanac. Nel 1745 comparve in Francia la prima edizione del Neptune oriental, pubblicato dal Servizio idrografico della marina che era stato creato nel 1720. L'Accademia della marina, istituita a Brest nel 1752 e ripristinata solo nel 1921 dopo l'interruzione dovuta alla Rivoluzione, intendeva promuovere - anche con il patrocinio dell'Accademia delle scienze - lo studio di tutte le discipline utili alla navigazione. La ricerca più attiva mirò, dunque, per decenni alla soluzione del gravoso problema della longitudine. L'incertezza che ne derivava aveva le conseguenze più diverse e determinava la competizione fra Stati. Precorrendo il mecenatismo dei sovrani del Settecento, già il re di Spagna Filippo II, nel 1598, e il re di Francia Enrico IV, nel 1600, avevano promesso l'uno 2.000 scudi e l'altro 100.000 lire a chi avesse scoperto un procedimento per calcolare la longitudine con l'approssimazione di mezzo grado. Dopo l'inizio del XVI secolo si era tentato di costruire dei cronometri di bordo che permettessero ai navigatori di avere presente l'ora del meridiano di partenza per confrontarla con l'ora solare locale.
Nel XVII secolo si tentò di costruire orologi a molla trasportabili e bilancieri verticali con contrappeso, ma senza grandi risultati data la loro irregolarità. Si cercò anche di perfezionare il cosiddetto metodo 'delle distanze lunari', fondato sul calcolo delle distanze angolari tra la Luna e le stelle fisse: vi si cimentarono Borda, Romme, Delambre e La Caille in Francia, e Maskeline in Inghilterra. L'emulazione tra scienziati stimolava le ricerche, mentre sia il Bureau des longitudes che il Board of longitude offrivano premi ai ricercatori.
La prima vittoria andò all'inglese John Harrison, che dopo vari tentativi iniziati nel 1735, nel 1759 vide la marina inglese adottare il suo quarto orologio, che registrò uno scarto di appena 28 minuti in 5 mesi. Cook se ne servirà nel suo secondo viaggio. Seguirono dopo poco le invenzioni dei francesi Ferdinand Berthoud e Pierre Le Roy, che erano stati incoraggiati dalla marina francese e dallo stesso Luigi XV: i loro cronometri furono sperimentati in mare con successo dal 1761 al 1764. Queste invenzioni arrivavano al momento opportuno per facilitare le grandi esplorazioni marittime e contribuirono - via via che erano utilizzate sulle navi - agli enormi progressi della rilevazione geografica, tra il 1760 e il 1840, di Cook e Bougainville, Dumont d'Urville e Lapérouse, d'Entrecasteaux e Baudin: si poteva ormai navigare senza gravi errori. Si può affermare che l'uso del cronometro mise termine, verso il 1770, al Medioevo nautico. L'immagine del mondo ricevette allora i suoi tratti definitivi e la navigazione divenne universale.
L'allungamento dei viaggi per mare aggravò nel corso dei secoli i problemi posti dall'allontanamento dalla terraferma. In ogni tempo, anche nell'antichità, i navigatori sentirono la necessità di fare degli scali, innanzitutto - lo vedremo in seguito - per rinnovare le scorte di viveri e di acqua necessarie all'equipaggio, ma anche per provvedere alla manutenzione e all'efficienza della nave e per mantenere, nella misura del possibile, le comunicazioni con il porto di immatricolazione. Queste diverse necessità hanno forse contribuito allo sviluppo delle antiche talassocrazie nonché alla nascita e poi alla espansione degli imperi coloniali.
La manutenzione delle flotte commerciali e militari richiedeva, per tutto il tempo che durarono i vascelli in legno, il carenaggio degli scafi a un ritmo variabile. Questa operazione fu ancora più necessaria con la navigazione nei mari caldi, dove le navi erano attaccate dalle alghe al punto da esserne appesantite e frenate; un altro problema era costituito dalle teredini, che scavavano nel legno, e non solo in quello più tenero, gallerie così numerose e profonde da compromettere la sicurezza dei bastimenti. Ce ne offrono esempi i racconti dei viaggi esplorativi, specialmente quelli effettuati nel XVIII secolo nei mari del Sud. Ora, un'operazione di carenaggio richiede tempo e sicurezza, e quindi una sosta in luoghi equipaggiati per effettuare questo lavoro in condizioni sicure: di qui le preoccupazioni - per esempio - dei dirigenti delle grandi compagnie commerciali. Si spiega così l'adozione, verso la fine del Settecento, di un rivestimento in cuoio delle carene per proteggerle dai vari generi di parassiti. La costruzione delle navi in ferro e poi in acciaio doveva eliminare questi inconvenienti, ma poiché fu accompagnata da un cambiamento del sistema di propulsione, comportò a partire dall'Ottocento un problema di approvvigionamento del carburante.
L'inizio della navigazione a vapore, oltre all'allungamento delle rotte oceaniche, fece nascere per i paesi marinari il bisogno di disporre di punti di approvvigionamento di carbone. Non si può sottovalutare l'importanza dell'installazione di queste basi carboniere per gli interessi inglesi, francesi e in seguito tedeschi, russi e americani, che si andavano costituendo sui grandi percorsi internazionali. Citiamo come esempi Gibilterra, Malta e Cipro, Saint Louis del Senegal e Dakar, Città del Capo, Mombasa, Obock e Aden, Singapore e Hong Kong.
Con il cambiamento di carburante, a seguito dello sfruttamento degli idrocarburi, la mappa dei posti di rifornimento è stata modificata a vantaggio dei porti più vicini ai punti di trivellamento: è nato così, nel XX secolo, il ruolo dei porti del Vicino e Medio Oriente, delle coste della California, della parte settentrionale del Sudamerica e del Golfo di Guinea (Gabon, Nigeria). Infine lo sviluppo della flotta mondiale di navi cisterna - e di petroliere per le marine militari - ha permesso il rifornimento di carburante in alto mare. Le navi hanno così ritrovato l'autonomia perduta con la fine della navigazione a vela, autonomia assicurata, a più forte ragione, dalla propulsione atomica, la cui fonte di energia è trasportata dalle stesse navi.
Un'altra serie di servitù tecniche è legata alle comunicazioni tra le navi e con le metropoli. Diversamente dalle basi di manutenzione e approvvigionamento di carburante, le comunicazioni, piuttosto che favorire l'autonomia delle navi nelle operazioni, la riducono notevolmente. Un tempo, fino al XIX secolo, i capitani delle navi mercantili o i capisquadra disponevano di un margine di manovra e di decisione piuttosto ampio, salvo poi dover renderne conto al loro ritorno; oggi questa libertà è sempre più limitata da ordini. Allora, una volta aperta in mare la lettera sigillata che conteneva le istruzioni, restava la possibilità di prendere iniziative per la rotta da seguire di fronte a eventuali situazioni impreviste e inusuali, specialmente in periodi di tensione internazionale. Non è più così da quando la radio, la televisione, il radar e le comunicazioni via satellite trasmettono alle navi informazioni meteorologiche, economiche e politiche, insieme a ordini da eseguire immediatamente e che richiedono giustificazioni rapide. La nave in navigazione può essere controllata in qualsiasi momento dalle autorità da cui dipende.
Alla sicurezza della nave, certamente rafforzata dalla rapidità delle comunicazioni, contribuisce anche l'installazione di infrastrutture lungo le rotte. Abbiamo visto che sugli itinerari più frequentati la circolazione navale è regolamentata dall'istituzione - concordata a livello internazionale - di passaggi autorizzati o vietati. Nei secoli passati era già stata instaurata una rete di segnalazioni della quale i fari e i dromi sono insieme simboli e testimonianze. Seguendo la tradizione degli antichi portolani, le moderne Istituzioni marittime segnalano ai navigatori i punti di riferimento costieri - montagne e campanili, per esempio - che permettono loro di orientarsi di giorno.
Col tempo nuvoloso segnalano i pericoli sirene e corni da nebbia, mentre di notte i luoghi pericolosi sono indicati da luci: la carta delle coste è ormai 'costellata' dalle indicazioni dei fari, installati talvolta proprio là dove un tempo gli abitanti solevano accendere fuochi di sterpi. La storia ci ha tramandato i nomi dei fari più antichi, a cominciare da quello di Alessandria che risale all'epoca greca, quelli di Otranto, Ravenna, Reggio, Messina, Ostia, Fréjus e, per completare la lista in epoca romana, quello di Boulogne sulla Manica. Il Medioevo ci ha lasciato quelli di Livorno, Marsiglia e Cadice, e infine quello di Cordouan, che si erge all'imbocco della Gironda fin dal 1362. La rete dei fari, costantemente migliorata dal XVII secolo, si è estesa a tutto il pianeta, avvantaggiandosi dei progressi dell'ottica (specchio di Borda, lente di Fresnel), delle fonti di energia (carbone, gas, petrolio, elettricità) e del funzionamento automatico. La navigazione si avvale oggi di una rete di fari, che fanno per esempio della Manica un viale bordato di proiettori capaci d'inverno di allargare fino a 34 miglia la portata dei loro fasci di luce intermittente di tre diversi colori.
Alcuni problemi specifici della navigazione coinvolgono a diverso titolo l'elemento umano: 1) l'assembramento - volontario o no - di parecchie decine di uomini in una sorta di universo concentrazionario crea una comunità più o meno omogenea, un microcosmo, sottomessa a un'autorità necessariamente rigida per ragioni di ordine e di sicurezza; 2) l'approvvigionamento di viveri e di ogni genere di cose necessarie per la durata presunta della campagna o del viaggio crea problemi di stoccaggio e di conservazione; 3) da una prolungata navigazione sotto climi inabituali derivano problemi sanitari che generano malattie non comuni, per non parlare degli incidenti causati dalla vita di bordo e talvolta dalla guerra.
L'imbarco e la vita in comune in condizioni un tempo difficili ponevano problemi quotidiani di coabitazione, più o meno gravi a seconda del tipo di reclutamento dell'equipaggio. La navigazione costiera e la grande pesca su battelli di piccolo tonnellaggio avevano per lo più un equipaggio reclutato su base locale, anche familiare, e offrivano condizioni di vita tollerabili, purché non si portassero a bordo vecchi rancori e antiche invidie. Invece sui grandi bastimenti dell'epoca moderna il reclutamento si faceva spesso tra uomini molto diversi, il cui comportamento reciproco poteva dar vita a un clima di violenza, soprattutto quando essi appartenevano a paesi diversi, talvolta ostili.
Anche le marine militari adottavano sistemi di reclutamento opposti: in Francia il regime delle classi instaurato da Colbert nel XVII secolo temperava il rigore degli obblighi che comportava con vantaggi sociali molto elevati rispetto agli usi delle società europee; in Inghilterra invece l'arruolamento forzato era un tipo di reclutamento molto rigido e generatore di violenze. Un aspetto tragico di questa organizzazione era la condizione dei mozzi, ragazzi immersi bruscamente in un ambiente maschile a cui non erano preparati e nel quale rischiavano di contrarre abitudini omosessuali e di assuefarsi alla brutalità.
Questo ambiente maschile abituato alla durezza accettava con molta naturalezza un'autorità egualmente dura, cui era necessario obbedire perché l'errore del singolo poteva mettere in gioco la sopravvivenza di tutti. La solidarietà determinata dall'uguaglianza davanti al pericolo di morte è una regola ineludibile, cui non sfuggono né i comandanti né gli equipaggi.
Campagne e traversate di lunga durata non imponevano solo che una parte notevole dello spazio a bordo fosse destinata allo stoccaggio dei viveri e dell'acqua, ma richiedevano anche procedimenti di conservazione. I contratti relativi al vettovagliamento delle navi erano precisi per quel che riguarda la quantità in funzione della durata prevista del viaggio, e non meno precise erano le usanze - codificate o no - per il condizionamento dei viveri e la loro sorveglianza, perché il furto, un danno per tutta la comunità, era considerato un reato o addirittura un crimine.
Nonostante tutte le precauzioni e le previsioni, la realtà vissuta rivela la gravità dei problemi alimentari sulle navi, tanto più acuti quanto più a lungo durava la lontananza. I viaggi di scoperta - a partire dal XVI secolo - e quelli di esplorazione - nel XVIII-XIX secolo - furono accompagnati da problemi di razionamento e riapprovvigionamento: il rifornimento d'acqua era un incubo. Una delle testimonianze più antiche e precise viene da un osservatore attento come Giovanni da Montecorvino. Della costa di Malabar (India occidentale), dove soggiornò, egli ricorda che "l'acqua non è buona da bere perché è emolliente e affatica il ventre": con chiaro riferimento alla dissenteria. È ben noto che nei viaggi di lungo corso delle Compagnie delle Indie l'acqua si alterava rapidamente e solo i grandi viaggi di esplorazione del XVIII secolo poterono disporre - bene o male - di un apparecchio, l'alambicco, destinato a dissalare l'acqua di mare per renderla adatta al consumo.
Quanto ai viveri, per poco che il bastimento fosse bloccato dalla bonaccia, le riserve erano rapidamente esaurite e i viveri venivano a mancare: l'infelice caso del mozzo le cui tenere carni dovevano saziare l'equipaggio è certamente una leggenda, ma rivela drammi e angosce reali. A tutto ciò bisogna aggiungere i casi frequenti di deterioramento dei cibi - surriscaldamento, imputridimento - che provocavano inevitabilmente disturbi intestinali, infezioni e morte.
Fino all'epoca delle scoperte la navigazione non comportava di per sé altri problemi per gli uomini che non fossero i rischi più comuni in mare: incidenti come la caduta fuori bordo o dall'alberatura o ferite mortali nel corso degli arrembaggi, simili ai combattimenti a terra corpo a corpo. Non fu più così quando le campagne si prolungarono e si svolsero in acque e sotto climi completamente diversi. 'Febbri maligne': fu questo il nome con cui per secoli si indicò ogni sorta di malattie infettive, dalla polmonite alla dissenteria, fino al tetano e alla setticemia che potevano derivare - per esempio a bordo di bastimenti da pesca - da piccole ferite che l'alcol non bastava a disinfettare.
Ma il male più devastante nel corso delle lunghe navigazioni fu lo scorbuto, una avitaminosi dovuta, sia nelle zone fredde che in quelle torride, a un'alimentazione non equilibrata. Il male insorgeva dopo qualche settimana di navigazione sempre con gli stessi sintomi, che sono stati descritti con precisione fin dalla prima metà del XVI secolo, quando comparvero nel 1525 a bordo di due navi di Dieppe, la Pensée e la Sacre, che navigavano nei dintorni del Madagascar, e poi otto anni dopo tra l'equipaggio comandato da Jacques Cartier in Canada. Nel primo caso si era nel luglio australe, nel secondo in febbraio. I sintomi furono ogni volta la caduta dei denti e un estremo languore, accompagnati da una forte febbre e dal rigonfiamento delle gambe, "cosparse di gocce di sangue, con i nervi contratti e anneriti come carbone". Nell'uno e nell'altro caso si procedette all'autopsia e si trovarono i corpi pieni di un'"acqua rossastra" e di "sangue nero e infetto". Dei 110 uomini di Cartier ne furono colpiti un centinaio. Talvolta la percentuale poteva salire considerevolmente e compromettere qualsiasi spedizione. Si conoscono anche i danni subiti dalle flotte del XVIII secolo, specialmente da quelle francesi nel 1757 e 1758: la squadra di Dubois de la Motte al suo ritorno dal Canada aveva perso circa 10.000 marinai, cioè il 15% degli effettivi della flotta francese. Fin dal XVI secolo si era notato che frutta e verdura fresche bloccavano i primi sintomi di quella malattia che era chiamata impropriamente 'mal di mare'. Quando Paulmier de Gonneville toccò le coste brasiliane, i due terzi dell'equipaggio dell'Espoir erano stati colpiti dal male ma, fatta eccezione per sei uomini che morirono, gli altri si ristabilirono fin dalla loro prima discesa a terra "grazie ai cibi e all'acqua freschi". Si impose la ricerca di un rimedio, trovato solo alla fine del XVIII secolo. Si ebbe un vero progresso con l'uso dei limoni, soprattutto quelli siciliani, particolarmente ricchi di vitamina C. Si potrebbe dire paradossalmente che i limoni consumati sistematicamente dalla marina inglese furono i veri vincitori di Trafalgar.
Nel XIX secolo comparve un altro male, derivante dall'uso del piombo nelle attrezzature delle navi, che provocava i disturbi del saturnismo; diagnosticata al tempo della guerra di Crimea, l'intossicazione che li provocava scomparve con l'eliminazione del piombo. In seguito la medicina navale dovette soprattutto occuparsi di malattie contratte durante i viaggi nei mari caldi: la malaria, il tifo, la febbre gialla o addirittura la peste, malattie contro le quali i medici della marina furono all'avanguardia della ricerca, soprattutto alla fine dell'Ottocento. Si ebbe un progresso con l'invenzione di vaccini preventivi, più efficaci dell'istituzione - ormai secolare, dalla fine del Trecento - della quarantena, il cui nome indica il tempo della consegna all'ingresso del porto di una nave sospettata di trasportare germi infettivi, tempo che corrispondeva al periodo di incubazione. In generale si può affermare che, senza le ricerche e i progressi della medicina navale, la navigazione su scala planetaria non avrebbe conosciuto lo sviluppo successivo alla metà del XIX secolo.
Scambi di ogni tipo hanno arricchito le civiltà grazie alla navigazione, che a sua volta è il riflesso di queste civiltà. Gli esempi non mancano, in ogni epoca e su tutto il pianeta. Esaminiamone alcuni. Senza la navigazione la cultura greca non avrebbe conquistato il bacino del Mediterraneo e non avrebbe esteso la sua influenza, dopo Alessandro Magno, fino in India. Si sarebbe avuto un mare nostrum senza flotte? San Paolo non avrebbe portato il Vangelo fino a Roma, né in seguito - sulla sua scia - il monachesimo orientale sarebbe dilagato nel Medioevo fino in Irlanda. E se i bastimenti genovesi e veneziani non fossero risaliti fino alle Fiandre alla fine del Duecento, l'Europa avrebbe acquistato la sua fisionomia attuale?
La cristianità medievale non sarebbe stata la stessa se pellegrini in gran numero non si fossero imbarcati per il 'santo passaggio' delle crociate e non avessero dato il loro contributo alla reciproca influenza di Oriente e Occidente. Ancora, non si dirà mai abbastanza quanto debba alla circolazione marittima una città come Venezia, crocevia di civiltà. Le nozze del doge con il mare avevano un valore più che simbolico, esprimevano una realtà.Allo stesso modo, e forse a più forte ragione, sarebbe un luogo comune sottolineare il ruolo della navigazione nella storia mondiale dopo l'epoca delle grandi scoperte marittime. È cominciata allora la grande simbiosi generatrice del mondo contemporaneo. Prima, certamente, l'Oceano Indiano aveva già collegato nel corso della sua lunga storia aree culturali cariche di un passato prestigioso. Dal Golfo Persico e dal Mar Rosso fino alla Cina scambi a grande distanza avevano unito culture profondamente diverse; Sindbad il marinaio - pur leggendario - resta il personaggio simbolo di questi scambi millenari. L'antico regno di Aksum aveva allacciato relazioni con l'India e la secolare 'via della seta' aveva avuto ben presto un percorso marittimo. L'Islam ha dato una fisionomia unica, a base religiosa, alle regioni che vanno dal Vicino Oriente fino all'Insulindia, e vi ha impresso il suo marchio per secoli grazie al mare, sovrapponendosi in molti casi a rapporti più antichi tra le popolazioni rivierasche dell'Oceano Indiano. Il Madagascar, per esempio, ha ereditato tipi umani e paesaggi a risaie che riflettono le origini indonesiane degli immigrati che lo hanno popolato; i loro discendenti usano ancora, per esempio a Tuléar, l'antica piroga a bilanciere. D'altronde in molti luoghi la cultura islamica si è sovrapposta a tradizioni più antiche, nell'Africa orientale come in Indonesia o negli scali indiani. Oltre che nei mari del Sud, processi analoghi si sono verificati anche in altre latitudini e su altre coste, particolarmente nell'attuale America Latina.In breve, "il mare è soprattutto un veicolo", come scriveva un secolo fa l'ammiraglio americano Mahan, che aveva potuto constatare il risultato di più di tre secoli di comunicazione tra tutti i mari, e dell'interconnessione dei vari generi di navigazione nel mondo intero. È dunque evidente la vocazione della navigazione marittima a essere un fatto mondiale. All'indomani delle grandi scoperte lo sviluppo degli imperi coloniali si è basato sul ruolo determinante del mare. Per convincersene non c'è bisogno di esaminare diffusamente il contributo dei diversi continenti alla navigazione marittima internazionale: ne fanno fede l'America Latina, con il suo stesso nome, e l'Africa, che con la tratta degli schiavi ha proiettato al di là dell'Atlantico milioni di uomini e donne; la loro cultura ricca di tradizioni orali e di riti consuetudinari vi si è mischiata al cristianesimo, anch'esso importato, ma dalla penisola iberica, e lo testimonia il candomblé brasiliano, con i suoi canti, le sue danze e i suoi ritmi. L'America anglosassone e il Canada francese sono altre testimonianze del trasferimento al di là dell'oceano di modi di vita e di pensiero europei, ai quali si è giustapposta l'impronta asiatica portata dal Pacifico sulla costa occidentale dell'America.
Peraltro tutto il mondo contemporaneo è caratterizzato dagli apporti via mare di influenze esterne. I problemi razziali del Sudafrica derivano dall'immigrazione venuta, attraverso il mare, dall'Asia come dall'Europa nordoccidentale. Dal canto suo l'Australia ha ricevuto via mare tutti gli immigrati che hanno sopraffatto le popolazioni autoctone. Quanto alla diaspora giapponese e cinese in Indonesia e negli arcipelaghi del Pacifico, essa è senz'altro il risultato di un surplus demografico, ma non avrebbe potuto raggiungere tali dimensioni senza il sostegno di un'espansione commerciale e di relazioni marittime costanti.
Per diverse che siano le forme dei rapporti instaurati attraverso il mare tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, alcune condizioni sono loro comuni. La prima è un'attrazione reciproca, spesso di volume e di valore ineguali, particolarmente in campo commerciale. In secondo luogo, le differenze climatiche e le situazioni geografiche e anche strategiche hanno creato relazioni di complementarità economica, militare e politica, percepibili nei rapporti marittimi. Un altro aspetto non meno significativo è rappresentato dalle relazioni culturali, presenti in tutte le epoche, che hanno dato vita ad aree di civiltà caratterizzate dalla comunità di lingua e religione, di modi di vivere, nonché di ideali intellettuali e morali e di espressioni artistiche.
Il mare ha diffuso il greco e il latino, ha prodotto nel Medioevo la 'lingua franca' nel Mediterraneo, ha portato l'arabo fino in Estremo Oriente, e in seguito - al tempo degli imperi - ha diffuso lo spagnolo e il portoghese, e poi il francese, l'italiano e l'inglese con il suo succedaneo, il pidgin English. Il mare ha anche veicolato le religioni, soprattutto il cristianesimo e l'Islam: il missionario compone, insieme al marinaio e al commerciante, il trio che ha presieduto fino a poco fa alla navigazione per mare. Sempre attraverso il mare i libri, la stampa, hanno diffuso non solo una letteratura specifica di cui restano alla vetta i nomi di Conrad e Kipling, ma hanno anche fatto conoscere le medesime notizie in un determinato settore del mondo, finché nel XX secolo la concorrenza dei media, moltiplicando ovunque immagini e informazioni, ha annullato le differenze di un tempo. Di tali differenze tuttavia, che il mare stesso aveva contribuito a costruire, rimangono notevoli testimonianze. Il mare ha diffuso stili architettonici: così l'alta casa nordica in mattoni con frontoni a scalini è presente dalle coste della Manica fino all'interno del Baltico e nei fiordi norvegesi; la casa coloniale in legno con madiere predomina nelle isole, cioè nelle Antille e nel Madagascar, e in India. Non si possono dimenticare infine le novità alimentari diffuse dalla navigazione: il gusto per le spezie, per le bevande e i frutti esotici, per il pesce crudo, senza dimenticare i prodotti 'nobili' come il tè e il caffè. Il mare ha creato quindi anche una geografia gastronomica.
Questa rapida rassegna dell'evoluzione dei problemi della navigazione consente un inventario e una visione in prospettiva delle sue tappe principali, articolate in fasi di lunghezza diversa e variabile a seconda delle circostanze. Considerata dal punto di vista tecnico delle qualità nautiche dell'imbarcazione, questa evoluzione ha obbedito a due serie di bisogni: 1) le relazioni tra i popoli, particolarmente sul piano commerciale, le loro rivalità e i loro scontri; 2) le esigenze della navigazione, legate a tre condizioni - sicurezza, capacità di trasporto, rapidità. Queste condizioni hanno prodotto tipi diversi di navi, determinati anche dal materiale di base.La guida della nave, cioè l'arte della navigazione propriamente detta, ha avuto anch'essa delle tappe corrispondenti ai livelli di sviluppo intellettuale, tecnico, sociale e politico dei popoli. Essa è passata dal semplice 'fiuto' innato dei navigatori ai procedimenti più perfezionati, nonché all'uso degli strumenti più appropriati per determinare la posizione della nave nello spazio. Questa deve essere concretamente localizzata su una carta su cui è riprodotta nel modo più fedele possibile la parte del globo terrestre su cui si sta effettuando la navigazione.In ultima analisi, si osserva una convergenza storica degli sforzi di tutte le civiltà nell'adozione degli stessi mezzi e degli stessi procedimenti di navigazione, che ha portato all'uso di un mezzo comune di espressione: la lingua inglese.In questo processo si possono distinguere alcune cesure cronologiche. Una è il momento in cui i navigatori furono sufficientemente equipaggiati per poter sapere in modo scientificamente sicuro dove si trovavano le loro navi e quale rotta stavano seguendo, cosa che si è realizzata in due tempi, con la determinazione della latitudine nel XV-XVI secolo e con quella della longitudine nel XVIII.
Un'altra tappa cronologica coincide per un verso con il momento dell'abbandono del legno per la costruzione delle navi, con conseguenze molteplici sulla guida dei bastimenti, per l'altro con quello in cui la propulsione a vela fu sostituita da forze motrici minerali (carbone, petrolio) e poi dall'energia atomica.In fin dei conti la finalità dell'arte nautica non è che un aspetto della conquista della natura da parte dell'uomo. (V. anche Commercio; Mare).
AA.VV., Ferdinand Berthoud (1727-1807), horloger mécanicien du Roi et de la Marine, La Chaux de Fonds, Svizzera, 1984.
Ahrweiler, A., Byzance et la mer, Paris 1966.
Anderson, E.W., The principles of navigation, London 1966.
Bellec, F. (a cura di), Quand voguaient les galères, Paris 1990.
Braudel, F., La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, 2 voll., Paris 1949, 1985⁶ (tr. it.: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1953).
Concina, E. (a cura di), Arsenali e città nell'Occidente europeo, Roma 1987.
Convegno di Genova 1992. Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s., vol. XXXII, L'uomo e il mare nella civiltà occidentale: da Ulisse a Cristoforo Colombo, Genova 1993.
Dollinger, P., La Hanse, XIIe-XVe siècle, Paris 1988.
Garcia Franco, S., Historia del arte y ciencia de navegar, 2 voll., Madrid 1947.
Lane, F., Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965.
La Roërie, G., Vivielle, J., Navires et marins. De la rame à l'hélice, 2 voll., Bruxelles-Paris 1946².
Lebecq, S., Marchande et navigateurs frisons du Haut Moyen Age, 2 voll., Lille 1983.
Lewix, A.R., Runyan, T., European naval and maritime history, Bloomington, Ind., 1985.
Mahan, A.T., The influence of sea power upon history, 1660-1783, London 1889.
Masson, P., Marines et Océans: ressources, échanges, stratégie, Paris 1982.
Mollat du Jourdin, M. (a cura di), Colloques internationaux d'histoire maritime, Paris 1956 ss.
Mollat du Jourdin, M. (a cura di), Les origines de la navigation à vapeur, Paris 1970.
Mollat du Jourdin, M., Jacques Coeur ou l'esprit d'entreprise au XVe siècle, Paris 1988.
Mollat du Jourdin, M., L'Europe et la mer, Paris 1993 (tr. it.: L'Europa e il mare, Roma-Bari 1993).
Mollat du Jourdin, M., La Ronciere, M. de, Les portulans. Cartes marines du XIIe au XVIIIe siècle, Fribourg 1984.
Ragosta, R., Le genti del mare Mediterraneo, 2 voll., Napoli 1981.
Reddé, M., Mare nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l'histoire de la marine militaire sous l'Empire romain, Roma 1986.
Rougé, J., Recherches sur l'organisation du commerce maritime en Méditerranée sous l'Empire romain, Paris 1966.
Villain-Gandossi, C., Le navire médieval à travers les miniatures, Paris 1985.